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Rivista di educazione, formazione e cultura<br />
2010_XIV_1 - € 9<br />
...<strong>erranze</strong><br />
...<strong>migrazioni</strong><br />
Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997<br />
Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559<br />
In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione
Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e<br />
forse più interessante per la sua carica straordinaria<br />
di rottura e radicalità – del Movimento femminista e<br />
le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto<br />
nella percezione che hanno di loro stesse, nelle<br />
attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva<br />
e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni<br />
cogli uomini, ma anche con le altre donne.<br />
Il volume si propone di offrire un quadro –<br />
naturalmente sintetico, inevitabilmente parziale –<br />
delle vite differenti delle donne italiane nella<br />
contemporaneità. Si parla – con tono volutamente<br />
semplice, che lascia più spazio alla narrazione che<br />
all’esposizione teorica – delle inedite relazioni tra<br />
donne di età diverse; si parla di amore e di sessualità<br />
e, necessariamente, anche di violenza; di maternità e<br />
famiglie, scelte e vissuti in cui persistono elementi<br />
tradizionali e forme innovative ormai accettate; del<br />
lavoro e dei lavori di cura; dei corpi delle donne e<br />
non solo di quelli in esposizione quotidiana; delle<br />
altre, che sono nostre vicine o abitano nelle nostre<br />
stesse case, di cui si prendono cura come dei nostri<br />
bambini e anziani e pure vengono così da lontano;<br />
dei temi, inne, della cittadinanza delle donne,<br />
sempre discussa, sempre imperfetta e ancora in<br />
pericolo, mentre pone questioni fondanti il signicato<br />
e il rinnovamento delle democrazie in cui viviamo.<br />
Barbara Mapelli<br />
Sette vite come i gatti<br />
Generazioni, pensieri e storie di<br />
donne nel contemporaneo<br />
Collana POLIS pp. 250, € 16,00<br />
mail: pedagogika@pedagogia.it
Rivista di educazione, formazione e cultura<br />
anno XIV, n°1<br />
Gennaio, Febbraio, Marzo 2010
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1<br />
2<br />
Rivista di educazione, formazione e cultura<br />
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni<br />
Anno XIV, n° 1 – Gennaio/Febbraio/Marzo 2010<br />
Direttrice responsabile<br />
Maria Piacente<br />
maria.piacente@pedagogia.it<br />
Redazione<br />
Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida<br />
Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria<br />
Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Laura Conti,<br />
Coordinamento pedagogico Coop. Stripes.<br />
Comitato scientifico<br />
Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio<br />
Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi,<br />
Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi,<br />
Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta,<br />
Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea<br />
Melandri, Angelo Villa<br />
Hanno collaborato<br />
Franco Cambi, Ilenia Ruggiu, Sandro Mezzadra,<br />
Claudia Biondi, Sabrina Ignazi, Daniela Rossi,<br />
Francesca Scarioni, Marta Franchi, Orietta<br />
Ripamonti, Angelo Villa, Elena Biagi, Daisaku Ikeda,<br />
Anna Maria Piussi, Corinna Albolino, Marco Taddei,<br />
Simona Faucitano, Cristiana La Capria, Jole Garuti,<br />
Barbara Mapelli, Francesco Crisafulli, Patrizi Sordi<br />
Edito da<br />
Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it<br />
Direzione e Redazione<br />
Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) -<br />
Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057<br />
e-mail: pedagogika@pedagogia.it<br />
Sito web: www.pedagogia.it<br />
Responsabile testata on-line<br />
Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it<br />
Progetto grafico/Art direction<br />
Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it<br />
Promozione e diffusione<br />
Fabio Degani, Federica Rivolta<br />
Pubblicità<br />
Clara Bonfante<br />
Registrazione Tribunale di Milano n.187 del<br />
29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45%<br />
ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI<br />
MILANO - issn 1593-2559<br />
Stampa:<br />
Impressionigrafiche S.c.s.<br />
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Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano<br />
Fotografie: Dario Basile - www.coloridisabbia.it<br />
é possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo<br />
della redazione - pedagogika@pedagogia.it<br />
I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio<br />
della Direzione e del Comitato di redazione e<br />
in ogni caso non saranno restituiti agli autori<br />
Questo periodico è iscritto all’Unione<br />
Stampa Periodica Italiana
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/sommario<br />
s o m m a r i o<br />
5 Editoriale<br />
Salvatore Guida<br />
../dossier/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong><br />
8 Introduzione<br />
10 L’intercultura e l’idea di “confine”:<br />
appunti pedagogici<br />
Franco Cambi<br />
17 Oltre l’idea di minoranza. La<br />
diversità come bene pubblico<br />
tra Europa e Stati costituzionali<br />
Ilenia Ruggiu<br />
25 In fuga dai nomi. Movimenti<br />
migratori e spazio<br />
metropolitano<br />
Sandro Mezzadra<br />
32 Muoversi nella complessità<br />
tra passato, presente, futuro<br />
Claudia Biondi, Sabrina Ignazi,<br />
Daniela Rossi<br />
39 Ci incontreremo un giorno o l’altro<br />
Francesca Scarioni, Marta Franchi<br />
43 Crossing: incontri ravvicinati<br />
con giovani d’immigrazione<br />
Orietta Ripamonti<br />
48 L’erranza che sfama il mondo<br />
Angelo Villa<br />
54 Paure dell’Islam e luoghi<br />
dell’Altro: tra le parole<br />
Elena Biagi<br />
61 Umanizzare la religione per<br />
creare la pace<br />
Daisaku Ikeda<br />
../temi ed esperienze<br />
68 Prendersi cura della cura.<br />
Darsi, dare misura narrando<br />
Anna Maria Piussi<br />
76 La filosofia: l’irresistibile<br />
passione dello spirito<br />
Corinna Albolino<br />
82 La crisi del futuro, l’educazione<br />
e le parole della politica<br />
Marco Taddei<br />
88 La retorica della «riforma<br />
della scuola» tra umanesimo<br />
e scientismo<br />
Simona Faucitano<br />
95 Il metodo possibile: l’educatore<br />
scolastico tra bisogni e vincoli<br />
Patrizia Sordi<br />
../cultura<br />
102 A due voci<br />
Angelo Villa, Ambrogio Cozzi<br />
106 Scelti per voi Libri Cinema Musica<br />
a cura di Ambrogio Cozzi, Cristiana<br />
La Capria, Angelo Villa<br />
115 Arrivati in redazione<br />
../In_breve<br />
119 Il nuovo. Forme di apertura<br />
all’ulteriore.<br />
../In_vista<br />
120 Io sono: il “core competence”<br />
dell’educatore professionale.<br />
3
ABBONARSI è IMPORTANTE<br />
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong><br />
Piano editoriale 2010<br />
...<strong>erranze</strong> ...<strong>migrazioni</strong><br />
Internet e nuove tecnologie, relazioni e linguaggi<br />
Frontiere reali, immaginate, immaginarie<br />
La figura della madre<br />
Rivista di educazione, formazione e cultura<br />
Numero di c/c postale 36094233<br />
intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS<br />
via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />
L’abbonamento annuale per 4 numeri è:<br />
€ 30 privati<br />
€ 60 Enti e Associazioni<br />
€ 90 Sostenitori<br />
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cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it<br />
Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno<br />
della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al<br />
seguente indirizzo:<br />
Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />
4<br />
Per informazioni: Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - pedagogika@pedagogia.it
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/editoriale<br />
Storie, memorie e tracce<br />
di ordinaria inciviltà<br />
Salvatore Guida<br />
Storie. Storie di paesi improvvisamente e tristemente usciti dall’anonimato e diventati<br />
notori ai più, anche a quelli che preferiscono girarsi dall’altra parte quando<br />
incontrano storie di dolore altrui e di inciviltà, specie se nostrane. Storie di uomini<br />
spremuti e gettati, tradotti nei C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione, per<br />
non lasciare, rispetto agli ex Centri di Permanenza Temporanea, dubbi nemmeno<br />
semantici sulla loro primaria funzione) in attesa di essere cacciati. Quante storie<br />
di persone, e da quante parti del Sud del mondo, hanno registrato capitoli da non<br />
dimenticare nelle tante Rosarno di cui è sempre più piena questa nostra Italia!<br />
Quante persone cercheranno nei prossimi anni di capire se tenere stretta la<br />
memoria di quei giorni o se, per pura pietas nei confronti di questo ingrato paese,<br />
si sforzeranno di cancellarne il ricordo...<br />
Mi riesce difficile stupirmi di quanto stia avvenendo, qui da noi, ma non solo!<br />
Ché anche la Francia in questo momento non sta mostrando il meglio di sé;<br />
anzi, con la sua legge che punisce chi aiuta i clandestini, sembra essere la realizzazione<br />
di un incubo architettato da un Gentilini d’oltralpe. Un consiglio di Luigi<br />
Cancrini, che condivido pienamente, suggerisce di obbligare, legati ai sedili, un po’<br />
di nostri uomini di governo alla visione del film Welcome di Philippe Loiret.<br />
Cosa deve succedere ancora perché questo nostro paese, questa nostra Europa,<br />
abbia un soprassalto di dignità, perché ritrovi una sia pur flebile memoria di quanti<br />
milioni di donne e uomini, italiani, spagnoli, greci, siano andati, migranti senza<br />
legge né tetto, in altri paesi, oltremare, che in quei tempi apparivano più prosperi<br />
e sembravano poter garantire benessere, dignità e rispetto?<br />
Non mi stupisco, né voglio più stupirmi, per l’ignoranza di chi si abbevera alle<br />
fonti televisive per farsi un’opinione sulla politica, sull’etica, sull’educazione, sulla<br />
sicurezza, sulla giustizia, né voglio stupirmi per la malafede di chi non può neanche<br />
accampare l’alibi del non sapere, del non capire.<br />
Voglio uscire dalla lamentazione, voglio smettere, almeno per un po’, di indignarmi.<br />
Voglio trovare uno sguardo positivo, imparare a leggere l’anomalia, voglio<br />
imparare a cercare, a cercare di vedere, tra il loglio delle bassezze scioviniste, svettare<br />
qualche feconda spiga di grano, qualche segno di civiltà. Cercare di capire se<br />
qualcosa vada cambiando, se sia fatale percorrere le strade dell’esclusione per sopperire<br />
ai guasti di chi ci sgoverna, di chi ha bisogno di ricorrere, ogni giorno, alla<br />
“distrazione di massa” per curare il proprio particulare.<br />
Voglio proporre all’attenzione di chi legge piccoli segnali colti nella quotidianità<br />
del mio essere cittadino, prima ancora di pensarmi, insieme alla redazione, come<br />
operatore culturale e stimolatore di dibattito e riflessione pedagogica. Stamattina<br />
5
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/editoriale<br />
6<br />
ho visto quattro bambini di prima elementare allestire un mercatino dei loro giochi<br />
e dei loro disegni per raccogliere soldi da mandare ai “nostri compagni di prima<br />
elementare di Haiti”. Questo pomeriggio un’amica, di professione architetto, già<br />
assessore negli scorsi anni, in una giunta di centrodestra di un paese brianzolo, ha<br />
deciso che “adesso basta, bisogna smetterla di stare a guardare! Devo fare qualcosa<br />
anch’io, ho accettato di andare ad insegnare italiano a degli adulti stranieri in una<br />
scuola serale... mancano insegnanti, mancano i soldi, ma, soprattutto, mancano<br />
rapporti. Serve anche a noi! Bisogna mischiarsi, fare cose concrete!”. Alla buon<br />
ora! Servono anche queste piccole cose per convincersi che ci sarà qualcuno a cui<br />
potrà interessare cercare altre strade, condividere il senso del cambiamento, potersi<br />
confrontare con chi non ha paura di diventare agente del cambiamento.<br />
Della necessità di un cambiamento della visione del mondo e della ricerca di<br />
una seria prospettiva etica e pedagogica diamo conto di seguito in questo numero<br />
perché davvero servono, ancora di più e mai come in questo momento, i contributi<br />
di chi al mondo dell’educazione e del sociale chiede, formulando percorsi e proposte,<br />
itinerari di ricerca ed interpretazioni, un impegno preciso nella formazione<br />
delle coscienze, nella creazione di nuovi e superiori gradi di civiltà, nella ricerca di<br />
nuovi modi di intendere una cittadinanza del mondo.
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong><br />
10<br />
L’intercultura e l’idea di ‘confine’:<br />
appunti pedagogici<br />
Cos’è un confine? È un limen, un limite: è la recinzione di un’identità, per tutelarla<br />
in ogni senso (di connotazione e di integrità e di sicurezza). È un marchio di<br />
autotutela di popoli, etnie, territori, stati. Il confine difende. Separa tutelando (e<br />
viceversa). Sta nella logica primaria della societas: essere tutela e darsi identità.<br />
Oltre il confine c’è l’oscuro, il pericolo, l’Altro. Il nemico. E sul confine ci si difende<br />
o si attacca, sviluppando l’ottica della guerra.<br />
Franco Cambi*<br />
La condizione interculturale<br />
La Globalizzazione, da un lato, e il Postmoderno, dall’altro, hanno mutato in<br />
maniera radicale la cultura dell’Occidente. Se la Globalizzazione ha condotto a<br />
società sempre più multiculturali, il Postmoderno ha – e proprio nell’evoluzione<br />
dell’Occidente e della sua cultura – legittimato e valorizzato il pluralismo e la<br />
differenza. In tale congiuntura, che possiamo ben dire epocale, si è aperto il “passaggio”<br />
all’intercultura o meglio all’inter-cultura. Passaggio fin qui in gran parte<br />
inedito e costitutivamente problematico che ha impegnato in un ripensamento dei<br />
paradigmi di civiltà dell’Occidente – ormai fattosi, al tempo stesso, planetario –<br />
storici e filosofi, sociologi e psicologi sociali, con antropologi (figure-guide in questo<br />
ripensamento dell’identà culturale e dei processi di trasformazione che ad essa<br />
attengono, come l’acculturazione, il métissage, etc.), con pedagogisti (altrettanto<br />
figure-chiave, poiché attivi nel guidare e nel regolare tali processi e nei soggetti e<br />
nelle comunità e negli stati, con strategie operative diverse e complesse, ma – oggi<br />
– sempre più inaggirabili).<br />
Così l’inter-cultura è venuta ad occupare un campo sempre più centrale nella<br />
pedagogia, anche a livello internazionale, producendo una riflessione e una estensione<br />
delle pratiche sempre più ricca e articolata, ma anche sempre più consapevole<br />
della sua centralità epocale e sociale e politica e, quindi, pedagogica. Un campo in<br />
costante ascesa e in continuo rinnovamento rivolto a gestire l’incontro, la convivenza<br />
e il dialogo tra le diverse culture che coabitano nel medesimo spazio e, da lì, a<br />
regolare gli scambi, gli innesti etc., da un lato, e i conflitti, le esclusioni etc., dall’altro.<br />
Svolgendo in tal modo un lavoro essenziale per definire, organizzare, sviluppare<br />
la società interculturale e gli statuti di una condizione inter-culturale che viene a<br />
cambiare il mondo in cui viviamo e le prospettive stesse del suo futuro. Statuti dei<br />
soggetti, delle culture, della società stessa e delle sue prerogative: di cittadinanza, di<br />
organizzazione istituzionale, di diritto.<br />
La pedagogia su tutta questa frontiera è impegnata da tempo e ha prodotto effetti<br />
efficaci: di modellizzazione, di strutturazione, di costruzione strategico-tattica<br />
in relazione alle diverse tipologie di società, ai diversi connotati di mentalità in<br />
essi presenti/dominanti, alla diversa condizione interculturale che stanno vivendo
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong>/l’intercultura_e_l’idea_di_confine<br />
(più o meno inedita rispetto al passato, più o meno da acclimatare in – e contro –<br />
mentalità etnocentriche e difensive, diffuse, etc.). Comunque alcuni elementi di<br />
convergenza sono emersi dal dibattito ormai pluridecennale:<br />
1) l’etnocentrismo come cultura difensiva e chiusa in se stessa va rimosso; è illegittimo<br />
e pericoloso; rinnova persecuzioni, razzismi, scontri, di cui ben conosciamo<br />
gli effetti e per gli individui e per la società stessa;<br />
2) il pluralismo culturale è confronto e scambio, occasione di sviluppo e di crescita<br />
delle culture, come è sempre accaduto (e guai quando non è accaduto: come avvenne<br />
con la conquista spagnola delle Americhe) e va, così, valorizzato e tutelato;<br />
3) la logica dell’incontro, del dialogo, dello scambio deve regolare trasversalmente<br />
la condizione interculturale, poiché è la sola logica che ne tutela e la crescita e lo<br />
sviluppo, ma anche e soprattutto, le potenzialità intrinseche;<br />
4) tale logica porta verso un’umanità planetaria che viene così, via via, a costituirsi,<br />
a imporsi, a crescere, come sta avvenendo coi diritti umani che spostano più<br />
avanti le regole di convivenza tra le culture e allargano il terreno che, sempre via<br />
via, viene ad accomunarle;<br />
5) gli scontri tra civiltà, tra etnie, tra religioni tradiscono proprio quell’habitat<br />
interculturale che ci è, ormai, proprio, e riportano indietro (verso l’etnos, verso le<br />
“radici”, etc.) l’identità dei gruppi, soggetti, culture riattivando logiche di dominio e<br />
di conflitto, fino alla “logica” della guerra;<br />
6) in questa condizione interculturale vanno ridefiniti i confini e la loro funzione<br />
e l’idea stessa di confine va correlata a quella dello scambio, ridescrivendo tutta la<br />
geografia socio-culturale e imponendo l’interiorizzazione (e etica e politica) di questa<br />
rivoluzione dei confini e della sua produttività antropologica e sociale al tempo stesso.<br />
La società-a-rete e il mutamento nei confini<br />
Cos’è un confine? È un limen, un limite: è la recinzione di un’identità, per tutelarla<br />
in ogni senso (di connotazione e di integrità e di sicurezza). È un marchio<br />
di autotutela di popoli, etnie, territori, stati. Il confine difende. Separa tutelando (e<br />
viceversa). Sta nella logica primaria della societas: essere tutela e darsi identità. Oltre<br />
il confine c’è l’oscuro, il pericolo, l’Altro. Il nemico. E sul confine ci si difende o si<br />
attacca, sviluppando l’ottica della guerra che si regola, appunto, sul nemico (reale o<br />
presunto, presente o atteso o probabile) e implica vicinanza in armi, sempre pronta<br />
all’attacco. Tutto ciò, però, postula confini giocati verso l’esterno: ben definiti, da<br />
segnare, da descrivere in modo lineare, geograficamente e politicamente.<br />
È vero anche che accanto a questa ideologia del confini c’è stata sempre la realtà<br />
dei confini, nelle varie società, che hanno avuto una funzione anche di scambio, di<br />
incontro, di innesto. I confini, infatti, sono porosi. Favoriscono scambi, sempre. e<br />
basta un’analisi delle lingue e dialetti delle terre di confine, anche solo in Europa,<br />
anche solo in Italia, per trovare lì sia il bilinguismo sia forme dialettali fatte anche<br />
di innesti ab extra.<br />
Fin qui le società del passato, con la loro storia drammatica dei confini e della<br />
lotta per i confini (creando espansioni, imperialismi, dominazioni culturali e mi-<br />
Dossier 11
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong>/l’intercultura_e_l’idea_di_confine<br />
12<br />
litari, etc.), con la loro idea del confine-difesa e del confine-nemico-alterità. Oggi,<br />
però, stiamo assistendo a una rivoluzione dei confini, nel mutamento stesso della<br />
società. Che si è fatta pluralistica e sempre più costruita a rete: secondo il modello<br />
di nuclei che sono nodi e tendono fili verso altri nodi e tutti insieme, in questa<br />
realizzazione reticolare, danno corpo a una società in continua crescita e in costante<br />
rinnovamento, ma sempre riaffermando il pluralismo reticolare di base. Ormai<br />
divenuto – di fatto e di diritto – l’identikit delle società aperte, democratiche e<br />
complesse e regolate dall’integrazione e dal mutamento.<br />
Qui, oggi, i confini sono passati dall’esterno all’interno stesso della società e<br />
si sono fatti, da linee di esclusione/tutela, condizioni di porosità, di scambio, di<br />
sviluppo nel pluralismo. Anzi i confini alimentano il pluralismo, ma il pluralismo<br />
li cambia in “luoghi” di irretimento reciproco: di conoscenza, di incontro, di dialogo.<br />
Ogni società complessa attuale (e via via tutte quante), almeno tendenzialmente,<br />
nel suo sviluppo tecnologico e civile (e si veda cosa accade nell’ex-URSS o in<br />
Cina: imperi compatti e attivi nello spengere le differenze), vive come struttura il<br />
pluralizzarsi interno dei confini e il loro mutamento di funzione: il loro farsi scambio/incontro/dialogo,<br />
costituendo una rete polimorfa dentro il sociale, che è in costante<br />
crescita e crea condizioni di mutamento attraverso integrazione innovativa<br />
e costruzione di nuovi comuni traguardi. E traguardi più avanzati, che emergono<br />
proprio dall’integrazione dei confini. Come rivelano sia la politica (democratica)<br />
attuale, sia lo stesso diritto, che si riappropria sempre di più dello ius gentium.<br />
Non è un caso che il dibattito sui confini sia, oggi, al centro della ricerca storica,<br />
ma anche della politologia e del diritto, e che venga, da lì, a postulare una forma<br />
mentis nuova, che vada oltre il modello tradizionale – dalla polis greca a Schmitt<br />
– in cui demarcava lo spazio sociale proprio sui confini e leggeva questi come esclusione<br />
e difesa. La nuova mentalità deve far proprio il principio della provvisorietà<br />
dei confini, della loro porosità, del dovere di oltrepassarli, dell’apertura all’alterità,<br />
per dar vita a una società-di-rete in cui gli annodamenti sono produttivi e necessari<br />
e in cui vigono gli scambi tra le diversità, delimitando uno spazio aperto e in contante<br />
trasformazione e integrazione e innovazione.<br />
Certo, tale società dei confini visti come potenzialità e dell’integrazione trasformatrice<br />
sempre in atto è una società nuova, inedita nella storia, soprattutto nel suo<br />
aspetto di apertura permanente e di continua ricerca; una società anche in-quieta e<br />
che crea ansie e timori; una società a gestione più difficile e il cui futuro è ignoto,<br />
almeno in gran parte. Da qui le resistenze, i rifiuti, i ritorni en arrière. Comprensibili,<br />
ma non legittimabili. Anzi da combattere. Poiché noi, oggi, qui stiamo e non<br />
possiamo, ad libitum, cambiare l’identità del nostro tempo.<br />
Stare ‘tra’ confini e vivere ‘nello’ scambio<br />
Compito primario della pedagogia è – qui e ora – dar corpo a soggetti, gruppi,<br />
istituzioni capaci di “abitare” questa nuova frontiera. E abitare significa sentirla come<br />
il proprio habitat, attivandosi a comprenderla e a stare in essa in modo integrato e<br />
produttivo, secondo la logica di quel pluralismo, incontro, etc. che la contrassegna.
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/...<strong>erranze</strong>...<strong>migrazioni</strong>/l’intercultura_e_l’idea_di_confine<br />
Stare – tra – confini significa costruire una propria identità mobile, che si organizza<br />
sul confronto, che si fa molteplice e aperta tendenzialmente. Il confine si fa scambio.<br />
Occasione di integrazione di alterità. E ciò vale per i soggetti (che devono de-centrarsi<br />
e aprirsi all’avventura della ricerca, della sperimentazione, dell’innovazione: ed è<br />
l’assunzione di una psicologia inquieta, curiosa, mobile e collocata dentro una forma<br />
di esistenza che non privilegi legami, radici, bensì incontri, innesti, innovazioni; psicologia<br />
e esistenza in cui l’altro viene ad assumere il ruolo intenzionante, sempre, sia<br />
come altro o come Altro, sia come individuo sia come cultura). Ma anche per i gruppi<br />
(che si devono de-etnicizzare e disporsi anch’essi nella prospettiva dell’apertura e della<br />
ricerca; e tale mutamento è difficile, e molto, poiché i gruppi tendono a istituzionalizzarsi<br />
e a regolarsi intorno a una identità di base). Perfino per le istituzioni (che sono<br />
espressione del permanere dell’identità di gruppo, da trasmettere agli individui, siano<br />
esse la famiglia, la scuola, la chiesa o gli apparati dello stato – tanto quelli ideologici<br />
quanto quelli funzionali, come la tecnocrazia –; pertanto sono resistenti a questa che<br />
potremmo dire mutazione genetica, ma non possiamo – oggi – ignorarla e, così, la<br />
devono attraversare e far propria, rivelandosi anzi come fattori-chiave e attori-decisivi<br />
di questo mutamento: e si pensi alla scuola e al suo farsi nodo dinamico della società<br />
complessa e multiculturale, con un progetto esplicito e organizzato di intercultura, le<br />
sue formae mentis, i suoi stili cognitivi – e la sua prassi formativa, con l’attivazione di<br />
un’ottica – a tutto campo – della differenza).<br />
“Tra confini” e “nello scambio” possono essere indicati come i nuovi slogan del fareintercultura,<br />
a scuola in particolare, nella formazione dell’io anche. Di tale binomio<br />
la pedagogia come sapere dell’incontro e del dialogo e del métissage gestisce il profilo<br />
inquieto e il ruolo fondante di una societas nuova. Che solo l’azione pedagogia potrà<br />
illuminare, costruire, regolare e solo la riflessione sull’educazione potrà rendere fedele a<br />
se stessa. Tale societas reclama un io diverso, istituzioni diverse (nelle loro pratiche e nei<br />
loro fini: come accade alla scuola, che non è più legata ai principi del “conformare” e<br />
“riprodurre”, bensì a quelli del pluralismo e della differenza da vivere e rendere attivi<br />
nell’incontro e nel dialogo, secondo un forte spirito di laicità). Solo l’educazione può<br />
produrli, porli in essere. Come sempre accade quando si ha incontro-con-l’altro e non<br />
si riduce tale incontro o a dominio o a pura coabitazione legale in nome di una comune<br />
umanità, che però sta oltre le differenze e le annulla, partendo da un quadro di generalità.<br />
Come fu teorizzato già nell’occasione-massima che l’Occidente ebbe a vivere come<br />
scoperta-dell’-alterità, ma che risolse secondo la volontà di conquista e riducendo l’alterità<br />
a arretratezza e barbarie, da emancipare anche e in particolare con la forza. Siamo<br />
alla scoperta/conquista dell’America e al dibattito sui suoi metodi e sui suoi effetti. Caso<br />
ancora oggi esemplare, che qui tratteremo in un veloce “intermezzo”.<br />
Intermezzo. Il richiamo alla “disputa di Valladolid” del 1550<br />
Proprio per delineare con forza l’ottica pedagogica da attivare nella condizione planetaria<br />
(e planetaria in ogni suo “segmento”) del Mondo Attuale è bene risalire a un dibattito<br />
che si realizzò intorno alla conquista americana nel 1550 e che resta un fattore-chiave della<br />
storia dell’Occidente, e in positivo e in negativo. La scoperta dell’America fu un’avven-<br />
Dossier 13
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14<br />
tura per la cultura europea, ma si chiuse senza rinnovarne affatto la mentalità, connessa<br />
all’esclusione e al dominio, anche i dibattiti che accompagnarono l’avventura furono di<br />
alto valore culturale, in modo tale che ancora oggi si offrono come esemplari. E esemplari<br />
anche e proprio per dirimere la quaestio dei confini tra le culture, in una stessa societas e<br />
quindi capaci di illuminare anche i problemi culturali del nostro tempo. Lo ricordava<br />
Savignano di recente, dichiarando tali posizioni ancora esemplari, nell’oggi.<br />
Già con Colombo, come ci ha sottolineato Todorov, gli indigeni amerindi, così<br />
radicalmente altri rispetto all’Homo occidentalis o europeus, vengono degradati a<br />
barbari (“nudi e non cristiani”) e quindi da sottomettere. Con Cortés fu la logica<br />
dell’oro a rendere il dominio più cinico, più costrittivo, più serrato, producendo<br />
un genocidio ineguagliato (si è parlato di centocinquanta milioni di uomini<br />
e donne indios uccisi!). Imponendo così un’idea imperialistica del dominio sui<br />
popoli altri che ha fatto scuola a tutta la colonizzazione moderna. Ma quell’evento<br />
esemplare (la scoperta e poi la conquista) attivò anche riflessioni, denunce, prese<br />
di posizioni diverse e aprì un dibattito. A Valladolid nel 1550 tre posizioni si confrontarono:<br />
quella imperialistica, quella giuridica, quella pedagogica. Se la prima<br />
– con Sepùlveda – sottolineava la condizione barbara degli indigeni, da ridurre in<br />
schiavitù e da emancipare attraverso la conversione coatta e la pratica occidentale<br />
del lavoro, la seconda – con De Vitoria – guardava a un riconoscimento di diritti<br />
umani comuni tra occidentali e indigeni, e quindi richiamava il loro rispetto e la<br />
partecipazione degli indigeni, ma tenendo ferma la guida degli europei, interpreti<br />
naturaliter dello jus gentium. La terza, invece, con Las Casas, si inoltrava sul terreno<br />
di una pedagogia del dialogo e chiamava in causa la convinzione e l’uso della nonviolenza.<br />
Postulava nell’uomo la ragione e indica nella persuasione la stessa via<br />
per la conversione e esige un’opera educativa diffusa e capillare, l’unica capace di<br />
“attrarre, incamminare, muovere la creatura razionale al bene, alla verità, alla virtù,<br />
alla giustizia”, sempre in modo “dolce, blando, delicato e soave”, in modo che si<br />
creda “ma volendolo”, per interiore adesione. Qui va sottolineato il principio di razionalità<br />
reso universale (senza gerarchizzazioni tra etnie, fedi, etc.) poi il principio<br />
pedagogico del formare (e non del conformare) e la prassi “dolce e soave” che parla<br />
ai cuori e alle menti e lì opera la metamorfosi. La via di rispetto e di aiuto di Las<br />
Casas non ebbe seguito, fu il “realismo cinico” ad aver la meglio, come sappiamo.<br />
Purtuttavia la disputa del 1550 disegna un quadro esemplare e esemplare ancora<br />
oggi e fa ben risaltare la ricchezza e attualità della via pedagogica, e anche la sua difficoltà,<br />
che vale ancora per l’oggi. Quel lavoro in interiore homine ha bisogno di formatori,<br />
di esperti di qualità, capaci di stare tra i confini e nelle culture per attivarne il dialogo,<br />
senza preordinarne le uscite, ma tenendo fermo che comunicare e dialogare è già un<br />
valore, un traguardo, poiché implica già anche un’etica e produce un ethos. Bartolomeo<br />
de Las Casas ci sta davanti ancora come un maestro, anche se noi oggi dobbiamo rileggerlo<br />
in modo laico: pensando a tutto il quadro dei valori e non solo a quello religioso.<br />
Ma su questo piano Las Casas ci indica a quale ethos dobbiamo ancora guardare. Ethos<br />
di reciprocità e di costruzione di frontiere comuni sempre più avanzate, dentro un mutamento<br />
squisitamente antropologico basato proprio sulla pratica del dialogo.
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La via educativa, oggi<br />
Nel confronto tra etnie, culture, tradizioni diverse, se si deve evitare la Scilla del<br />
Dominio o il Cariddi dell’Uguglianza formale, ma si vuol costruire un’identità mobile,<br />
fondata sulla differenza, capace di strare nel dialogo, la via aurea (come ricordava Las<br />
Casas) è quella educativa: ragionevole, irenica, cauta e “dolce”, basata sul discutere, sul<br />
convincere, sull’accordarsi, ma che – per noi, oggi – deve essere reciproco e non ha un<br />
punto di veridad già sicuro e definito da far valere. Né può averlo, poiché così si ricadrebbe<br />
nell’etnocentrismo e nella chiusura del dialogo e nel divieto del métissage.<br />
Si tratta di darsi regole e pratiche per ascoltarsi e incontrarsi e far esperienza delle diversità<br />
come alterità e come risorse, come forme che amplificano l’umano, ma che – proprio<br />
per questo – lo riguardano, sempre. Da tale incontro e dialogo emerge il possibile métissage,<br />
l’innesto, il connubio tra culture diverse, con effetti di ibridazione e di commistione<br />
che arricchiscono le singole culture, e le rinnovano. Tutto ciò, però, deve valere nella<br />
coscienza, nella mentalità collettiva, nella identità delle istituzioni. Lì, su tutti questi fronti<br />
deve avvenire il processo educativo che, senza violenza e per convinzione, porta i soggetti<br />
protagonisti (o di se stessi o del gruppo o dell’istituzione) a produrre cambiamento e un<br />
cambiamento radicale di stili (cognitivi e sociali) e di identità (personale e collettiva).<br />
Solo la varietà e complessità e dialettica integrata delle pratiche educative, rese<br />
attive a tutti i livelli della formazione nella società attuale – dalla famiglia allo stato,<br />
passando per la scuola, il lavoro, i media, etc. –, può avviare la costituzione di tale<br />
società nuova, anzi nuovissima. Ma che ci si presenta, oggi e anche domani, come<br />
un compito essenziale e inaggirabile. E che noi dobbiamo saper costruttivamente<br />
affrontare secondo le regole (educativo-formative) già indicate a suo tempo ad Las<br />
Casas e intessute del suo irenismo erasmiano, ma anche del primato della pedagogia<br />
così presente nel pensiero del Maestro di Rotterdam.<br />
*Docente di Pedagogia Generale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Firenze<br />
Bibliografia<br />
K.O. Apel, Etica della comunicazione, Milano, Jaca Book, 1992<br />
F. Braudel, Il mondo attuale, 2 voll., Torino, Einaudi, 1966<br />
F. Cambi, Incontro e dialogo, Roma, Carocci, 2006<br />
F. Cambi, I confini e gli scambi, “Nuovo Bollettino CIRSE”, 2009<br />
A. Dupront, L’acculturazione, Torino, Einaudi, 1966<br />
E. Dussel, L’occultamento dell’altro, Cellino, La piccola editrice, 1993<br />
B. de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Milano, Mondadori, 1997<br />
B. de Las Casas, De unico modo de atraer a todos los pueblos a la verdadera religiòn, [1536] Mexico,<br />
Fondo de cultura economica, 1992<br />
único modo de atraer a todos los pueblos a la verdadera religión<br />
G. Gutierrez, Dios o el oro de Las Indias, Salamanca, Sígueme, 1990<br />
A. Savignano, Critica del mito della modernità. Dialogo interculturale, “Rocinante”, 2005, 1<br />
T. Todorov, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1992<br />
S. Zavala, L’Amerique Latine, philosophie de la conquête, Paris, Mouton, 1977<br />
Dossier 15
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48<br />
L’erranza che sfama il mondo<br />
Si potrebbe pensare di ripristinare la dialettica tra cultura e civiltà, ben sapendo che<br />
quest’ultima è una meteora che nessuna cultura, nessuna società, nessun gruppo<br />
può vantare di esibire come sua proprietà. Già il semplice riconoscerlo costituirebbe<br />
un importante passo avanti, un bagno d’umiltà che farebbe bene a tutti.<br />
Angelo Villa*<br />
“Fatti un’arca di legno, di cipresso”<br />
Genesi 6,14 1<br />
Cercare di misurarsi con i fenomeni migratori nell’ambito della società occidentale<br />
significa, in primo luogo, sforzarsi di approcciare quel che li caratterizza oggi, differenziandoli<br />
in maniera netta da quelli che si presentavano in un passato, anche relativamente<br />
recente. Evitare di riconoscerne la novità equivale ad occultarne il tratto<br />
distintivo quello che, proprio in virtù della sua manifesta originalità, si impone come<br />
un elemento decisamente traumatico, sia per chi ospita che per chi è, o vorrebbe essere,<br />
ospitato. Nella fattispecie, i primi paiono unanimemente condividere un paradigma,<br />
etico e concettuale, che dovrebbe rappresentare la soluzione prospettica dell’intero problema,<br />
quello costituito dall’idea di integrazione. Parola d’ordine sovente chiamata in<br />
causa nei contesti e nelle occasioni più disparate, quasi un’invocazione.<br />
Presa alla lettera, tuttavia, l’integrazione comporta come suo presupposto logico<br />
l’esistenza di una linea di demarcazione tra un dentro e un fuori. Un confine che<br />
consenta la possibilità di pensare che, in rapporto ad esso, una qualsivoglia persona<br />
o oggetto venga integrata o, all’opposto, espulsa o emarginata. In un mondo diventato,<br />
però, insopportabilmente più piccolo, in un’epoca caratterizzata dalla crisi<br />
delle grandi narrazioni religiose e ideologiche, una chiara dialettica tra interno e<br />
esterno appare quanto meno difficile da riconoscere, se non addirittura artificiosa.<br />
Ciò contribuisce, a mio avviso, ad esasperare quella dimensione traumatica cui<br />
poc’anzi accennavo. Di fatto, in termini differenti ma simmetrici, i fenomeni migratori<br />
finiscono per mostrare, svelare una certa precarietà delle culture di appartenenza<br />
dei singoli, proprio nel momento della loro messa a confronto effettiva. Va da sé che<br />
l’effetto che ne risulta può assumere paradossalmente la forma opposta. La chiusura<br />
monolitica, il culto acritico delle radici, l’esasperazione di tratti d’identificazione altrimenti<br />
abbandonati della propria cultura nutrono il repertorio abituale di autoctoni<br />
e di migranti. Comportamenti che, per la verità, lasciano facilmente intravedere il<br />
loro carattere difensivo. Più di risposta che di reale presa di posizione.<br />
Per quanto riguarda gli occidentali, la presenza di persone di altre etnie non fa che<br />
1 Nella lingua ebraica, la parola che indica l’”Arca” si dice “téva” . Ma lo stesso termine significa<br />
altresì “parola”, come indica il Talmud. Per uscire dalla violenza di cui parla la Genesi (6,18) non<br />
occorre salire su un battello, ma entrare nella “parola” per ritrovarvi tutta la sua ricchezza. La violenza<br />
è figlia di una perversione del linguaggio che ha soppresso la polisemia che porta con sé.
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ulteriormente accentuare il dubbio amletico sulla propria identità, quell’interrogativo che<br />
non manca di ritornare in maniera drammatica nella crisi che attraversano i singoli così<br />
come la forma più elementare di aggregazione sociale, la famiglia. Il dentro o quello che,<br />
in questo caso, dovrebbe essere tale, la società che accoglie, prende così la forma di un<br />
guscio vuoto. Ricco di opportunità, ma povero di valori, confuso nei contenuti. Come<br />
spesso i migranti non mancano di sottolineare. A cosa, dunque, lo straniero dovrebbe integrarsi?<br />
Può bastare un gratuito e generico appello ai diritti, a una kantiana lungimiranza,<br />
a erudite e sottili disquisizioni per aggirare pacificamente complesse diatribe ?<br />
Fatte le debite differenze, un disagio analogo si riaffaccia dal lato di chi viene dal<br />
“fuori”, di chi dovrebbe essere integrato. La migrazione sancisce una frattura, uno stacco.<br />
Chi lascia la sua terra natale si immerge in un’altra lingua, in un’altra storia… E’<br />
inevitabile che il rapporto con la propria cultura d’appartenenza subisca un’alterazione,<br />
si modifichi, si destabilizzi. Un doppio movimento presiede al processo di distanziazione<br />
(geografica?) dalle origini: divenendo straniero, lontano dalla sua patria, l’emigrante<br />
diventa, nel contempo, straniero in quella che era la sua cultura di appartenenza.<br />
Ora, la logica dell’integrazione immagina che lo straniero, un giorno, non lo sia<br />
più. Che chi stava prima fuori, adesso stia dentro, faccia parte del dentro. Ma, insisto,<br />
non è proprio la migrazione ad additare il punto di inconsistenza di quel limite che,<br />
dopo aver prima diviso, dovrebbe poi, in un secondo tempo, ampliarsi a dismisura,<br />
senza che, per altro, nessuno intuisca quale configurazione possa realmente assumere<br />
nell’immediato futuro? O, ancora, la percezione di questo vacillamento, la consapevolezza<br />
di un fondamento che viene a mancare, l’intuizione di un vuoto dietro tanta<br />
consolidata retorica non potrebbe costituire un’occasione per costruire e ripensare<br />
nuove forme di legame sociale? Il domani è già qui, lo si voglia o meno. Basta solo<br />
fare un salto nella nursery dell’ospedale più vicino… Da questo punto di vista, l’integrazione<br />
appare come una partita già persa, una battaglia di retroguardia. Un’ossessione<br />
egocentrica della nostalgia che si vorrebbe utopisticamente proiettare in avanti.<br />
E’ continuare a pensare alla frontiere, quando le frontiere, ormai, sono cadute.<br />
Cultura versus civiltà<br />
In un dossier curato da Le monde si è chiesto ad alcuni intellettuali di “prendersi il<br />
rischio di dare la loro definizione della nozione di civiltà” 2 . Un termine, per un verso,<br />
divenuto “quasi un tabù” 3 ; per un altro, invece, utilizzato con eccessiva disinvoltura<br />
: due facce di un’unica medaglia. La reticenza ad interrogarne il significato si compiace<br />
infatti di scovare una pronta scappatoia nella sua immediata banalizzazione.<br />
Se, in effetti, non è per nulla facile definire che cosa si debba intendere con questo<br />
termine, occorre però considerare come la parola “civiltà “ si associ ad un’intuizione<br />
alta, nobile di un insieme sociale che sarebbe profondamente ingiusto appiattire. E’<br />
dire comune, e ritengo alquanto universale, etichettare come “incivile” una condotta<br />
deprecabile, indipendentemente dall’area geografica dove accade. Il riferimento alla<br />
2 “ L’atlas des civilisations “, Hors-série , Le monde Coédition La vie, a. 2009/2010, in part. pg. 16- 24<br />
3 idem , pg. 3<br />
Dossier 49
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50<br />
nozione di civiltà contiene implicitamente un giudizio, sollecita una tensione tra<br />
quello che c’è e quello che non c’è ancora, come succede con le rappresentazioni che<br />
aspirano ad incarnare una declinazione di una qualsivoglia idealità.<br />
E’ a fronte di questo nodo, intricato e non privo d’ambiguità, che si è forse preferito<br />
abbassare sintomaticamente la guardia, saltando di pari passo la feconda e spinosa<br />
distinzione tra civiltà e cultura o società 4 . Com’è noto, Huntington ha tolto di<br />
mezzo le equivocità, profetizzando per i giorni a venire uno scontro di civiltà. Più<br />
lucidamente e meno enfaticamente Martha Nussbaum ha denunciato, invece, quello<br />
che le sembra uno scontro “dentro” le civiltà. Altri, meno pessimisti, come Courbage<br />
e Todd hanno auspicato, statistiche alla mano, un incontro tra le civiltà. In ogni<br />
modo, civiltà e cultura sono state trattate come sinonimi. O meglio, il concetto di<br />
cultura ha riassorbito vampirescamente al suo interno quello di civiltà. La prima,<br />
insomma, ha finito per essere automaticamente equiparata alla seconda.<br />
Un’operazione del medesimo tipo, ad esempio, mi pare sia stata effettuata anche<br />
nei riguardi delle teorie di Georges Devereux, nume tutelare dell’etnopsichiatria. Si<br />
pensi, in particolare, a definizioni come quella di “società malate” o al lavoro di decomposizione<br />
di una cultura nei tratti che la caratterizzano, secondo criteri quantitativi o<br />
qualitativi… Chi, oggi, sarebbe tanto audace da riprendere categorie del genere? Chi<br />
oserebbe coniugare, e poi sostenere, pensiero e giudizio, riflessione e critica?<br />
La sacralizzazione della cultura ha depotenziato il rimando, per la verità, ben più<br />
imbarazzante alla civiltà. L’elevazione della cultura, e con essa della società che l’alimenta,<br />
alla dignità della civiltà ha instaurato una idolatria dell’esistente che la circonda<br />
d’un aura di intoccabilità. All’ascesi si è, peraltro, aggiunta l’estensione. Parallelamente<br />
all’omologazione della civiltà alla cultura si è ampliato a dismisura quest’ultimo concetto.<br />
Capita sempre più spesso di leggere o sentire affermazioni quali: “tutto è cultura”.<br />
Da come si cucina un piatto a come si prepara una tintura per i capelli, da come si educano<br />
i figli ad un testo sacro, qualsiasi oggetto, qualsiasi comportamento è collocabile<br />
nel grande ipermercato della cultura. Un amante del paradosso avrebbe buon gioco ad<br />
obiettare che se tutto è cultura, niente al fondo lo è. Natura e cultura non si differenziano<br />
più tra loro: è l’incesto generalizzato, chioserebbe un antropologo avvertito.<br />
Laddove la nozione di civiltà introduce una divaricazione tra cultura e società, come<br />
nella classica contrapposizione tra civiltà e barbarie, la cultura richiude, quasi legittimando<br />
ogni inciviltà, qualsiasi contrasto a riguardo. La società si rispecchia nella sua cultura e<br />
viceversa. Per questa ragione, si può ben pensare che una “società malata” come quella nazista<br />
esprimesse una sua cultura, anche di notevole livello, gratificata com’era dal conforto<br />
intellettuale ed emotivo di personaggi del calibro di Heidegger o di Carl Schmitt, senza<br />
che ciò facesse obbligatoriamente segno di una sua sensibilità civile.<br />
Concretamente, sia il termine civiltà che quello di cultura si declinano al plurale.<br />
Sussiste, tuttavia, una differenza tra le due. Quando si parla della civiltà cinese piuttosto<br />
che di quella greca, questi vocaboli coniugano un elemento di universalità con<br />
4 Per una distinzione tra questi termini vedasi, oltre al citato dossier di “Le monde”, il saggio di<br />
Norbert Elias - Il processo di civilizzazione- Il Mulino, Bologna, 1982, pag. 113
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una particolarità storica. La civiltà rinvia a quanto di più significativo e prezioso una<br />
società e la sua cultura hanno prodotto: nelle scienze, nelle arti, nella cura dei malati…<br />
La cultura, al contrario, isola una particolarità puramente specifica, contingente.<br />
Esistono tante culture quante sono le forme di aggregazione che l’essere umano sperimenta.<br />
La società costituisce solo il contenitore più vasto cui rapportare la cultura.<br />
Si tratta di una questione numerica o di dimensioni. Anche una gang giovanile delinquenziale<br />
possiede una sua cultura. Ricondotto alla sua essenza minimale, il gruppo<br />
incarna il motore produttivo della cultura: la crea, la mantiene, la trasmette. Preservando<br />
la cultura esso preserva l’identità che, di conseguenza, ne deriva. E viceversa.<br />
In tal senso, la cultura si sostiene sulla base di una moralità collettiva, una moralità<br />
che, proprio per questo, non può che essere conservatrice, tendente a coltivare il mito<br />
di una falsa unità nelle quale dissolvere le intemperanze e le anomalie individuali o<br />
ricomporre e occultare aporie, divergenze, lacerazioni.<br />
Fare della cultura o delle culture un feticcio vuol dire assolutizzare una particolarità,<br />
con tutto quel che ne segue. Rischio da cui non mi pare sia esente l’etnopsichiatria<br />
di Tobie Nathan. Una pericolosa spinta all’autosegregazione , mascherata<br />
del suo contrario. Se solo il simile può capire il simile, se solo chi appartiene a<br />
una cultura può comprendere un altro individuo della medesima cultura, qualsiasi<br />
differenza è indice di incomunicabilità. Il terzo è così escluso e, assieme a lui, la<br />
civiltà. Non è forse quest’ultima, del resto, il primo straniero, l’estraneo più tenace<br />
che viene a far obiezione alla cultura? Freudianamente, non è ancora lei, con i suoi<br />
limiti e con le sue ambizioni, a causare disagio nei singoli individui?<br />
Nessuna cultura è innocente. E, del resto, come potrebbe? Per comprendere che cosa<br />
sia realmente una cultura occorre ricercarne il suo cuore vitale, il suo nucleo portante.<br />
Sarà anche cultura la preparazione di un cibo o la disposizione degli spazi domestici, ma<br />
sia l’uno che l’altro discendono e, soprattutto, dipendono da qualcosa di più sostanziale<br />
e decisivo. Una pietanza o una bevanda, come qualsiasi altro oggetto “materializzabile”,<br />
è riproducibile a piacere: osservazione persino scontata in un’epoca, come intuiva<br />
saggiamente Benjamin, dominata dalla tecnica. Può darsi che , fra qualche anno, i<br />
cinesi o gli egiziani cucinino pizze ben più gustose dei loro colleghi napoletani, o che i<br />
bergamaschi preparino succulenti couscous … Basta imparare, riprendere, trasformare,<br />
riadattare, riprodurre, innovare … Non sussiste in proposito alcun acquisito diritto di<br />
priorità o di proprietà, nessun monopolio oggettivamente sostenibile.<br />
A mio parere, tuttavia, si può cogliere il cuore di una cultura quando ci si trova<br />
confrontati a “oggetti” non più esportabili, manipolabili. Marx direbbe quando si<br />
passa dal valore di scambio al valore d’uso, a un valore, cioè, non più di tanto negoziabile.<br />
Se, ci si perdoni l’esempio piuttosto sbrigativo, uno svedese si scoprirà<br />
pizzaiolo provetto, può ben accadere che, superati comprensibili pregiudizi iniziali,<br />
la gente si accalchi presso il suo ristorante, trascurando quello che frequentava in<br />
precedenza. Ciò non significa, però, che gli avventori faranno loro i comportamenti<br />
(supponiamo) disinibiti che lo stesso adotta nella sua vita privata, fedele ai costumi<br />
“liberal” della sua tradizione culturale. Se, insomma, nessuna cultura è innocente, è<br />
perché è chiamata a misurarsi con quella realtà intima del funzionamento psichico di<br />
Dossier 51
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ciascuno che è la sua inconscia economia di soddisfazione: le sue pulsioni, i suoi desideri,<br />
i suoi fantasmi. Nulla esclude che taluni oggetti “materiali” siano a pieno titolo<br />
collocabili all’interno di un determinato contesto culturale, ma il loro peso, la loro<br />
valenza deriva dall’essere associati e subordinati ad altri “oggetti” ben più rilevanti e<br />
irrinunciabili che costituiscono quello che definivo il cuore di una cultura.<br />
Una cultura non è innocente poiché se vuole essere tale, e cioè una cultura è obbligata<br />
a sporcarsi le mani con la realtà di quel che segna e determina l’essere di un soggetto.<br />
Ora per orientarne la condotta, ora per offrirgli una prospettiva vivibile o un senso<br />
ultimo. Per questo motivo la cultura sviluppa, confeziona oggetti nell’accezione psicoanalitica<br />
del termine che sostengono il processo di messa in forma della soddisfazione di<br />
ogni individuo, in quel che ha di più intimo e personale, fornendogli o suggerendogli<br />
modelli in cui identificarsi, desideri che è buona cosa coltivare, pensieri che è “giusto”<br />
esternare, pulsioni che è lecito sfogare e così via. La cultura tocca la carne, il corpo in<br />
quanto sessuato del singolo, il delinearsi delle relazioni sociali. E’ una difesa contro<br />
l’angoscia, contro la voragine di inquietudine e, perché no?, di abissale non senso, cui<br />
altrimenti si sentirebbe esposto l’essere umano, da solo o in gruppo, senza rappresentazioni<br />
che lo guidino, lo collochino da qualche parte in una sequela o in un quadro,<br />
senza il complice riconoscimento di altri che gli stanno vicino.<br />
La cultura struttura e costituisce come degli oggetti quella dimensione inafferrabile,<br />
impossibile, ingovernabile dell’esistenza che lasciata a sé stessa condurrebbe<br />
ciascuno nel caos più profondo.<br />
Inevitabile che ogni soggetto vi si appoggi, anzi vi si aggrappi, specie quando la<br />
sua fragilità o le vicissitudini della vita lo mettono in crisi. La cultura “parla”, si “esprime”<br />
su quei temi sui quali i saperi ritenuti obiettivi o scientifici latitano, abbozzano<br />
astruserie, riportano l’essere umano a una solitudine insopportabile. E, i temi, a voler<br />
esser pignoli, quelli che contano realmente nell’esistenza di un uomo, non sono molti,<br />
essenzialmente due: la sessualità e la morte. E’ unicamente in ragione del fatto che<br />
la cultura fornisce una sua versione, attendibile in quanto condivisa, di questi due<br />
enigmi che essa garantisce, offre una via su come articolare rappresentazioni, insegne<br />
simboliche ed economia affettiva. Detto altrimenti, la cultura fa argine al caos. Solo<br />
essa lei “dice “ che cos’è o che cosa dovrebbe essere un uomo o una donna, come si<br />
educano i figli, cosa farsene della vita, come essere sepolti, cosa succede dopo la morte…<br />
(Da questo , ovviamente, non ne deriva che, di per sé, in quanto culturalmente<br />
accettato, quel supposto modello sia eticamente valido, rispettoso della soggettività<br />
degli individui coinvolti, insomma proponibile… ). In verità, onestamente, è del<br />
tutto probabile che nessuna cultura sappia realmente civilmente granché delle questioni<br />
intorno a cui dispiega una sua pretesa conoscenza o condiziona determinate<br />
condotte. Certo, avanza una risposta, è la sua funzione, per quanto non la possieda.<br />
Fa finta di saperlo. O, per lo meno, vi si crede, o vi si fa credere che disponga di un<br />
sapere. Ciò appare, del resto, estremamente evidente quando una cultura tradisce<br />
una forte impronta religiosa. Appaiono qui, al fondo, i tratti che talvolta dividono le<br />
culture occidentali dalle altre,: la distinzione tra ragione e mito, il privilegio dell’io sul<br />
noi sono barriere che si liquefanno nel passaggio dalle prime alle seconde…
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Le culture sono necessarie, indispensabili. Promuovono o tentano di promuovere<br />
un duplice legame, quello tra il singolo e la sua realtà più sensibile, i suoi fantasmi,<br />
da un lato, e quello tra il singolo e gli altri che vivono con lui o che l’hanno<br />
preceduto, dall’altro. Si occupano di mischiare tra loro le sensazioni e le parole, il<br />
mistero e le spiegazioni, l’indicibile e il dicibile. Ma, insisto, la cultura non è autosufficiente:<br />
quando lo diventa, come non di rado accade, si chiude al mondo. E,<br />
così facendo, pretende presuntuosamente di esserlo.<br />
Per concludere<br />
Le <strong>migrazioni</strong> inaugurano un nuovo scenario planetario, con buona pace di chi si<br />
apprestava a consegnare la storia alle biblioteche. Come ogni trauma, pongono ciascuna<br />
persona dinnanzi ad un dilemma. Si può scegliere la via regressiva, quella che l’inconscio<br />
istintivamente suggerisce, nel tentativo di ripristinare la smarrita padronanza dell’Io, individuale<br />
o collettivo, accentuando un egocentrismo narcisista o, a seconda, la fascinazione<br />
esotica dello straniero. Usare le culture come una bandiera o, ma è lo stesso, come dei<br />
muri può servire allo scopo. Oppure, al contrario, si può cercare di essere più coraggiosi,<br />
leggermente più fantasiosi. Un’ipotesi potrebbe essere quella di ripristinare la dialettica<br />
tra cultura e civiltà, ben sapendo che quest’ultima è una meteora che nessuna cultura,<br />
nessuna società, nessun gruppo può vantare di esibire come sua proprietà. Già il semplice<br />
riconoscerlo costituirebbe un importante passo avanti, un bagno d’umiltà che farebbe<br />
bene a tutti. Non tutte le culture sono uguali, poiché differente è il rapporto che intrattengono<br />
con il loro costituirsi come civiltà. Come sempre, a riguardo, il passato insegna,<br />
illumina sul futuro.<br />
Occorre, infine, ricordare come la dialettica tra cultura e civiltà sia stata e continui<br />
ad essere segnata da una conflittualità violenta, logorante. L’ombra della civiltà si è<br />
spesso palesata dinnanzi alla cultura come la sua potenziale negazione, il suo acerrimo<br />
nemico. Le conquiste civili si sono sempre configurate come conquiste contro<br />
una cultura dominante, più o meno organizzata democraticamente. Sono costate, e<br />
continuano e continueranno, a costare sangue e fatica. Come indica Antigone, nella<br />
celebre tragedia di Sofocle. La civiltà è , forse, semplicemente, il nome laico di Dio,<br />
quello pronunciabile, ma che bisognerebbe evitare di nominare a sproposito, gonfiandosi<br />
il petto, senza un briciola di umiltà, considerandola cosa propria…<br />
La scommessa dei fenomeni migratori pone e impone una posta in gioco molto<br />
alta. Forse troppo, forse del tutto in misura inattesa. Se prevarrà la logica dell’accomodamento,<br />
della convivenza o della moltiplicazione dei ghetti, comunque intesi,<br />
in nome e per conto delle culture, è probabile che la si perderà. Se, infine, si proverà<br />
a fare dello sradicamento una radice, dell’erranza una condizione ontologica,<br />
della memoria un esercizio critico, della civiltà un tesoro fragile attraverso il quale<br />
il mondo ci chiede di vivere e di essere ascoltato… chissà che allora non si riesca<br />
a combinare qualcosa di meglio. Almeno, provarci… Diceva Rabbi Nachman di<br />
Bratislava: “Mai chiedere la strada a chi la conosce, potresti non perderti”.<br />
*psicoanalista<br />
Dossier 53
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/temi_ed_esperienze<br />
Temi ed esperienze<br />
L’intenzione della sezione “Temi ed Esperienze” è quella di offrire al lettore<br />
uno spazio di condivisione su riflessioni, percorsi, progetti, testimonianze,<br />
narrazioni, presentando una serie di contributi che, pur<br />
non negando l’esigenza dell’approccio e della definizione teorica, cerchino<br />
di ricollegarsi all’idea della pratica, di quell’ambito del conoscere,<br />
legato alle forme dell’azione, della sperimentazione e della verifica<br />
in continuo divenire ed in costante trasmissione.<br />
In questo numero parliamo di relazioni cliniche nella prospettiva della<br />
medicina narrativa; dell’esperienza di un corso di “Filosofia minima”<br />
in ambito EdA; di giovani, futuro e ideologia; di riformismi scolastici<br />
e retoriche della modernizzazione e dell’efficienza; infine, della complessa<br />
figura e ruolo dell’educatore a scuola.<br />
Temi ed esperienze 67
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/temi_ed_esperienze<br />
88<br />
La retorica della «riforma della<br />
scuola» tra umanesimo e scientismo<br />
A distanza di circa settant’anni dal dibattito intorno alle “due culture”, le due<br />
posizioni, umanistica e scientista, continuano a orientare il senso comune e la<br />
letteratura del dibattito intorno alla scuola italiana.<br />
Simona Faucitano*<br />
Nelle due ultime legislature, al di là o al di qua della differenza di orientamento<br />
politico, il vessillo della riforma del sistema dell’istruzione e della formazione ha<br />
campeggiato unanimemente; a fronte della constatazione che in Italia la parola<br />
«riforma» è divenuta una costante dell’impegno politico dei due schieramenti e<br />
che, nonostante questo dato, due sole sono le riforme compiute dall’Unità d’Italia<br />
a oggi ed entrambe negli anni Venti, le riforme Casati e Gentile, sorge il sospetto<br />
che, nella stratificazione delle riforme inattuate, la parola «riforma» funzioni ormai<br />
come un segno neutrale in grado di mascherare punti di attacco per volontà che<br />
affermano sistemi di valori politicamente contrapposti ma ugualmente inessenziali<br />
sul piano culturale ed esproprianti sul piano pedagogico.<br />
Alla luce di queste considerazioni può essere rilevante sul piano critico partire da<br />
alcuni testi programmatici (regolamenti, schemi di piani programmatici) appartenenti<br />
alle due legislature per muovere a un’analisi degli impliciti culturali e delle forme<br />
di discorso in essi operanti per far emergere come l’intenzione politica di riforma<br />
veicoli una strategia di controllo del grado di allineamento tecnico-procedurale del<br />
sistema dell’istruzione e della formazione con le tendenze globalizzanti dell’occidentalizzazione<br />
che dissimula un’assenza di pensiero e di azione propriamente orientati,<br />
l’assenza di un prendersi cura dell’istruzione e della formazione nella loro pluriversa<br />
propria complessità. Si tratta di forme cultural-discorsive nelle quali il livello descrittivo<br />
è inglobato nel livello valutativo e il livello valutativo si eleva a un grado<br />
di autoreferenzialità tale che l’esito tendenziale potrebbe essere che l’istruzione e la<br />
formazione sulla carta pongano in essere un’istruzione e una formazione “di carta”.<br />
L’oggetto della riforma sono l’istruzione e la formazione assunte come sistema;<br />
nell’oggettivazione apollinea del linguaggio degli atti ministeriali che riflette sugli<br />
aspetti amministrativi burocratici organizzativi e gestionali di sistema si attende alla<br />
sparizione dell’essere dell’educazione-istruzione e dell’auto-formazione e gli atti di<br />
indirizzo e di programmazione anziché avere una funzione regolativa sostantivano<br />
una riflessione sulla scuola e sulla formazione che se è condizione necessaria per essere<br />
sempre più e sempre meglio occidentalizzati è anche il disertare ogni presidio culturale<br />
e ogni attenzione pedagogica agli aspetti che decentrano sul piano simbolico<br />
l’educazione e la formazione rispetto all’attualità delle culture operanti e dei processi<br />
di socializzazione della società italiana e ne sono il proprium.<br />
Nell’evidenza di oggetto del sistema la sparizione dell’essenziale dell’educazione<br />
e della formazione si dà nello smarrimento del senso del domandare che presidia le
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forme della sua pensabilità; il pensiero cede il passo a un riflettere ipervalutante che si<br />
esaurisce in modo viziosamente circolare nella sequenza valutazione-prescrizione e la<br />
circolarità viziosa è preservata da parole-chiave, quelle di «modernizzazione», «razionalizzazione»<br />
e «ottimizzazione», che sono assunte sulla base di un consensus gentium,<br />
nella declinazione globalizzata dell’adesione al medium linguistico-rappresentativo<br />
dell’economico. All’interno di questo dispositivo retorico il Ministro Gelmini può<br />
affermare ciò che ha l’evidenza dell’ovvio per il consenso globalizzato: «la “qualità”<br />
delle risorse umane costituisce un bene primario e strategico di straordinaria importanza<br />
per interpretare correttamente e governare l’innovazione e il cambiamento, per<br />
sostenere e orientare le vicende economiche, per essere competitivi, per dare solidità e<br />
stabilità alle istituzioni democratiche, per assicurare coesione sociale e promuovere la<br />
piena fruizione dei diritti di cittadinanza […] Le riforme e le innovazioni introdotte<br />
negli ultimi decenni hanno conosciuto vicende alterne e spesso tormentate, spinte<br />
in avanti, ritorni al passato e rifacimenti che ne hanno impedito la piena attuazione,<br />
generando confusione e ritardi nel processo di modernizzazione». 1 Nel linguaggio<br />
che esplicita l’intenzione politica di riforma, la razionalizzazione dei sistemi è posta<br />
come strumento della modernizzazione e, a sua volta, la razionalizzazione del sistema<br />
dell’istruzione e della formazione è posta come mezzo che ha i fini della riduzione<br />
dei costi e dell’ottimizzazione del rendimento del sistema in termini di efficacia e di<br />
efficienza; il rapporto mezzi-fini introduce apparentemente un ordine descrittivofattuale<br />
di riflessione perché esso è già valorialmente determinato senza che questa<br />
determinazione sia assunta criticamente e responsabilmente. I tre termini organizzano<br />
infatti un dispositivo retorico all’interno del quale essi sono assunti con una<br />
funzione descrittiva che è di ritorno rispetto al loro essere termini positivi di coppie<br />
nelle quali il primo termine è stato cancellato in modo che il secondo termine possa<br />
assumere un significato assoluto. Quali sono gli opposti di «modernizzazione», «razionalizzazione»,<br />
«ottimizzazione»?<br />
Il problema non è il fatto che la riforma della scuola e della formazione sia solo o<br />
prioritariamente o dissimulativamente una riforma economica del sistema ma il fatto<br />
che l’economico non sia riferito alla sua provenienza essenziale di impresa moderna della<br />
tecnica in dispiegamento e che conseguentemente ne è la ratio, la logica e non il pensiero:<br />
la via più economica è la più razionale ma è la meno essenziale. In questo senso i tre termini<br />
in questione non sono primariamente da riferire alle discipline economiche in senso<br />
proprio ma al consenso globalizzato che li ha disposti all’interno di una gerarchia di valori<br />
positivi e li utilizza come descrittori di un ordine fattuale universale. La riforma si fa «irrinunciabile,<br />
indifferibile», spasmi del linguaggio generati dal ritiro del pensiero: la riforma<br />
è l’irrinunciabile, l’indifferibile della retorica della modernizzazione, laddove irrinunciabile<br />
è precisamente il suo rinnovarsi ad indefinitum per lasciare nell’oblio il pensiero. Questi<br />
spasmi del linguaggio forse alludono, all’interno di un’analogia tratta dall’economia finan-<br />
1 Schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca<br />
di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze -di cui all’art. 64 del DL n.<br />
112/2008 convertito dalla L n. 133/2008, scaricabile dal sito www.parlamento.it.<br />
Temi ed esperienze 89
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/temi_ed_esperienze/la_retorica della_“riforma_della_scuola”<br />
90<br />
ziaria, allo scoppio della bolla speculativa del livello valutativo che il dispositivo retorico<br />
tenta strategicamente di prevenire: oltre lo scoppio, potremmo forse essere reclamati dalla<br />
necessità e dall’impegno di pensare l’essenziale. Un modo per orientarsi nella direzione di<br />
farsi interpellare dalla necessità e di assumersi l’impegno di pensare ciò che l’educazione<br />
e la formazione sono nel dispiegamento-occultamento dei loro dispositivi è approfondire<br />
la retorica della modernizzazione in rapporto alla riforma come contesto pragmatico<br />
politicamente intenzionato all’interno del quale è possibile ricondurre l’assolutezza e la<br />
pseudoneutralità del livello valutativo della retorica modernistica a posizioni culturali e<br />
discorsive che concorrono a formare il senso comune del dibattito attuale e che diventano<br />
rintracciabili quando il loro disporsi alla prassi le pone in conflitto.<br />
A distanza di circa settant’anni dal dibattito intorno alle «due culture» che ebbe<br />
due nuclei generatori in senso geopolitico e filosofico, il nucleo franco-tedesco e il<br />
nucleo anglo-italiano rispettivamente ispirati dal dibattito fra Sartre Beaufret Heidegger<br />
e fra Snow Trilling Preti, le due posizioni umanistica e scientista continuano<br />
a orientare il senso comune e la letteratura del dibattito intorno alla scuola italiana<br />
e, pragmaticamente, sono identificabili attraverso le appartenenze istituzionali e<br />
disciplinari, rispettivamente, alle aree delle scienze umane (filosofiche, pedagogiche,<br />
psicologiche, storico-sociali) e alle scienze fisico-matematiche e naturali.<br />
Nell’analisi fenomenologica di Preti, 2 la questione centrale è ancora se l’altro dalla<br />
scienza, intesa come essenza della civiltà e massima espressione formale della cultura<br />
moderne e identificata con il sapere del metodo sperimentale di derivazione baconiano-galileiana<br />
abbia una autonomia (sistema di discorso, di verità, di valori) e se,<br />
conseguentemente, si tratti di analizzare e ridurre criticamente a una dialettica intrinseca<br />
alla cultura euroccidentale, quella tra letteratura e scienza, le molteplici coppie<br />
nelle quali si declina (retorica e logica, cultura axiologica e cultura teoretica). Forse,<br />
a distanza di circa settant’anni, sta emergendo come una dialettica fenomenologicamente<br />
rilevabile sia il reiterarsi di una forma cultural-discorsiva che è tale perché non<br />
attinge alla de-cisione essenziale, che può essere propria solo di un pensiero dell’essere<br />
destinale della tecnica, rispetto al dispiegamento della riduzione del pensiero<br />
alla forma scientifica del sapere metodico: le scienze umane e il loro orientamento<br />
“umanistico” sarebbero altrettanto e però subdolamente implicati nel progetto tecnoscientifico<br />
di razionalizzazione e dominio del reale e una ricerca dei nuclei di senso<br />
che sostantivano le due posizioni umanistica e scientista può farlo emergere. Ne sono<br />
stati rintracciati due che concorrono a formare l’unitaria matrice culturale di adesione<br />
alla civiltà della tecnica: a) il nucleo di senso derivazione positivistica della conseguente<br />
centralità della questione epistemologica, dell’interpretazione dello statuto<br />
scientifico dei saperi; b) il nucleo di senso di derivazione illuministica della centralità<br />
della questione politica della conoscenza: la conoscenza come diritto tutelato dalle<br />
istituzioni democratiche è assunta come condizione e come possibilità dell’esercizio<br />
della cittadinanza e dell’appartenenza nazionale.<br />
a) La centralità della questione epistemologica, dell’interpretazione dello statuto scien-<br />
2 Cfr. G. Preti (1997), Retorica e logica. Le due culture, Torino, Einaudi.
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tifico dei saperi, predispone il ricorso della posizione positivista: riprendendo l’indicazione<br />
fenomenologica, la coppia di termini generatrice nel dibattito attuale non è letteratura/<br />
scienza ma è quindi scienze umane/scienze naturali; questa coppia e il suo rovesciamento<br />
tecnologia/cultura, nel quale il termine investito del significato positivo è il primo in<br />
corrispondenza con il secondo termine della coppia generatrice, presuppongono l’interpretazione<br />
dello statuto della scientificità come problema metodologico e la riduzione del<br />
problema metodologico alla riflessione sui criteri di applicabilità del metodo sperimentale<br />
ai fenomeni storici, sociali e “umani”. Coppie equivalenti della coppia tecnologia/cultura<br />
potrebbero essere quelle di istruzione tecnico-professionale/cultura liceale e innovazione/<br />
tradizione che nel dibattito attuale si attivano quando le due posizioni umanistica e scientista<br />
entrano in conflitto rispetto al problema del cambiamento dell’assetto istituzionale<br />
e disciplinare del sistema dell’istruzione e della formazione. Retoricamente significativo<br />
rispetto all’intreccio pragmatico tra posizioni umanistica e scientista e assetti istituzionali<br />
e disciplinari della scuola e della formazione è stato, nel contesto politico dell’avvicendamento<br />
al ministero di Moratti e Fioroni, il cambiamento di direzione culturale del<br />
progetto di riforma del sistema scolastico: la direzione indicata dal progetto di riforma<br />
di Moratti è stata quella di una licealizzazione della cultura scolastica italiana, dell’estensione<br />
al sistema dell’istruzione e della formazione del modello formativo umanistico del<br />
liceo, umanistico nel senso culturale-storiografico di un determinato modo di attingere<br />
all’antichità romano-greca che istituisce la dialettica homo romanus/homo barbarus, che<br />
caratterizza le diverse renovatio umanistiche storicamente accadute (rinascimentale, neoclassica,<br />
preromantica); 3 il progetto di riforma di Fioroni ha messo l’accento sul modello<br />
formativo dell’istruzione tecnica e professionale nella direzione della valorizzazione di quel<br />
rapporto tra scienza e tecnica che è depositato nella cultura tecnica di base della società<br />
italiana e che ha contraddistinto la ripresa economica del Dopoguerra.<br />
L’articolazione del rovesciamento della coppia generatrice scienze umane/scienze<br />
naturali storicamente è riconducibile alla polemica antiumanistica secentesca che il<br />
ricorso della posizione positivista approfondisce e riattualizza: ciò che de-cide il moderno<br />
dall’antico è l’elaborazione del metodo come forma rigorosa e universale del<br />
pensiero e della conoscenza; il progetto di una conoscenza dallo statuto intersoggettivo,<br />
determinabile secondo i criteri della ripetibilità (di principio) dell’esperienza,<br />
della descrivibilità in comune e della comunicabilità, della libertà dai valori pone al<br />
centro l’opera come prodotto ed esito dell’applicazione del metodo e non l’ingegno<br />
straordinario ed esemplare dell’auctor come nell’umanesimo rinascimentale.<br />
b) La scientificità dei saperi è ciò che garantisce a partire dal suo statuto intersoggettivo la<br />
piena e reversibile identificazione di società della conoscenza e società democratica: la chiave di<br />
volta di questa identificazione è il concetto di competenza-e (è usato per lo più al plurale).<br />
Il concetto di «competenza-e», centrale nella teoria e nella pratica dell’istruzione<br />
e della formazione organizzata, può essere decostruito attraverso l’analisi<br />
della terminologia europea e italiana della formazione che ha il suo strumento<br />
di standardizzazione nel glossario dell’EQF (Quadro Europeo delle Qualifiche e<br />
3 Cfr. M. Heidegger (1995), Lettera sull’«umanismo», trad. it. e cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 77 e segg.<br />
Temi ed esperienze 91
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92<br />
dei Titoli). Nei Dm 139/2007 e Dm del 31/07/2007 del Ministro dell’Istruzione<br />
della precedente legislatura Fioroni, conformemente al glossario EQF, il concetto<br />
di «competenza-e» insieme a quelli di «conoscenza» e di «abilità» 4 ha lo statuto metodologico<br />
di indicatore di risultato del processo educativo e formativo ed è definito<br />
nei seguenti termini: «le competenze indicano la comprovata capacità di usare<br />
conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di<br />
lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono<br />
descritte in termini di responsabilità e autonomia»; ciò che lo contraddistingue<br />
rispetto agli altri due indicatori sono il livello meta e il riferimento alla persona<br />
dell’educando-formando. Questi due elementi vengono ripresi in modo che ciò che<br />
via via è determinato come personale è necessariamente di livello meta e ha quindi<br />
una qualità formale, la cui provenienza è giuridica: la parola «competenza» deriva<br />
dal latino giuridico tardo competentia e significa «potere di emanare atti giuridici<br />
e ambito d’azione di un organo giurisdizionale o amministrativo»; 5 il personale è<br />
identificato attraverso un potere che legittima e un dominio di legittimazione e il<br />
pensiero pedagogico intenzionando il proprium dell’educazione e della formazione<br />
attraverso il termine «competenza» arrischia la loro identificazione con percorsi e<br />
domini di legittimazione della persona e delle esperienze. Per comprendere il senso<br />
di questo arrischiare, è interessante riprendere le argomentazioni del testo ministeriale:<br />
rispetto alla distinzione ulteriore fra competenze di base e competenze chiave,<br />
se il concetto di «competenze di base» è definito rispetto a «quattro assi culturali»<br />
(l’asse dei linguaggi, l’asse matematico, l’asse scientifico-tecnologico, l’asse storicosociale)<br />
che determinano “quattro educazioni” (educazione alla comunicazione,<br />
educazione al pensiero, educazione alla conoscenza della realtà, educazione alla<br />
differenza) all’interno dell’iter scolastico che conduce lo studente all’assolvimento<br />
dell’obbligo scolastico, il concetto di «competenza chiave» ha uno statuto metaculturale<br />
che fa riferimento all’apprendimento permanente personale come esito<br />
trandisciplinare delle quattro educazioni specifiche. Nella ricezione italiana della<br />
Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 18 dicembre 2006 che definisce<br />
le «competenze chiave dell’apprendimento permanente» 6 il concetto di «competenza<br />
chiave» è risignificato a partire dalla tematica giuridico-costituzionale della<br />
cittadinanza nella locuzione «competenze chiave di cittadinanza» e ne definisce<br />
otto: imparare a imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire<br />
in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e<br />
relazioni, acquisire e interpretare informazioni. Significativo è il livello di astrattezza,<br />
dalla qualità formal-generale di queste competenze e si è sospinti a domandarsi<br />
se quello delle competenze chiave di cittadinanza sia un indicatore di esito qualitativamente<br />
educativo e formativo e se, nell’utilizzare questo indicatore, il pedagogico<br />
sia posto nelle condizioni di pensare l’autonomia simbolico-culturale ed etica<br />
4 Cfr. le definizioni di «conoscenza» e «abilità» contenute nel Documento tecnico allegato al 139/2007.<br />
5 T. De Mauro (a cura di) (2000), Dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia, p. 523.<br />
6 Ibidem.
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dell’educazione e della formazione e quindi l’ad-propriazione singolare dell’accadere<br />
educativo e formativo. Nel porre come vertice culturale e di politica educativa<br />
l’istituto giuridico-costituzionale della cittadinanza la riflessione sulla competenza<br />
assume, anzitutto e fondamentalmente, riduttivamente, il senso della ricerca<br />
dell’equivalente sul piano formativo ed educativo del diritto all’istruzione come<br />
diritto sociale della cittadinanza; la qualità astratto-formale delle otto competenze<br />
chiave è l’esito di una generalizzazione, nel senso privativo di decontestualizzazione,<br />
delle conoscenze e delle abilità disciplinari, il cui obbiettivo è funzionalizzare<br />
la singolarità del percorso identitario alla soggettivazione predisposta dall’habitus<br />
giuridico del cittadino europeo e occidentale, fondato sul sodalizio culturale tra<br />
società della conoscenza (scientifica) e società democratica, e l’educare a istruire sui<br />
diritti e obblighi del cittadino: tanto più il singolo è astratto nei suoi tratti e nelle<br />
sue provenienze tanto più facilmente può essere ridotto a sostrato (subjectum) della<br />
seconda natura imposta dalla forma globalizzata di civiltà e cultura occidentale.<br />
La «didattica delle competenze» deve essere l’obbiettivo del sistema dell’istruzione<br />
e della formazione, secondo lo Schema di piano programmatico del Ministro<br />
Gelmini, come didattica finalizzata alla formazione totale della persona intenzionata<br />
come crescita umana, civile e culturale e alla tutela dei suoi diritti: come si evince<br />
dai testi di didattica delle competenze, il fine è perseguito a partire dalla centratura<br />
concettuale del termine «competenza-e» sull’idea di soggetto che fa emergere la<br />
qualità umanistica, di interpretazione tecnoscientifica dell’umano: «competenti si<br />
è» e «la competenza inerisce il soggetto in quanto qualità che lo denota non-superficialmente;<br />
perché non tollera una scomposizione analitica in abilità elementari<br />
‘discrete’; in quanto “saper fare” che è espressione manifesta del “saper essere”». 7<br />
Analizzando le due posizioni culturali e discorsive umanistica e scientista emerge<br />
il profilo di un senso comune intorno all’istruzione e alla formazione organizzata che<br />
aderisce alla modernizzazione come ratio economica e come valore supremo della renovatio<br />
umanistica contemporanea. La parola-concetto «competenza» è un tentativo<br />
di conciliare le coppie nelle quali le due posizioni si articolano che reitera e approfondisce<br />
la confusione anziché fare chiarezza perché eleva una condizione tecnicoprocedurale<br />
di soggettivazione a condizione umanamente essenziale dell’educazione<br />
e della formazione, inducendo il sospetto che una critica pedagogica radicale del<br />
concetto coincida con una difesa dell’in-umano e un’enfasi della barbarie.<br />
Nell’uso specialistico tra linguaggio della politica educativa e formativa e linguaggio<br />
della didattica e nella sua ormai aproblematica estensibilità, si è dispiegato il destino della<br />
parola nella sua provenienza giuridico-formale ma alla meditazione pedagogica si offre<br />
l’approfondimento e la de-cisione per un altro, marginale significato che la parola «competenza»<br />
ha assunto: 8 il significato simbolico di «simmetria delle parti tra di loro (Gell.)»;<br />
di «giusto rapporto, analogia, proporzione (Chalcid.)»; di «disposizione rispettiva degli<br />
7 Cfr. D. Maccario, Didattica delle competenze. Fondamenti concettuali, scaricabile dal sito www.<br />
se-savigliano.unito.it e D. Maccario (2006), Insegnare per competenze,Torino, SEI.<br />
8 S. Battaglia (a cura di) (1995), Grande Dizionario della lingua italiana, III, Torino, UTET, p. 402.<br />
Temi ed esperienze 93
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astri, nasci ad eandem competentiam, sotto il medesimo aspetto del cielo [altri: sotto la<br />
medesima stella o costellazione] (Gell., 14, 1, 26)». 9 In questa duplicità di significato,<br />
alla cultura occidentalizzata è offerta la de-cisione essenziale per la via giuridico-formale,<br />
tradizionalmente seguita anche nella riforma del sistema scolastico, e la via simbolica,<br />
forse destinalmente obliata ma rintracciabile. Emerge allora l’indicazione ermeneutica a<br />
rintracciare questa via simbolica in percorsi di senso altri, che disidentificano personalizzazione<br />
e legittimazione rispetto a ciò che ha qualità educativa e formativa ed enucleano<br />
un’idea di ad-propriazione che coltiva il potenziale dell’educazione e della formazione di<br />
sospensione e di sottrazione rispetto ai saperi e ai linguaggi del consenso globalizzato, di<br />
singolarizzazione e di radicamento etico delle identità, di esercizio spirituale.<br />
*Dottore di ricerca in Teorie della formazione e modelli di ricerca in pedagogia e didattica,<br />
collabora con la cattedra di Psicopedagogia del linguaggio e della comunicazione<br />
del corso di laurea di Scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca<br />
Bibliografia<br />
Fonti legislative<br />
- COM (2006) 479 definitivo Proposta di raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio<br />
d’Europa sulla costituzione del Quadro Europeo delle Qualifiche e dei Titoli per l’apprendimento permanente<br />
(EQF), scaricabile dal sito www.europass-italia.it<br />
- Dm del 31/07/2007 Programma annuale delle istituzioni scolastiche per l’anno 2007. Indicazioni operative di<br />
carattere generale, scaricabile dal sito del Ministero della Pubblica Istruzione www. pubblica.istruzione.it<br />
- Dm 139/2007 Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione, scaricabile<br />
dal sito del Ministero della Pubblica<br />
Istruzione www. pubblica.istruzione.it<br />
- Documento tecnico, allegato al Dm 139/2007, cit.<br />
- Gli assi culturali, allegato al Dm 139/2007, cit.<br />
- Competenze chiave di cittadinanza, allegato al Dm 139/2007, cit.<br />
- Schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di<br />
concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze -di cui all’art. 64 del DL n. 112/2008<br />
convertito dalla L n. 133/2008, scaricabile dal sito www.parlamento.it<br />
- DL 137/2008 Disposizioni urgenti in materia di istruzione e di università, scaricabile dal sito www.parlamento. it<br />
Studi<br />
- Buhan Eryck de Rubercy-Dominique L. (1983), Douze questions posées à Jean Beaufret à propos de<br />
Martin Heidegger, Paris, Aubier.<br />
- Heidegger M. (1995), Lettera sull’«umanismo», trad. it. e cura di F. Volpi, Milano, Adelphi.<br />
- Maccario D. (2006), Insegnare per competenze,Torino, SEI.<br />
- Maccario D., Didattica delle competenze. Fondamenti concettuali, scaricabile dal sito www.se-savigliano.unito.it<br />
- Preti G. (1997), Retorica e logica. Le due culture, Torino, Einaudi.<br />
- Sartre J. P. (1963), L’esistenzialismo è un umanesimo, trad. it. di P. Caruso, Milano, Mursia.<br />
9 F. Calonghi, K. E. Georges, O. Badellino (a cura di) (1990), Dizionario della lingua latina. Italiano<br />
Latino, Latino Italiano, II,, Torino, Rosenberg & Sellier, p. 551.
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura<br />
Angelo Villa<br />
102<br />
A due Voci<br />
E chi diavolo sarà mai l’abominevole<br />
dottor Dappertutto che continua a far<br />
paura a una donna sola, protetta e segregata<br />
dietro le spesse mura delle patrie<br />
galere? Chi è quest’uomo che, per quanto<br />
difetti di originalità, le fa pervenire<br />
in carcere una copia de La storia della<br />
colonna infame di Manzoni? Non so se<br />
ho ben capito, per quel che riesco a desumerne,<br />
mi pare che tale figura alluda<br />
a quella di Armando Verdiglione, psicoanalista<br />
“à la mode” negli anni settanta,<br />
delle cui vicende ha finito per occuparsi<br />
la magistratura, non senza grande clamore<br />
mediatico.<br />
Non ho mai conosciuto di persona<br />
l’Armando. Di sicuro, tuttavia, non se<br />
ne può misconoscere<br />
il ruolo di creativo<br />
operatore culturale<br />
che rivestì in quegli<br />
anni specie a Milano.<br />
Lacan (sic!) lo indicò,<br />
assieme ad altri due<br />
psicoanalisti, come<br />
un elemento chiave<br />
sul quale poter contare<br />
per diffondere il<br />
suo verbo in Italia. Le<br />
tristi e drammatiche<br />
esperienze che, tuttavia,<br />
vi fecero seguito<br />
assestarono un duro<br />
colpo all’immagine di<br />
quel lacanismo di cui<br />
Verdiglione incarnava<br />
la versione più suggestiva<br />
e confusionaria,<br />
disinvolta e militante<br />
Il libro di Giuliana Sangalli ci permette<br />
di riaprire, a distanza di anni, una riflessione<br />
sul processo Verdiglione.<br />
Anzitutto il testo è scritto “dall’interno<br />
del processo”, infatti l’autrice ha subito<br />
in quel processo una condanna, abbiamo<br />
quindi una testimonianza interna a<br />
quel che accadeva.<br />
Conviene soffermarsi su questo aspetto,<br />
poiché le cronache dell’epoca erano<br />
tutte “esterne”, si soffermavano su alcuni<br />
aspetti appariscenti, su particolari<br />
secondari, che vengono in parte riportati<br />
nel testo, soprattutto per quel che<br />
riguardavano l’autrice. Leggere oggi il<br />
testo suscita un effetto di spaesamento,<br />
costringe a riflettere su chi erano i<br />
soggetti coinvolti,<br />
quali legami stavano<br />
alla base di quel<br />
gruppo di lavoro,<br />
quanto pesante e<br />
pervasiva fosse la<br />
figura del dottor<br />
Dappertutto, dove<br />
il nome dappertutto<br />
non rimanda solo a<br />
una dimensione di<br />
luogo, ma soprattutto<br />
alla dimensione<br />
temporale, quasi<br />
che la figura inseguisse<br />
l’autrice nel<br />
Giuliana Sangalli<br />
Bocche di lupo<br />
Poiesis, Alberobello 2009<br />
pp. 78, € 12,00<br />
tempo, nei tempi<br />
successivi alla rottura<br />
del legame.<br />
Se il Dappertutto<br />
del nome rinvia ad<br />
una dimensione<br />
Ambrogio Cozzi
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/a_due_voci<br />
nel contempo. Non che altri fossero…<br />
Dal cappello magico del dottor Dappertutto,<br />
il prestigiatore infaticabile, il<br />
seduttore inautentico uscì, passò e entrò<br />
ogni ben di dio. Nel bene, nel nulla<br />
e, soprattutto, nel male. Libri, convegni,<br />
psicoterapie, gruppi, soldi (tanti,<br />
pare…), manipolazione di pazienti…<br />
Alla fine, la magistratura intervenne. Il<br />
caso Verdiglione finì sulle prime pagine<br />
dei quotidiani.<br />
Per la sua implicazione in queste vicende,<br />
Giuliana Sangalli è finita in<br />
prigione. Pesante il reato di cui è stata<br />
accusata, sul piano etico prima ancora<br />
che giudiziario: circonvenzione e abbandono<br />
d’incapaci. Per una persona<br />
che si occupa di psicoanalisi è improbabile<br />
supporre qualcosa di peggio. Di<br />
quell’esperienza devastante e dolorosissima<br />
la Sangalli narra in quel racconto,<br />
in verità una testimonianza, che si intitola<br />
Bocche di lupo.<br />
Perché leggere il testo? Quanto meno per<br />
una semplice ragione, a parte il fatto che<br />
la Sangalli sa decisamente scrivere: Bocche<br />
di lupo possiede un suo valore unico<br />
nel panorama letterario di chi si occupa<br />
di psicoanalisi, psicoterapia, educazione<br />
e affini. Il libro parla o, comunque, lascia<br />
intendere cosa sia il transfert che si può<br />
sviluppare all’interno di una relazione di<br />
cura o di un gruppo settario che si costruisce<br />
intorno a un capo tuttofare (analista,<br />
guru, imprenditore e poi, ancora<br />
…): l’uno, il solo che riassume e governa<br />
il tutto. Qualsiasi riferimento che, per<br />
altro, nel lettore possa spontaneamente<br />
spingerlo a pensare a qualche personaggio<br />
dell’attualità politica è ovviamente<br />
fuori luogo…<br />
Taluni resoconti di cura hanno più volte<br />
illustrato le derive amorose che le rela-<br />
fantastica spaziale, la sua vera pregnanza<br />
la si ritrova lungo una linea temporale<br />
che arriva al momento della scrittura,<br />
una scrittura che comunque non riesce<br />
a liberarsi del dappertutto, non giunge<br />
ad una risoluzione del transfert, anzi, la<br />
ritrova anche nell’oggi dello scrivere.<br />
Sottolineo questo aspetto perché, ai<br />
tempi del processo, e anche successivamente,<br />
il problema del “caso Verdiglione”<br />
è stato risolto in termini scandalistici<br />
come un problema di malcostume,<br />
un caso isolato di devianza morale. Pochi<br />
si sono chiesti, soprattutto all’interno<br />
del campo psicoanalitico, come sia<br />
stato possibile, pensando che l’intervenuta<br />
condanna della magistratura avesse<br />
risolto definitivamente il problema,<br />
delegando così alla giurisprudenza la<br />
risoluzione del problema.<br />
Al fondo di questo atteggiamento stava<br />
una convinzione sull’immunità acquisita<br />
attraverso la condanna pubblica dello scandalo,<br />
il collocarlo appunto come inciampo,<br />
dall’etimo di scandalo, senza chiedersi che<br />
cosa avesse fatto inciampo, o a che cosa<br />
avesse fatto inciampo quell’evento.<br />
Ci si rammentava dei commenti di<br />
Musatti su Verdiglione “magliaro della<br />
psicoanalisi”, per potersi tranquillizzare<br />
perché qualcuno “aveva visto da subito”,<br />
dimenticando i fenomeni di massa<br />
costituiti dai suoi congressi, cui il fior<br />
fiore dell’intellighentia psicoanalitica<br />
aveva magari partecipato, il credito che<br />
Verdiglione si era costruito, come dimenticare<br />
gli appelli che arrivavano da<br />
Oltralpe anche a processo concluso?<br />
Se ricordiamo tutto questo non è per<br />
riaprire lo scandalo, per aggiungere alla<br />
condanna giuridica una nostra condanna<br />
morale, quanto piuttosto per riproporre<br />
un tema troppo a lungo “dimen-<br />
Cultura 103
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/a_due_voci<br />
104<br />
zioni terapeutiche o educative possono<br />
prendere. Si pensi, ad esempio, anche<br />
al film di Faenza sul rapporto tra Jung e<br />
Sabina Spielrein. Un romanticismo tragico<br />
pareva abitare simili storie. La gente<br />
si appassiona e non è detto che qualcuno<br />
intraprenda un cammino analitico<br />
nella segreta speranza di poter vivere<br />
un’esperienza analoga. Più duro, invece,<br />
supporre che il transfert sia la prima e la<br />
più profonda delle prigioni, la schiavitù<br />
volontaria inseguita e ricercata, masochisticamente.<br />
Se l’analista, il padrone,<br />
il boss, come diavolo chiamarlo?, diventa<br />
il dottor Dappertutto, vuol dire che<br />
l’immaginazione paranoica prende concretezza.<br />
E’ realtà, non più sogno. Ciao<br />
ciao romanticismo, siamo nella persecuzione.<br />
San Vittore è già lì, anche senza le<br />
sbarre. Una cura che doveva aiutare una<br />
persona sofferente si è trasformata in un<br />
inferno. Ben più facile uscire da un sintomo<br />
che da quell’inferno. Come fare?<br />
Chiudere con tutto? Si può, certo. Ma a<br />
quale prezzo? Curiosamente, il problema<br />
riguarda sia i pazienti che i loro terapeuti<br />
nella misura in cui gli stessi dipendono<br />
emotivamente e intellettualmente dal leaderino<br />
di turno, il signor Nessuno che<br />
il gruppo ha elevato a suo dio personale.<br />
Ecco, in fondo, il peccato, il peccato più<br />
grave che il transfert può indurre, quello<br />
dell’idolatria. L’adorazione dell’altro,<br />
la sua stupida beatificazione. Confesso<br />
che quel che ho visto e continuo a vedere<br />
in ambiti psicoanalitici, quelli che<br />
dovrebbero essere più vaccinati a riguardo,<br />
fa talmente segno di una religiosità<br />
acefala e morbosa, totalmente acritica<br />
che raramente mi è capitato di incontrare<br />
all’esterno, quanto meno in quelle<br />
dimensioni.<br />
Di chi è la colpa? Non è così sempli-<br />
ticato” o abbandonato in campo psicoanalitico.<br />
Il tema è quello della natura<br />
del legame sociale, della struttura e delle<br />
storture dello stesso. Il laboratorio al<br />
quale applicare questa lente è quello dei<br />
legami sociali all’interno delle società<br />
psicoanalitiche dove la perversione del<br />
transfert lavora e dove l’interrogazione<br />
sulla risoluzione dei legami transferali<br />
non dovrebbe assolutamente essere<br />
messa in subordine ad altri temi, anzi<br />
potrebbe divenire l’occasione per capirne<br />
qualcosa di più sui legami sociali.<br />
Silvia Vegetti Finzi nella sua Storia della<br />
psicoanalisi, verso la fine, parlando di<br />
Victor Tausk, scriveva che sarebbe necessario<br />
riscrivere una storia della psicoanalisi<br />
interrogandosi sulle vittime, su<br />
coloro che sono stati costretti al silenzio<br />
o hanno preferito togliersi di mezzo.<br />
Sarebbe un’angolatura particolare<br />
sicuramente interessante, occorrerebbe<br />
avere l’onestà scientifica e gli strumenti<br />
per evitare di leggere tutto in termini<br />
scandalistici o riducendo tutto a dimensioni<br />
puramente personali tralasciando<br />
gli aspetti interpersonali, i rapporti tra<br />
maestri e allievi, i percorsi che si intraprendono<br />
o che sono stati intrapresi per<br />
sancire l’appartenenza ad una data società<br />
(non solo psicoanalitica).<br />
Il testo certo non affronta questi temi, è<br />
però uno strumento possibile per andare<br />
in questa direzione, occorre solo avere<br />
un desiderio di capirne qualcosa, un<br />
desiderio che nasca dalla consapevolezza<br />
di assenza di immunità, che il passato<br />
non risolto, non passato, proietta coni<br />
d’ombra sul presente, rischiando di ritornare<br />
e ripetersi, cogliere che “sebbene<br />
ci crediamo assolti siamo per sempre<br />
coinvolti”. Quale tema può avere una<br />
maggiore pertinenza analitica?
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/a_due_voci<br />
ce. Facile, troppo facile, puntare il dito<br />
contro il dottor Dappertutto del momento.<br />
Lui è così, probabilmente. Fa il<br />
suo gioco o quel che l’inconscio e l’ambizione<br />
gli suggerisce. Magari, è pure<br />
gentile e simpatico. Non ci sarebbe,<br />
però, gioco alcuno se anche da parte di<br />
chi lo segue non esistesse un movimento<br />
analogo, una ricerca che equivale a<br />
un’investitura. Per fare l’amore come la<br />
guerra, minimo occorre essere in due.<br />
E quindi? Vista da vicino, la faccenda<br />
diventa maledettamente sporca. Purtroppo,<br />
bisogna dirlo, delude profondamente<br />
il movimento psicoanalitico per<br />
la sua perdurante incapacità di analizzare<br />
simili fenomeni. Evitando di farlo, li<br />
condanna a ripeterli. Sono una forma<br />
di incesto, nemmeno troppo inconscio,<br />
che terapeuti e pazienti benedicono,<br />
seppur per ragioni differenti. Bocche di<br />
lupo è, come dicevo, una testimonianza<br />
di quel che è accaduto. Ma, soprattutto,<br />
lo è in sé, sintomaticamente, come prodotto<br />
letterario. Per quel che dice, ma<br />
più ancora per quel che non dice, non<br />
spiega, lascia intendere, allude. Come<br />
se sullo sfondo di quello che è scritto,<br />
si proiettasse l’ombra scura e immensa<br />
di quel che rimane fuori, manco raccontato.<br />
Bocche cucite? Non è questa<br />
stessa “incompiutezza” la prova tangibile<br />
e, ahimé, resistente al tempo di quel<br />
disastro? Leggete e meditate: perché la<br />
libertà fa paura?<br />
Vogliamo chiudere con una citazione di<br />
Etienne De La Boètie “Certo, i medici<br />
dicono che è inutile tentare di guarire le<br />
piaghe incurabili e in questo senso ho<br />
forse torto a voler dare consigli al popolo<br />
che da molto tempo ha perso del<br />
tutto conoscenza riguardo al male che<br />
l’affligge e proprio perché non lo sente<br />
più dimostra ormai che la sua malattia<br />
è mortale. Cerchiamo allora di scoprire<br />
per tentativi come questa ostinata volontà<br />
di servire ha potuto radicarsi a tal<br />
punto che lo stesso amore per la libertà<br />
non sembra più essere tanto naturale”.<br />
Cultura 105
libri<br />
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura<br />
106<br />
Scelti per voi<br />
a cura di Ambrogio Cozzi<br />
Claudia Mancina<br />
La laicità al tempo<br />
della bioetica<br />
Il Mulino, Bologna 2009,<br />
pp. 156, € 14,00<br />
Il termine bioetica è<br />
entrato nel linguaggio<br />
comune da quando alcuni<br />
passaggi dell’esistenza<br />
sono stati prolungati<br />
o resi manipolabili dall’intervento<br />
umano assistito dalla scienza.<br />
La premessa era necessaria per rendere<br />
conto di come mai oggi il dibattito su<br />
questi temi sia divenuto centrale e, purtroppo,<br />
a volte incomprensibile (si pensi<br />
alla formulazione del referendum sulle<br />
cellule staminali tanto per fare un esempio<br />
che tutti conoscono). Il dibattito si è<br />
spesso trasformato in scontro tra una ragione<br />
scientista e un approccio religioso,<br />
dove i primi vengono identificati come<br />
progressisti e i secondi come conservatori<br />
codini. Non è questo lo spazio per rintracciare<br />
il filo di questo scontro, per evidenziare<br />
le cogenti assunzioni di fede che<br />
dilagano in entrambi gli schieramenti, ma<br />
varrebbe la pena di cercare di evidenziare<br />
il depotenziamento della tragicità presente<br />
in entrambi gli approcci.<br />
Il testo di Claudia Mancina si sottrae a<br />
questa dicotomia laico/religioso, rivendicando<br />
però la necessità e opportunità<br />
di intervenire in questi campi che non<br />
possono essere sottratti alle decisioni<br />
pubbliche “La medicina, l’attività di riabilitazione,<br />
l’assistenza data ai malati e<br />
agli infortunati, ha ormai una componente<br />
tecnica di dimensioni tali da non poter più<br />
essere considerata come una protesi neutra<br />
dei processi naturali”.<br />
Il problema diviene allora, in questa prospettiva,<br />
di “come “ legiferare. Mancina<br />
scrive che bisogna “.. fare riferimento a quelli<br />
che sono i valori fondamentali della democrazia<br />
liberale, che sono la libertà, l’uguaglianza,<br />
il rispetto.”<br />
Ci pare interessante questo richiamo al rispetto,<br />
a qualcosa che presuppone il riconoscimento<br />
dell’altro, che può essere determinante<br />
come prerequisito della socialità,<br />
come elemento indispensabile che la precede<br />
ma non la esaurisce.<br />
Il richiamo a modelli di convivenza possibili,<br />
mutevoli nel tempo, per poter cogliere<br />
la portata di interrogativi nuovi,<br />
senza fissarsi in scelte ferme nel tempo,<br />
indica possibili vie di convivenza e di presa<br />
di decisione che appunto includano il<br />
rispetto dell’altro, sappiano ricercare le<br />
radici della convivenza comune. La contrapposizione<br />
laico/religioso viene cosi a<br />
perdere la valenza a priori, ci si può riconoscere<br />
nei comuni diritti di convivenza<br />
come cittadinanza.<br />
“Senza dubbio, praticare la ragione pubblica<br />
non è mai facile, neppure nella migliore delle<br />
democrazie; tanto più è difficile in circostanze<br />
storiche in cui il legame di cittadinanza si<br />
indebolisce. Ma non c’è una strada più facile<br />
o migliore.” Non si tratta di perseguire sintesi<br />
bonarie o relativistiche ma di “attingere<br />
alla ricchezza simbolica delle tradizioni religiose,<br />
ai loro contenuti, nella misura in cui<br />
questi rispettino i criteri della ragionevolezza<br />
e della reciprocità e possano poi tradursi pubblicamente”.<br />
A.Cozzi
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
Gherardo Colombo,<br />
Anna Sarfatti,<br />
Sei Stato tu?<br />
La Costituzione<br />
attraverso le domande<br />
dei bambini,<br />
Salani, Milano 2009<br />
pp. 177, € 12,00,<br />
Quante volte abbiamo<br />
pensato che bisognerebbe<br />
far conoscere la Costituzione, magari<br />
già agli studenti delle scuole medie, e ci abbiamo<br />
rinunciato per la difficoltà secondo<br />
noi insormontabile del linguaggio? Gherardo<br />
Colombo ha invece trovato il modo di<br />
parlare della Costituzione ai bambini delle<br />
elementari. Questo ex-magistrato, che ha<br />
dismesso la toga ma non il suo amore per<br />
la giustizia e la legalità, inizia l’incontro con<br />
i giovanissimi studenti chiedendo loro se<br />
sono felici, e così li mette a proprio agio,<br />
li fa parlare dei loro problemi quotidiani,<br />
delle relazioni con i compagni e con gli<br />
adulti, della sofferenza se qualcuno li prende<br />
in giro. Il titolo del libro ci porta proprio<br />
in mezzo a bambini che discutono mentre<br />
giocano. Anche vivere in società è come un<br />
gioco, il gioco dello stare insieme, e per giocarlo<br />
bene bisogna impararne le regole, che<br />
stanno nella Costituzione. Con linguaggio<br />
facile e piano Colombo spiega i temi della<br />
Carta Costituzionale, dall’uguaglianza dei<br />
diritti ai problemi della famiglia e della libertà<br />
personale, ma tratta anche dell’esercito<br />
e delle tasse, e parla del navigare in Internet<br />
o della convivenza fra italiani e stranieri.<br />
Nessun argomento è trascurato e le regole<br />
stabilite per il popolo italiano vengono confrontate<br />
con quelle degli altri popoli.<br />
Oggi che c’è la sperimentazione didattica<br />
su Cittadinanza e Costituzione, questo testo<br />
può essere uno strumento quanto mai utile<br />
e positivo per i docenti. Ma non solo: tutti<br />
noi genitori ricordiamo il dilemma se imporre<br />
l’obbedienza o cercare di convincere i<br />
figli con argomenti razionali. In questo libro<br />
viene detto chiaramente, e dimostrato, che<br />
convincere è il solo metodo valido, essendo<br />
l’unico che non suscita voglia di rivincita o<br />
di vendetta. Gherardo Colombo ha avuto<br />
la fortuna di incontrare una maestra come<br />
Anna Sarfatti che gli ha offerto l’occasione<br />
di rispondere per iscritto alle domande dei<br />
suoi alunni di quinta elementare, senza che<br />
i bambini, in un primo tempo, conoscessero<br />
la sua identità. La maestra aveva cominciato<br />
a parlare di Costituzione già in seconda,<br />
a proposito del diritto di ciascuno di essere<br />
rispettato come persona. Erano però venute<br />
fuori subito situazioni che gli occhi degli<br />
adulti non rilevano e che si prestano a<br />
canzonature: peso, statura, occhiali, nomi e<br />
cognomi. “Tutti si sentivano vittime e nessuno<br />
aggressore”, dice Sarfatti. Esemplare è la risposta<br />
di Colombo alla domanda: Che cos’è<br />
la Costituzione? “E’ l’insieme delle regole più<br />
importanti che stabiliscono come si convive in<br />
uno Stato. E’ un po’ come in una famiglia (…)<br />
Anche nella famiglia esistono regole principali,<br />
di base: che, per esempio, i genitori sono coloro<br />
che la governano; che i bambini devono obbedire,<br />
e che però non possono essere maltrattati;<br />
che non li si può mettere in castigo se non<br />
hanno fatto qualcosa di sbagliato; che i fratelli<br />
hanno diritto a essere trattati nello stesso modo.<br />
Ma ci sono anche altre regole che riguardano<br />
situazioni particolari: per esempio quale sarà<br />
la conseguenza se non si sono fatti i compiti,<br />
quale se si è litigato con i fratelli.” I bambini<br />
colgono le discrepanze fra la Costituzione e<br />
la realtà: è scritto che tutte le confessioni religiose<br />
sono libere, ma nella realtà, dicono,<br />
“la gente non vuole le moschee e alla televisione<br />
hanno fatto vedere i musulmani che pregano<br />
per la strada. Non è giusto!” Colombo rispon-<br />
Cultura 107
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
108<br />
de che se i cittadini volessero davvero bene<br />
alla Costituzione ciò non accadrebbe. Ma<br />
“la paura di chi è diverso vince sulle parole della<br />
Costituzione e questa non viene applicata”.<br />
Il tono è sempre positivo e le osservazioni<br />
critiche sul mondo di oggi, che pure sono<br />
ben presenti, sono espresse senza acrimonia.<br />
Alla domanda “perché si dice che la Repubblica<br />
tutela il paesaggio e alla televisione vediamo<br />
rifiuti per le strade, incendi nei boschi, mari<br />
inquinati?” Colombo risponde pacatamente:<br />
“Secondo voi è sufficiente che una regola<br />
esista perché venga osservata? Basta dire di non<br />
copiare perché i bambini non copino i compiti<br />
dai compagni di scuola? Qualunque regola,<br />
anche la legge, esiste per davvero soltanto<br />
se le persone fanno quello che dice. Le persone<br />
dovrebbero fare la raccolta differenziata, non<br />
buttare carte e bottigliette per strada, evitare<br />
di costruire case dove non si può perché è pericoloso<br />
o perché si rovina il paesaggio. Invece i<br />
cittadini a volte sono distratti o pigri o fanno<br />
cose sbagliate pur di avere un vantaggio su tutte<br />
le altre persone. Esistono leggi che puniscono<br />
e la polizia e la magistratura dovrebbero<br />
individuare coloro che andrebbero puniti. Ma<br />
questi ultimi sono troppi, anche poliziotti e<br />
magistrati qualche volta sono distratti, il Parlamento<br />
ha fatto spesso delle leggi con le quali<br />
chi ha disobbedito alle leggi, in particolare<br />
quelle sulle case, viene perdonato, e così non<br />
tutti i cittadini si convincono che è necessario<br />
rispettare la legge.” Altrove, per commentare<br />
il contrasto fra il dettato costituzionale e la<br />
realtà quotidiana, la Costituzione è presentata<br />
come una persona, che in certe situazioni<br />
“ci resterebbe male”. Logico che i bambini,<br />
dopo aver dato, giustamente, la preferenza<br />
all’art. 13 (la libertà personale è inviolabile)<br />
abbiano definito la Costituzione “mamma<br />
di tutte le cose più importanti del mondo, come<br />
la libertà”.<br />
Jole Garuti<br />
Umberto Ambrosoli,<br />
Qualunque cosa<br />
succeda - Giorgio<br />
Ambrosoli oggi nelle<br />
parole del figlio,<br />
Sironi, Milano 2009,<br />
pp. 317, € 18.00<br />
Questo libro nasce<br />
dall’umanissimo desiderio<br />
di un giovane<br />
uomo di far conoscere ai propri figli chi<br />
era il nonno. Ma in questo caso il racconto<br />
diventa storia, perché il nonno è l’avvocato<br />
Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca<br />
Privata Italiana di Sindona, fatto uccidere<br />
dal banchiere perché nonostante le minacce<br />
aveva continuato a svolgere il suo lavoro in<br />
difesa dei risparmiatori e dello Stato. Anche<br />
Umberto oggi ha tre figli, e quasi l’età che<br />
aveva suo padre quando gli venne affidato<br />
dalla Banca d’Italia quell’importante incarico.<br />
Per raccontare chi era il nonno si è sobbarcato<br />
la fatica e le emozioni di ricostruire<br />
tutta la vicenda, sia sul piano umano e familiare<br />
che sul piano storico e giudiziario:<br />
ne è venuto fuori un libro di facile ed emozionante<br />
lettura, che ha la struttura di un<br />
romanzo ma è intessuto di storia e di verità.<br />
Inizia con la storia della famiglia, i rapporti<br />
con i nonni, la casa delle vacanze, gli atteggiamenti<br />
di un padre ricordato come allegro<br />
e comprensivo. Umberto racconta ai figli ‘la<br />
più bella tra le storie’ che - dice - potrà sembrare<br />
triste e ingiustamente dolorosa, ma di<br />
cui “sarete certamente orgogliosi di far parte”.<br />
La memoria del nonno “è viva per ciò che<br />
lui ha fatto, non per il gesto criminale che ha<br />
posto termine alla sua vita”. Questo è l’asse<br />
portante del libro, questo dice Umberto<br />
quando parla agli studenti che lo invitano<br />
nelle scuole. Giorgio Ambrosoli è un uomo<br />
che “ha creduto talmente nella propria libertà
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
e nel rispetto delle regole che sovraintendono al<br />
bene comune da arrivare a sacrificare, perché<br />
quel bene fosse salvo, la sua stessa vita”. Le<br />
parole del titolo sono prese dalla lettera che<br />
Giorgio aveva scritto per la moglie già nel<br />
febbraio 1975, poco dopo aver assunto l’incarico,<br />
una lettera che rivela la sua consapevolezza<br />
che avrebbe pagato ‘a molto caro<br />
prezzo’ l’aver potuto “fare politica in nome<br />
dello Stato e non per un partito”. La grande<br />
stima per Annalori gli fa dire “qualunque<br />
cosa succeda, tu sai che cosa devi fare e sono<br />
certo saprai fare benissimo”. Aveva ragione.<br />
Il libro non è soltanto per i nipoti di Giorgio,<br />
ma per tutti noi. Come un insegnante,<br />
l’avvocato Umberto ci dà gli elementi utili<br />
ad eventuali ulteriori approfondimenti. Ha<br />
ripercorso passo passo tutta la vicenda di suo<br />
padre, ha letto articoli, visto filmati, consultato<br />
nell’Archivio del Tribunale di Milano<br />
gli 84 faldoni del processo. Ma soprattutto<br />
ha ripercorso la vicenda immedesimandosi<br />
negli stati d’animo del padre con l’aiuto sia<br />
della di lui agenda sia delle testimonianze<br />
degli amici, primo fra tutti Silvio Novembre.<br />
Ci descrive con chiarezza il contesto,<br />
gli avvenimenti storico-politici ed economici<br />
in cui si muovono banchieri, politici,<br />
magistrati. Leggendo le carte e le indagini<br />
svolte da Gherardo Colombo e Giuliano<br />
Turone è riuscito a capire perché le vicende<br />
di suo padre abbiano avuto tanta importanza<br />
anche nei procedimenti giudiziari contro<br />
Giulio Andreotti e Bruno Contrada, e perché<br />
le indagini svolte dopo la morte del suo<br />
papà abbiano rivelato l’esistenza della loggia<br />
massonica P2.<br />
Il panorama storico che Umberto premette<br />
ad alcuni capitoli comincia con il 1933,<br />
anno di nascita di Giorgio, e arriva fino alla<br />
fine degli anni Settanta, insanguinati dalla<br />
strategia della tensione, dagli attentati a<br />
giornalisti e magistrati, dal sequestro e ucci-<br />
sione di Aldo Moro. Quadri storici sintetici<br />
ed efficaci.<br />
Il libro descrive con passione la lotta fra<br />
corruttori e onesti, l’opacità e le collusioni<br />
di alcuni politici e banchieri, ci fa capire<br />
perché anche oggi l’Italia, non avendo mai<br />
sconfitto o voluto sconfiggere le mafie e la<br />
corruzione, né avendo preso provvedenti risolutivi<br />
contro i membri della P2, vive una<br />
stagione politica difficile.<br />
L’insegnamento etico di Giorgio rivive nelle<br />
parole conclusive di Umberto: “Il mondo,<br />
in una certa misura, va nella direzione in cui<br />
noi vogliamo che vada (…). Ciascuno di noi è<br />
responsabile per qualche grado di questa direzione,<br />
secondo l’inclinazione che attraversa la<br />
nostra quotidianità e che possiamo cambiare<br />
con le nostre scelte e il nostro agire”. Una riflessione<br />
che tutti dobbiamo meditare.<br />
Jole Garuti<br />
Stefano Ciccone<br />
Essere maschi.<br />
Tra potere e libertà<br />
Rosenberg e Sellier,<br />
Torino 2009, pp. 252<br />
€ 18,00<br />
Leggo il libro di Stefano<br />
e non posso che<br />
ricordarmi la prima<br />
volta (credo) che l’ho incontrato e ascoltato.<br />
A Bolzano, durante un Convegno sulla<br />
violenza alle donne, senz’altro molto più di<br />
dieci anni fa. Ricordo le sue parole e il mio<br />
disorientamento, che rispecchiava quello<br />
di molte donne – forse tutte – nella sala.<br />
Disorientamento salutare, poiché mi aiutava<br />
a riconoscermi impigliata in una serie<br />
di stereotipi che il discorso di Stefano – e<br />
con lui vi era anche un altro caro amico,<br />
Sandro Bellassai – destrutturava e rovescia-<br />
Cultura 109
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
110<br />
va, proponendo una nuova ricerca maschile,<br />
che da lì, dalla riflessione sulla violenza,<br />
era nata anni prima, ma era ancora largamente<br />
sconosciuta. Dalle loro parole io e<br />
le altre, il pubblico era naturalmente quasi<br />
tutto femminile, ci attendevamo condanna<br />
e presa di distanza dai ‘violenti’, Stefano<br />
e Sandro indicavano invece un percorso<br />
non contro ‘quel’ maschile, ma ‘nel’ maschile,<br />
all’interno di una storia collettiva<br />
del proprio genere, e della propria storia<br />
singolare di uomo. Parole quindi che non<br />
proponevano l’atteggiamento indignato di<br />
chi segna i confini tra buoni e cattivi, ma<br />
piuttosto la necessità di ritrovare in queste<br />
due storie, quella plurale e quella singolare,<br />
le radici della violenza, le culture che<br />
l’hanno generata e generano, e che vivono,<br />
contribuiscono a formare la soggettività di<br />
ogni uomo, anche di colui che considera<br />
suo compito, impegno personale e politico,<br />
denunciarla e combatterla.<br />
Una posizione che mi aveva colpito, tanto<br />
da spingermi a superare una certa ritrosia,<br />
ad avvicinarmi per conoscerli questi due<br />
uomini, che usavano parole che in me risuonavano<br />
vicine al lessico della ricerca femminista<br />
e che pure sembravano così ‘strane’<br />
pronunciate da labbra maschili, incarnate<br />
nelle loro storie, nei loro corpi. Strane e suscitatrici<br />
di sentimenti, in me e forse anche<br />
in altre donne, contraddittori e ambigui: il<br />
piacere, il desiderio di crederci e la diffidenza<br />
o, nel migliore dei casi, la sospensione<br />
del giudizio, in attesa di ulteriori prove di<br />
autenticità. Poi negli anni siamo diventati<br />
amici, abbiamo fatto alcuni percorsi comuni,<br />
ci ritroviamo spesso con Stefano come<br />
relatrice e relatore in occasioni pubbliche,<br />
in momenti formativi.<br />
Risento dunque la sua voce in questo libro,<br />
un libro intelligente, denso, onesto,<br />
che non si sottrae mai, neppure nelle que-<br />
stioni più ardue, alla complessità che vive e<br />
informa le nuove ricerche maschili, la loro<br />
pluralità e diversità anche interna, e l’intreccio<br />
con le nostre ricerche, col pensiero<br />
di molte donne e col nostro stesso differire<br />
tra noi. Non si sottrae a quella complessità,<br />
e radicalità, che riguarda ogni percorso,<br />
personale o collettivo, che si nomini come<br />
sessuato; eppure riesce con un linguaggio<br />
rigoroso ma semplice, analitico ma con<br />
continui riferimenti al proprio sé, a praticare<br />
quel rigore etico, oltre che discorsivo,<br />
che nasce dal partire da sé e saper tornare<br />
a sé. Così, all’interno di questa complessità<br />
presenta alcune possibili direzioni di cammino<br />
e, al contempo, il rinascere continuo<br />
di nuove interrogazioni.<br />
Il libro percorre la storia di quel genere che<br />
si è nominato, e si è creduto, universale e<br />
rappresentativo di tutta l’umanità, la storia<br />
di un’esperienza che ha strutturato e struttura<br />
il maschile e a un tempo “lo esprime e<br />
lo tradisce”, “lo nega e lo rappresenta”, “un<br />
sistema che ha plasmato i nostri corpi e le nostre<br />
emozioni e tradisce la possibile espressione<br />
della singolare soggettività di ogni uomo”<br />
(p.194). Occorre ora che questo percorso<br />
venga intrapreso a ritroso a partire “da un<br />
atto di rottura col maschile, di diffidenza nei<br />
confronti della storia del proprio genere e con<br />
le forme che questo ha assunto nei comportamenti<br />
concreti e nelle parole degli uomini”,<br />
ma vi è anche la necessità di esprimere<br />
“una grande capacità di ascolto della condizione<br />
maschile e della sua sofferenza, senza<br />
concessioni ma senza distanze” (p.233). Ed<br />
è “proprio nella ridefinizione critica della<br />
polarità tra natura maschile e maschilità storicamente<br />
e socialmente determinata (che) si<br />
sviluppa il nostro tentativo di decostruire e<br />
rideterminare un’identità maschile. Riconoscere<br />
un universo maschile comune non rimovibile<br />
ma del quale assumere responsabi-
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
lità e storia e nel quale ricercare un percorso<br />
diverso…(imparando) la libertà di apparire<br />
ridicoli, cioè non corrispondenti a un’aspettativa,<br />
o privi di quell’autocontrollo, di quel<br />
‘saper stare nel mondo’ ” (pp.244-5). E allora<br />
le nuove forme di esserci e percepirsi nel<br />
mondo che noi donne abbiamo ritrovato<br />
in e per noi stesse e ora sentiamo di poter<br />
proporre nel confronto con alcuni uomini<br />
– coloro che come Stefano lavorano per<br />
formare ‘nel’ maschile inedite soggettività<br />
critiche – rompono finalmente la membrana<br />
di solitudine che ha accompagnato le<br />
storie degli uomini, il dialogo solipsistico<br />
e dolente di chi non ha saputo concepire<br />
e rispettare le donne come ‘altre’ e ‘uguali’.<br />
Appare ora possibile, dunque, tra donne e<br />
uomini, “aprire uno spazio che è di conflitto<br />
e al tempo stesso di tensione creativa e desiderio<br />
di relazione” (p.219). E infatti da alcuni<br />
anni si sono avviate esperienze, in molte<br />
parti d’Italia, di gruppi di donne e uomini<br />
che hanno in comune il progetto di un confronto,<br />
di “una messa in gioco delle rispettive<br />
identità”. In uno di questi gruppi - si tratta<br />
del gruppo Sui generi, che si riunisce presso<br />
la Libera Università dell’autobiografia di<br />
Anghiari siamo insieme Stefano ed io, anzi<br />
forse noi due ne siamo stati i fondatori, ma<br />
non importa, importa piuttosto che prosegua<br />
il nostro lavoro e quello di altre e altri.<br />
Con alcuni metodi di confronto che Stefano<br />
brevemente racconta nel suo libro e nei<br />
quali continuo a ritrovarmi, in una pratica<br />
che mi appare (ci appare) come possibilità<br />
generativa delle reciproche ricerche, vicine<br />
e profondamente differenti. La parole di<br />
Stefano sono, come spesso accade in questo<br />
bel libro, chiare e chiarificatrici anche per<br />
chi, come me, conosce la storia di quanto<br />
racconta, la vive vicino a lui. “In questo<br />
confronto è emersa la scelta di fare riferimento<br />
alle vite concrete di ciascuno e di ciascuna,<br />
non come mera narrazione, ma come fondamento<br />
della propria riflessione. Questa scelta,<br />
dunque, (…) fa della propria biografia il<br />
luogo dove rendere leggibile la complessità dei<br />
temi e dei livelli di identità affrontati: non<br />
solo molteplici identità a confronto, quindi,<br />
ma la molteplicità dell’identità al centro di<br />
un dialogo, a tratti difficile e disseminato di<br />
incomprensioni e sospetti reciproci, che mostra<br />
la sua grande potenzialità” (p.219).<br />
Barbara Mapelli<br />
a cura di Cristiana La Capria<br />
Alcune note sul cinema e la pedagogia<br />
Un felice benvenuto a coloro che entrano in<br />
questo luogo dedicato ai film e alla loro forza<br />
di formare.<br />
Da questo momento in poi in appendice alla<br />
rivista e ai confini con la sezione dedicata ai<br />
libri, se ne apre un’altra destinata al cinema.<br />
Qui viene proposto un film scelto tra quelli<br />
ritenuti più capaci di attirare la nostra attenzione<br />
su visioni insolite.<br />
E’ ben specificare che, anche se in questa sezione<br />
a farla da padrone è il film, in realtà<br />
esso viene considerato solo una parte del complicato<br />
dispositivo pedagogico che è il cinema.<br />
Cioè, l’oggetto dei nostri ragionamenti saranno<br />
i film ma –sempre- terremo presente la più<br />
ampia condizione percettiva ed estetica creata<br />
dal cinema che, per la sua specificità, risulta<br />
particolarmente capace di attivare processi<br />
formativi.<br />
Innanzitutto, diversamente da quello di altri<br />
media, lo spazio cinematografico si presenta<br />
molteplice e distribuito in tanti luoghi confinanti:<br />
quello dello schermo, delle poltrone,<br />
della sala di proiezione, della sala di ingresso e<br />
cinema<br />
Cultura 111
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
112<br />
di uscita e, ovviamente, il luogo rappresentato<br />
nei film. Molti spazi, quindi, devono cooperare<br />
affinché il congegno disciplinante del cinema<br />
possa funzionare e, a questo scopo, ci sono regole<br />
piuttosto rigide da rispettare. Gli altri media<br />
pongono dei vincoli spaziali e delle condizioni<br />
di fruizione flessibili: la televisione può trovarsi<br />
sullo scaffale di un appartamento o al centro<br />
di una piazza pubblica, la radio può trovarsi<br />
in una camera da bagno o nell’abitacolo di<br />
un’automobile; davanti alla tv posso mangiare,<br />
mentre ascolto la radio posso fare ginnastica.<br />
Nessuna di queste distrazioni è consentita al<br />
cinema dove i patti sono chiari: per la durata<br />
dello spettacolo è necessario restare seduti in<br />
poltrona, al buio, in silenzio, in mezzo alla<br />
gente e al contempo in solitudine con le proprie<br />
emozioni. Ogni elemento concorre a catturare<br />
l’attenzione verso il fascio di luce proiettato sulla<br />
parete dello schermo dove le immagini scorrono<br />
secondo ritmi a cui lo spettatore si deve<br />
adattare: le pause, le accelerazioni o le ellissi<br />
narrative debbono essere assecondate, salvo decidere<br />
di sottrarsi alla visione uscendo dalla sala<br />
o chiudendo gli occhi. Le severe condizioni di<br />
percezione procurano una ipersensibilizzazione<br />
a quanto viene narrato dal film, inoltre la quasi<br />
immobilità cui si è costretti in poltrona impedisce<br />
di scaricare le tensioni emotive provate:<br />
ecco, allora, una maggiore disponibilità cognitiva<br />
a penetrare le esperienze proposte dal film,<br />
quasi come se pezzi di vita venissero selezionati,<br />
ricomposti e concentrati dentro una sala, pronti<br />
per essere vissuti.<br />
Quali esperienze e quali film?<br />
A noi interessano soprattutto quei film che non<br />
ripetono percorsi di significazione già dati, che<br />
non costruiscono piste di lettura consuete. A<br />
noi piacciono quei film che segnano tragitti al<br />
limite dell’imprevisto e capaci di creare spazi<br />
di esitazione. Preferiamo l’architettura di<br />
immagini che lasciano dei sospesi da riempire<br />
mettendo in moto il pensiero. I film per cer-<br />
velli pigri li lasciamo a<br />
casa.<br />
Giù al nord<br />
Regia Boon D.,<br />
Francia 2008*<br />
Questioni complesse<br />
come le differenze culturali<br />
possono essere<br />
tematizzate nei loro<br />
risvolti critici senza<br />
necessariamente affondare<br />
la lama nel cuore del pessimismo e<br />
dell’allarmismo.<br />
Il film che vi propongo sorride sotto i baffi<br />
del pregiudizio e porta la visuale verso piste<br />
aperte alla differenza interculturale (e ai<br />
suoi disturbi) senza troppo affanno.<br />
Anzi, si potrebbe tranquillamente dire che il<br />
carico della questione affrontata – la discriminazione<br />
socio-culturale – è inversamente proporzionale<br />
alla leggerezza della sua forma.<br />
Il titolo ci dice già tutto: “Giù al nord” è<br />
un’indicazione geografica del tutto paradossale,<br />
indica la compenetrazione logicamente<br />
impossibile di due concetti. Così<br />
come paradossale è l’atteggiamento sprezzante<br />
che la maggioranza delle popolazioni<br />
residenti al nord del mondo esibiscono<br />
verso le popolazioni di quasi tutto il sud<br />
del mondo. Qui nel titolo, però, c’è un ulteriore<br />
paradosso perché topograficamente<br />
il nord sta sopra, sta in alto rispetto al<br />
centro della terra, non in basso. A meno<br />
che non si faccia un giro in Francia, regione<br />
che fa da scenario a questo film e che<br />
ci mostra un punto di vista ribaltato: da<br />
quelle parti il nord è sottostimato, si trova<br />
ai piani bassi nella classifica dei valori della<br />
popolazione francese, ovvero sono quelli<br />
del sud a disdegnare gli abitanti del nord.<br />
La gente al sud è chic, benestante, istruita e<br />
si gode il caldo; la gente al nord è volgare,<br />
fannullona, triste e soffre il gelo. Quindi
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
chi va al nord della Francia è come se precipitasse<br />
in basso, giù nella scala antropologica<br />
dei francesi.<br />
Ecco perché Philippe, direttore di un ufficio<br />
postale, fa di tutto per ottenere un trasferimento<br />
verso la zona meridionale della<br />
Francia, al punto da ricorrere all’imbroglio<br />
e simulare di essere disabile pur di ottenere<br />
la precedenza. Niente da fare, per punizione<br />
viene mandato a Bergues, piccolo centro<br />
situato nel profondo nord. Qui conosce una<br />
realtà assai lontana dalla sue cupe aspettative:<br />
gente che parla un dialetto che suona<br />
come la lingua di un’altra nazione lo accoglie<br />
con calorosità, così i malumori si spengono<br />
e i pregiudizi si sbriciolano. Questo<br />
accade anche a noi spettatori, invitati a seguire<br />
il punto di vista cognitivo di Philippe<br />
e, con lui, a fare esperienza del potere ingabbiante<br />
del pregiudizio. Veniamo trasportati,<br />
tramite riprese che sono in maggioranza dei<br />
campi medi, in quadretti di squisita ironia<br />
che mostrano gli effetti risibili e ridicoli dei<br />
nostri preconcetti.<br />
Vale la pena di godersi la sequenza, comica<br />
e cinica, in cui Philippe si piazza in sedia a<br />
rotelle simulando una disabilità motoria per<br />
farla franca con l’ispettore. Non da meno<br />
è la scena in cui la polizia stradale ferma il<br />
nostro protagonista per guida con eccesso<br />
di lentezza, ma la sua è una motivazione valida:<br />
vuole rallentare il momento dell’arrivo<br />
nella triste e fredda località di destinazione.<br />
Insomma tra fraintendimenti, scambi di<br />
battute e ripetuti sorsi di vino Philippe impara<br />
un nuovo linguaggio dove “le cose”<br />
sono “le cosce” e dove l’imprecazione più<br />
gettonata è “vacca puzza”. Nuove parole e<br />
nuova cultura mettono in condizione di<br />
elaborare ciò che sappiamo senza averci<br />
ragionato: il pregiudizio. Una delle strade<br />
possibili per riuscirci è il trasferirsi di luogo<br />
in luogo– materialmente e ancor più<br />
psicologicamente – come ha fatto Philippe.<br />
Perché di questi tempi, come insegna Rosi<br />
Braidotti, è opportuno educare “identità<br />
nomadi”, capaci di esplorare nuovi territori<br />
senza usare mappe preordinate . Solo così<br />
è possibile lasciarsi sorprendere dal bagliore<br />
dell’imprevedibile che ogni soggetto culturale<br />
porta con sé.<br />
a cura di Angelo Villa<br />
Ongaku<br />
Sarà la musica che gira intorno, come canta<br />
Fossati, sarà l’acqua sporca della musica, come<br />
stigmatizza Kundera, sarà quel che sarà...<br />
Ma la musica, le canzoni costituiscono qualcosa<br />
di più di una semplice colonna sonora che<br />
accompagna la nostra esistenza. In luogo di<br />
starsene tranquille in disparte, come un’ombra<br />
emotiva ma discreta, loro ci entrano dentro, ci<br />
segnano, ci possiedono. E noi ricambiano la<br />
loro seducente invadenza con una fedeltà che<br />
la memoria sigilla con un timbro indelebile.<br />
Passano gli anni, le ore, talvolta solo i minuti,<br />
e dimentichiamo tutto, quello che vogliamo<br />
dimenticare, ma soprattutto quello che non<br />
desideriamo cancellare.<br />
Con un motivo musicale, una canzone, no: è<br />
diverso! Restano in mente ritornelli stupidi, nenie<br />
infantili che sconfiggono il tempo, se la ridono<br />
di lui e di noi. Come se ci provocassero. Succede<br />
addirittura, però, che inventino miracoli<br />
come quando risveglino qualcuno sepolto in un<br />
coma. Come il pifferaio magico, come il signor<br />
Tamburino di Dylan, il profeta, le canzoni ci<br />
conducono in altri mondi, più sopportabili o<br />
magari consumati da un’intensità così vivida e<br />
allucinata da lasciarci affranti e melanconici,<br />
quando la melodia si squaglia all’improvviso,<br />
quando la musica è finita… Ah, la musica, le<br />
musica<br />
Cultura 113
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/scelti_per_voi<br />
114<br />
canzoni. Parlano a tutti, a chi conosce le note,<br />
a chi sa suonare uno strumento, ma anche a chi<br />
non sa nemmeno leggere o parlare. Sono figlie<br />
di un’arte sfuggente e nel contempo immediata,<br />
diretta. Basta lasciarle entrare dentro di noi, ed<br />
occorre poco in verità, ed il gioco è fatto. Non<br />
si può tappare le orecchie, sempre. Ciò non significa<br />
che non occorra distinguere, scegliere…<br />
Oggi, d’altronde, è sempre più difficile. L’iperspecializzazione<br />
uccide. Ci sono generi, sotto<br />
generi, etichette varie… E, su questo Kundera<br />
ha ragione, musica ovunque… Bella, brutta,<br />
stupida… C’è chi afferma, dati alla mano, che<br />
serva a aumentare le vendite. Mah, scrivere di<br />
musica, poi , e qui concludo, non è facile e io<br />
non faccio nemmeno il musicista. Prenderò un<br />
cd di quelli che mi capitano sotto mano e ne<br />
dirò qualcosa. Io ci provo, a buon intenditor…<br />
Titolo della rubrica: Ongaku. Un premio speciale<br />
a chi indovina da dove viene il nome….<br />
Forza, uno, due, tre…<br />
Eileen Rose & The<br />
Holy Wreck<br />
Luna Turista<br />
Freeworld, € 19,90<br />
Un buon pusher deve<br />
essere necessariamente anche un buon psicologo.<br />
Guarda negli occhi il suo cliente e subito<br />
ne intuisce lo stato d’animo, capisce di cosa<br />
ha bisogno. È per questa ragione che il mio<br />
abituale spacciatore, dopo aver colto una certa<br />
titubanza nella mia espressione, ha estratto dal<br />
suo cappello magico il coniglio d’Alice. Un<br />
vero colpo di teatro. Io indugiavo, temporeggiavo,<br />
tiravo in lungo… Farfugliavo subdole<br />
domande: ma chi è? Sarà brava come Mary<br />
Gauthier? Come Lucinda Williams ? (i miei<br />
due massimi riferimenti country rock al femminile,<br />
se vi passa per le mani uno dei loro<br />
cd , acquistatelo, garantisco io…). Insomma,<br />
fattomi coraggio, schiarendomi la voce, ho<br />
osato porre il quesito che mi attanagliava e<br />
mi lasciava dubbioso sulla sua offerta: ma chi<br />
diavolo (l’espressione non era proprio questa,<br />
ma pazienza) è Eileen Rose e the holy wreck<br />
(traduciamo, il santo relitto)? Lui, il pusher,<br />
non ha perso il suo tradizionale self-control.<br />
Sporgendosi leggermente oltre una piccola<br />
montagna di cd che lo separava fisicamente<br />
da me , mi ha dolcemente intimato come<br />
l’arcangelo Gabriele: “leggi!”. Nel mentre, con<br />
gesto leggiadro, mi squadernava sotto il naso<br />
la bibbia di tutti i rockettari rispettabili, e cioè<br />
Il buscadero (per l’esattezza, n. 316, pg. 76/77<br />
). Apprendo che la nostra, si fa per dire, Eileen<br />
pare che sia diventata una che gli idolatri<br />
definiscono come un’artista di culto. Quale,<br />
il culto intendo, non si sa… Però, indubbiamente,<br />
brava è brava. La si sente cantare, bella<br />
ruspante e carica di sana energia rock, in un<br />
cd tutt’altro che monotono o ripetitivo. Piace<br />
il suo suono diretto, immediato, che entra<br />
subito dentro. Partite già dalla canzone che<br />
apre il cd e che scorre via, rapida ed essenziale:<br />
“Simple touch of the hand”. Non mancano,<br />
poi, canzoni toccanti, intese come Silver<br />
Ladly, una ballatona che strappa il cuore. Un<br />
bel disco, rock country, nel quale si possono<br />
respirare atmosfera musicali anni sessanta.<br />
Ci sarebbe poi da fare un lungo e interessante<br />
discorso su donne e rock… Ma questa è<br />
un’altra storia, un’altra questione, per un’altra<br />
occasione… Chissà… Nel frattempo godetevi<br />
il cd di Eileeen , nel mentre io non so darmi<br />
pace dell’aver dubitato della sapienza del mio<br />
pusher, ve lo consiglio. Dimenticavo: il titolo<br />
dell’album è in italiano, non chiedetemi il<br />
perché. E’ semplice: non lo so, punto.
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura<br />
ARRIVATI_IN_REDAZIONE<br />
Camilla Giusberti, Sara Cillani<br />
Mami Education. Un nido da raccontare<br />
Ed. Nuove Carte, Ferrara 2009, pp. 62, € 9,00<br />
Un luogo è la sua stroia. È un’alchimia irripetibile dei vissuti, delle<br />
emozioni delle relazioni che lo hanno generato e che continuamente<br />
lo ridefiniscono. Per questo raccontare un’esperienza significa<br />
radicare, ricercare, connettere, comporre idee, memorie, progetti,<br />
speranze. Il testo pooggia su questi prtesupposti e traccia una mappa<br />
pedaogica di un servizio educativo per la prima infanzia. Si offre<br />
come spunto riflessivo per socializzare una proposta, con l’intento<br />
di stimolare un dialogo a più livelli di interesse, sulle scelte, sui processi<br />
espliciti ed impliciti alla sua strutturazione...<br />
AA.VV<br />
Etiche dell’impegno<br />
in Paideutika<br />
Quaderni di formazione e cultura - 10 Anno V 2009<br />
Ibis Edizioni, Pavia 2009, pp. 157, € 16,00<br />
La figura fenomenologica dell’engagement appartiene, com’è noto,<br />
all’atmosfera culturale europea che si afferma con pienezza all’indomani<br />
della seconda guerra mondiale. E se è vero che essa ha molto a<br />
che fare con gli ambienti parigini del tempo -Sartre su ogni altro – è<br />
altresì vero che per molto tempo, dagli anni Cinquanta in avanti,<br />
l’intellettuale engagé ha rappresentato l’idea che non vi fossero<br />
compiti specifici e/o saperi specialistici che non esigessero una presa<br />
di posizione più generale sul mondo...<br />
Caritas/Migrantes<br />
Immigrazione. Dossier Statistico 2009.<br />
XIX Rapporto sull’immigrazione<br />
Idos, Roma 2009, pp. 512, € 20,00<br />
E’ vero che una più adeguata conoscenza non sempre garantisce un<br />
miglior atteggiamento e che questo circuito virtuoso può essere interrotto<br />
da carenze personali e da interessi di gruppo. Sempre, però,<br />
la mancanza di conoscenza produce seri danni. Il rapporto affronta<br />
il fenomeno migratorio dal punto di vista internazionale, nazionale<br />
e dei contesti regionali, fornendo informazioni sulle presenze e sulle<br />
caratteristiche del soggiorno degli immigrati...<br />
Ezia Palma<br />
La stanza della sabbia.<br />
Un caso clinico di Sandplay Therapy.<br />
Morgana Ed., Firenze 2008, pp. 112 , € 15,00<br />
L’autrice “narra” un caso clinico trattato con il Gioco della sabbia. È<br />
la storia di Vi., un bambino di otto anni che aveva dolorosamente<br />
imparato a mimetizzare le proprie “antenne” ritirandosi nella custodia<br />
protettiva di un vicolo cieco abitato dalla paura. La vicenda di<br />
una coscienza che lentamente, a partire dal microcosmo dei giochi,<br />
si apre sul mondo, e impara a non avere paura...<br />
Cultura 115
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/arrivati_in_redazione<br />
116<br />
Ignazio Sanna<br />
Dignità umana e dibattito bioetico<br />
Ed. Studium, Roma 2009, pp. 254, € 22,00<br />
Nell’orizzonte della questione antropologica, il volume si confronta<br />
con il fenomeno della rivoluzione biotecnologica, che sta modificando<br />
i modi del pensare e dell’agire e, quindi, del vivere. Di fronte<br />
a questo fenomeno il cristiano non può non porsi la domanda su<br />
fin dove la ricerca scientifica che sfocia in una nuova cultura sia<br />
autorizzata a violare i confini della natura umana, ignorando il<br />
principio fondamentale per il quale se tutto è permesso all’uso della<br />
scienza per l’uomo, non tutto è permesso all’uso dell’uomo per la<br />
scienza...<br />
Elena Pulcini<br />
La cura del mondo.<br />
Paura e responsabilità nell’età globale.<br />
Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 297, € 25,00<br />
Se il mondo è un insieme plurale di esseri singolari - come scandisce<br />
una nota formula filosofica -, un’etica all’altezza del fenomeno<br />
che chiamiamo “globalizzazione” non potrà che far valere sino in<br />
fondo le buone ragioni di questa coappartenenza, intervenendo sugli<br />
sviluppi disturbati, tipici della modernità e dei suoi esiti ultimi,<br />
e caratterizzati dalla cattiva polarità tra ossessione dell’Io e ossessione<br />
del Noi: individualismo illimitato nella sua versione tarda, narcisistica,<br />
e comunitarismo immunitario, che trova difensivamente<br />
alimento nel bisogno di un legame sociale ormai eroso...<br />
Rossana Colli, Monica Colli<br />
Il mio diario delle emozioni.<br />
Comprendere e esprimere rabbia, paura, tristezza e gioia<br />
Edizioni Erickson, Gardolo (TN) 2009, pp. 96, €, 17,00<br />
Un diario dove scrivere le proprie riflessioni, annotare le proprie<br />
sensazioni, disegnare i propri stati d’animo. Il libro è diviso in 4<br />
capitoli, ognuno dei quali tratta un’emozione diversa: rabbia, paura,<br />
tristezza, gioia. Ogni capitolo presenta attività diverse: letture che<br />
parlano dell’emozione presa in considerazione, ascolto delle proprie<br />
emozioni, scrivere delle proprie emozioni e racconti tratti dalla<br />
mitologia.<br />
Anna M. Chilosi, Barbara Cerri<br />
Diprassia verbale.<br />
Attività di ricombinazione<br />
vocalico-sillabica creativa<br />
Edizioni Erickson, Gardolo (TN) 2009, pp. 320, € 21,00<br />
I bambini con disprassia verbale hanno gravi difficoltà a produrre<br />
sequenzialmente suoni e sillabe. Questo libro propone un percorso<br />
di esercizi e attività per il trattamento della disprassia verbale, basato<br />
su un metodo elaborato dalle stesse autrici sulla base della loro esperienza<br />
clinica. Dopo una introduzione teorica sulla definizione, le<br />
caratteristiche cliniche e i possibili trattamenti della disprassia verbale,<br />
le autrici presentano il metodo della ricombinazione vocalico-sillabica<br />
creativa e propongono numerose schede da utilizzare con i bambini...
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/arrivati_in_redazione<br />
Lorenzo Luatti (a cura di)<br />
Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline<br />
Carocci, Roma 2009, pp. 310, € 28,50<br />
Che cosa vuoi dire “educare alla cittadinanza” alla luce dei nuovi<br />
fenomeni connessi alla globalizzazione, quali l’annullamento della<br />
distanza dovuta a rapidi mutamenti sul piano sociale, economico,<br />
culturale, politico, tecnologico, l’aumento delle <strong>migrazioni</strong> dal Sud<br />
al Nord, la nascita di nuovi fondamentalismi? L’educazione civica del<br />
passato, mirante a costruire l’identità nazionale, si apre a nuovi obiettivi.<br />
Si tratta, infatti, di continuare a garantire la coesione sociale,<br />
ma nel quadro di una nuova complessità dovuta alle diverse culture<br />
dell’immigrazione. Formare “cittadini del mondo”, anziché una sconsiderata<br />
utopia dal sapore illuministico, diviene oggi una necessità.<br />
AA. VV.<br />
Adolescenti violenti.<br />
Contro gli altri, contro se stessi<br />
Ponte alle Grazie, Milano 2009, pp. 216, € 15,00<br />
Il “mestiere” dei giovani consiste nel rifiutare il mondo e la cultura<br />
degli adulti. La moderna terapia familiare ci insegna che la violenza<br />
non va vista come qualcosa di assurdo e di per sé “cattivo”: rabbia e<br />
aggressività sono modi con cui gli adolescenti cercano di comunicare,<br />
di dirci qualcosa. D’altra parte, nelle cronache degli ultimi anni<br />
termini come bullismo, baby gang, “branco”, emo, autolesionismo<br />
e suicidio ricorrono sempre più spesso in riferimento ai ragazzi...<br />
Daniela Del Boca, Alessandro Rosina<br />
Famiglie sole.<br />
Sopravvivere con un welfare inefficiente<br />
Il Mulino, Bologna 2009, pp. 137, € 11,50<br />
Le grandi democrazie europee da tempo aiutano le famiglie a crescere<br />
i giovani, assistere gli anziani e a creare ricchezza favorendo il lavoro<br />
delle madri e di tutte le donne. Questa tradizione non esiste in Italia:<br />
le famiglie sono sempre più sole, prive di quel sostegno che migliorerebbe<br />
la qualità della vita e favorirebbe lo sviluppo. Del resto rispetto<br />
agli altri paesi europei qui sono maggiori le disuguaglianze tra uomini<br />
e donne, e rilevanti le ingiustizie nei rapporti tra le generazioni. Anche<br />
le disparità territoriali si sono recentemente acuite...<br />
Eugenio Tornaghi<br />
Il debito dell’ingegnere<br />
Todaro Editore, Lugano 2009, pp. 220, € 15,00<br />
Estate 1994. Antonio Cavenago, appena laureato, deve assolvere il<br />
servizio di leva obbligatorio presso la Caserma Berghinz. Il giorno<br />
prima del suo arrivo Giorgio, un giovane soldato, si è suicidato. Dicembre<br />
2005. Durante un incontro casuale con un ex commilitone,<br />
Antonio Cavenago si rende conto che probabilmente l’inchiesta condotta<br />
sul presunto suicidio è giunta a conclusioni sbagliate: Giorgio<br />
non si è tolto la vita. L’ingegnere, che già dodici anni prima si era trovato<br />
coinvolto nel caso, inizia una sua indagine a ritroso nel tempo...<br />
Cultura 117
<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_1/cultura/arrivati_in_redazione<br />
118<br />
Matteo Bonazzi<br />
Scrivere la contingenza.<br />
Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan<br />
Edizioni ETS, Pisa 2009, pp. 309, € 24,00<br />
Quale rapporto intercorre oggi tra la filosofia e la psicoanalisi? Chi<br />
parla quando è l’inconscio a dire al di là di ciò che intendiamo<br />
dire? Si tratta ancora di un soggetto? E in che modo tutto ciò provoca<br />
la filosofia e il suo pensiero? Sono queste le domande che portano<br />
il presente volume a ripercorrere l’insegnamento di Jacques<br />
Lacan dai suoi «esordi psichiatrici» agli «esiti teatrali»...<br />
François Regnault<br />
Conferenze di estetica lacaniana<br />
e lezioni romane<br />
Quodlibet, Macerata 2009, pp. 200, € 20,00<br />
Se c’è un’etica della psicoanalisi, come viene affermato in una di<br />
queste conferenze, non c’è estetica della psicoanalisi. Si rimarrà allora<br />
sorpresi che il titolo supponga che ci sia almeno un’estetica lacaniana.<br />
Ma il titolo può non implicare neppure questo, ma soltanto<br />
che possa esserci dell’estetica lacaniana. Vale a dire che a partire da<br />
Lacan possiamo orientarci in più modi: nelle questioni dell’arte,<br />
nell’arte di analizzare, nell’antifilosofia e nella catarsi infine, cioè<br />
l’arte di gestire gli affetti, i propri e quelli degli altri.<br />
Paolo Ricca<br />
Giovanni Calvino.<br />
L’altra riforma.<br />
Editrice Morcelliana, Brescia 2009, pp. 200, € 15,00<br />
Paolo Ricca ci invita a fare quello che ogni essere pensante dovrebbe<br />
avere interesse a fare: liberarci dai cliché e dai pregiudizi. Nel caso<br />
di Calvino il primo, e più ingombrante, è quello dello spietato e<br />
freddo riformatore, uccisore del mite e ottimo Serveto...<br />
Danilo Dolci<br />
Banditi a Partinico<br />
Sellerio, Palermo 2009, pp. 444, € 14,00<br />
Danilo Dolci, triestino, si trasferì in Sicilia agli inizi degli anni<br />
Cinquanta. Voleva partecipare in prima persona alla rinascita del<br />
Meridione. Partì, solo, per Trappeto e Partinico, scoprì una miseria<br />
impensabile, una desolazione, un abbrutimento, una ignoranza che<br />
facevano dubitare di stare in Italia. Stava in mezzo alla gente, la<br />
intervistava, la coinvolgeva: fu il primo in Italia a praticare il digiuno<br />
per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e inventò “lo<br />
sciopero alla rovescia”, che consisteva nel lavorare volontariamente<br />
là dove lo Stato era inerte...