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Corpo a corpo. La madre - Pedagogika

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Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

2010_XIV_2 - € 9<br />

<strong>Corpo</strong> a <strong>corpo</strong>.<br />

<strong>La</strong> <strong>madre</strong><br />

Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997<br />

Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559<br />

In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione


Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e<br />

forse più interessante per la sua carica straordinaria<br />

di rottura e radicalità – del Movimento femminista e<br />

le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto<br />

nella percezione che hanno di loro stesse, nelle<br />

attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva<br />

e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni<br />

cogli uomini, ma anche con le altre donne.<br />

Barbara Mapelli<br />

Sette vite come i gatti<br />

Generazioni, pensieri e storie di<br />

donne nel contemporaneo<br />

Prefazione di Carmen Leccardi<br />

Collana POLIS pp. 180, € 16,00<br />

mail: pedagogika@pedagogia.it


Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

anno XIV, n°2<br />

Aprile, Maggio, Giugno 2010


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2<br />

2<br />

Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni<br />

Anno XIV, n° 2 – Aprile/Maggio/Giugno 2010<br />

Direttrice responsabile<br />

Maria Piacente<br />

maria.piacente@pedagogia.it<br />

Redazione<br />

Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida<br />

Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria<br />

Monaco, Liliana Leotta, Cristiana <strong>La</strong> Capria, <strong>La</strong>ura Conti,<br />

Coordinamento pedagogico Coop. Stripes.<br />

Comitato scientifico<br />

Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio<br />

Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi,<br />

Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi,<br />

Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta,<br />

Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea<br />

Melandri, Angelo Villa<br />

Hanno collaborato<br />

Chiara Saraceno, Anna Bravo, Veronica Pravadelli,<br />

Rossana di Silvio, Graziella Bonansea, Giancarla<br />

Codrignani, Fabrizio Chello, Angelo Villa, Francesca<br />

Dionigi, Davide Scheriani, Manuela Fraire, Lella<br />

Ravasi Bellocchio, <strong>La</strong>ura Cuppini, Anais Ginori<br />

Edito da<br />

Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it<br />

Direzione e Redazione<br />

Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) -<br />

Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057<br />

e-mail: pedagogika@pedagogia.it<br />

Sito web: www.pedagogia.it<br />

Responsabile testata on-line<br />

Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it<br />

Progetto grafico/Art direction<br />

Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it<br />

Promozione e diffusione<br />

Fabio Degani, Federica Rivolta<br />

Pubblicità<br />

Clara Bonfante, Daniela Colombo<br />

Registrazione Tribunale di Milano n.187 del<br />

29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45%<br />

ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI<br />

MILANO - issn 1593-2559<br />

Stampa:<br />

Impressionigrafiche S.c.s.<br />

Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350<br />

Distribuzione in libreria:<br />

Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano<br />

Fotografie: stock.xchng<br />

é possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo<br />

della redazione - pedagogika@pedagogia.it<br />

I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio<br />

della Direzione e del Comitato di redazione e<br />

in ogni caso non saranno restituiti agli autori<br />

Questo periodico è iscritto all’Unione<br />

Stampa Periodica Italiana


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/sommario<br />

s o m m a r i o<br />

5 Editoriale<br />

<strong>La</strong> spinta ad esistere<br />

Maria Piacente<br />

../dossier/<strong>Corpo</strong> a <strong>corpo</strong>. <strong>La</strong> <strong>madre</strong><br />

10 Introduzione/introduction<br />

12 <strong>La</strong> pluralizzazione delle figure<br />

materne<br />

Chiara Saraceno<br />

22 Fra maternità<br />

ed emancipazione:<br />

Sibilla Aleramo e Maria<br />

Montessori<br />

Anna Bravo<br />

31 Ruolo materno nelle pratiche<br />

e nelle teorie filmiche<br />

Veronica Pravadelli<br />

40 From mother to mothering<br />

Rossana di Silvio<br />

47 Madri/non madri: una<br />

discussione a partire dal libro<br />

Perché non abbiamo avuto<br />

figli?<br />

Graziella Bonansea<br />

51 Stato interessante<br />

Giancarla Codrignani<br />

56 Eva o la nascita come esilio<br />

Fabrizio Chello<br />

62 <strong>La</strong> sessualità della <strong>madre</strong><br />

Angelo Villa<br />

68 Il lutto della <strong>madre</strong><br />

Francesca Dionigi<br />

74 Mammismo!<br />

Davide Scheriani<br />

81 Disfare la <strong>madre</strong>,<br />

rifare la <strong>madre</strong><br />

Manuela Fraire<br />

88 Di <strong>madre</strong> in figlia.<br />

Storia di un’analisi<br />

Lella Ravasi Bellocchio<br />

../cultura<br />

103 A due voci<br />

Angelo Villa, Ambrogio Cozzi<br />

107 Scelti per voi,<br />

Libri Ambrogio Cozzi (a cura di),<br />

Cinema, Cristiana <strong>La</strong> Capria (a cura di),<br />

Musica, Angelo Villa (a cura di)<br />

116 Arrivati in redazione<br />

../In_breve<br />

119 Uno, nessuno, centomila…<br />

ruoli per l’educatore.<br />

../In_vista<br />

120 <strong>La</strong> libera Università<br />

dell’Autobiografia<br />

3


ABBONARSI è IMPORTANTE<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/<br />

Piano editoriale 2010<br />

...erranze ...migrazioni<br />

<strong>Corpo</strong> a <strong>corpo</strong>. <strong>La</strong> <strong>madre</strong><br />

Internet e nuove tecnologie, relazioni e linguaggi<br />

Frontiere reali, immaginate, immaginarie<br />

Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

Numero di c/c postale 36094233<br />

intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS<br />

via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />

L’abbonamento annuale per 4 numeri è:<br />

€ 30 privati<br />

€ 60 Enti e Associazioni<br />

€ 90 Sostenitori<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il<br />

cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it<br />

Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno<br />

della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al<br />

seguente indirizzo:<br />

Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />

4<br />

Per informazioni: Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - pedagogika@pedagogia.it


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/<br />

<strong>La</strong> spinta ad esistere<br />

Maria Piacente<br />

In questo dossier dedicato alla figura della <strong>madre</strong> vorrei fare una riflessione su<br />

come il divenire <strong>madre</strong> è, quasi sempre, in connessione con il divenire un’opera per<br />

sé. Su come il divenire <strong>madre</strong> ha a che fare con il divenire quel che si è, su come il<br />

destino del divenire <strong>madre</strong> si intrecci, inesorabilmente, con quella parte che ogni<br />

donna che è divenuta <strong>madre</strong> ha dovuto esplorare, a volte solo inconsciamente,<br />

prima di mettere al mondo un essere umano, un figlio, una figlia. E, ancora, su<br />

quanto la misura del desiderio, come spinta incontenibile nello stare al mondo,<br />

debba fare i conti con la brama di “occupare” uno spazio del mondo, nel mondo.<br />

Per fare questo, tra le tante ascoltate, mi viene in aiuto la storia di Belinda: bella<br />

ragazza, occhi azzurri, ciglia nere nere, capelli castani, un po’ olivastra, con qualcosa<br />

di esotico. Forse sarebbe meglio dire una ragazza di una spiccata soggettività.<br />

Forse era quello che la rendeva unica. Unica, come ognuno di noi, certo. Ma ora<br />

stiamo parlando di lei.<br />

Allora, Belinda, poco più che ventenne, stava intraprendendo la strada per divenire<br />

una brava avvocata. Tutte le mattine, insieme ai suoi testi di diritto, cingeva<br />

con l’elastico per i libri anche qualche foglio di appunti, spiegazzato, con dentro<br />

i suoi pensieri notturni scarabocchiati qua e la. Era bella, elegante, corteggiata e,<br />

come si suol dire, con “tutta la vita davanti”. Di mettere al mondo un figlio, lei non<br />

lo sapeva, lo aveva deciso una mattina, guardando fuori dalla finestra dall’aula di<br />

una università. Il suo sguardo, nonostante tutti gli sforzi, non riusciva a spingersi<br />

oltre ad una poderosa e magnifica betulla, che in quella stagione estiva poteva fare<br />

bella mostra delle sue verdi foglie. Nei suoi pensieri, quella mattina, ma anche<br />

quasi tutte le altre, ci stavano anche le arringhe che sognava di fare ad occhi aperti,<br />

quando sarebbe diventata, ormai da li a qualche anno, una brava avvocata, come<br />

sua <strong>madre</strong>, con la differenza che lei si sarebbe, finalmente, occupata degli ultimi.<br />

Si stava avvicinando il periodo delle mestruazioni e Belinda era piuttosto inquieta:<br />

come al solito sarebbero arrivate, uffa ! Niente di nuovo sotto il sole !<br />

Invece di nuovo c’era che Oreste, responsabile delle attività culturali dell’Oratorio<br />

della Parrocchia più grande, stava organizzando un’uscita nel Pavese con i<br />

ragazzini dell’oratorio, quelli che in comune chiamavano “Casi Sociali”; insomma<br />

avrebbero fatto una gita fuori porta con intenti educativi a favore di tutta la famiglia.<br />

E poi c’era da discutere di un mondo di cose: prima di tutto di politica, visti<br />

i tempi dell’epoca “I favolosi anni ‘70”; volendo in quel periodo c’era un gran da<br />

fare, ma Belinda amava sentirsi indispensabile, unica; e così, sempre alle prese con<br />

queste “ossessioni”, voleva fare delle cose che nessuno aveva voglia di fare. Alla<br />

fine le proposte di Don Gino, i pomeriggi passati a discutere su chi è più ultimo<br />

degli ultimi ebbero la meglio e Belinda si propose come accompagnatrice dei “Casi<br />

Sociali” dell’Oratorio. Va detto, però, che sulla sua decisione molto aveva pesato la<br />

presenza di Oreste, che aveva quel non so che: un mix di sacro e profano che alla<br />

5


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/editoriale<br />

6<br />

fine lo rendeva particolarmente affascinante.<br />

Quell’anno trascorreva davvero bene, era stato bello. Il libretto degli esami si<br />

andava riempendo di buoni voti. L’amore si stava svelando. A Belinda piaceva<br />

cantare a squarciagola sul pullman, insieme ai ragazzini accompagnati, le solite<br />

canzoni da gita fuori porta.<br />

A Belinda però mancava qualcosa... Qualcosa mancava, come quando un bimbo<br />

o una bimba piccola, che sanno di poterlo chiedere e non avendo bisogno di<br />

nulla di contingente o di particolare, chiedono alla mamma o al papà : “dammi<br />

qualcosa”. Ed il papà o la mamma danno loro qualcosa, ben sapendo che che non<br />

è quello che manca al loro bambino.<br />

Nei “favolosi anni ‘7O”, Belinda, taglia 44, altezza ragguardevole, nel recarsi<br />

in università indossava un bell’abito color corallo, un robe-manteau di crepella,<br />

tagliato in sbieco che accompagnava i suoi passi muovendosi sinuoso e catturando<br />

gli sguardi birichini dei compagni più sfacciati. Ciò che metteva la ragazza in imbarazzo,<br />

come in quella celebre foto di Ruth Orkin, American girl in Italy.<br />

A Belinda però non interessava. Belinda aspettava qualcosa. Cosa vuole Belinda?<br />

Cosa manca alla nostra poco più che ventenne ragazza?<br />

Passa un po’ di tempo e qualcosa succede. Non importa sapere se desiderio e realtà<br />

coincidano, stiano sulla stessa strada. <strong>La</strong> spinta ad esistere per Belinda sembra<br />

in ogni caso, in quel particolare momento della sua vita, che possa avere luogo solo<br />

attraverso la realizzazione di una sua particolare ed unica opera d’arte e cioè quella<br />

di avere una bambina o una bambino.<br />

Il mettere al mondo il figlio fantasticato diventa in quel momento per Belinda il<br />

modo di mettere al mondo il mondo. Anzi, di “creare” in parte il mondo facendolo<br />

abitare da una creatura viva: un ponte tra natura e cultura, un esserci ed estendere<br />

di più la propria presenza.<br />

Ora questa opera d’arte, questo divenire <strong>madre</strong> è intriso di una notevole cifra<br />

di investimento. Sotto molti profili, però. Vorrei per una volta sfatare il mito della<br />

<strong>madre</strong> oblativa e amorosa, della <strong>madre</strong> che tutto dà e nulla chiede. Il desiderare la<br />

maternità, il farsi “fare” <strong>madre</strong> da un figlio o da una figlia - ed in questo secondo<br />

caso, sappiamo quanto è più difficile il rapporto che in seguito si instaurerà con<br />

la figlia - ha una potente valenza generatrice di un rapporto unico, irripetibile e<br />

singolare, investito anche narcisisticamente di tutto ciò che in quel particolare momento<br />

della propria vita si desidera. E credo che non ci si debba scandalizzare.<br />

Quello che dico corrisponde al vero, se per verità intendiamo gli scambi autentici<br />

che in molti incontri noi donne abbiamo avuto con altre donne, con le quali<br />

abbiamo parlato di maternità; e si è ripetuto e si ripeterà ancora molte volte. Tra<br />

donne si parlava una volta e ancora si parla tanto. Al di là delle molte tipologie di<br />

madri amorose o delle Medee che abitano il mondo, quando le madri parlano tra<br />

di loro, sanno della potenza che le parole hanno. Sanno cosa vuol dire una <strong>madre</strong><br />

quando, rivolta all’altro ed indicando il/la proprio/a figlio/a, con una punta di<br />

sussiego dice: “guarda cosa ho fatto, guarda di cosa sono stata capace!”. <strong>La</strong> spinta<br />

ad esistere - dicevo - che, con la nostra venuta al mondo strutturalmente possedia-


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/editoriale<br />

mo, ci porta oltre il desiderio che prima ancora di noi ci ha portato al mondo. Un<br />

desiderio con il quale fare i conti un'eros che ci porta altrove.<br />

E questo altrove può essere o non essere l’altrove che si chiama fare un figlio.<br />

è il desiderio che ci porta altrove e che ci fa divenire quello che siamo. E che non<br />

possiamo non ascoltare. è la ricerca di quella felicità, di quello stare al mondo che<br />

la differenza sessuale ed il pensiero della differenza lasciano anche attraverso alle<br />

donne la possibilità di generare un altro essere umano. Di fare la <strong>madre</strong> o di disfare<br />

la <strong>madre</strong>. Allora non andrei più alla ricerca esasperata del significato dell’essere o<br />

del non essere <strong>madre</strong>, di quando e di quanto esserlo.<br />

In un recente libro, uscito in Francia ma non ancora tradotto in Italiano, di<br />

Elisabeth Badinter dal titolo Le conflit, la femme e la mere la filosofa francese esplora<br />

la profonda crisi tra l’identità della donna contemporanea, combattuta tra il desiderio<br />

di maternità ed il bisogno di realizzarsi nella sua professione e la difficoltà<br />

di tenere insieme figli e lavoro. Una ipotesi potrebbe essere oggi quella di non fare<br />

più figli... Io non la metterei proprio così. Oggi le donne, in Europa, in Occidente,<br />

possono costruire tante case. Che le costruiscano! A lungo ne ha parlato un’altra<br />

grande filosofa Luce Irigaray. Che le costruiscano, alla giusta distanza dal Padre e<br />

all’inevitabile ombra della Madre. Di una <strong>madre</strong> che saprà rinunciare all’onnipotenza<br />

del materno, questione cruciale in particolare per la bambina per la quale il<br />

primo oggetto d’amore è dello stesso sesso.<br />

Farsi mettere al mondo dal proprio figlio/a, farsi <strong>madre</strong>, ha che fare con la<br />

potenza dell’indicibile. Con la ricerca della felicità, con il mistero della vita, con la<br />

vulnerabilità dell’umano, con la bellezza e con le arti. Con quel sapere dell’anima<br />

che la condizione umana ci ha trasmesso ancora prima della nostra nascita e che<br />

dovrebbe farci anche accettare la sofferenza ed il dolore insiti nella vita stessa, che<br />

amore, inteso come a-mors, mancanza di morte, ci spinge a vivere.<br />

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<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/<br />

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<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/<br />

Stato interessante<br />

di Giancarla Codrignani*<br />

“Stato interessante”, peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti,<br />

nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per<br />

suo dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate<br />

dal verbo “nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le<br />

donne non hanno goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente<br />

all’atto del matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di<br />

diritto patriarcale - quella del marito.<br />

Donna, come ti chiami? - Non lo so.<br />

Quando sei nata, da dove vieni? - Non lo so.<br />

Perche’ ti sei scavata una tana sottoterra? - Non lo so.<br />

Da quando ti nascondi qui? - Non lo so.<br />

Perche’ mi hai morso la mano? - Non lo so.<br />

Sai che non ti faremo del male? - Non lo so.<br />

Da che parte stai? - Non lo so.<br />

Ora c’e’ la guerra, devi scegliere. - Non lo so.<br />

Il tuo villaggio esiste ancora? - Non lo so.<br />

Questi sono i tuoi figli? - Sì.<br />

Wanda Szimborska<br />

Per parlare di maternità non solo in senso biologico si può partire di lontano,<br />

dai principi identitari codificati nel linguaggio dai fondatori delle istituzioni occidentali<br />

e che risultano immediatamente sessuati: proprio del padre è il patrimonium,<br />

della <strong>madre</strong> il matrimonium. L’uomo si riconosce nel potere proprietario, che<br />

comprende anche il possesso di una donna che gli dia dei figli legittimi (pare giusto<br />

pensare uxorem ducere?); mentre il potere della donna finisce in un ruolo che la<br />

subordina al marito. Infatti nel diritto romano l’adulterio è reato per la donna, perché<br />

la sua infedeltà può introdurre un individuo spurio a usurpare il patrimonio;<br />

il rigore della legge si perpetuerà fino all’ipocrita interpretazione ottocentesca che<br />

vuole la figura materna senza ombra di macchia, mentre all’uomo dà per scontata<br />

una natura incontinente e lo penalizza solo quando commetta “ingiuria grave” nei<br />

confronti della famiglia portando l’adulterio sotto il tetto coniugale. Così fino al<br />

1968, anno della depenalizzazione in Italia dell’adulterio.<br />

Altre tracce connotano la costruzione della famiglia come struttura gerarchica<br />

che subordina la donna-<strong>madre</strong> al principio riproduttivo stabilito dall’uomo, che<br />

Aristotele certifica essere il solo protagonista della riproduzione, attivo rispetto alla<br />

passività del contenitore femminile. I figli, quindi, secondo il diritto, rimasero definiti<br />

da gerarchie di conservazione patrimoniale: legittimi e illegittimi, primogeniti<br />

Dossier 51


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/stato_interessante<br />

52<br />

e cadetti, maschi e femmine. Il principio gerarchico comporta la discriminazione:<br />

il bastardo non diventa erede e per giunta nasce socialmente reietto; chi nasce per<br />

primo eredita titoli e beni anche se è meno capace rispetto agli altri; il padre può<br />

amare di più la figlia femmina, ma la dà ugualmente in moglie a prescindere dal<br />

suo gradimento. <strong>La</strong> famiglia è, per lunga tradizione, la struttura sociale più conservatrice<br />

e, nonostante l’evolversi della storia, il paterfamilias, che non è più il padrone<br />

della familia romana formata dall’insieme dei consanguinei e dei servi, neppure<br />

nel codice napoleonico lascia libera la donna, giuridicamente così incapace da<br />

ricevere un “curatore al ventre” se accade che, incinta, rimanga vedova. Il nuovo<br />

diritto di famiglia italiano (1975) ha eliminato la formula della “patria potestà”<br />

sostituendola con l’autorità genitoriale, ma ne resta tuttora difficile l’applicazione<br />

integrale, se è vero che l’espressione viene tuttora usata anche sulla stampa e nei<br />

tribunali alcuni giudici, vittime della propria appartenenza di genere, solidarizzano<br />

con l’autorità maritale.<br />

Ma è il rifiuto della maternità non voluta che fa comprendere quanto poco la<br />

donna sia padrona del suo <strong>corpo</strong> “destinato” a procreare. E’ evidente che, anche per<br />

chi ritenesse l’embrione un insieme cellulare irrilevante, abortire non è una “libera<br />

scelta”. Le donne che ricorrono all’aborto, qualunque giudizio esprimano sull’incipiente<br />

gravidanza, sono donne che hanno subito una lesione al loro desiderio (che<br />

finora non rappresenta in alcun modo una petizione di diritto) di non essere messe<br />

incinte; e poco importa se la causa è uno stupro di rapina o un’esuberanza maritale.<br />

Soprattutto da quando esistono i contraccettivi (pratica preventiva studiata già dai<br />

medici antichi e dalle streghe condannate al rogo), appare chiaro che avere (o non<br />

avere) un figlio per la donna non ricade sotto la categoria del diritto. Fino a pochi<br />

decenni fa la ragazza che “cadeva nel peccato” veniva caritatevolmente cacciata di<br />

casa perché la trasmissione della vita era virtuosa solo se produceva figli legittimi.<br />

Oggi non è più così; ma la maternità è tutto, meno che un diritto. Tanto è vero<br />

che, anche per l’operazione contrapposta all’aborto, la fecondazione assistita, sono<br />

necessarie leggi non solo che la consentano ad una coppia richiedente negandola<br />

alla single (a cui non si può vietare di essere ragazza-<strong>madre</strong>, ma secondo prassi<br />

“naturali” che, forse, ad una lesbica possono ripugnare), ma anche impediscano<br />

all’uomo che accetta la pratica eterologa di rifiutare il riconoscimento del figlio<br />

“non suo”.<br />

Che cosa mai significherà, pensando il giure al femminile, l’espressione habeas<br />

corpus? Norme tradizionali che intendevano lo stupro “reato contro la morale”<br />

e addebitavano il “debito coniugale” alla sola donna?<br />

Si possono comprendere le ragioni che impediscono il riconoscimento della<br />

maternità come potere: se accadesse, essendo quello riproduttivo - almeno per ora -<br />

il potere più grande, le donne potrebbero fare tutto quello che vogliono. Il mondo<br />

che fin qui ha gestito tutte le categorie dei poteri non può ammetterlo, anche se,<br />

per la verità, si apre un’ulteriore questione: se sia vero che l’esperienza femminile,<br />

pur vissuta in termini di sottomissione, abbia consentito alle donne di avere un<br />

giudizio totalmente altro della categoria “potere”. Infatti, finora, nessuna <strong>madre</strong>,


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/stato_interessante<br />

mai, ha avanzato questo riconoscimento.<br />

“Stato interessante”, dunque; peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti,<br />

nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per suo<br />

dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate dal verbo<br />

“nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le donne non hanno<br />

goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente all’atto del<br />

matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di diritto patriarcale - quella del<br />

marito. <strong>La</strong> questione identitaria mi appassiona poco perché, strettamente intesa,<br />

porta al nazionalismo; tuttavia mi ha sgomentata, ai tempi della guerra in Bosnia,<br />

pensare che una serba, sposata ad un bosniaco e diventata bosniaca per matrimonio,<br />

poteva essere stata violentata da un serbo perché generasse un figlio serbo in<br />

seno all’etnia bosniaca.<br />

Dentro le identità rientrano anche i cognomi. Sembra fanatismo femminista<br />

l’ipotesi di scegliere tra due denominazioni della famiglia; ma è interessante notare<br />

come in Islanda i cognomi della donne evidenzino il padre (il suffisso -dottir significa<br />

“figlia di”), mentre in Francia, un tempo non così lontano, usava chiamare una<br />

signora sposata “madame François Mitterand” con anche il nome di battesimo del<br />

marito; in Spagna la donna mantiene il suo cognome (e lo trasmette ai figli) ma<br />

con la preposizione “de” che ribadisce il rapporto possessivo; e in Italia dicevamo<br />

Maria Rossi “in” Bianchi a indicare il suo ingresso in un’altra famiglia.<br />

E’ evidente che la storia rivela molte cose, anche che non esiste una bacchetta<br />

magica per fare come se non fossero accadute. Tuttavia quello “stato interessante”<br />

persiste nella sfera degli affetti e non comanda le strutture sociali. Esaltiamo<br />

la grandezza sublime della donna-<strong>madre</strong>, ma la riteniamo una cattiva lavoratrice<br />

perché può restare incinta. Se dobbiamo aiutare la famiglia, ricorriamo ad un’agevolazione<br />

fiscale di qualche euro, ma non rendiamo obbligatori quei servizi che,<br />

dal nido all’assistenza domiciliare agli anziani, sono necessari perché la donna possa<br />

avere la libertà di esercitare il diritto al lavoro. E così le donne non fanno i figli che<br />

vorrebbero, non li fanno da giovani, spesso non li fanno proprio. D’altra parte Elisabeth<br />

Badinter 1 sostiene la presenza delle chidless (o childfree) che stanno costruendo<br />

una nuova identità femminile: “Sono le prime donne nella storia dell’umanità<br />

a riflettere serenamente sulle implicazioni e le conseguenze della maternità. E si<br />

astengono”.<br />

Discutibile; ma gli uomini non riflettono sulla qualità del futuro che li aspetta.<br />

Eppure il tempo per prevedere e prevenire non è molto: non solo la scienza ha<br />

predisposto il congelamento del materiale riproduttivo, la fecondazione in provetta<br />

e si cimenta con la costruzione dell’utero artificiale, ma studia anche l’autofertilizzazione<br />

femminile. Le scuole di pensiero si danno a immaginare: per qualcuna il<br />

maschio potrebbe diventare superfluo. Indipendentemente dalla fantascienza, fecondazione<br />

assistita e pillola abortiva ridomandano “di chi è il <strong>corpo</strong> della donna?”,<br />

che è un poco come chiederlo al militare quando “la patria” si appropria di quello<br />

1 E.Badinter, Le conflit: la femme et la mère, Flammarion, 2009<br />

Dossier 53


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del maschio che ha giurato. Solo che i padri non si domandano nulla, mentre alle<br />

donne restano le soluzioni dei semi-liberi, dei servi: come l’aborto non costituiva<br />

problema - nonostante la violazione della legge che lo puniva - purché restasse<br />

clandestino, così se una donna oggi vuole soddisfare la sua più che legittima esigenza<br />

di gravidanza, può andare dove la pratica è consentita.<br />

Gli antichi - tutti gli antichi, anche in Africa o in America <strong>La</strong>tina - danno alla<br />

terra il nome di <strong>madre</strong> e si conservano simbolicamente i miti che fondano ogni genere<br />

di vita sul materno. Che non è la stessa cosa del femminile. Il divino, il sacro,<br />

le religioni e le tradizioni - nate con il sigillo maschile - onorano il femminile in<br />

quanto materno. Sul femminile l’ambiguità domina sovrana: “donna dice danno”,<br />

Eva è la <strong>madre</strong> dei viventi responsabile del peccato con lei connaturato all’umano,<br />

Pandora ha aperto agli umani il vaso dei mali; la stessa <strong>madre</strong> del dio cristiano incarnato<br />

diventa un idolo nella sublimazione irrevocabilmente maschile della vergine-<br />

<strong>madre</strong>. Ma la <strong>madre</strong>-terra subisce violenza, come le donne, che, anche quando<br />

erano dee, per secoli hanno partorito bambini e bambine non per sé, ma per la<br />

violenza voluta da una patria, da un mercato, dalla compravendita dei loro corpi.<br />

Anche per i padri, forse, oggi è ora non di limitarsi a dare alle donne l’omologazione<br />

al proprio modello: visto che nessuno sa bene che cosa sia la morte, perché non<br />

farsi corresponsabili della vita, che abita anche il loro <strong>corpo</strong> nella libertà?<br />

* Scrittrice, giornalista, politica, intellettuale, impegnata nel movimento femminista.


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Dossier<br />

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74<br />

Mammismo!<br />

<strong>La</strong> “sindrome del bamboccione”<br />

ha rilievo clinico?<br />

Una riflessione semiseria sulla centralità della figura materna nel sistema familiare<br />

contemporaneo. Scomodati illustri: Carl Gustav Jung, Charles Baudelaire,<br />

Erich Fromm, Aldo Busi, Piero Chiambretti e tanti altri…<br />

di Davide Scheriani*<br />

“Nella città dove sono nato vivevano due donne, <strong>madre</strong> e figlia, che camminavano<br />

nel sonno. Una notte, mentre il silenzio avvolgeva la terra, le due donne, camminando<br />

e dormendo, s’incontrarono nel giardino velato di nebbia leggera.<br />

E la <strong>madre</strong> parlò, e disse:<br />

-<br />

-<br />

Finalmente, nemica mia, finalmente! Tu che hai distrutto la mia giovinezza,<br />

tu che hai costruito la tua vita sulle rovine della mia! Potessi ucciderti!<br />

E la figlia parlò, e disse:<br />

Donna odiosa, vecchia ed egoista! Tu che ti ergi tra me e la libertà! E vorresti<br />

che la mia vita fosse un’eco della tua esistenza sfiorita! Vorrei che tu fossi morta!<br />

In quell’istante cantò un gallo, ed entrambe si svegliarono.<br />

Dolcemente, la <strong>madre</strong> disse:<br />

- Sei tu, tesoro?<br />

E dolcemente la figlia rispose:<br />

1<br />

- Sì, cara”<br />

Kahlil Gibran, Il folle<br />

“C’è la <strong>madre</strong> a pezzi, logorata dalla deriva del figlio, che accenna ai presunti effetti<br />

dei drammi coniugali: è la nostra separazione che l’ha… da quando è morto suo padre<br />

lui non è più… C’è la <strong>madre</strong> umiliata dai consigli delle amiche i cui figli invece vanno<br />

bene o che, peggio ancora, evitano l’argomento con una discrezione quasi insultante…<br />

[…] C’è quella che non ne fa una questione di persone, ma inveisce contro la società che<br />

si sgretola, l’istituzione che va a rotoli, il sistema che è marcio, la realtà, insomma, che<br />

non si adatta ai suoi sogni… C’è la <strong>madre</strong> furiosa con il proprio figlio: questo ragazzino<br />

che ha tutto e non fa niente, questo ragazzino che non fa niente e vuole tutto, questo<br />

ragazzino per cui abbiamo fatto di tutto e che non c’è verso che… mai una volta…<br />

non se ne può più! […] C’è la <strong>madre</strong> che teme la reazione del padre: questa volta a mio<br />

marito non andrà giù- […] C’è la <strong>madre</strong> ferrata in psicologia che dà una spiegazione a<br />

1 Kahlil Gibran, Il folle, Mondatori, Milano, 1997, pag.17.


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tutto e si stupisce che non si trovi mai una soluzione a nulla, l’unica al mondo a capire<br />

il figlio, la figlia, gli amici del figlio e della figlia, e che nella sua eterna giovinezza di<br />

spirito (Vero che bisogna saper restare giovani?) si stupisce che il mondo sia diventato<br />

così vecchio, così incapace di comprendere i giovani. C’è la <strong>madre</strong> che piange, ti chiama<br />

e piange in silenzio, e si scusa di piangere… un insieme di pena, di preoccupazione e<br />

di vergogna… A dire il vero tutte provano un po’ di vergogna, e tutte sono preoccupate<br />

per il futuro del figlio.<br />

-Ma che cosa diventerà?-” 2<br />

Eccole, le mamme di oggi. Nevrotiche, preoccupate, sole. Le ricevo quotidianamente,<br />

esercitando la mia professione in ambito istituzionale e privato. Molto di frequente<br />

giungono al colloquio prive di accompagnatori (mariti, figli, padri), eppure<br />

la presenza/assenza di costoro è ridondante nelle loro narrazioni. In alcuni casi, viene<br />

descritta come una mancanza determinante (“Mio marito mi trascura, mio figlio mi<br />

evita”); in altri, invece, si configura come una relazione di tipo vagamente persecutorio…<br />

“Non riesco a staccarmeli di dosso, non ho mai tempo per me”.<br />

Il dibattito sulla centralità della figura materna nel sistema familiare nazionale<br />

contemporaneo ha varcato i confini della ricerca di settore, scagliandosi all’arrembaggio<br />

di una molteplicità di ambiti socio-antropologici e culturali, con i prevedibili<br />

effetti entropici e confusivi che si scatenano in questi frangenti: dai proclami<br />

dell’austero Ministro dell’Economia e Finanza, alle luci della ribalta mediatica nazionale,<br />

affollata di professionisti e sedicenti tali, ansiosi di sfoggiare cardigan color<br />

pastello, spiritose montature d’occhiali e illuminati pareri d’autore.<br />

Sforzandosi dunque di recuperare un’ottica meno compiacente ai dettami nazional-popolari<br />

(datosi peraltro che nemmeno il Festival della Canzone Melodica<br />

Italiana, da poco conclusosi, ha offerto lampanti prove di tenere in adeguata considerazione<br />

l’argomento in questione, preferendogli la “patria” e la “religione”, per<br />

bocca ed ugola di un regale interprete), vediamo cosa ne dicono gli Americani, i<br />

quali, ben si sa, hanno risorse materiali e intellettuali ben più estese delle nostre,<br />

per comprendere il Reale (quella categoria dell’Essere caro a <strong>La</strong>can, non il sopraccitato<br />

bamboccione di savoiarda schiatta, si intenda bene...):<br />

“It’s true Italy has a problem with sons never growing up in their mothers’ eyes. [...]<br />

Mammismo has its roots in the traditional role of the Italian (and <strong>La</strong>tin) woman,<br />

who often felt unfulfilled before career and divorce were options. She thus poured her<br />

love into her children. Over time, the son became a sort of husband to his mother,<br />

without the sexual component.[...] Italians with openly proud relationships with their<br />

mammas include former prime minister Silvio Berlusconi, journalist Paolo Brosio, art<br />

critic Vittorio Sgarbi, author Aldo Busi, comedian Gene Gnocchi, and TV host and<br />

showman Piero Chiambretti” 3 .<br />

Perbacco, nemmeno gli Americani si arrischiano nella traduzione terminologica<br />

2 D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, pp.41-42<br />

3 Raeleen D’Agostino, Global Psyche: Forever Mamma’s Boy, in Psychology Today, Sussex, New York,<br />

Marzo 2008.<br />

Dossier 75


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di una sindrome talmente culture-related da rendere avventato qualsiasi paragone<br />

o generalizzazione categoriale (ne troveremo forse traccia nella prossima edizione<br />

del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”?). Ebbene, a fronte di<br />

tali sconsolanti evidenze, si sarebbe tentati di deporre le armi, arrendendosi all’evidenza<br />

di un trend psicologico, sociale e culturale che non ha precedenti nella storia<br />

moderna o in Paesi diversi dal nostro (rappresentati, va da sé, da ben altri modelli<br />

di homo politicus e televisivus).<br />

“Il codice materno antepone «naturalmente» il figlio a sé e possiede una sconfinata<br />

capacità di sacrificio che ne costituisce la vera grandezza. I padri notoriamente hanno<br />

meno pazienza, si stancano subito, sono meno adattabili e disposti alla rinuncia. Ma la<br />

mentalità educativa femminile contiene in sé anche il principio della sua pericolosità;<br />

se infatti non è fecondata dall’apporto maschile, tende a scivolare nella pericolosa china<br />

dell’annullamento di sé, alimentando nei figli pretese e richieste che rendono eccessivamente<br />

gravosi i rapporti. […]Poiché amare non è mai stato facile, non esistono rapporti<br />

buoni se non a prezzo di qualche fatica da affrontare o rinuncia da accettare. Nella<br />

misura in cui permettiamo che i figli disconoscano questa fondamentale espressione della<br />

giustizia relazionale, essi diventano approfittatori (della bontà, della pazienza, della<br />

comprensione, in ultima analisi dell’amore altrui) e progressivamente «uccidono» il loro<br />

oggetto d’amore. […]Se il dolore provocato interiormente nella mamma dall’eccessiva<br />

fatica della convivenza con il figlio non è ascoltato, se il non poterne più di lui […] non<br />

si traduce in intelligenza del proprio errore, non è possibile dare una svolta ai rapporti.<br />

Il pungolo della disperazione dice di una sofferenza malata, che non è realmente utile<br />

al figlio, di un amore geneticamente modificato, che lo ha reso infecondo. Se proprio le<br />

donne smarriscono l’intima convinzione che ciò che più conta è voler bene, e da mamme<br />

non insegneranno ai figli a non aver paura ad amare, tutto sarà perduto. Il regalo<br />

più bello che esse possono fare al mondo è un figlio capace di voler bene. Chi ci salverà<br />

se le donne, smarrendo il segreto della loro vera grandezza, non testimonieranno più<br />

questa verità?” 4<br />

E’ pur vero, però, che la spinosa questione del mammismo ha coinvolto un<br />

illustre luminare svizzero, in tempi e luoghi non sospetti. Figlio di un pastore protestante<br />

deluso dal matrimonio e con il quale il giovane Jung (ecco svelata l’identità<br />

del “mammone” ante litteram…!) non ebbe un facile rapporto, della <strong>madre</strong> invece<br />

maturò un ricordo più affettuoso: la definì “un’ottima <strong>madre</strong>, enormemente accogliente,<br />

di piacevole compagnia” 5 e non pare sinceramente azzardato rintracciare<br />

una certa influenza di questo vissuto personale sull’evoluzione dell’archetipo materno,<br />

nella ricerca scientifica di uno dei padri della moderna psicoanalisi.<br />

“Poiché il concetto di complesso materno, è tratto dall’ambito della psicopatologia,<br />

esso è sempre associato con quello di danneggiamento e sofferenza. Se però noi lo sottraiamo<br />

all’ambito strettamente patologico per fornirgli una connotazione più ampia e<br />

più ricca, possiamo coglierne anche l’effetto positivo: nel figlio può ad esempio prodursi<br />

4 Osvaldo Poli, Mamme che amano troppo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pp.1-23<br />

5 Maurizio Quilici (a cura di), Onora il padre e la <strong>madre</strong>, Bompiani, Milano 2001, p. 372


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[…] uno sviluppo del gusto e del senso estetico al quale un certo elemento femminino<br />

non nuoce; delle virtù pedagogiche rese perfette dalla capacità femminile d’immedesimazione;<br />

un senso della storia conservatore nel senso migliore del termine, in quanto<br />

ha il culto dei valori del passato […] una pienezza di sentimento religioso che traduce<br />

in realtà l’ecclesia spiritualis; una ricettività spirituale, infine, che rende l’uomo<br />

sensibile alla Rivelazione. […] Abbiamo notato che nella figlia il complesso materno<br />

genera o un’ipertrofia del femminile o una corrispondente atrofia. L’eccessivo sviluppo<br />

del femminile comporta un rafforzamento di tutti gli istinti femminili, in primo luogo<br />

dell’istinto materno. L’aspetto negativo è costituito dalla donna il cui unico scopo è la<br />

procreazione. […] Questo tipo di donna prima fa i figli, poi ai figli si aggrappa, non<br />

avendo all’infuori di essi alcuna raison d’être. […] Questa donna infatti, malgrado<br />

tutta l’abnegazione di cui si dice capace, non è assolutamente in grado di compiere nessun<br />

sacrificio reale, ma impone il suo istinto materno con una volontà di potenza spesso<br />

sprezzante che giunge fino all’annientamento della sua personalità e della vita stessa dei<br />

figli. […] Così Plutone rapì Persefone all’inconsolabile Demetra, ma per decreto degli<br />

dei fu costretto a cedere all’inizio di ogni estate la sposa alla suocera (Il lettore noterà che<br />

simili leggende non nascono per caso)” 6 .<br />

Se dunque possiamo timidamente iniziare a relativizzare l’orrida piaga del<br />

mammismo, ponendola entro una cornice ben più ampia di quanto non sarebbe<br />

legittimamente consentito dalla nostra, povera, congiuntura spazio-temporale,<br />

infarcita di tronisti, sciampiste e pretendenti al Grande Fratello (trovandone traccia<br />

nientepopodimenoche nella mitologia classica, con buona pace di Jung), saremo<br />

quantomai rincuorati dalle accorate righe del più “maledetto tra i mammoni”.<br />

Per tutta la vita, infatti, Charles Baudelaire tenne un’amorosa corrispondenza<br />

con la <strong>madre</strong>. Orfano di padre a sei anni, nella <strong>madre</strong>, dalla quale fu quasi sempre<br />

lontano, cercò tutto l’amore e la tenerezza di cui il suo animo pieno di contraddizioni<br />

era in cerca, teso all’idealizzazione, entro una fusione diadica totale. Le lettere<br />

della maturità, angustiata dalle ristrettezze economiche e dai problemi di salute,<br />

umiliata dalla tutela giudiziaria che proprio l’adorata <strong>madre</strong> era stata costretta a<br />

pretendere, dopo che il figlio aveva già dilapidato l’eredità paterna, accumulando<br />

ingenti debiti, mescolano in pari misura affetto, rabbia, ammirazione, esaltazione<br />

e, last but not least, continue richieste di denaro.<br />

“Mia cara <strong>madre</strong>, se possiedi veramente il genio materno e non sei ancora stanca,<br />

vieni a Parigi, vieni a vedermi, ed anche a cercarmi. […] Alla fine di marzo, ti scrivevo:<br />

Ci rivedremo mai? Ero in una di quelle crisi in cui si vede la terribile verità.<br />

Darei non so che cosa per passare qualche giorno accanto a te, tu, l’unico essere a cui la<br />

mia vita è sospesa, otto giorni, tre giorni, qualche ora. […] Tutte le volte che prendo la<br />

penna per esporti la mia situazione, ho paura; ho paura di ucciderti, di distruggere il<br />

tuo debole <strong>corpo</strong>. […] Credo che tu mi ami appassionatamente; con animo cieco, così<br />

forte è il tuo carattere! Io, ti ho amata appassionatamente nella mia infanzia; più tardi,<br />

spinto dalle tue ingiustizie, ti ho mancato di rispetto, come se un’ingiustizia di <strong>madre</strong><br />

6 Carl Gustav Jung, L’archetipo della <strong>madre</strong>, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp.36-44<br />

Dossier 77


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/mammismo!<br />

78<br />

potesse autorizzare una mancanza di rispetto filiare; spesso me ne sono pentito, anche se,<br />

come è mia abitudine, non ne ho fatto parola. […] Ci fu, nella mia infanzia, un’epoca<br />

di amore appassionato per te; ascolta e leggi senza paura. Non te ne feci mai parola. Mi<br />

ricordo di una passeggiata in fiacre; uscivi da una casa di cura dove eri stata relegata,<br />

e mi mostrasti, per provare che avevi pensato a tuo figlio, dei disegni a penna che avevi<br />

fatto per me. Non credi che ho una memoria terribile? […] Ah! Questo fu per me il bel<br />

tempo delle tenerezze materne. Tu appartenevi soltanto a me. Idolo e compagno insieme<br />

eri per me. Forse ti stupirai che io possa parlare con passione di un tempo tanto remoto.<br />

Io stesso ne sono stupito. Forse perché ancora una volta, ho concepito il desiderio della<br />

morte, i fatti antichi mi si dipingono così vivi nel mio animo. […] Passo oltre rapidamente,<br />

perché indovino delle lacrime nei tuoi occhi” 7 .<br />

Basterebbe una rapida scorsa a queste righe, per solleticare l’occhio clinico (ornato<br />

di spiritosa montatura) di tanti colleghi. E’ evidente che ci troviamo in presenza<br />

di un legame diadico regressivo, improntato ad un narcisismo più tipico<br />

dell’adolescente immaturo, che dell’adulto adeguatamente separato/individuato.<br />

Ed è proprio nella fase dell’adolescenza che vengono alla luce (e, purtroppo, in<br />

taluni casi, si cronicizzano) i conflitti più aspri con la figura primaria di riferimento<br />

e di rifornimento affettivo.<br />

“Durante l’infanzia, il <strong>corpo</strong> e la sua superficie sono il luogo elettivo dell’interazione e<br />

dello scambio fra <strong>madre</strong> e figlio: le cure igieniche, le manipolazioni di indole estetica che<br />

rendono il figlio il capolavoro espressivo della <strong>madre</strong> e le miracolose cure materne della<br />

sofferenza del <strong>corpo</strong> durante le mille malattie dell’infanzia scorrono lungo tutta la sua<br />

superficie, estendendo il soffice dominio della <strong>madre</strong> e la sua colonizzazione del figlio.<br />

[…] Sopraggiunge l’adolescenza e il figlio è costretto ad impossessarsi del <strong>corpo</strong> ottenuto<br />

in dotazione dalla <strong>madre</strong>: sa che appartiene alla <strong>madre</strong>, ma è costretto a rubarglielo<br />

poiché deve usarlo in modo clandestino e ciò che farà e subirà non riguarda più<br />

la <strong>madre</strong> se non in modo simbolico e nostalgico. Inizia così ad addobbarlo e ad usarlo<br />

come un luogo di importanti comunicazioni verso la microsocietà dei coetanei; i segni<br />

che gli infligge, i graffiti con cui lo disegna, gli abiti o gli emblemi di cui lo copre e che<br />

lo significano non sono messaggi per la <strong>madre</strong>, semmai sono rivolti contro la <strong>madre</strong> ed<br />

attuati in onore degli amici e delle amiche. Succederà che si decida a bucarlo in profondità<br />

per infilarvi in permanenza monili metallici, o che lo consegni a mani mercenarie<br />

che depositino sotto la cute inchiostri che disegnano tatuaggi esotici, nostrani segni di<br />

ingresso definitivo nel <strong>corpo</strong> e nella sua insostenibile essenza identificatoria.<br />

[…] Molti bambini giungono all’ingresso in preadolescenza sovraccarichi di responsabilità<br />

assunte e messe in pratica nei confronti dei loro genitori o di uno dei due,<br />

generalmente la <strong>madre</strong>, ma negli ultimi anni a chiedere questo particolare tipo di assistenza<br />

che solo un figlio può erogare si sono affacciati anche molti padri in parte perché<br />

maternalizzati, in parte perché c’è qualcosa nel nuovo stile relazionale fra genitori e<br />

figli che rende molto responsabili i figli nei confronti della salute mentale dei genitori.<br />

Molti figli, trovandosi inscritti all’interno di un rapporto molto psicologizzato con i loro<br />

7 Charles Baudelaire, Lettere alla <strong>madre</strong>, Mondadori, Milano, 1998, pp.124-125.


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genitori, finiscono per sviluppare una particolare sensibilità nei confronti della sofferenza<br />

psichica degli adulti di casa e assumono volentieri il compito di vedere cosa si possa<br />

fare: ciò che generalmente si può fare è cercare di distrarre il genitore male in arnese<br />

dal proprio cruccio, regalandogli un grosso lavoro da fare: ad esempio imponendogli un<br />

surmenage parentale attraverso anomalie della condotta di tutti i tipi, creando allarme<br />

sociale, ammalandosi il più enigmaticamente possibile, di modo che il male perduri e si<br />

riveli solo nelle occasioni in cui serva all’obiettivo prescelto” 8 .<br />

Ed eccoci di nuovo a parlare di questi maschi presenti/assenti, che lasciano alla<br />

consorte il pesante fardello della gestione affettiva del rapporto col “bamboccio”.<br />

Se in passato, infatti, questi incarnava maggiormente l’imago della “bambola” graziosa<br />

ed a-sessuata (erroneamente ritenuta tale, ci ha insegnato un certo Sigmund<br />

F.), ora è divenuta manifestamente e sfrontatamente ribelle agli imbellettamenti e<br />

alle carezze, preferendovi creste, piercing e tatuaggi. In questa spiazziante situazione,<br />

il “mammo” non può che amplificare i timori e le ansie che la mamma fisiologicamente<br />

avverte, contribuendo a consolidare la strutturazione di un sistema<br />

disfunzionale che non tollera la frustrazione e la negoziazione del conflitto.<br />

Ma vi sono, ahinoi, altre tipologie di famiglie, che indulgono nella “coazione a<br />

ripetere” rappresentata dall’abolizione coatta di qualunque “crisi” (anche di quelle<br />

utili alla crescita e all’evoluzione, direbbe Erikson).<br />

“Ci sono genitori, oggi, che vorrebbero avere un rapporto di amicizia con i figli: ma<br />

un padre o una <strong>madre</strong> non possono essere contemporaneamente gli amici del proprio figlio.<br />

L’amicizia presuppone un rapporto paritario, mentre, quando un genitore pretende l’amicizia<br />

del figlio, il risultato è un rapporto immaturo e squilibrato, in cui uno cerca l’amicizia<br />

di una persona parimenti inadatta ad offrirgliela, a causa della costellazione di esperienze<br />

emotive da genitore a figlio che si è consolidata negli anni dell’infanzia. L’unico posto che<br />

un figlio può occupare con reale soddisfazione reciproca nella vita del genitore è, appunto,<br />

quello di figlio. Non può, in aggiunta, fungere da risarcimento per quello che manca nella<br />

vita del genitore, per quanto ardentemente questi lo desideri. E l’unica cosa che un genitore<br />

può essere per il figlio è precisamente questa: […]una persona matura, che accetta con amore<br />

e comprensione le immaturità del figlio, che lo protegge dal sentirsi umiliato, e vigila inoltre<br />

perché non producano conseguenze dannose, mentre, al tempo stesso, gli fornisce quegli esempi<br />

di maturità che lo guideranno nel corso del suo autonomo sviluppo” 9 .<br />

“Una causa dello sviluppo nevrotico può risiedere nel fatto che un ragazzo ha una <strong>madre</strong><br />

amorosa, ma troppo indulgente o troppo autoritaria ed un padre debole e distratto. In questo<br />

caso, può restare legato infantilmente alla <strong>madre</strong> e sviluppare una personalità subordinata<br />

ad essa; è un debole, ha bisogno di ricevere, di essere protetto, curato, e manca di qualità<br />

paterne: disciplina, indipendenza e capacità di costruirsi la vita da solo. Può trovare ‘madri’<br />

in tutti, a volte in donne, e a volte in uomini dotati di autorità e di potere” 10 .<br />

8 Gustavo Petropolli Charmet, I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida, Cortina,<br />

Milano 2000, pp.40-96.<br />

9 Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano, 1988, pag.361.<br />

10 Erich Fromm, L’arte di amare, CDE su lic. Il Saggiatore, Milano, 1983, pp.48-52.<br />

Dossier 79


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80<br />

Alla luce di queste considerazioni, sembra ormai plausibile azzardare l’ipotesi<br />

che il mammismo sia ben lungi dal doversi considerare un male incurabile della<br />

nostra società contemporanea. In primo luogo perché esso è sempre esistito, laddove<br />

si sia insediato uno squilibrio di istanze parentali all’interno del sistema famigliare,<br />

premessa che lascia purtroppo più spazio alla cronicizzazione della reciproca<br />

dipendenza dei suoi membri, piuttosto che all’emancipazione e alla realizzazione<br />

delle individualità. In secondo luogo, il mammismo non deve essere demonizzato,<br />

ma nemmeno sottovalutato.<br />

“Occorrerebbe invece pensare a riformare il concetto stesso di educazione se si vuole<br />

smettere di castrare simbolicamente i bambini nelle loro potenzialità espressive e averne<br />

cura senza alterare lo sviluppo della personalità. Bisogna che i genitori e gli adulti in<br />

genere smettano di voler insegnare ai bambini a fare i bambini e agli adolescenti a fare<br />

gli adolescenti (cosa che bambini e adolescenti, se lasciati a sé stessi, sanno fare in modo<br />

eccellente). Una volta sciolti da simili impegni gravosi e giornalieri, che non hanno mai<br />

fine, padri e madri potrebbero dedicare tutto il loro tempo libero ad imparare a fare i<br />

genitori. Si dovrebbero creare delle scuole per genitori. Fino ad ora, pochi ci hanno riflettuto,<br />

ritenendo quasi che fosse sufficiente essere adulti e poter assolvere alla funzione<br />

biologica della riproduzione per saper anche allevare la prole” 11 .<br />

<strong>La</strong> figura materna è un territorio dai confini indistinti. Forse è proprio a causa<br />

di questa aleatorietà che oggi è divenuto così complesso identificare il discrimen che<br />

separa il “bamboccio” dall’adulto. Ciò non toglie che, per il nostro stesso benessere,<br />

sia imprescindibile (ieri, come oggi, come sempre) mantenere separati i sogni, il<br />

sonno, dalla realtà. Con buona pace di Chiambretti e Soci.<br />

*Psicologo clinico, Counsellor.<br />

Collaboratore Stripes Cooperativa Sociale ONLUS e co-fondatore di Spazio-Ars,<br />

Associazione Culturale per la promozione di terapia<br />

individuale e sistemica e la fruizione artistica e culturale.<br />

11 Tilde Giani Gallino, Il complesso di <strong>La</strong>io, Einaudi, Torino, 1978, p. 57.


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Disfare la <strong>madre</strong>, rifare la <strong>madre</strong><br />

<strong>La</strong> fantasia di sostituire i pezzi difettosi del nostro <strong>corpo</strong> (i trapianti sono un<br />

esempio significativo) porta traccia di un <strong>corpo</strong>, preverbale, fatto di parti non<br />

integrate tra loro che lo sguardo di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile<br />

perché simile alla propria. “ Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come<br />

me”, della stessa specie cioè.<br />

di Manuela Fraire*<br />

Per queste note relative alla <strong>madre</strong>, il suo ruolo e la sua funzione mi sono ispirata<br />

innanzitutto al pensiero di Piera Aulagnier e in seconda istanza a <strong>La</strong>can, suo maestro.<br />

Per via del peso che nel loro discorso ha il linguaggio. Tuttavia tra i due autori vi sono<br />

differenze sostanziali la prima delle quali è quella che interessa qui: per Aulagnier la<br />

<strong>madre</strong> è una persona di sesso femminile oltre che una funzione, mentre per <strong>La</strong>can la<br />

<strong>madre</strong> è l’Altro adulto che supplisce alla prematurità dell’infans ma nel suo pensiero<br />

non è chiaramente riferita alla donna la funzione identificante che l’Altro svolge.<br />

Aulagnier definisce significativamente “portaparola” la <strong>madre</strong> e discorso materno<br />

l’insieme degli enunciati attraverso cui identifica colui a cui quel discorso è<br />

destinato.<br />

Altrettanto fondamentale è per l’autrice la relazione dell’Io con la propria immagine<br />

nel senso in cui ad essa si riferisce <strong>La</strong>can nello “Stadio dello specchio” e cioè<br />

“l’emergere nello specchio di una immagine che la psiche riconosce come propria.” 1<br />

Il posto assegnato alla <strong>madre</strong> come origine dello psichismo umano è sinteticamente<br />

espresso nelle seguenti righe: “Non soltanto non è in potere del bambino scegliere la <strong>madre</strong>,<br />

ma non è in suo potere non investirla, e non è nemmeno in suo potere distribuire il suo<br />

investimento su altri oggetti che permettano di moderarne l’intensità.” 2<br />

Le identificazioni veicolate dagli enunciati identificatori della <strong>madre</strong>, sono i<br />

mattoni necessari alla futura costruzione dell’Io dell’infans in quanto primi messa<br />

in forma e significato attribuiti dalla <strong>madre</strong> alle sensazioni senza nome esperite dal<br />

bambino. Esse sostanziano la funzione anticipatrice della <strong>madre</strong> attiva ancor prima<br />

della nascita del bambino, durante la gravidanza. Quel “quando…” fantasticato<br />

dalle madri riferito al nascituro che precorre ciò che egli sarà modellandolo sul<br />

proprio desiderio.<br />

L’infans dunque incontra un prima di se stesso, un già-lì del suo <strong>corpo</strong> e dei<br />

suoi bisogni costituito dalla voce e dal <strong>corpo</strong> di colei che è il supporto dei suoi<br />

investimenti.<br />

Il piccolo umano viene dunque provvisto dal discorso e perfino dall’intonazione<br />

della voce materni delle rappresentazioni che significheranno - una volta che<br />

avrà fatto suo quel discorso - il <strong>corpo</strong> da cui e di cui parla, le sue modificazioni, le<br />

sue fluttuazioni segnate da cadute di senso, deformazioni, spostamenti, tutta una<br />

1 P. Aulagnier (1992), <strong>La</strong> violenza dell’interpretazione, Borla, Roma 1994. p. 232<br />

2 P. Aulagnier (1977-78), I destini del piacere, Borla, Roma 2002<br />

Dossier 81


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

82<br />

morfologia dell’aberrazione che trova nel discorso materno un ancoraggio.<br />

Da quanto detto si può comprendere l’importanza che la categoria di incontro<br />

assume nel pensiero dell’autrice: esso è infatti il risultato dell’incontro di due spazi<br />

psichici nei quali una stessa esperienza si inscrive usando però due differenti scritture.<br />

L’infans è obbligato dalla sua prematurità ad accogliere il supporto che gli<br />

viene dall’Io materno anche quando questo si rivela un avversario invece che un<br />

alleato come - nei casi più estremi - avviene nella psicosi.<br />

Un momento cruciale nella vicenda psichica dell’infans è rappresentato dal passaggio<br />

dall’essere un <strong>corpo</strong> - momento della pura sensorialità - all’avere un <strong>corpo</strong>,<br />

primo possesso che l’Io esperisce. “Io sono colui che possiede questo <strong>corpo</strong>” è una<br />

formulazione che stabilisce una relazione tra due entità, l’Io e il suo <strong>corpo</strong>. Ciò<br />

significa anche “occupare un posto nel campo dell’osservabile, dell’esistente, del<br />

differenziabile per lo sguardo dell’altro. 3<br />

Alla nascita c’è dunque un momento della parola che è di dominio assoluto dell’Io<br />

materno (il portaparola) e un momento dell’immagine, momento figurale, relativo<br />

al nostro proprio <strong>corpo</strong> - l’ancoraggio più arcaico all’esperienza che facciamo di<br />

noi stessi - in relazione allo sguardo, innanzitutto quello della <strong>madre</strong> che conferma<br />

a colui che fissa l’immagine di un bambino nello specchio che quella immagine “è<br />

lui”. <strong>La</strong> conferma permette al bambino di assumere l’immagine riflessa nello specchio<br />

come propria. Detto questo resta inesplorata l’area relativa alla conferma che lo<br />

sguardo materno occupa nella costituzione dell’Io di un uomo e di una donna poiché<br />

non si può dare per scontato che le vicissitudini di ambedue questi Io non siano differenziate<br />

sin dalla nascita e forse anche prima della nascita.<br />

Alla luce di queste considerazioni le nuove vie d’accesso alla procreazione e di<br />

conseguenza la costituzione di inediti nuclei familiari (monogenitoriali, coppie di<br />

persone dello stesso sesso, ecc) mi sembra che lasciano spesso sullo sfondo il fatto<br />

che anche un utero “in affitto” è alloggiato nel <strong>corpo</strong> di una procreatrice che ha<br />

avuto quel <strong>corpo</strong> in eredità dalla propria <strong>madre</strong> porta-parola.<br />

Alla <strong>madre</strong> non si può, né conviene, dunque sfuggire e tuttavia - o forse proprio per<br />

questo - le migliori facoltà dell’Io si manifestano proprio attraverso lo sforzo continuo<br />

di smarcarsi dall’Io materno. Ribadisco dall’Io della <strong>madre</strong>, dal suo discorso, innanzitutto<br />

quello che ci ha definiti come un Io-<strong>corpo</strong>. Questo prima che il suo <strong>corpo</strong> diventi<br />

significativo per la psiche dell’infans. <strong>La</strong> <strong>madre</strong>-<strong>corpo</strong> - soprattutto <strong>corpo</strong> - è in larga<br />

misura un’invenzione dettata dal timore che la potenza materna non può che generare.<br />

Anche Winnicott, che pure assegna alla funzione dello handling tanta importanza,<br />

sottolinea l’importanza che lo sguardo materno - il volto della <strong>madre</strong> con la sua gamma<br />

espressiva - comunica al bambino di ciò che ella vede in lui e di lui.<br />

<strong>La</strong> cosa singolare propria dell’umano è che per avere un <strong>corpo</strong> c’è bisogno di una doppia<br />

alienazione: il mio <strong>corpo</strong> diventa un mio possesso, un mio bene solo se le circostanze<br />

nelle quali nasco mi permettono di investirlo libidicamente, insomma se è uno strumento<br />

di piacere per il mio Io e dunque da esso distinto anche se non separato. Questo piacere<br />

3 Ibidem, p. 112


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

d’altra parte è ben lontano dall’essere la pura traduzione sensoriale dell’eccitamento che il<br />

<strong>corpo</strong> della <strong>madre</strong> mi procura, esso ha infatti bisogno anche di un apparato psichico che<br />

mi permetta di riferire al mio Io il piacere che il mio <strong>corpo</strong> esperisce.<br />

Si deve a <strong>La</strong>can il merito - con il suo contributo sullo “stadio dello specchio”- di<br />

aver tracciato una linea di demarcazione tra <strong>corpo</strong> reale e <strong>corpo</strong> immaginario, e di<br />

aver sottolineato che ad entrare nei dispositivi di linguaggio è solo quello immaginario<br />

mentre il <strong>corpo</strong> reale resiste alla significazione.<br />

Il fenomeno dell’invecchiamento è una circostanza in cui il <strong>corpo</strong> immaginario<br />

salta in primo piano. Col passare del tempo infatti la separazione del nostro Io da<br />

un <strong>corpo</strong> reale che invecchia aumenta al punto da escludere dalla nostra immagine<br />

le parti che, a nostro parere, la de-formano. Una ruga, un afflosciamento dei tessuti,<br />

una modificazione della struttura ossea ecc., vengono rifiutate dal nostro sguardo<br />

come non appartenenti a noi stessi al punto da rendersi necessario un nuovo “montaggio”<br />

delle diverse parti che formano l’immagine integrata del nostro <strong>corpo</strong>.<br />

<strong>La</strong> consistenza biologica dei corpi presa in sé nulla dice del <strong>corpo</strong> storico, quello<br />

a cui ci si riferisce quando si dice “partire da sé”, poiché il <strong>corpo</strong> biologico è opaco<br />

al linguaggio, ostico alla significazione resistente anche alla sessuazione. E’ l’entità<br />

a cui si riferisce il “reale” che mette in scacco il processo di simbolizzazione a cui è<br />

giunto <strong>La</strong>can al termine del suo viaggio.<br />

<strong>La</strong> procreazione è forse l’unica azione umana ad avere una significanza preverbale<br />

poiché immette nella realtà la cosa-viva che ha la doppia potenzialità di soggetto oltre<br />

che di oggetto, di parlante oltre che di parlato, di creazione oltre che di creatura. Ma<br />

anche la procreazione intanto è qualcosa di più che un puro evento in quanto ad essere<br />

simbolizzato è anche in questo caso l’incontro tra due esseri distinti da cui si genera<br />

il terzo, forse l’unico vero terzo della vicenda umana, il frutto dell’accoppiamento tra<br />

un maschio e una femmina. Il carattere essenziale del “fatto procreativo” (e non della<br />

procreatività che categorizza ciò che invece attiene alla singolarità dell’esperienza di<br />

ogni donna) consiste nell’essere la traccia extra-verbale dell’incontro dei due sessi.<br />

L’affermazione di Freud che “l’anatomia è un destino” 4 non avrebbe senso se <strong>corpo</strong><br />

e linguaggio non si mettessero reciprocamente alla prova. Perché vi sia un “vissuto” del<br />

<strong>corpo</strong> c’è necessità di un Io che possa pensare quel <strong>corpo</strong>, ma è altrettanto vero che la<br />

capacità di pensare è una conquista che si fa strada attraverso l’esperienza di una sensorialità<br />

priva di pensieri e rappresentazioni se non quelli che ci fornisce l’altro materno.<br />

L’aspetto destinale non sta dunque nel <strong>corpo</strong> in sé ma nella sua intraducibilità<br />

nei codici della psiche. I greci avevano due termini per designare la vita: zoé e bios,<br />

la vita animale e la vita nella sua specificità umana. Il destino sta dal lato animale,<br />

la tirannia della vita che fa fallire i nostri tentativi di padroneggiarla, rispetto alla<br />

quale spesso si infrangono le leggi che regolano il pensiero.<br />

<strong>La</strong> parola destino allude al fatto che il <strong>corpo</strong> biologicamente inteso immette<br />

nella vita della mente un elemento di imponderabilità che si dovrà prima o poi<br />

riferire alla mortalità.<br />

4 S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, in Opere, vol. X, Boringhieri, Milano, 1978.<br />

Dossier 83


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

84<br />

<strong>La</strong> fantasia di poter cancellare i segni del tempo - il linguaggio figurale del <strong>corpo</strong><br />

storico - più che un rifiuto dell’invecchiamento in sé e per sé ha a che fare con il ritorno<br />

di un rimosso che affonda le sue radici nell’origine stessa dell’Io. <strong>La</strong> fantasia di<br />

sostituire i pezzi difettosi del nostro <strong>corpo</strong> (i trapianti sono un esempio significativo)<br />

porta traccia di un <strong>corpo</strong>, preverbale, fatto di parti non integrate tra loro che lo sguardo<br />

di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile perché simile alla propria.<br />

“Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come me”, della stessa specie cioè.<br />

Il riferimento al momento del riconoscimento del bambino da parte della <strong>madre</strong><br />

rinvia alla funzione strutturante che nell’economia del mio discorso fanno della<br />

presenza e dello sguardo materni i primi fattori identificanti su cui la psiche nascente<br />

può fare presa. <strong>La</strong> <strong>madre</strong> come persona quindi e non solo come funzione è colei<br />

a cui spetta di identificare il figlio come l’altro che condivide con lei l’appartenenza<br />

alla stessa gestalt della specie umana mentre nell’epoca prenatale c’era stata anche<br />

una condivisione dei corpi.<br />

Ma - e qui è il punto problematico - perché questo altro che ha la funzione di<br />

primo identificante non è intercambiabile con una persona di sesso maschile? E<br />

questo è poi vero?<br />

<strong>La</strong> relazione dell’Io con l’immagine nasce nel momento definito da <strong>La</strong>can come<br />

stadio dello specchio. Incontro decisivo tra chi guarda e il suo riflesso, un incontro<br />

tuttavia che assume il suo vero significato solo se si tiene conto di “quel movimento<br />

dello sguardo del bambino che si scopre nello specchio, che lo conduce verso lo<br />

sguardo della <strong>madre</strong> alla ricerca della conferma della bellezza dell’immagine, prima<br />

di ritornare allo specchio e al suo riflesso speculare.” 5<br />

Notiamo che a quell’età ci vuole una persona adulta alle spalle del bambino che<br />

lo sostenga e gli dia così modo di osservarsi nello specchio stando in piedi, posizione<br />

che la sua motricità ancora non gli consente.<br />

Nello specchio si riflettono dunque due figure di cui una, più piccola, sovrapposta<br />

e in qualche modo “incorniciata” dalla figura più grande. Vi sono anche due<br />

sguardi che si cercano, precursori di ogni altro desiderio di “essere cercati con gli<br />

occhi” come si dice degli innammorati.<br />

Tutto questo però non dimostra che l’appoggio al bambino sia necessariamente<br />

quello fornito dalla <strong>madre</strong>. Tuttavia se lo stadio dello specchio è preso anche nel<br />

suo significato metaforico si comprenderà meglio perché la “tonalità” dello sguardo<br />

che conferma il bambino deve essere carica di significati che apparterranno solo in<br />

un secondo tempo al mondo immaginario del bambino. Davanti allo specchio si<br />

verifica un evento che virtualizza il parto, la separazione cioè di due corpi di cui<br />

uno dei due conteneva l’altro. L’evento della nascita è estraniante soprattutto per<br />

la <strong>madre</strong> che deve riconoscere come parte di sé un altro divenuto la proiezione<br />

esternalizzata di una parte di sé. 6<br />

5 P. Aulagnier, Op. cit., p. 232<br />

6 Oltre il discorso lacaniano, anche se a partire da esso, si colloca la mia ipotesi: l’immagine che<br />

fonda l’io individuale è un’immagine composta da due entità. Ne dà conto in modo suggestivo


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

Anche immaginando una donna che nello specchio cerchi se stessa oltre il bambino<br />

che sostiene, metafora di una donna che non è tutta dentro la funzione materna,<br />

si deve ammettere che lo stadio dello specchio non definisce univocamente<br />

la funzione della <strong>madre</strong> in relazione alla prematurità del bambino bensì adombra<br />

uno scarto, un intervallo, uno spazio-tempo che ha innanzitutto il significato<br />

dell’interruzione della continuità tra i due corpi.<br />

Potremmo ipotizzare addirittura che è nel momento della specularità raddoppiata-<br />

<strong>madre</strong> e figlio davanti allo specchio- che lei non meno di lui deve compiere<br />

un autoriconoscimento e che per fare questo ha bisogno dell’altra immagine che<br />

oscura parzialmente la sua. Non più un intero che contiene un tesoro segreto bensì<br />

un due in sovrapposizione, esposto allo sguardo dell’altro, degli altri.<br />

<strong>La</strong> <strong>madre</strong> che nello specchio cerca se stessa mentre sostiene il figlio è ben rappresentata<br />

dalla <strong>madre</strong> self-absorbed di Pontalis 7 , che nel suo non esserci tutta lascia<br />

vacante lo spazio nel quale il bambino incontrerà il proprio desiderio, innanzitutto<br />

l’averla tutta per sé, a disposizione del gioco solitario in cui è il padrone assoluto.<br />

Ma il tempo che passa è il vero padrone di tutti e non risparmia neanche la<br />

<strong>madre</strong> più devota e il bambino più innamorato. Basti pensare al doloroso stupore<br />

con cui inevitabilmente scorgiamo nello specchio l’immagine di noi all’improvviso<br />

“vecchi”, come fosse accaduto d’un colpo. L’esperienza dice che la prima reazione<br />

è il misconoscimento del fatto che quelli riflessi nello specchio siamo noi. Non ci<br />

riconosciamo e scorgiamo all’improvviso lo spavento della dif-formità dell’immagine<br />

che lo specchio ci rimanda da quella che abbiamo gelosamente custodito fin lì.<br />

Momento terribile legato alla “maturità” per almeno due motivi: uno è che avviene<br />

nell’età cosiddetta matura e l’altro è che è una possibilità di maturare un nuovo<br />

incontro con noi stessi.<br />

Tuttavia perché questo sia possibile c’è necessità di nuove esperienze di rispecchiamento<br />

nello sguardo di un altro che ci identifica e ci riconosce come appartenenti<br />

alla sua stessa “specie”. Una funzione identificante che si rinnova all’infinito nelle<br />

nostre vite e che rende sempre attuale il “bisogno di <strong>madre</strong>”. Eppure non è affatto<br />

probabile né auspicabile che sia proprio la <strong>madre</strong> dell’origine a svolgere la funzione<br />

identificante, né tuttavia è così semplice trovare quella stessa funzione in un altro<br />

per significativo che sia. Ci vuole infatti che in qualche modo sia andata “distrutta”<br />

la <strong>madre</strong> dell’origine perché si possa ricostruire - nel corso delle varie epoche della<br />

vita - la nuova <strong>madre</strong>, quella che sostenga insieme a noi il turbamento prodotto da<br />

un’immagine di noi stessi irriconoscibile. Freud comprende questo evento acutamente<br />

quanto dolorosamente quando conia il concetto di “perturbante”. Il rifacimento<br />

della <strong>madre</strong> ha piuttosto a che fare con un altro che riconosce e identifica il nostro<br />

l’iconografia sacra della cristianità che rappresenta la Madonna con il bambino: essi costituiscono<br />

un’ unica immagine contenuta entro un solo perimetro. <strong>La</strong> precisazione è necessaria per comprendere<br />

come all’interno della relazione <strong>madre</strong>-figlio sia già presente un terzo elemento che precede<br />

l’Edipo e che riguarda la triangolarità istituita dalla <strong>madre</strong>, dal bambino e dalla loro immagine..<br />

7 Jean Baptiste Pontalis , Perdere di vista, Borla, Roma, 1993, p. 192 e sg.<br />

Dossier 85


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

86<br />

essere cambiati come compatibile con l’insieme a cui sentiamo di appartenere.<br />

E’ una delle illusioni sostenute dall’affermazione che “mater semper certa est” che<br />

ci inchioda lei e noi alla letteralità del <strong>corpo</strong> biologico della <strong>madre</strong>, mettendo così in<br />

scacco la qualità simbolica dell’azione identificante svolta dalla <strong>madre</strong> dell’origine.<br />

L’esperienza che fonda l’Io, anche se non l’unica ad avere questa funzione, si ripresenta<br />

ad un certo punto della vita sotto forma rovesciata: guardandoci nello specchio - o<br />

peggio ancora negli occhi di un altro che non ci riconosce - arretriamo nel tentativo<br />

di mettere fuori fuoco, fino a farla scomparire, l’immagine perturbante. Solo successivamente<br />

accettiamo che lì di fronte c’è qualcosa di noi. Il fatto di riconoscere solo<br />

parti di noi ci riporta ad un’immagine <strong>corpo</strong>rea frammentata come quella dell’infans<br />

prima che lo sguardo della <strong>madre</strong> lo raccogliesse in una forma compiuta anche se per<br />

motivi opposti: invece che la prematurazione la eccessiva maturazione.<br />

Questo inevitabile accadimento ci pone di fronte all’avvenuta distruzione della<br />

<strong>madre</strong> che sostenne la nostra prima messa in forma. Davanti allo specchio della<br />

nostra maturità siamo dunque soli e disorientati per via di una nuova alienazione<br />

rispetto a quella originaria del <strong>corpo</strong> rispetto all’immagine, questa volta è relativa<br />

alla necessità di riconoscere l’alienazione dell’immagine che portiamo con noi rispetto<br />

a quella che ci fissa dallo specchio.<br />

E’ proprio all’assunzione di nuove immagini che l’Io resiste. Della sua origine<br />

relazionale l’Io non vuole saper\ne e quell’alter-in-azione che gli sta di fronte viene<br />

rigettato quando non odiato.<br />

E’ quindi tanto più arduo stabilire come e quando ha inizio l’esperienza della<br />

differenza sessuale. Questo però, ormai lo sappiamo, non è vero per la <strong>madre</strong>.<br />

Includere nei confini del proprio Io l’immagine di una bambina o di un bambino<br />

carica necessariamente di diverse intonazioni lo sguardo materno.<br />

Nella costituzione dell’Io vi è una doppia illusione: la prima è relativa all’immagine<br />

riflessa nello specchio che assumiamo ingannevolmente come facente parte di noi senza<br />

renderci conto della s-<strong>corpo</strong>razione pagata come tributo alla necessità di dare un ordine<br />

al “disordine” che il <strong>corpo</strong> immette nei nostri processi mentali. <strong>La</strong> seconda illusione,<br />

quella meno esplorata e più segreta, è relativa al fatto che all’origine dell’Io singolare<br />

vi è in realtà un due, l’immagine sovrapposta di una donna e un bambino, che fa la<br />

parte dell’uno. Sembra plausibile che quell’immagine che lo specchio rinvia all’infans<br />

rimanga a fondamento di un Io mai veramente uno. L’altro che tormenta le nostre notti<br />

composto cioè di due entità che si confermano e autorizzano vicendevolmente. L’immagine<br />

che fonda l’Io af-fonda le sue radici nella perdita del fronteggiamento ipnotico<br />

che caratterizza le prime e più precoci fasi del rapporto <strong>madre</strong>-bambino.<br />

All’origine della prerogativa, solo umana, di pronunciare la parola Io, principio<br />

di delimitazione e libertà, radice della nostra soggettività vi è dunque un ombra<br />

che non ha a che fare con la patologia poiché fonda e non altera. Ombra che ci<br />

oscura nei momenti della differenziazione, come se dovesse ripetersi quell’oscuramento<br />

originario, quel gettare la nostra ombra su di lei e quel suo essere oscurata<br />

parzialmente da noi. Cosa vediamo nello specchio del tempo se non la sua sagoma<br />

oscurata? Il mal d’immagine come si sa appartiene ad ogni età e sempre la formula


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/<strong>corpo</strong>_a_<strong>corpo</strong>.la_<strong>madre</strong>/disfare_la_<strong>madre</strong>,_rifare_la_<strong>madre</strong><br />

è “ormai è troppo tardi”. Ma tardi rispetto a cosa, se questa frase viene pronunciata<br />

anche dagli adolescenti? E’ tardi per sostare nell’illusione dell’origine, di un due<br />

che mette in scacco la castrazione.<br />

Ma l’immagine che generò l’Io è il polo non di una dualità bensì di una triangolarità:<br />

lei, noi più la nostra immagine congiunta e non un due che fa la funzione dell’uno.<br />

Se all’origine del nostro io vi è la coppia <strong>madre</strong>-bambino che favorisce l’instaurarsi<br />

di quella gestalt che ci permette di dire ‘quello sono io’, cosa ci sosterrà quando la<br />

nostra immagine, si de-formerà (cambierà la forma originaria) per via dell’età? Cosa<br />

rende sempre presente e attuale il “bisogno di <strong>madre</strong>” che attraversa ogni età?<br />

L’immagine congiunta di <strong>madre</strong> e figlio rappresenta un primo insieme che inganna<br />

sulla singolarità del nostro Io. <strong>La</strong> <strong>madre</strong> con la sua immagine presiede – che lo<br />

voglia o no - alla costituzione dell’inganno necessario che sostiene la nostra pretesa<br />

di singolarità ed è per via del prestito che la sua presenza fa all’illusione di essere solidamente<br />

uno davanti allo specchio della storia che la ricerchiamo sempre, ovunque<br />

e comunque. Deve ancora essere una donna a fare da sfondo al rinnovarsi dell’esperienza<br />

del rispecchiamento che le diverse epoche della vita richiedono come principio<br />

di continuità di noi stessi. Se tuttavia questa funzione strutturante è legata al <strong>corpo</strong><br />

della donna, irrevocabilmente non resta - alle donne - che fare da sfondo al costituirsi<br />

dell’Io dell’altro, accontentandosi della consapevolezza dell’illusione che lo sostiene.<br />

Saremmo però nel paradosso assoluto poiché anche la donna - pur nella sua veste di<br />

<strong>madre</strong> - partecipa di un due che è rimasto nascosto allo sguardo della storia.<br />

Ecco dunque che una via nuova si apre alla ricerca: la consapevolezza femminile<br />

che il saperne di più dell’altro dell’illusione che lo costituisce non è più sufficiente<br />

a garantire il mantenimento dell’illusione. Il cambiamento sta avvenendo<br />

soprattutto a livello dell’immaginario, cambiano pertanto anche le rappresentazioni<br />

che l’insieme di cui facciamo parte propone della donna e della <strong>madre</strong>. <strong>La</strong><br />

problematica identificatoria, ancorché intrappolata nella relazione immaginaria, è<br />

messa al lavoro dalle modificazioni socioculturali. <strong>La</strong> più imponente sembra tuttavia<br />

riguardare la sproporzione che c’è tra la <strong>madre</strong> e il padre.<br />

<strong>La</strong>sciando per il momento da parte la problematica relativa alla “evanescenza” del<br />

padre - di cui ha scritto Recalcati su queste pagine -, il tema che ho cercato di proporre<br />

riguarda piuttosto le problematiche identificatorie relative alla <strong>madre</strong>, che non rappresenta<br />

più il polo della natura a fronte di quello della cultura rappresentato dal padre.<br />

Mi domando invece se i processi identificatori che sono all’origine del nostro<br />

Io e che ho cercato sommariamente di descrivere appartengono costitutivamente<br />

allo psichismo umano, se hanno cioè una dimensione metastorica o se anche essi<br />

non sono il frutto della lenta e inesorabile erosione che la complessità della storia<br />

umana compie su ogni certezza.<br />

* Psicoanalista, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.<br />

Esponente di rilievo del movimento delle donne.<br />

Dossier 87


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura<br />

102


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/<br />

Angelo Villa<br />

A due Voci<br />

Inizio subito bene, cioè male, ricorrendo<br />

a una tautologia: una poesia è una poesia.<br />

Già, bella pensata, ancora una così<br />

e ti candidano per il Nobel, mugugna<br />

sarcastico il bastian contrario di turno.<br />

Bondi avrebbe reso l’idea molto meglio,<br />

sciorinandoci uno di quei versi deliziosi<br />

e appena appena un filino enfatici di cui<br />

noi, consumati lettori di Vanity fair, cominciamo<br />

a sentire la nostalgia. Come<br />

si può dargli torto?<br />

Al bastian contrario,<br />

intendo. Un attimo,<br />

però, calma, che mi<br />

spiego. Una poesia è<br />

una poesia vuol dire,<br />

ad esempio, che ogni<br />

genere letterario è una<br />

struttura a sé. E che,<br />

quindi, per scendere<br />

sulla terra, leggere una<br />

poesia suppone una<br />

disposizione diversa<br />

di quella che richiede<br />

lo svolgimento della<br />

medesima operazione<br />

con un romanzo, un<br />

racconto o un saggio.<br />

E’, forse, l’assenza di<br />

questa disposizione,<br />

non mi viene un al-<br />

tro termine, che allontana<br />

dalla poesia<br />

persino le schiere di<br />

per sé non folte dei<br />

frequentatori della<br />

letteratura in generale.<br />

Sì, lo so, conosco<br />

l’obiezione che vie-<br />

Szymborska Wislawa<br />

<strong>La</strong> gioia di scrivere.<br />

Tutte le poesie<br />

(1945-2009)<br />

Adelphi, Milano 2010<br />

pp. LIV-774 p.,€ 19,00<br />

Per quale motivo, leggendo le poesie<br />

della Szymborska, abbiamo l’impressione<br />

di trovarci di fronte alla grande<br />

letteratura, quella che può avere un<br />

peso reale nella vita di chi legge, che<br />

contiene i germi del cambiamento e<br />

delle risposte di cui ognuno va in cerca?<br />

Probabilmente perché i suoi testi<br />

contengono un invito sottile quanto<br />

rigoroso ad aprire gli occhi sulla<br />

realtà, a prendere<br />

coscienza dei limiti<br />

ineludibili del<br />

nostro esistere, ma<br />

anche della profondità<br />

indicibile<br />

della condizione<br />

umana e del nostro<br />

comune destino.<br />

<strong>La</strong> poesia che ne<br />

scaturisce, cruda,<br />

concreta, lineare,<br />

ironica, giunge<br />

sempre ad un<br />

punto di stupore<br />

perché, come afferma<br />

nel discorso<br />

pronunciato<br />

in occasione del<br />

conferimento del<br />

Nobel, “il nostro<br />

stupore esiste per se<br />

stesso e non deriva<br />

da alcun paragone<br />

con alcunché e poi<br />

perché il mondo,<br />

qualunque cosa<br />

noi ne pensiamo,<br />

spaventati dalla<br />

Ambrogio Cozzi<br />

Cultura 103


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci<br />

104<br />

ne abitualmente mossa contro la poesia,<br />

quella della sua incomprensibilità.<br />

Il poeta sembra talvolta parlare solo a<br />

se stesso, come se il suo testo fosse la<br />

pagina di un suo diario personale, tal<br />

altra, invece, si perde in funambolismi<br />

verbali, ora desueti ora ostaggio di un<br />

estetismo all’apparenza sterile. Ma, secondo<br />

me, può darsi che il disagio,<br />

l’imbarazzo nei riguardi della poesia si<br />

nutra anche di un’ulteriore ragione. Insomma,<br />

c’è dell’altro, come soleva puntualmente<br />

(o sadicamente?) ribadire il<br />

mio analista, quando mi beavo d’avere<br />

conquistato una briciola di verità dopo<br />

un lungo peregrinare e rovistare tra le<br />

nefandezze del mio inconscio. E’ l’enigma<br />

che mi rinvia al tema della disposizione.<br />

Leggere una poesia pone il lettore<br />

dinanzi a una temporalità inusuale che<br />

lo introduce a un diverso rapporto con<br />

il testo e con la realtà. Un racconto, un<br />

romanzo riempiono. Quando appassionano<br />

non si vede l’ora di terminarli,<br />

presi all’amo della storia. Pagina dopo<br />

pagina. <strong>La</strong> poesia, invece, non chiede<br />

d’essere seguita, ma accolta. Lei è già<br />

lì, come un grumo di sangue rappreso,<br />

nel suo darsi, esporsi. Di fronte a questa<br />

sorta di condensata precipitazione,<br />

di esplosione temporale, il lettore si<br />

trova impreparato, smarrito. I più educati<br />

dicono “sì, bella” e voltano pagina.<br />

I più ingenui sbottano: sì, è tutto qui?<br />

E allora? In un certo senso, la poesia è<br />

finita prima d’essere cominciata. O, più<br />

esattamente, contempla la sua fine nel<br />

suo inizio. Non vuole narrare, raccontare<br />

una vicenda. O se lo fa, non più di<br />

tanto. Essa mira ad attraversare la storia,<br />

a penetrarla da parte a parte, a isolarne<br />

il suo cuore invisibile. Fateci caso.<br />

<strong>La</strong> poesia, la buona poesia sembra stac-<br />

sua immensità e dalla nostra impotenza<br />

di fronte ad esso, amareggiati<br />

dalla sua indifferenza alle sofferenze<br />

individuali, qualunque cosa noi<br />

pensiamo dei suoi spazi trapassati<br />

dalle radiazioni delle stelle, stelle<br />

intorno a cui si sono giá cominciati<br />

a scoprire pianeti (giá morti? Ancora<br />

morti?), qualunque cosa pensiamo di<br />

questo smisurato teatro, per cui abbiamo<br />

sí il biglietto d’ingresso, ma<br />

con una validità ridicolmente breve,<br />

limitata da due date categoriche,<br />

qualunque cosa noi pensassimo di<br />

questo mondo – esso è stupefacente”.<br />

Questo stupore si declina nella sua<br />

poesia lungo l’asse del tempo, dello<br />

scorrere del tempo, non inteso<br />

come rassegnazione, ma come invito<br />

all’attenzione, per cogliere in<br />

questo scorrere le possibilità della<br />

bellezza, per svelare il mistero<br />

di ogni singola esistenza, di ogni<br />

istante, perché la vita è formata da<br />

piccole eternità piene di pallottole in<br />

volo.<br />

Questa consapevolezza diviene allora<br />

invito ad immergersi nella realtà, un<br />

fondamento per una speranza solida<br />

di sapersi riconoscere, di incontrarci,<br />

coscienti di un limite che non diviene<br />

prigione ma consapevolezza della<br />

fine, eppure in questa consapevolezza<br />

si ritrova la dimensione della speranza<br />

... Vivevano nella vita/Permeati da<br />

un grande vento /Con sorti giá decise./<br />

Fin dalla nascita in corpi da commiato.<br />

/Ma c’era in loro un’umida speranza,/una<br />

fiammella nutrita del proprio<br />

luccichio. / Loro sapevano cos’è davvero<br />

un istante,/oh, almeno uno, uno qualunque<br />

prima di – […] (“Monologo<br />

per Cassandra”).


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci<br />

carsi dalla realtà, come se vi si chiamasse<br />

fuori, non aderendovi, non inventandola.<br />

Salvo poi, con un movimento successivo,<br />

ritornarvi per coglierla, fissarla<br />

in quel che contiene di più veridico e di<br />

essenziale. Il primo passaggio fa tutt’uno<br />

con il secondo, la messa a distanza si ritrova,<br />

ritorna nella messa in profondità.<br />

Il ritmo, le parole ben scelte organizzano<br />

l’andata e il ritorno. L’effetto che ne<br />

deriva è quello proprio di un’illuminazione,<br />

di una capacità di vedere con altri<br />

occhi una realtà che era orfana di un<br />

senso nuovo e vitale. Perché ciò accada<br />

occorre però che il lettore si ponga nella<br />

“giusta” disposizione.<br />

Legga il testo magari più d’una volta.<br />

Sospenda la fretta, una poesia di solito<br />

è breve, lasci che la poesia venga verso<br />

di lui. E non faccia il contrario. E’<br />

nell’incontro destabilizzante con questo<br />

gioco di estraniazione e prossimità<br />

che la poesia gli regalerà del nuovo. Si<br />

offrirà come un dono impagabile. Provate…<br />

Se poi cercate un testo meraviglioso<br />

con cui affinare la vostra disponibilità<br />

psichica, mentale alla poesia, non ho<br />

dubbi in proposito. De Andrè citava<br />

spesso un’affermazione di Benedetto<br />

Croce secondo la quale dopo una certa<br />

età, diciamo passata (ammesso che passi,<br />

non è scontato… ) l’adolescenza, chi<br />

scrive poesie o è un poeta o è un cretino.<br />

Per l’autrice di cui consigliamo la<br />

lettura non sussiste dubbio alcuno. Per<br />

una poetessa come lei gli aggettivi giustamente<br />

si sprecano. E’ semplicemente<br />

bravissima, è polacca e porta un nome<br />

al limite del pronunciabile: Wislawa<br />

Szymborska. L’editore Adelphi ha fatto<br />

opera meritoria raccogliendo le sue poesie<br />

scritte tra il ’45 e il 2009, rieditando-<br />

Il tempo è anche il tempo dell’attimo,<br />

dell’evento che non ritorna, e<br />

che pure può essere colto nella sua<br />

dimensione irripetibile, in quel che<br />

ritorna si introduce una differenza,<br />

uno scarto che è proprio la dimensione<br />

del tempo, di un tempo che<br />

non è solo cronologia, ma una sorta<br />

di epifania, che nella differenza<br />

richiama alla necessità di mettersi<br />

in gioco Nulla due volte accade / né<br />

accadrà. Per tale ragione / si nasce<br />

senza esperienza, / si muore senza assuefazione.<br />

/ Anche agli alunni più<br />

ottusi / della scuola del pianeta / di<br />

ripeter non è dato / e stagioni del passato.<br />

/ Non c’è giorno che ritorni, /<br />

non due notti uguali uguali, / né due<br />

baci somiglianti, / né due sguardi tali<br />

e quali.<br />

Occorre allora saper guardare il mondo,<br />

lasciarsi cogliere dalla sorpresa,<br />

lasciarsi sorprendere un miracolo,<br />

basta guardarsi intorno: / il mondo<br />

onnipresente (“<strong>La</strong> fiera dei miracoli”)<br />

Così la poesia indica una via che vada<br />

temporalmente oltre la morte, parole<br />

come traccia di chi ci ha preceduto,<br />

di chi vive la nostra epoca, di chi<br />

anche distante ci è contemporaneo<br />

e vicino, ma per far questo la lingua<br />

si deve mettere in gioco, deve saper<br />

osare, perché anche la memoria se<br />

non si mette in gioco non accede al<br />

ricordo, rischia di diventare pura registrazione.<br />

Occorre osare verso l’impensabile,<br />

come il poeta che bussa<br />

alla pietra dicendo “fammi entrare”<br />

per penetrarne il mistero […]non<br />

c’è senso che possa sostituirti quello del<br />

partecipare./ Anche una vista affilata<br />

fino all’onniveggenza / non ti servirá<br />

a nulla senza il senso del partecipare./<br />

Cultura 105


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci<br />

106<br />

le in un volume che porta il bel titolo:<br />

<strong>La</strong> gioia di scrivere. Sono poesie leggibilissime<br />

che non si prestano a quelle<br />

obiezioni cui poc’anzi accennavo. Di<br />

cosa parlano? Ricorro non casualmente<br />

al verbo parlare, perché è, in fondo, il<br />

più corretto, il più idoneo per rendere<br />

ragione dello stile quasi colloquiale della<br />

poetessa polacca. I suoi scritti parlano<br />

delle cose che fanno, che ci fanno<br />

o che dovrebbero farci parlare: le solite.<br />

E cioè, bisogna proprio dirlo?, l’amore,<br />

l’amicizia, la sofferenza, l’undici settembre…<br />

Importante è il tocco, lo sguardo.<br />

E, per noi, il luogo dove la sua scrittura<br />

ci invita, per fare un’esperienza che<br />

ci permetta di rileggere le nostre esperienze,<br />

ora ritrovandoci ora rendendoci<br />

estranei a noi stessi, quel che basta. Cito<br />

i versi con cui lei conclude la poesia “Un<br />

minuto di silenzio per Ludwika Wawrzynska”:<br />

“Conosciamo noi stessi solo fin<br />

dove / siamo stati messi alla prova ./ Ve lo<br />

dico / dal mio cuore sconosciuto/”. Credo<br />

che per il tramite delle parole, la poesia<br />

della Szymborska ci riporti, in maniera<br />

mediata, proprio lì. A rivivere, a risentire<br />

quella prova… Una prova che<br />

è , semplicemente, il senso del nostro<br />

esserci, le tracce del nostro vivere. Che<br />

cos’è la gioia di scrivere se non il dono<br />

che qualcuno ci affida solo perché,<br />

come una coppia di amanti, nell’altro<br />

gli venga incontro il desiderio atteso: la<br />

gioia di leggere.<br />

Non entrerai, non hai che una sensazione<br />

di quel senso, appena un germe,<br />

una parvenza. […] (“Conversazione<br />

con una pietra”).<br />

Il germe, la parvenza diventano segni,<br />

segni di un reale irraggiungibile,<br />

ma che non si smette di cercare, di<br />

inseguire per trattenerlo attraverso<br />

le parole, per poter esclamare tutto è<br />

mio, niente mi appartiene di ciò che<br />

ci circonda.<br />

Ma questo parlare sottotraccia ritorna<br />

con ironia anche nella dimensione<br />

pubblica di una poetessa che prima<br />

del Nobel quasi nessuno conosceva,<br />

e che preferisce ancora parlare<br />

attraverso le sue poesie, sottraendosi<br />

alla dimensione pubblica, rivendicando<br />

una preminenza del testo rispetto<br />

all’autore, l’autonomia delle<br />

poesie rispetto al viso, alla storia e<br />

alle opinioni sulla letteratura e sulla<br />

società di colui che le scrive. Per<br />

dirla tutta, ella non ama neppure le<br />

serate d’autore, anzi se ne fa beffe -<br />

Ci sono dodici persone ad ascoltare,<br />

è tempo ormai di cominciare. Metà<br />

è venuta perché piove, gli altri sono<br />

parenti. O Musa. […] In prima fila<br />

un vecchietto dolcemente sogna che la<br />

moglie buonanima, rediviva, gli sta<br />

per cuocere la crostata di prugne. Con<br />

calore, ma non troppo, ché il dolce non<br />

bruci, cominciamo a leggere. O Musa<br />

– (“Serata d’autore”).


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura<br />

libri<br />

Scelti per voi<br />

a cura di Ambrogio Cozzi<br />

Davide Lopez<br />

<strong>La</strong> potenza dell’illusione:<br />

l’amore<br />

Angelo Colla Editore,<br />

Vicenza 2010<br />

pp. 176, € 15,90<br />

Il testo di Lopez non è<br />

un testo facile, richiede<br />

un certo impegno<br />

di lettura, ed è difficile<br />

presentarlo senza scadere in ovvietà, senza ridurlo<br />

a sterili ripetizioni cui credo si ribellerebbe<br />

l’autore stesso. D’altra parte la presenza<br />

di una forte vis polemica (a volte un po’ eccessiva)<br />

rende un po’ più difficoltoso seguire l’autore<br />

senza perdersi. Eppure ci sembra di poter<br />

individuare un percorso, un nodo centrale che<br />

percorre tutto il libro, senza forzare eccessivamente<br />

l’interpretazione parlando d’altro.<br />

Esso è’ strutturato in due forme di scrittura,<br />

una per aforismi, l’altra per paragrafi ampi<br />

in cui il filo del pensiero si snoda in modo<br />

più disteso. Eppure tra le due forme mi sembra<br />

di rintracciare un filo di continuità, che<br />

mi pare di rintracciare a partire dall’etimo di<br />

aforisma che nella sua derivazione da aphorismos<br />

significa “porre i termini”, “limitare”.<br />

Allora, dicevamo, un filo di lettura si può<br />

rintracciare nel porre un limite, limite che si<br />

incontra nelle parti dedicate al rapporto tra<br />

legge e giustizia (si pensi al paragrafo dedicato<br />

alla sentenza di un tribunale rumeno), limite<br />

nel rapporto tra le persone, limite nelle<br />

rappresentazioni del rapporto tra i sessi.<br />

Proprio da quest’ultimo inizia il testo, propo-<br />

nendo una lettura del mito dell’androgino di<br />

Platone come elemento fondatore di un intervento<br />

degli dei per spingere gli umani, attraverso<br />

la differenza tra i sessi a cercarsi. Ma la<br />

condanna originaria diviene punto di partenza<br />

per una riflessione sulla sessualità più ampia,<br />

tale da includere le declinazioni che assume la<br />

differenza sessuale nelle diverse epoche storiche.<br />

Insieme a questo primo aspetto mi pare centrale<br />

l’individuazione di un punto di passaggio<br />

dalla società patriarcale a quella di Gesù bambino<br />

dove “si assiste al ritorno dell’importanza<br />

prevalente del rapporto <strong>madre</strong>-bambino e, perfino,<br />

della simbiosi fusionale, quale estrema regressione<br />

di questo rapporto”. Riflessione che ben si<br />

adatta a questo numero monografico della rivista<br />

dedicato alla <strong>madre</strong> e che mi pare ritorni<br />

in alcuni articoli. Merito dell’autore è quello di<br />

non cadere nel facile rimpianto dei bei tempi<br />

andati, sottolineando invece quanto in autori<br />

dei bei tempi andati fosse presente una sottovalutazione<br />

del ruolo della donna ma anche come<br />

la soluzione non consista nel ridurre la donna a<br />

<strong>madre</strong>, facendo coincidere le due figure e quindi<br />

negando la prima nella seconda.<br />

Un altro filo che mi è sembrato di intravvedere<br />

parte dalla nozione di colpa. Ci sarebbe<br />

molto da scrivere, ma vorrei limitarmi ad<br />

un commento a partire dall’aforisma 83 a<br />

pagina 139. “Un modo perverso di asserire e<br />

affermare la propria libertà è quello di infierire<br />

contro se stessi, moltiplicando e trasformando<br />

per orgoglio narcisistico i colpi che si sono<br />

ricevuti dall’esterno in colpe sacrificali”.<br />

Il legame tra i due elementi, colpi e colpe, mi<br />

pare tenga attraverso il termine orgoglio narcisistico,<br />

che pur di eliminare la presenza del caso<br />

nell’esistenza, e quindi esporsi responsabilmente<br />

alla precarietà dell’esistenza, preferisce assumere<br />

su di sé le colpe, per mantenere l’illusione del<br />

controllo sul mondo, l’illusione di centralità.<br />

Appare ora un nuovo nesso tra il limite che<br />

l’aforisma stabilisce e l’invito ad osare che per-<br />

Cultura 107


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

108<br />

corre tutto il testo, un invito ad osare nel limite,<br />

nelle parole che configurano un mondo possibile,<br />

possibile per la convivenza, dove la legge<br />

non è un assoluto che soverchia, ma un invito<br />

a pensare la possibilità del legame sociale, a<br />

stabilirne i confini per renderli pensabili, guardando<br />

ad un orizzonte per prefigurare un oltre,<br />

un passaggio difficoltoso ma possibile. Il limite<br />

non come impedimento ma come confine,<br />

come orizzonte che rende possibile l’esistenza.<br />

Allora l’invito ad osare che percorre il testo è<br />

un invito all’assunzione di responsabilità, come<br />

ricerca delle risposte, come invito ad uscire: in<br />

fondo è solo mettendoci in strada che possiamo<br />

incontrare colui che è offeso o colui che ci accompagnerà<br />

nel viaggio. Non sta forse in questo<br />

desiderio il primo passo verso l’amore?<br />

“Con un atto istantaneo di comprensione e<br />

consapevolezza si annulla tutto il mondo della<br />

colpa”. Forse questo è il miglior viatico per<br />

poter osare, comprendendo ed essendo consapevoli,<br />

ma l’autore lo dice meglio di me.<br />

Ambrogio Cozzi<br />

Barbara Mapelli<br />

Sette vite come i gatti.<br />

Generazioni, pensieri<br />

e storie di donne<br />

nel contemporaneo<br />

Stripes Ed., Rho (MI)<br />

2010, pp. 180, € 16,00<br />

Quattro donne, quattro<br />

diverse generazioni.<br />

Storie personali che trovano<br />

nuovo significato nel rapporto reciproco.<br />

Con questa immagine, una foto di famiglia di<br />

qualche decennio fa, Barbara Mapelli accoglie<br />

il lettore o la lettrice di Sette vite come i<br />

gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne<br />

nel contemporaneo (Stripes Edizioni, 2010).<br />

Un approccio anche emotivo per un libro che<br />

parla alle donne italiane, ma anche agli uomi-<br />

ni, partendo da una questione non facile: che<br />

cosa hanno lasciato il movimento femminista<br />

e le riflessioni che ne sono seguite? Un’eredità<br />

non scontata e che non può essere racchiusa in<br />

un’esperienza storica ben conclusa e archiviata.<br />

Al contrario un punto di partenza che offre<br />

spunti importanti per il presente. Tanto più<br />

che viviamo un’epoca ricca di contraddizioni,<br />

dove le politiche per le donne sono drammaticamente<br />

carenti: interventi per madri che<br />

lavorano, sostegno alle famiglie nella cura di<br />

bambini, anziani, malati. Attività tradizionalmente<br />

riservate alle donne e oggi in alcuni casi<br />

assegnate a quelle che Mapelli chiama “le altre”,<br />

le straniere che lavorano nelle nostre case. Costoro<br />

aprono importanti e feconde possibilità<br />

di trovare nuove strade nella definizione sociale<br />

di donna o meglio nella narrazione delle singole<br />

biografie. Narrazione che può diventare – ed è<br />

questo uno dei lasciti del Movimento femminista<br />

– un racconto collettivo che non esclude ma<br />

include, non giudica secondo modelli ma vuole<br />

creare nuovi modelli.<br />

Dunque <strong>madre</strong> e lavoratrice. E’ la donna di<br />

oggi, che appartiene ad almeno tre generazioni:<br />

le nate negli anni ‘40-‘50, ‘60-‘70, ‘80-‘90. Ecco<br />

la mescolanza inattesa tra due ambiti considerati<br />

separati (la dimensione pubblica del lavoro e<br />

quella privata della cura familiare e domestica),<br />

tradizionalmente affidati il primo agli uomini<br />

e il secondo alle donne. Ecco il regalo che le<br />

nostre madri, nonne in alcuni casi, ci hanno<br />

fatto (ma in tanti casi è un dono che porta la<br />

firma anche dei padri): il superamento del modello<br />

univoco dentro-fuori, privato-pubblico,<br />

donne-uomini. <strong>La</strong> possibilità di essere in modi<br />

inediti, di conciliare realizzazione professionale<br />

e personale con il desiderio di prendersi cura<br />

della famiglia. Una doppia presenza, un’ambivalenza<br />

– caratteristiche tipicamente femminili<br />

ampiamente citate nel libro – che pongono<br />

nuove sfide e che consentono di percorrere più<br />

strade contemporaneamente. Sfide che vanno


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

anche raccontate e quindi condivise, con parole<br />

in parte ancora da trovare. Perché la nuova<br />

identità delle donne è irta di ostacoli e di difficoltà<br />

che in parte derivano dal passato, dalla<br />

fatica o non volontà di cambiare punti di vista,<br />

certezze assodate. Ecco allora che emergono<br />

storie di violenze, spesso tra le mura domestiche,<br />

soprusi, discriminazioni.<br />

C’è la questione dei corpi, l’esigenza di corrispondere<br />

a certi dettami sociali, l’“inganno della<br />

taglia 42”, il “contesto prostituzionale”, ovvero<br />

l’allusione erotica usata come risorsa economica.<br />

Ecco le donne desessualizzate delle pubblicità,<br />

dove i corpi “perfetti” e i volti inespressivi<br />

parlano di una seduzione decisa altrove (in questo<br />

caso dal soggetto maschile che guarda).<br />

<strong>La</strong> riflessione di Barbara Mapelli è complessa,<br />

accoglie piani diversi di lettura e propone<br />

innumerevoli spunti. Immaginando<br />

un cammino in cui alla foto delle quattro<br />

generazioni di donne si affianchi quella delle<br />

corrispettive generazioni di uomini. Entrambi<br />

liberi, ci si augura, di sperimentare<br />

nuove strade per agire insieme, senza il bisogno<br />

di ricorrere a facili modelli o a rifiuti<br />

che portano sulla strada della violenza.<br />

<strong>La</strong>ura Cuppini<br />

Ezia Palma<br />

<strong>La</strong> stanza della sabbia.<br />

Un caso clinico di<br />

sandplay therapy<br />

Morgana Ed. Firenze<br />

2008, pp.112, € 15,00<br />

Il libro di Ezia Palma,<br />

psicologa psicoterapeuta<br />

di formazione junghiana,<br />

è una interessante riflessione<br />

sulla ricchezza e la complessità dell’incontro<br />

con l’altro. E’ un libro che sollecita molteplici<br />

spunti di riflessione e che condensa più aspetti<br />

narrativi. Il più immediato è di rilevanza visiva, e<br />

si esplica attraverso le immagini che iniziano con<br />

la stanza della sabbia e la varietà degli oggetti in<br />

essa contenuti e si va a sviluppare in un percorso<br />

narrativo con la sequenza dei quadri di sabbie. Le<br />

immagini di “Sand Play”, poco colorate e contenute<br />

delle prime sequenze diventano sempre più<br />

ricche di elementi, di colori e di emozioni; e via<br />

via che ci si addentra nel percorso terapeutico,<br />

esse rendono partecipe il lettore, lo portano dentro<br />

la storia consentendogli di seguire l’evolversi<br />

del processo di cura di Elia. Il suo cammino inizia<br />

“...da una città triste e desolata” e approda “a<br />

una città ideale protetta dagli dei”. Il caso clinico<br />

narrato e trattato con il “Gioco della sabbia” è<br />

quello di un bambino di 8 anni che arriva ad<br />

incontrare la psicoterapia in una situazione di irrequietezza<br />

e paura, una storia ingarbugliata che<br />

attraverso l’incontro con l’analista nella stanza<br />

della sabbia prende senso e si evolve. Il racconto<br />

è la narrazione di una esperienza condivisa che,<br />

come avverte l’autrice nell’introduzione, vuol essere<br />

un “... dare <strong>corpo</strong> alle vicissitudini che avevano<br />

segnato il ‘romanzo individuale’ di un giovane<br />

paziente”, non con una semplice registrazione<br />

di eventi, ma con un susseguirsi di eventi vissuti<br />

e raccontati per un altro che ascolta, accoglie,<br />

custodisce, rivive... Pertanto, si può partecipare<br />

e leggere la storia riportata “come un dispiegarsi<br />

di scenari simbolici che nel loro divenire si fanno<br />

novella” e consentono di guardare al disagio psichico<br />

in modo diverso. Il libro si sviluppa in tre<br />

parti: dopo la breve introduzione e la presentazione<br />

della “storia di Elia”, si percorre, l’evolversi<br />

della terapia attraverso il susseguirsi di sabbie. <strong>La</strong><br />

successiva riflessione sulle fasi del processo consente<br />

di comprendere il setting e le potenzialità<br />

del trattamento con la “Sand Play Therapy” e di<br />

passare ad un approfondimento della metodologia<br />

attraverso l’esperienza personale dell’autrice.<br />

L’incontro dell’autrice con Dora Kalff apre un<br />

interessante capitolo sul metodo del gioco della<br />

sabbia ma soprattutto sulla formazione a questo<br />

approccio terapeutico. “Dora Kalff usava un me-<br />

Cultura 109


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

110<br />

todo di insegnamento che ricordava gli antichi<br />

maestri, un modo di sfogliare le pagine del suo<br />

sapere e quindi di fare teoria che era rivolto non<br />

tanto verso l’esposizione di concetti teorici razionalmente<br />

acquisiti, ma orientava il suo insegnamento<br />

verso campi sperimentali nuovi, dove<br />

i concetti e le nozioni si animavano e si espletavano<br />

non attraverso il dire, ma attraverso il fare.<br />

Un fare dinamico che coinvolgeva la totalità<br />

dell’essere in una azione sperimentale continua e<br />

da cui scaturiva un’ulteriore rielaborazione sia dei<br />

concetti che delle nozioni”(pag.90). Il ricordo di<br />

Dora Kalff a vent’anni dalla sua morte è il tema<br />

della postfazione di Marco Garzonio e nelle pagine<br />

che ricordano lo spirito di Zollikon, la casa<br />

e i luoghi di formazione della fondatrice si ritrova<br />

l’incoraggiamento a praticare la “Sand Play”, ma<br />

anche a scoprire la ricchezza dell’incontro con<br />

l’altro “...è il fare che diventa parola , è la parola<br />

che si fa nell’esperienza del mettere le mani nella<br />

terra. E’ un pensare per immagini”.<br />

Emilia Canato<br />

Veronica Ornaghi, Ilaria<br />

Grazzani Gavazzi<br />

<strong>La</strong> comprensione della<br />

mente nei bambini.<br />

Un laboratorio linguistico<br />

con storie per la<br />

scuola dell’infanzia<br />

Edizioni Erickson, Trento<br />

2009, pp. 108, tavole 113,<br />

€ 19.00<br />

“Nella versione originaria di Wimmer e Perner<br />

al bambino viene presentato il seguente scenario:<br />

un bambino di nome Max ripone la sua tavoletta<br />

di cioccolato nell’armadietto verde della cucina e poi<br />

si reca al parco giochi. Nel frattempo, mentre Max è<br />

fuori a giocare, la sua mamma sposta la tavoletta di<br />

cioccolato dall’armadietto verde all’armadietto blu<br />

ed esce in giardino. Quando Max rientra a casa,<br />

vuole mangiare il suo cioccolato. A questo punto<br />

al bambino viene posta la seguente domanda:<br />

“Dove cercherà Max la sua tavoletta di cioccolato”.<br />

In genere, i bambini di 3 anni rispondono<br />

erroneamente alla domanda, sostenendo<br />

che Max cercherà la sua tavoletta di cioccolato<br />

nell’armadietto blu, ovvero dove si trova realmente<br />

e non dove Max l’aveva riposto prima di<br />

andare al parco giochi. In tal modo, essi dimostrano<br />

di non essere ancora in grado di attribuire<br />

a Max una falsa credenza rispetto a come le cose<br />

stanno nella realtà (…) Al contrario la maggior<br />

parte dei bambini di 4 anni risponde correttamente<br />

alla domanda, ovvero dicendo che Max<br />

cercherà il cioccolato nell’armadietto verde dove<br />

era stato messo prima dello spostamento”. (pagg.<br />

12, 13). Questo è il paradigma più noto, quello<br />

del compito di falsa credenza, della prima fase di<br />

ricerca sullo sviluppo di una teoria della mente<br />

(ToM, dall’inglese Theory of Mind), iniziata negli<br />

anni ottanta, indirizzata a dimostrare la presenza,<br />

in bambini di circa 4 anni, della capacità di rappresentarsi<br />

l’altro come persona che possiede stati<br />

mentali suoi propri (desideri, credenze, false credenze,<br />

etc.). Negli anni successivi, fino ad arrivare<br />

ad oggi, gli studi e le ricerche in questo settore<br />

si sono via via sviluppate ed articolate puntando<br />

sull’indagine del legame tra la capacità, da parte<br />

del bambino, di comprendere i propri e gli altrui<br />

stati mentali e lo sviluppo di altre competenze,<br />

tra cui quelle sociali, emotivo-affettive e linguistiche<br />

(i correlati). Il libro di Veronica Ornaghi<br />

e Ilaria Grazzani Gavazzi, la prima ricercatrice,<br />

l’altra Professore associato, entrambe presso la<br />

Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università<br />

degli Studi di Milano-Bicocca, si inserisce<br />

all’interno di questo panorama di ricerche e approfondisce,<br />

da un punto di vista teorico e applicativo,<br />

la relazione tra sviluppo della comprensione<br />

della mente e linguaggio, focalizzandosi in<br />

particolare sul cosiddetto lessico psicologico, sulla<br />

base del riconoscimento del ruolo decisivo che,<br />

nel binomio, il secondo ha sul primo.<br />

Il testo si divide in tre parti. <strong>La</strong> prima è artico-


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

lata a sua volta in tre capitoli, Lo sfondo teorico,<br />

nel quale si descrivono gli sviluppi degli studi<br />

sulla ToM e i correlati (in particolare Tom e<br />

linguaggio-lessico psicologico); L’esperienza<br />

di training con i bambini: la ricerca, che illustra<br />

un’esperienza condotta in alcune scuole<br />

dell’infanzia di Milano e provincia sul rapporto<br />

tra lessico psicologico e sviluppo della<br />

ToM; Il laboratorio sull’uso del lessico psicologico,<br />

la presentazione di una proposta educativa,<br />

rivolta ai bambini della scuola dell’infanzia,<br />

per l’uso del lessico psicologico finalizzato a<br />

migliorare le competenze legate allo sviluppo<br />

della ToM. Segue una <strong>corpo</strong>sa bibliografia. <strong>La</strong><br />

seconda parte, Appendice A, contiene 16 storie,<br />

Le avventure di Jack e Teo, che forniscono<br />

lo spunto per i giochi linguistici con il lessico<br />

psicologico, accompagnate da altrettante<br />

schede per le attività di gioco linguistico e di<br />

discussione. <strong>La</strong> terza parte, Appendice B, è<br />

composta da illustrazioni colorate che facilitano<br />

la realizzazione del percorso.<br />

Marco Taddei<br />

Torey L. Hayden<br />

<strong>La</strong> foresta dei girasoli<br />

Che cosa nascondono<br />

le storie che una<br />

<strong>madre</strong> racconta?<br />

Corbaccio, Milano 2009<br />

pp. 389, € 19,60<br />

Nel suo ultimo romanzo,<br />

<strong>La</strong> Foresta dei girasoli,<br />

Torey L. Hayden riporta<br />

alla luce l’orrore della guerra e della crudeltà nazista<br />

attraverso le memorie della protagonista.<br />

Ma, contrariamente a quanto verrebbe istintivo<br />

pensare, l’autrice non ci parla dell’orrore della<br />

Shoah; sceglie invece di raccontarci del perverso<br />

e forse meno conosciuto progetto hitleriano<br />

dal bel nome di Lebensborn, la Fonte della Vita.<br />

Anche gli “ariani”, ci ricorda la Hayden, han-<br />

no subito violenza e gli occhi di Mara, donna<br />

bellissima di origine ungherese, non possono<br />

dimenticare il Male e le atrocità commesse. Il<br />

suo cuore e la sua mente sono ormai marchiati<br />

a fuoco dalla Storia, perché Mara ha subito<br />

quella violenza indicibile per una donna, la<br />

più umiliante e psicologicamente devastante<br />

di chi ha subito a soli diciassette anni gli orrori<br />

di Lebensborn. <strong>La</strong> storia di Mara è raccontata<br />

dalla voce della figlia: Lesley ha la stessa età che<br />

aveva la <strong>madre</strong> all’epoca della guerra e attraverso<br />

i suoi occhi vediamo l’effetto devastante del<br />

passato sul presente. Lesley adora la sua bellissima<br />

e affascinante <strong>madre</strong>, che come Sherazade,<br />

racconta storie incredibilmente affascinanti e<br />

fantasiose sulla vita in Germania e Ungheria,<br />

ed è proprio attraverso le sue storie che prende<br />

<strong>corpo</strong> <strong>La</strong> foresta dei Girasoli: un inno cantato<br />

alla vita, al futuro, alla luce e al colore in tempi<br />

da “lupi”. Ma l’antica ferita inconfessabile che<br />

Mara si porta nel cuore diventa giorno dopo<br />

giorno un’ossessione e Lesley fa di tutto per<br />

cercare di comprendere i comportamenti sempre<br />

più strani, quei “momenti della mamma”:<br />

“Credevo che tutte le madri si comportassero così.<br />

Dovevo avere dieci o undici anni quando scoprii<br />

che le altre madri non lo facevano”. Non si può<br />

non rimanere affascinati dalle protagoniste<br />

femminili del romanzo: la forza, la fragilità<br />

e l’innocenza rendono Mara un personaggio<br />

vivo, reale, mentre colpisce la dolcezza e la premura<br />

dell’adolescente Lesley tesa nella tensione<br />

tra l’accudimento della <strong>madre</strong> - Lesley a livello<br />

simbolico rappresenta la <strong>madre</strong> di sua <strong>madre</strong><br />

– e la ricerca del proprio essere donna lontana<br />

dall’ingombrante passato familiare. Un intreccio<br />

di personaggi femminili nel quale trova spazio<br />

un’unica figura maschile, il padre O’Malley, un<br />

uomo che non ha mai fatto granché nella vita<br />

salvo amare Mara incondizionatamente e starle<br />

sempre vicino per combattere i suoi fantasmi:<br />

“Non so quale conclusione trarre: Ora non posso<br />

far altro che vedere gli errori della mamma. Voglio<br />

Cultura 111


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

112<br />

continuarle a volerle bene, sul serio, ma non posso<br />

impedirmi di pensare che buona parte di questo<br />

disastro è stata opera sua” dice Lesley. Risponde<br />

suo padre: “Non so. Quel che so è che non amiamo<br />

le persone perché sono perfette. Se fosse così non<br />

ameremmo nessuno”. Ribatte Lesley:“Ma qual’è<br />

il punto?Tutto ti ferisce alla fine. Se l’amore non<br />

è il rimedio, se l’amore non cambia gli errori delle<br />

persone e non le rende migliori, se continuano<br />

a soffrire e tu ti senti solo ferito, perché darsi da<br />

fare?” Risponde O’Malley: “Perché abbiamo la<br />

possibilità di scegliere. Questa è la vita, Lesley: che<br />

cosa fai con le tue scelte. Puoi scegliere di amare tua<br />

<strong>madre</strong> invece di odiarla. Proprio come tua <strong>madre</strong><br />

scelse di vedere girasoli invece che lupi. Così riuscì<br />

a sopravvivere. Così riuscì a non farsi distruggere<br />

da quello che le accadeva e, no, non era perfetto,<br />

ma nemmeno il mondo lo è. Scegliere come vederlo<br />

è l’unico vero potere che abbiamo”.<br />

<strong>La</strong>ura Conti<br />

Elisabeth Badinter<br />

Le conflit.<br />

<strong>La</strong> femme et la mere<br />

Flammarion Lettres,<br />

Paris, pp. 256, € 18,00<br />

Abbiamo un nuovo<br />

reato, l’ apologia della<br />

Madre Perfetta. Elisabeth<br />

Badinter è convinta<br />

che dovrebbe essere<br />

perseguito come un vero crimine. Nel<br />

suo nuovo saggio, la filosofa francese insorge<br />

contro i nuovi modelli femminili che mettono<br />

al centro di ogni cosa la maternità felice.<br />

«Sono una <strong>madre</strong> mediocre e rivendico il diritto<br />

a esserlo», spiega invece lei, femminista<br />

storica e mamma di tre figli. Il libro arriverà<br />

nelle librerie francesi tra pochi giorni ma le<br />

prime anticipazioni hanno già provocato<br />

spaccato in due l’ opinione pubblica, divisa<br />

tra elogi e contumelie. Il Conflitto. <strong>La</strong> don-<br />

na e la <strong>madre</strong>, pubblicato da Flammarion,<br />

è un lungo atto d’ accusa contro la retorica<br />

familistica imperante. Ma è anche un’ amara<br />

presa d’ atto. <strong>La</strong> famosa conciliazione tra<br />

lavoro e famiglia, tanto auspicata alla fine<br />

degli anni Settanta, è ancora impossibile. <strong>La</strong><br />

rivoluzione femminile non ha portato pari<br />

opportunità nel mondo del lavoro e così<br />

spesso le donne devono scegliere tra professione<br />

e desiderio di maternità: diventano,<br />

scrive Badinter, ostaggio di questo conflitto.<br />

Per la filosofa francese, il nuovo pamphlet è<br />

il seguito ideale di L’ amore in più (1980)<br />

che già si scagliava contro la teoria dell’istinto<br />

materno innato, sul quale le femministe<br />

discutono da decenni. Ora invece denuncia<br />

la cancellazione della “ambivalenza” nella<br />

maternità. L’ essere <strong>madre</strong> oggi non prevede<br />

sfumature, contraddizioni. Soltanto un<br />

modello di perfezione al quale omologarsi.<br />

<strong>La</strong> conclusione è ironica, ma neanche troppo:<br />

il dominio maschile è stato sostituito<br />

da quello del bambino, piccolo tiranno<br />

che detta legge in casa. Al fondo di tutto<br />

c’ è la colpevolizzazione delle donne. Che<br />

si sentono sempre in affanno, inadeguate.<br />

Badinter identifica nei primi anni ‘ 90 il<br />

momento in cui è iniziato il declino. Con<br />

la crisi economica di allora, le donne sono<br />

state costrette a tornare tra le mura domestiche,<br />

ad accudire i figli. «Da quel momento<br />

- analizza la filosofa - non siamo più andate<br />

avanti». Le lavoratrici guadagnano ancora<br />

il 20 per cento in meno dei colleghi, sono<br />

le prime licenziate e hanno spesso impieghi<br />

precari o part time. Nell’ultima parte del<br />

libro, Elisabeth Badinter attribuisce colpe<br />

e responsabilità di questa involuzione. Ed<br />

è questo il passaggio che sta suscitando più<br />

reazioni. A suo parere, le prime indiziate<br />

sono le neofemministe che hanno sposato<br />

la retorica familistica. Seguono poi alcuni<br />

psicologi infantili, che scoraggiano le madri


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

cinema<br />

lavoratrici, fino ai militanti della Lega <strong>La</strong>tte<br />

e persino agli ambientalisti che costringono<br />

la donna a tornare nei ruoli più tradizionali.<br />

«Badinter è una vetero-femminista che rifiuta<br />

la maternità», ha commentato Edwige Antier,<br />

deputata del partito di destra Ump e<br />

psicologa. «Forse - aggiunge - non ha capito<br />

che le donne oggi scelgono liberamente di<br />

non rinunciare al desiderio di maternità. È<br />

un progresso, non un arretramento». Anche la<br />

leader dei Verdi, Cécile Duflot, si è sentita<br />

chiamata in causa. Ha 34 anni, quattro figli,<br />

eppure sta girando la Francia per la campagna<br />

elettorale delle regionali. «Rimettere<br />

la natura al centro delle nostre vite non vuole<br />

dire accettare per forza un modello patriarcale.<br />

Quello di Badinter - ha detto Duflot - mi<br />

sembra un approccio sbagliato e soprattutto un<br />

po’ datato». -<br />

Anais Ginori<br />

(Recensione apparsa su <strong>La</strong> Repubblica, 8 febbraio<br />

2010 con il titolo Badinter e l’ elogio della <strong>madre</strong><br />

mediocre. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione<br />

alla pubblicazione)<br />

Un felice benvenuto a coloro che entrano in<br />

questo luogo dedicato ai film e alla loro forza<br />

di formare. In appendice alla rivista e ai<br />

confini con la sezione dedicata ai libri, se ne<br />

apre un’altra destinata al cinema. Qui viene<br />

proposto un film scelto tra quelli ritenuti più<br />

capaci di attirare la nostra attenzione su visioni<br />

insolite. E’ ben specificare che, anche se in<br />

questa sezione a farla da padrone è il film, in<br />

realtà esso viene considerato solo una parte del<br />

complicato dispositivo pedagogico che è il cinema.<br />

Cioè, l’oggetto dei nostri ragionamenti<br />

saranno i film ma –sempre- terremo presente<br />

la più ampia condizione percettiva ed estetica<br />

creata dal cinema che, per la sua specificità,<br />

risulta particolarmente capace di attivare processi<br />

formativi.<br />

LO SPAZIO BIANCO<br />

di Francesca Comencini<br />

Italia, 2009<br />

Produzione Fandango<br />

Distribuzione<br />

01 Distribution<br />

<strong>La</strong> trasparenza della<br />

<strong>madre</strong><br />

Lo spazio bianco è<br />

un’interruzione, un fuori<br />

campo, una pausa mentale<br />

che separa il presente dal futuro, una ferita,<br />

un sospeso che tiene la <strong>madre</strong> vicina e lontana<br />

dalla sua creatura. Lei, la <strong>madre</strong>, è Maria, ha<br />

oltre quarant’anni, una casa in affitto, un lavoro<br />

come insegnante precaria, amori passeggeri.<br />

Vive una vita stretta nel perimetro del presente,<br />

la macchina da presa ce la presenta nel suo rituale<br />

quotidiano: preparare la colazione al mattino,<br />

andare al cinema di pomeriggio, insegnare<br />

al corso serale dopo il tramonto. Ogni giorno,<br />

senza rumore, senza colore, in totale solitudine,<br />

la sua vita. Napoli è la città in cui scorre la vicenda,<br />

la metropoli fa da sfondo, lascia da parte<br />

il suo protagonismo e fa spazio, con modestia e<br />

generosità, alla scia emotiva di Maria, una scia<br />

che penetra nelle urgenze metropolitane. Poi<br />

un incontro, la gravidanza. “Sono ormai vecchia<br />

per avere figli e per le pene d’amore”, dice<br />

lei. Dopo un primo piano, muto, dell’ecografia<br />

del feto e del controcampo del volto assorto di<br />

lei, lo schermo si fa bianco. Veniamo trasportati<br />

di colpo sei mesi più avanti.<br />

Maria è in una sala di ospedale dalle pareti bianche,<br />

tra infermieri in camice bianco che la accompagnano<br />

accanto all’incubatrice di sua figlia,<br />

nata prematura e bisognosa di ossigeno. Passa<br />

notti in bianco accanto alla figlia. Di lei non<br />

vuole pronunciare neppure il nome per paura<br />

di affermare l’esistenza di una nascitura che non<br />

promette che nascerà. Il suo nome è Irene.<br />

In bilico tra il dentro e il fuori assistiamo impotenti<br />

all’attesa di un evento che non possiamo<br />

Cultura 113


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

114<br />

prevedere. Siamo tutti nel bianco che accoglie<br />

e mescola tutti i colori; un bianco che è un potenziale<br />

tutto. O niente. E noi assistiamo come<br />

dall’interno ad un percorso di formazione:<br />

come se ci venisse resa trasparente l’ultima fase<br />

della gravidanza, i vetri ci rendono visibile il<br />

percorso fisiologico di crescita della bimba dentro<br />

all’incubatrice (che, poi, è un utero esterno),<br />

ci rendono limpidi i pensieri aggrovigliati della<br />

donna che si chiede se sua figlia nascerà o morirà.<br />

Sospesi tra il dentro e il fuori della mente<br />

e del <strong>corpo</strong> di Maria. Siamo sul filo, stiamo alimentando<br />

una creatura che non ci assicura di<br />

venire alla luce sana e salva. Ma quale gravidanza<br />

ci assicura che sarà sana e salva?<br />

Il bello di questo film è la sua capacità di<br />

offrire allo sguardo i pensieri non parlati di<br />

una donna che vuole e non vuole la nascita<br />

di sua figlia, che accetta e rifiuta la maternità.<br />

I suoi sono pensieri non tradotti che<br />

ci arrivano agli occhi per mezzo del volto<br />

di lei, appoggiata al silenzio delle musiche<br />

incalzanti della colonna sonora.<br />

<strong>La</strong> donna che mette in discussione il suo<br />

potenziale di <strong>madre</strong> è figlia di questi tempi:<br />

lo voglio o non lo voglio, un figlio? Me lo<br />

posso permettere? Tra quanto tempo? Sarò<br />

in grado di fare spazio a una creatura appena<br />

nata, io che non ho spazio per me? Se<br />

la maternità è una scelta, è una scelta assai<br />

difficile tra le donne immerse nel vortice di<br />

lavori a termine, con relazioni a termine e<br />

abitazioni a termine. Ce lo ricorda la filosofa<br />

Elisabeth Badinter con il suo ultimo<br />

libro Conflit, la Femme et la Mere dove il<br />

conflitto, interiore ed esteriore, è vissuto<br />

dalle donne madri che rinunciano al lavoro<br />

perché sono asfissiate dal senso di colpa di<br />

non fare abbastanza per il neonato ed è vissuto<br />

dalle donne che non diventano madri<br />

perché non vogliono rinunciare al lavoro.<br />

Ci sono donne childless (donne a cui mancano<br />

i figli) e donne childfree (donne libere<br />

dai figli), scrive la filosofa francese. Maria è<br />

stretta nella morsa di queste due tipologie: il<br />

senza figli come libertà o il senza figli come<br />

carenza? <strong>La</strong>sciamoci aperta la domanda. Il<br />

film indica il dolore nel suo semplice fluire,<br />

ma pure la bellezza del soffrire per amore.<br />

ONGAKU<br />

Sarà la musica che gira intorno, come canta<br />

Fossati, sarà l’acqua sporca della musica, come<br />

stigmatizza Kundera, sarà quel che sarà...<br />

Ma la musica, le canzoni costituiscono qualcosa<br />

di più di una semplice colonna sonora che<br />

accompagna la nostra esistenza. In luogo di<br />

starsene tranquille in disparte, come un’ombra<br />

emotiva ma discreta, loro ci entrano dentro, ci<br />

segnano, ci possiedono. E noi ricambiano la<br />

loro seducente invadenza con una fedeltà che<br />

la memoria sigilla con un timbro indelebile.<br />

Passano gli anni, le ore, talvolta solo i minuti,<br />

e dimentichiamo tutto, quello che vogliamo<br />

dimenticare, ma soprattutto quello che non<br />

desideriamo cancellare.<br />

Con un motivo musicale, una canzone, no: è<br />

diverso! Restano in mente ritornelli stupidi,<br />

nenie infantili che sconfiggono il tempo, se la<br />

ridono di lui e di noi. Come se ci provocassero.<br />

Succede addirittura, però, che inventino<br />

miracoli...<br />

Cristiano De André<br />

De André canta De<br />

André. Live<br />

Etichetta Family srl,<br />

2009, € 20,90<br />

Siamo il buio, la notte<br />

che vuole regnare sovrana, ignorando il<br />

pensiero dell’alba. Siamo gli effluvi che la<br />

terra accompagna con rumori, frastuoni assordanti.<br />

Siamo la vicina del piano di sotto<br />

che strepita e grida e non sa nemmeno, forse,<br />

musica


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi<br />

con chi e perché, mentre tu guardi il soffitto<br />

e imprechi senza che il soffitto ti risponda<br />

e i tuoi occhi si chiudano arrendendosi<br />

al sonno. Siamo la menzogna a cui fingiamo<br />

di credere solo per evitare che la verità ci si<br />

pari davanti come un terrorista incappucciato<br />

con il mitra spianato. Siamo la piuma a<br />

cui si aggrappava Dumbo, ma siamo anche<br />

Dumbo che, sfidando le leggi di gravità, cerca<br />

di volare. Siamo il fondo, tetro, insieme al<br />

suo opposto, uno spiraglio di luce, mai del<br />

tutto chiaro, pasticciato, ambiguo. Seppure<br />

a tratti luminoso.<br />

Che c’entra, direte voi questa manfrina con<br />

l’ultimo cd di Cristiano De André, dal titolo<br />

De Andrè canta De André? Eppure sì,<br />

c’entra, fidatevi… Il cd di Cristiano paga il<br />

suo tributo a due demoni contraddittori, in<br />

conflitto tra di loro. Il primo è quello che<br />

veste i panni del re dell’improbabile.<br />

Che senso ha un cd del genere? Per lui, per<br />

il pubblico che è accorso ai suoi concerti, per<br />

noi? Il figlio canta le canzoni del padre, quasi<br />

prendendosi per lui o, comunque, alimentando<br />

un equivoco che la gente impietosamente<br />

e a gran voce esige. Un padre geniale,<br />

indubbiamente, quanto non poco distruttivo,<br />

devastante nel suo ruolo paterno. L’irritante<br />

beatificazione del grande cantautore<br />

genovese rende un pessimo servizio alla sua<br />

stessa figura ed all’intelligenza di chi lo ama.<br />

L’ansiosa retorica che ormai domina ogni discorso<br />

su di lui esaspera quel che di per sé<br />

è già, per sua natura, esasperante: il rifiuto<br />

testardo del lutto, la non accettazione della<br />

caducità che marca l’esistenza. Il pubblico<br />

non vuol saperne della morte, di quella di<br />

Fabrizio “Faber” De André. E, dietro di lui,<br />

della propria. Cristiano fa del suo meglio per<br />

riprendere le canzoni del padre. Sembra un<br />

equilibrista in bilico su una fune: deve essere<br />

simile al padre e, nel contempo, differenziarsi.<br />

Impresa impossibile, non invidiabile.<br />

<strong>La</strong> sua voce si tiene lontana dalla gravità di<br />

quella del padre, fenomeno che lo danneggia<br />

in alcuni pezzi come “Smisurata preghiera”;<br />

così come, invece, tradisce spesso timbri del<br />

tutto simili, quasi indifferenziabili con quella<br />

di Faber. Dà i brividi, ad esempio, ascoltare<br />

“Amico fragile”, la canzone più autobiografica<br />

di Fabrizio. “Chi” la canta, in definitiva? E<br />

cosa prova Cristiano nell’eseguirla? Il pubblico<br />

applaude, domanda il bis. Tutto sembra<br />

un po’ irreale, estraniante, come se qualcosa<br />

andasse confuso… Un confine si smarrisse.<br />

Nel dvd allegato al cd, Cristiano si appella<br />

a un passaggio di testimone, dal padre a lui,<br />

ma si ha la sensazione opposta, come se l’impasse<br />

avesse la meglio… Un passaggio suppone<br />

una rottura, un taglio, un tradimento,<br />

non una riproduzione.<br />

Il secondo demone è quello che, invece,<br />

presiede alla necessità della vita. Ora riarrangiate,<br />

ora meno, le canzoni circolano. In<br />

questa reiterazione del prima, del già sentito<br />

ritorna pur tuttavia la poesia di Faber ed è<br />

quel che fa sempre bene alla testa e al cuore.<br />

Ciascuno vi prende e vi ritrova un attimo<br />

di bellezza, di quella che incanta e nutre.<br />

Quasi fosse un filo rosso che, insinuandosi<br />

nell’improbabile, mantiene aperte strade<br />

nuove o ancora tutte da percorrere o che<br />

magicamente resistono a quell’incuria cui<br />

la quotidianità ci abitua. Sottratte al ricatto<br />

della nostalgia, le canzoni di Faber possono<br />

così acquistare forza, lottare per ambire a<br />

una loro rinnovata autonomia. Dimenticando<br />

quel che occorre dimenticare per provare<br />

a sorprendersi. Ciò è salutare per chi ascolta,<br />

ma anche per chi, forse, canta. Cristiano<br />

dichiara nel dvd che sta preparando un<br />

suo cd per l’anno prossimo. E’ una notizia<br />

che ci rallegra. Mai disperare. Facciamogli<br />

auguri e aspettiamo un nuovo lavoro tutto<br />

suo. Buona fortuna, coraggio.<br />

Angelo Villa<br />

Cultura 115


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura<br />

ARRIVATI_IN_REDAZIONE<br />

116<br />

Luc de Brabandere<br />

Pensiero magico pensiero logico.<br />

Piccola filosofia della creatività<br />

Ed. Castelvecchi,<br />

Roma 2010, pp. 182, € 16,50<br />

Nel regno del pensiero umano esiste un territorio ancora inesplorato:<br />

un luogo dai confini indefiniti dove si nascondono opportunità dal<br />

valore incalcolabile e nuove possibilità. E è proprio questo, secondo<br />

Lue de Brabandere, indiscussa autorità mondiale nell’applicazione<br />

della creatività al business, il luogo con cui bisogna confrontarsi<br />

quando, negli affari o nella vita di tutti i giorni, l’innovazione smette<br />

di essere un semplice bisogno per diventare una necessità...<br />

Luigi Ballerini<br />

Parole di traverso.<br />

Racconti da non prendere alla lettera<br />

Ed. Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 72, € 14,50<br />

In questo libro sono raccolte sei storie bizzarre, originali e divertenti,<br />

ognuna basata su un modo di dire che, anziché essere compreso<br />

in quanto tale, viene preso alla lettera dai protagonisti, portando<br />

a simpatici fraintendimenti. Sei storie e sette bambini, impegnati<br />

nel trovare una soluzione a questioni per loro molto importanti: c’è<br />

Filippo che ha una famiglia che “va a rotoli”, nel senso che trae dai<br />

rotoli l’energia per muoversi, parlare, vivere...<br />

Elena Madrussan<br />

Forme del tempo. Modi dell’io.<br />

Educazione e scrittura diaristica<br />

Ibis, Como-Pavia 2009, pp. 150, € 15,00<br />

Il diario è da sempre riconosciuto come il luogo della conoscenza<br />

intima di sé, ma la sua pratica oggi pare irrimediabilmente viziata<br />

dal venir meno dei suoi presupposti fondamentali: il tempo per la<br />

scrittura; la formazione di un io solido; l’esercizio della verità. A<br />

partire dalle alterazioni della tradizione letteraria diaristica e attraverso<br />

l’analisi delle possibilità autoeducative di questa pratica affascinante,<br />

l’Autrice propone un nuovo modo di concepire il diario...<br />

Sabrina Avakian<br />

Bambini al rogo<br />

Salani Editore, Milano 2010, pp. 127, € 12,00<br />

In Angola è ancora viva una tradizione secondo la quale in presenza<br />

del ‘male’ si deve trovare un capro espiatorio. Le vittime sono<br />

per la maggior parte bambini, spesso piccolissimi, che una volta<br />

accusati subiscono ogni genere di soprusi: dai maltrattamenti agli<br />

abusi, dall’allontanamento dalle proprie famiglie e dalla comunità<br />

di appartenenza, allo sfruttamento fino ad arrivare, in casi troppo<br />

spesso frequenti, anche alla loro uccisione...


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione<br />

Matteo Negro, Fabio Claramelli, Giudo Nicolosi<br />

Figure della <strong>corpo</strong>reità.<br />

L’esperienza del <strong>corpo</strong> nell’era delle biotecnologie.<br />

Ed. Città Aperta, Troiana (EN) 2009, pp. 212, € 20,00<br />

Le trasformazioni di carattere tecnologico e antropologico che la<br />

nostra civiltà subisce e nello stesso tempo promuove a un ritmo<br />

incessante suscitano una lunga serie di interrogativi inediti, di cui<br />

la ricerca teorica non può non tener conto. è urgente innescare una<br />

riflessione profonda attorno al vissuto della <strong>corpo</strong>reità e alla sua<br />

frammentazione, accentuata dai progressi delle biotecnologie...<br />

Simona Alberti<br />

Pratiche filosofiche a scuola.<br />

<strong>La</strong> classe, l’ascolto,<br />

il racconto autobiografico, il pensare simbolico<br />

Ipoc Editore, Bologna 2009, pp.288, € 22,00<br />

Un’insegnante della scuola superiore racconta la sua esperienza<br />

di praticante filosofa con gli studenti; la pratica filosofica è<br />

caratterizzata dalla dimensione comunitaria, e una classe di studenti<br />

con il loro insegnante è proprio una comunità contraddistinta dalla<br />

comunicazione, dal dialogo e dal confronto che si svolgono in uno<br />

spazio e in un tempo comuni...<br />

P. Rossi<br />

Fine del diritto?<br />

Il Mulino, Bologna 2009, pp. 102, € 10,00<br />

L’immagine del diritto come sistema di norme disposte<br />

gerarchicamente, riconducibili tutte a una fonte unica, appare in<br />

declino, non solo perché all’attività legislativa statale si affiancano<br />

altre fonti subnazionali e sopranazionali, ma anche perché l’attività<br />

legislativa stessa procede attraverso decretazione, sotto la spinta<br />

di interessi e posizioni ideologiche, senza assicurarsi spesso la<br />

compatibilità con le leggi vigenti....<br />

Ferdinando Pellegrino<br />

<strong>La</strong> malattia di Alzheimer.<br />

Comunicare la diagnosi<br />

Carocci Editore, Roma 2009, pp. 131, € 12,50<br />

Professione, comunicazione e malattia sono le parole chiave di questo<br />

libro scritto pensando a come, nella pratica professionale, la relazione<br />

tra il medico ed il paziente abbia luogo attraverso la comunicazione: le<br />

parole del medico fanno guarire o ammalare, ridanno speranza dove<br />

il vuoto dell’esistenza si avvicina inesorabile. In una prassi medica in<br />

cui prevale il tecnicismo l’assistenza al paziente con Alzheimer diventa<br />

un importante momento di riflessione per recuperare la dimensione<br />

antropologica del rapporto medico-paziente e per valutare ogni<br />

opportunità che consenta al paziente e ai suoi familiari di tendere a<br />

obiettivi in grado di assicurare sostenibili livelli di qualità di vita...<br />

Cultura 117


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione<br />

118<br />

C. Widmann<br />

Il male. Categoria morale, patologia psichica, realtà umana<br />

Editore Ma.Gi, Roma 2009, pp. 220, € 18,00<br />

Figure sinistre grondano sangue di stragi familiari, tramano<br />

nell’ombra un terrore internazionale, s’inebriano di sesso estremo;<br />

pedofili rapiscono bambini, madri di morte abbandonano neonati,<br />

signori della guerra prosperano di cadaveri... In questo saggio la<br />

psicologia del profondo scruta il lato oscuro della psiche, dove la<br />

follia confina con la malvagità. Il male sgorga da quelle profondità<br />

d’ombra e intreccia relazioni costanti con le sfere luminose della<br />

coscienza e dell’io...<br />

Novelletto Arnaldo<br />

L’ adolescente.<br />

Una prospettiva psicoanalitica<br />

Astrolabio Ubaldini, Roma 2009, pp. 363, € 29,00<br />

Pioniere e maestro nel campo della psicoanalisi dell’adolescenza,<br />

Novelletto è stato il primo in Italia a porre l’attenzione sulle<br />

profonde differenze tra infanzia e adolescenza, evidenziando<br />

nettamente le peculiarità dell’approccio clinico agli adolescenti. Gli<br />

scritti qui pubblicati affrontano una varietà di tematiche teoricocliniche<br />

che testimoniano l’ampiezza del suo orizzonte: la mente<br />

adolescente infatti non si esaurisce nell’arco evolutivo di qualche<br />

anno, non è solo un transito fra l’infanzia e l’età adulta, ma uno<br />

stato presente in tutti noi e potenzialmente attivo...<br />

C. <strong>La</strong>rmore<br />

Dare ragioni.<br />

Il soggetto, l’etica, la politica<br />

Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 152, € 14,00<br />

Un volume edito solo in italiano, in cui il noto filosofo americano<br />

condensa il suo percorso che si misura con le grandi questioni<br />

dell’etica, della verità, del soggetto, della politica. Senza essere<br />

scettico, il suo approccio soppesa le ragioni di una scelta filosofica<br />

riconoscendo che altre scelte hanno anch’esse buone ragioni per<br />

esser fatte valere: è ciò che egli chiama la “legge della conservazione<br />

dell’imbarazzo”...<br />

Henrich Dieter<br />

Metafisica e modernità.<br />

Il soggetto di fronte all’assoluto<br />

Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 144 , € 15,00<br />

Uno dei più autorevoli filosofi tedeschi contemporanei ricostruisce<br />

come un archeologo il senso complessivo dell’idealismo<br />

analizzandone i testi fondatori e il contesto culturale in cui si sono<br />

formati. Ma questa ricostruzione, pur minuziosa, non ha carattere<br />

filologico. L’idealismo mostra qui la sua attualità non esaurita, e<br />

riformula la questione dell’assoluto nel tempo della modernità, ossia<br />

nel tempo che ha nel soggetto un proprio motivo centrale...


SOCIETÀ DI PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA SCRITTURA<br />

Scrittura e professioni di cura<br />

ANGHIARI 14 - 15 MAGGIO 2010<br />

14 MAGGIO - Castello di Sorci 15 MAGGIO - Teatro Piazza IV Novembre<br />

Ore 15,00 - Apertura del Simposio:<br />

Saluti delle Autorità<br />

Franco Frabboni, Presidente di Graphein<br />

Duccio Demetrio, Direttore scientifico di Graphein<br />

Ore 16,00 - Scrittura e cura: punti di vista a confronto<br />

Introduce: Vanna Iori<br />

Ne parlano: Gemma Martino<br />

Luigina Mortari<br />

Sergio Tramma<br />

Lucia Zannini<br />

Ore 18,00 - Apertura dei gruppi di lavoro<br />

1° Gruppo: Scrittura e cura nei contesti educativo-sanitari<br />

Coordinano: Alessandra Augelli, Daniele Bruzzone<br />

e Elisabetta Musi<br />

2° Gruppo: Scrittura e cura nella scuola<br />

Coordinano: Elisabetta Nigris e Cosimo <strong>La</strong>neve<br />

3° Gruppo: Scritture e cura nel lavoro sociale<br />

Coordinano: Pierangelo Barone e Riccardo Pagano<br />

4° Gruppo: Scrittura e cura nei luoghi di segregazione<br />

Coordinano: <strong>La</strong>ura Formenti e Beppe Pasini<br />

5° Gruppo: Scrittura e cura nelle esperienze di malattia<br />

e di perdita<br />

Coordinano: Maria Antonella Galanti e Nicola Ferrari<br />

Ore 19,30 - Presentazione del secondo volume<br />

per la collana Egoscritture, edizioni Erickson<br />

<strong>La</strong>ura Formenti presenta: Attraversare la cura<br />

Ore 20,30<br />

Cena al Castello di Sorci<br />

Ore 9,00 - 12,30<br />

Prosecuzione dei Gruppi di lavoro<br />

Ore 12,30<br />

Conferimento del Premio Graphein a Domenico Starnone<br />

Ore 13,30<br />

Chiusura dei lavori<br />

PER INFORMAZIONI:<br />

www.graphein.it<br />

simposio@graphein.it

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