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anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009 - Pedagogika

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<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/editorialeIl milieu educativoMaria PiacenteProviamo a pensare ad una bambina o ad un bambino che stia per accingersi a farel’esperienza del suo primo giorno di scuola. I primi passi verso un sapere altro che sente comequalcosa di completamente nuovo che gli sta venendo incontro. Le esperienze precedentisono state, fino a quel momento, finalizzate alla scoperta di quella parte di sé più legata allacreatività, alla naturale curiosità che il piccolo metteva in campo fino a farne un’esperienzaed una conoscenza corporea, dove l’unicità del soggetto aveva avuto in qualche modo lameglio nello spazio fisico e temporale. Le intenzioni educative dei genitori, delle educatricidell’asilo nido, delle maestre della scuola materna erano per lo più rivolte a fare emergerequella parte creativa sempre saldamente connessa al corpo-mente del “nuovo” nato.Ora il debutto all’esterno della casa dei genitori presuppone un altro tipo di apertura: labambina ed il bambino, come dicevamo, andr<strong>anno</strong> incontro a nuovi saperi che h<strong>anno</strong>a che vedere più con lo sviluppo di abilità di astrazione. In qualche modo viene lororichiesto di allontanarsi dai genitori, dalla loro contiguità fisica e affettiva mantenuta,fino a quel momento, nei vari contesti educativi nei quali i bambini si sono intrattenutifino ai cinque anni di età. Il dentro e fuori di prima deve adesso comprendere anche lacapacità di abbandonare qualche bisogno primario; si allude così ad una sorta di svezzamentonecessario per entrare in società, inserirsi nel nuovo contesto sociale e intraprendereil percorso verso l’autonomia. Occorre imparare delle cose nuove, misurarsi e ancheimparare a mantenere maggiore distanza da casa, dalla mamma, dal papà, dai fratellini.I prodromi di questi nuovi scenari si possono leggere nei gesti e nelle parole che vengonocompiuti, sia dai genitori sia dai bambini, il Primo Giorno di Scuola. Di solito c’è l’appello,la “chiamata” del bambino nella classe di appartenenza: il bambino viene “nominato”,nome e cognome, per intraprendere un viaggio nuovo. Egli sente un investimentospeciale verso di sé da parte dei suoi genitori, intuendo l’importanza che questo passaggiodi vita porta si porta dietro. Anche la scuola sembra attrezzarsi per esso, sottolineandoloanche con certi rituali.Poi, ogni giorno, verrà chiesto ai bambini: “come è andata a scuola?” Quelli meno riottosisar<strong>anno</strong> felici di rispondere e, a scuola, il Diario di Bordo pensato dalle brave maestre verràdebitamente compilato dai nostri piccoli; i loro grandi e piccoli successi sar<strong>anno</strong> oggetto didiscussione, confronto, interpretazione da parte di tutte le maestre, anche di una che, ancoratanto depressa per un lutto recente, saprà dare, con il silenzio, il suo contributo.Passano i mesi e i bambini continuano quotidianamente ad accumulare saperie nuove esperienze. Qualcuno, più difficile(?), non ne vuole sapere di sapereil sapere, forse è ancora troppo troppo piccolo e non intende mollare lagonnella della mamma o i pantaloni del papà. Non vuole ancora staccarsi dallasua famiglia. Passano i mesi, presto arriva anche giugno e la fine della scuola.L’<strong>anno</strong> successivo, il primo giorno di scuola, nuovi bambini sar<strong>anno</strong> chiamati dallemaestre a formare una nuova classe; certo ancora “la classe” non metterà a dura prova leinsegnanti e gli insegnanti (pochi, come noto, questi ultimi) per la tenerà età degli allie-5


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/editorialevi. Per ancora un bel po’ di anni l’età delle ragazzine e dei ragazzini delle elementari potrebbenon costituire problema: il rapporto tra chi insegna e chi accetta l’insegnamentosembra tenere ancora e, tra riti propiziatori, fatica degli insegnanti nel rinnovare se stessie i modi dell’insegnare, la scuola primaria italiana riesce ad essere una delle migliori.Ma, e lo si è detto più volte, abbiamo, in Italia, la cattiva abitudine di riformare ciò chefunziona meglio e l’insegnamento nella scuola primaria sembra costituirne ottimo esempio.Ciò che ora non tiene, non arriva dalla scuola, non arriva dalle insegnanti edagli insegnanti che, nel loro mestiere, sono, in gran parte, impegnati nella ricercao nella riconquista della passione e del desiderio necessari per trasmettere il sapereall’interno di un sofferto progetto educativo, un progetto educativo che abita faticosamentein quel “Milieu” educativo di cui Riccardo Massa anticipava il tramontogià nel 1999, poco prima della sua scomparsa.Pensiamo che, al di là delle sempre attuali problematiche legate alla nostra liquidasocietà attuale e alla difficoltà che la trasmissione di valori e saperi oggi comporta,non ci si possa semplicemente rassegnare ad una selvaggia legiferazione chemette in crisi entusiasmi e motivazioni, che fa arretrare di decenni una scuola permolti versi meritevole di stima.Sappiamo che la Scuola è alla mercé dei Governi in carica, ma ora le recentiriforme ad essa afferenti aprono davvero scenari non solo inusuali ma, addirittura,consapevolmente distruttivi. A dispetto delle pubbliche dichiarazioni di rispettodelle scelte dei genitori in materia, per esempio, di tempo pieno, circolano in realtà,in questo periodo, direttive che riducono il ruolo degli organi collegiali allamera espressione di pareri non vincolanti, l’assenso dei Comuni viene reso irrilevante:su tutto domina l’imperativo del contenimento della spesa e, in barba allescelte delle famiglie, gli organici andr<strong>anno</strong> decisi in funzione dei costi.Molti parlano – esagerano? - di “controriforma” messa in atto dall’attuale Ministro.Franco Frabboni, nell’articolo di apertura di questo Dossier sulla scuola, sostieneche in questi giorni si stia tentando di sventrare il cuore della Scuola Pubblica, laddoveil termine “meno” impera in tutto il sistema scolastico: “le due gloriose architravidel nostro glorioso sistema scolastico, diritto allo studio e qualità dell’istruzione, vengonodemolite”. E qui non si parla di rifiuto del cambiamento o dell’innovazione.A noi che, dalle pagine di questa rivista abbiamo tentato, nel corso di questi anni,di dare corpo ad un cambiamento della scuola, non ad un semplice make-up e neancheradicale snaturamento, non resta che ricordare e riferirci a quanto, in materia di cambiamento,Riccardo Massa sosteneva: “Esiste una specifica attitudine alla creatività pedagogica,quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di contenutio di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare undispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”.A noi che pure a quella ricerca siamo, direi quasi costitutivamente, interessatinon rimane che impegnarci, in questi difficili momenti, ancora nella difesa dellaScuola Pubblica e sottolineare con forza il diritto di tutti alla conoscenza. E con leparole di un film di Zhang Yimou di qualche <strong>anno</strong> fa, riprese da Frabboni, ripeterecon forza : “Non uno di meno! Nella casa democratica della Scuola”.6


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/dossierScuola. Non uno di menoNell’affrontare il dossier “Scuola. Non uno di meno”, che potrete leggere – ciauguriamo con qualche stimolo - su questo numero di <strong>Pedagogika</strong>.it, è riaffiorata allanostra mente la figura di Riccardo Massa, filosofo dell’educazione il cui insegnamentocostituisce per noi un punto di riferimento. Un vero educatore, Massa, attraversatoda una vera passione che accompagnava i toni della sua riflessione, provocatoria, maibanale e sempre autorevole, sul senso dell’educazione e dell’istruire. Lo testimonia lasua proposta radicale di “Cambiare la scuola”, dal titolo di un suo saggio del 1997,ripensandone la forma piuttosto che – riduttivamente – gli elementi di funzionalitàdidattica, organizzativa o progettuale. In questo libro egli scriveva: “Per poter cambiarela scuola, come per poter operare qualunque cambiamento, occorre per prima cosa,aldilà dei soliti discorsi di carattere politico e istituzionale, un esercizio di pensiero. Soloattraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di concreto. La scuola chiededi essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata”.Non appaia fuor di luogo, ma pensiamo che ancora oggi di questa dignità del discorsopedagogico continui a sentirsi l’urgente bisogno. Non certo del “cambiare lascuola” introdotto dalla “riforma” Gelmini, il cui unico merito è quello di riportarela riflessione “in piazza”. Dove, in piazza, si sta non soltanto come appartenenti almondo della scuola, come addetti ai lavori ma, secondo solida idea di democrazia,come cittadini. E, in quanto cittadini, il tema, la questione all’ordine del giorno,a nostro parere, continua ad essere quella dell’idea di società che attraverso l’ideadi scuola si intende promuovere. Sullo scorso numero di questa rivista, nella sua“Lettera aperta al Ministro Gelmini”, una dirigente scolastica scriveva: “La scuolaè diventata fucina di nuova cittadinanza e presidio prioritario per prevenire razzismi,egoismi, separazioni, emarginazioni. ...Tornare indietro significherà umiliarela cultura dei docenti della scuola... ma, soprattutto, far regredire il Paese”.Se, come riteniamo, valgono ancora qualcosa i principi di inclusione sociale,di allargamento dei diritti di cittadinanza, di centralità della scuola pubblica comeluogo della formazione laica e plurale, di educazione come valorizzazione dellesoggettività e dei saperi, allora è bene riaffermarli con forza. E in tale atto riteniamonostro compito ineludibile quello di non limitarci alla pura e semplice contrapposizionedettata dalle modalità delle retoriche e delle pratiche politiche in atto - nellequali poco o, meglio, nulla conta il tema della qualità e della sostenibilità socialee costituzionale dell’istruzione e della formazione. Piuttosto, vorremmo restituirevalore all’“esercizio di pensiero”, andando a recuperarne la concretezza nelle esperienzee nelle sperimentazioni pedagogiche e didattiche, quelle del passato e quelledel presente, interrogandoci sul senso ed il valore dell’educare, dell’istruire, dell’apprendere,verificando le forme di rappresentazione ed auto-rappresentazione dellaprofessione di insegnante. Senza peraltro omettere, in ciò, di mantenere quella sinceritàdello sguardo che, capace di misurarsi anche con gli insuccessi e i fallimenti,consente di sviluppare nuovi e rinnovati significati e percorsi.Dossier 7


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/alberto_stanga/schwererDossier 9


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaLa scuola tra speranze e agguatiNel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuola intesa come spaziodi-relazione,dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondo infantile egiovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogare con glialunni) di spezzare il filo che <strong>anno</strong>da socializzazione e alfabetizzazione, relazione econoscenza.Franco Frabboni*Riccardo Massa is still with us: in our theoretical and empirical heritage he leftextraordinary models and interpretations of a great scientific and cultural value. Hismethodological and epistemological source is still very important to read the Future ofeducation of a system that is global now, at the beginning of 21st century, as Massapredicted. The purpose of this article is to describe one of the branches – school – of thetree of education as conceived by Massa. Everybody’s right to education and the qualityof education are now being challenged by conservative school politics.In our schools there is still too much selection with school dispersion situations despitethe democratic and public characteristics of our educational system. Not-one-less isreferred to the right of everybody to knowledge and to an image of social inclusion. Thisis the democratic house of the education: public, free, with compulsory education extendeduntil the age of sixteen, with post-compulsory education until the age of eighteenthrough professional training, and with curriculum organization through the cycles.The school reform of the Minister Gelmini is now killing public school with less funds to schools,less teachers and hours of teaching, less knowledges, less educational tools and less school facilitiesin the inner parts of our country. Competitiveness is introducing an idea of school where childrenprevail on their mates: no cooperation, no solidarity and a way to individualism.Riccardo Massa thought that there should always be a strong link between knowledgeand relationship at school. Knowledge as education and relations, as emotionalexperiences. The ambush envisaged by Riccardo Massa is now real and its name is thekiller school reform of the Minister of Education Gelmini which is ruining both Knowledgeand Relationship in two ways.First because it is wiping out interdisciplinarity and second because it is forgettingthe emotional dimension of the children, leaving out the link between socialization andliteracy, relationship and knowledge.PremessaRiccardo Massa è tuttora in viaggio con noi non solo nelle larghe rotonde dellaquotidianità esistenziale (per attraversare le quali ci ha regalato un perenne slanciovitale e un’amicizia senza tramonto), ma anche verso le affascinanti frontiere dellariflessione pedagogica e della progettazione educativa.In altre parole, nel nostro zaino teorico ed empirico dell’educazione custodiamo10


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguatiun comparto occupato dal suo patrimonio di chiavi/interpretative (problematiche,mai assiomatiche) e di modelli formativi (plurali, mai unidirezionali), tuttora distraordinario respiro scientifico e culturale.Le scienze dell’educazione del Ventunesimo secolo (a partire dalla Pedagogia) possonoattingere dalla sua feconda fonte epistemologica e metodologica non solo alcuni ineludibilialfabeti necessari per scrivere nuovi Romanzi pedagogici, ma anche alcune suggestioniprospettiche (di cui sono ricche le sue pagine) altrettanto ineludibili per leggere il Futurodell’educazione nella sfera di cristallo di questo Millennio al debutto, al quale Massa predicegli scenari di un sistema formativo planetario, a partire da quello del nostro Paese.In queste righe, saliremo su uno dei rami - la scuola - dell’albero dell’educazionedi Riccardo (gli altri rami portano il nome di epistemologia, pedagogia clinica,sfera affettiva, tempo libero, estetica et al.).Al ramo del sistema scolastico, Massa assicura robustezza teorico/empirica esguardo prospettico. Ma profetizza anche i possibili agguati che le politiche scolasticheconservatrici (i governi di Destra) porter<strong>anno</strong> al diritto di tutti allo studio ealla qualità della formazione tra le pareti della scuola.1.La difesa della scuola pubblica. Non uno di meno1.1. Molte pagine di Riccardo Massa sostengono con forza il diritto delle giovanigenerazioni ad una alfabetizzazione primaria e secondaria, possibile in unsistema scolastico democratico e pubblico. Soltanto da questo balcone si potr<strong>anno</strong>sfidare e contrastare - con armi plurali (a difesa della diversità dei punti di vista)e democratiche (a difesa dell’accesso di tutti alla conoscenza) - le persistenti sacchedi marginalizzazione e di esclusione della nostra utenza. Ci riferiamo all’alto einaccettabile tasso di selezione, presente nel nostro sistema formativo, che porta ilnome di Dispersione materiale e intellettuale.Non-uno-di-meno allude al diritto di tutti alla conoscenza, alla bandiera della scuolasulla quale brilla l’immagine dell’inclusione: che dà conto del patrimonio genetico di unascuola pubblica. Questa, non abbandona al suo destino (al drop-out e alla ripetenza)l’allievo/a che non si ritrova nei Programmi ministeriali e che chiede - ai primi insuccessi- tempi più lunghi di assimilazione-comprensione delle conoscenze ufficiali.Siamo di fronte alla casa democratica della scuola. Alla sua identità pubblica egratuita, nonché al suo edificio istituzionale dotato di alcune inamovibili architravi:(a) l’elevazione dell’obbligo scolastico ai sedici anni degli allievi; (b) l’elevazionedell’obbligo formativo fino al loro diciottesimo <strong>anno</strong>, con l’offerta aggiuntiva diarticolati percorsi post-secondari di specializzazione professionale; (c) l’organizzazionecurricolare in cicli: la scuola dell’infanzia (asilo nido più scuola materna),la scuola primaria, la scuola secondaria di primo grado e la scuola secondaria disecondo grado (quest’ultima articolata in campus di formazione tecnico-professionalee in specifici percorsi liceali).1.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ laControriforma killer della Gelmini che sta sventrando il cuore della scuola pubblica.Dossier 11


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguatiIl suo sistema di istruzione (antidemocratico) mira a trattenere tra i banchi la fasciadegli allievi “migliori” (guarda caso sempre gli stessi figli di genitori acculturati e/odanarosi) e ad espellere anzitempo la fascia degli allievi “peggiori” (guarda caso sempregli stessi figli di genitori dalla bassa scolarità e/o dagli scarsi mezzi economici).Lo scenario di recita dei suoi Decreti Legge dà protagonismo ad una tragediacosparsa di “tagli” inferti alla scuola, di “scippi” proditori alle sue già precarie risorse:meno insegnanti, meno monte ore, meno saperi, meno attrezzature didattiche,meno plessi nelle aree interne del Paese.Il Ministro dell’istruzione si nasconde dentro a questo Cavallo di Troia dal cui ventrest<strong>anno</strong> uscendo, armati fino ai denti, i giustizieri della Destra per colpire a morte il nostroglorioso sistema scolastico, per demolire le sue due architravi che portano il nome di dirittodi tutti allo studio (il pilastro democratico) e di qualità dell’istruzione (il pilastro culturale).Questo pericolo profetizzato ed esorcizzato da Riccardo Massa - il suo nome,Meritocrazia - sta avvolgendo di pece maleodorante la Controriforma della Gelmini.Il suo sfrenato neoliberismo in economia (selvaggio e aggressivo, rivolto all’altaredel “profitto”) sta irrompendo nella scuola con lo specchietto delle allodole in manoper risvegliare nel Paese eventuali malsopite pulsioni discriminatorie e classiste. Lericadute nella scuola di questa parola d’ordine sono devastanti. Un esempio dellapericolosità delle sirene aziendalistiche fa “brutta” mostra di sé nei sui Decreti legge,(varati senza alcun confronto con la scuola militante e senza dibattito in Parlamento)che introducono surrettiziamente il clima tossico della competitività. La sua idea diconoscenza (nozionistica) e i suoi strumenti di valutazione (quiz) appaiono del tuttofunzionali a tramutare l’istruzione in un corpo a corpo nel quale gli allievi si fronteggiano,senza esclusione di colpi, per prevalere sul compagno/avversario vicino dibanco. Niente cooperazione, niente disponibilità, niente solidarietà. Soltanto rivalitàe agonismo cognitivo. Con relativa deriva individualistica e privatistica.2. La difesa della qualità della formazione. L’altalena conoscenza/relazione2.1. Alcuni illuminanti Saggi di Riccardo Massa sono dedicati a questo teoremapedagogico. Nella scuola, la Conoscenza e la Relazione dovrebbero sempre più faregirotondo, dandosi la mano.Questa, la sua preziosa idea prospettica. La navigazione di un sistema formativonon dovrebbe mai perdere la rotta che conduce sulle spiagge dove sventolano lebandiere della Conoscenza e della Relazione (la mente e il cuore). Cosa simboleggiaquesto doppio vessillo, spesso ideologicamente radicalizzato?La Conoscenza fa tutt’uno con l’istruzione scolastica, sia come conoscenze materiali(i saperi disciplinari), sia come conoscenze formali (le competenze di analisisintesi,di metodo, di intuizione-invenzione).A sua volta, la Relazione fa tutt’uno con i vissuti emotivo e affettivi: con i modelli eticosociali e valoriali che d<strong>anno</strong> senso e significato ai tempi e ai luoghi della vita scolastica.2.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ laControriforma/killer della Gelmini che sta dissanguando le vene sia della Conoscenza,sia della Relazione.12


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguatiLa sua Controriforma è colpevole di gettare la scuola in due zone notte.(a) Nella prima zona notte si spegne la luce e si lascia al buio tutto ciò che sta oltrela-siepedella singola materia scolastica, con il risultato fallimentare di cancellarel’apporto dei saperi trasversali (interdisciplinari) dei curricoli formativi. Nell’odiernastagione dell’omologazione-stardardizzazione dei saperi e della semplificazionedelle conoscenze complesse, la Controriforma della Gelmini appare “miope” perchénon accende mai disco-verde all’interdisciplinarità. Itinerario di apprendimento- questo - durante il quale la mente si esercita a produrre nuove competenze cognitive,intese come libertà e autonomia intellettuale, pensiero critico e creativo.(b) Nella seconda zona notte si spegne la luce e si lascia al buio la dimensione affettivaed emotiva degli allievi. Nel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuolaintesa come spazio-di-relazione, dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondoinfantile e giovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogarecon gli alunni) di spezzare il filo che <strong>anno</strong>da socializzazione e alfabetizzazione, relazionee conoscenza. Sono “coppie” educative in cordata. Se cade l’una, cade anche l’altra.Rimuovere il versante delle dinamiche relazionali che si producono in classe significaesprimere indifferenza nei confronti del traffico interattivo che circola negli spazi dellascuola, che v<strong>anno</strong> riforniti di elevati coefficienti di flessibilità e di modularità, quindidi vissuti non-autoritari e non-direttivi. Questo è possibile se il plesso scolastico apparecchiai propri luoghi didattici quali punti-di-incontro di una ricca trama di relazionisocioaffettive (frutto di aggregazione-disaggregazione-riaggregazione di piccoli, medi egrandi gruppi) ed etico-valoriali (frutto di esperienze concretamente “vissute”, cosparsedi amicizia, disponibilità, responsabilità, impegno, solidarietà, cooperazione).*Direttore Centro Interdipartimentale di Ricerche EducativeAlma Mater Studiorum, Università di BolognaNota bibliograficaDal prestigioso scaffale di studi pedagogici di Riccardo Massa, ci piace ricordare:- La scienza pedagogica : epistemologia e metodo educativo, La Nuova Italia, Firenze 1975; (a cura di,in coll. con P. Bertolini),- I bambini e la tv: la prima ricerca sull’esperienza televisiva dai 3 ai 6 anni, Feltrinelli, Milano 1976;- L’ educazione extrascolastica, La Nuova Italia, Firenze 1977;- Le tecniche e i corpi: verso una scienza dell’educazione, Unicopli, Milano 1983;- L’ adolescenza: immagine e trattamento, Franco Angeli, Milano 1988;- (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1988;- Linee di fuga: l’avventura nella formazione umana, La Nuova Italia, Firenze 1989;- (a cura di, in coll. con D. Demetrio), Le vite normali: una ricerca sulle storie di formazione dei giovani,Unicopli, Milano 1991;- (a cura di), Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza, Bari 1994;- La migrazione educativa: extracomunitari e formazione, Unicopli, Milano1994;- (a cura di), Imparare errando: la formazione professionale degli extracomunitari in Europa, Cuem, Milano 1996;- Cambiare la scuola: educare o istruire? Laterza, Bari, 1997.Dossier 13


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaAltre vie.Una scuola oltre l’ovvioLa bellezza e la tragedia della scuola sta proprio in questa tensione tra l’inevitabilitàdell’omologazione dei soggetti rispetto a logiche eteronome rispettoalla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzionedell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopodella scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suovalore di emancipazione.Raffaele Mantegazza*E’ oramai ovvio che nulla riguardo all’arte è più ovvio;ovvio non è nemmeno il suo diritto all’esistenza.Teodor W. AdornoSe l’ovvio è ciò che si trova per la via, ciò che ogni giorno incontriamo nella nostraquotidianità, ciò che ci appare tanto scontato da sembrare quasi far parte del paesaggioe dello sfondo, allora la scuola non è mai stata ovvia; il suo successo formativo,la sua forza e il suo fascino consistevano proprio nel sottrarsi all’ovvio, nel proporrenuovi percorsi, nuove vie, nel non ripetere l’acquisito. Se l’inizio della filosofia è lostupore, allora la mancanza di ovvietà della scuola provvede da sempre quel sanostupore che l’esterno non sa suscitare, o perlomeno provvede un altro stupore, chenon si trova altrove. Il bambino e la bambina incontrano a scuola elementi di novitàtali da convincerli che vale la pena trascorrere in quella istituzione qualche ora ognigiorno; perché quello che davvero dovrebbe produrre la scuola è una nuova visionedel mondo, e lo può fare solamente se riesce a costruire un mondo dentro il mondo,un mondo non ovvio e non scontato; in questo essa è simile al gioco e al teatro, checostruiscono un mondo differente e altro rispetto alla quotidianità.Ma la perdita di ovvietà, in questo periodo storico che per la scuola rischia di esseredavvero decisivo, ci sembra assumere un tono differente; sembra infatti che la scuola siappresti a diventare superflua, che la diagnosi su di essa si possa muovere nella direzionedella frase di Adorno riportata sopra: la scuola non è più ovvia perché se ne mette indubbio il diritto ad esistere. Se la soubrette Sandra Mondaini si permette di affermare“posso dire con orgoglio di non avere mai studiato un solo giorno”; se il cantante EnricoRuggeri afferma che “non ha senso alzarsi alle 7 del mattino per andare a dire signorsì”, seabbiamo sentito con le nostre orecchie un ispettore ministeriale dire ai ragazzi di unaclasse III media “non studiate troppo perché negli Stati Uniti h<strong>anno</strong> aperto un manicomioper i primi della classe”, se un dirigente di una associazione di industriali può dire senzapudore alla radio che “per poter lavorare non serve il voto di laurea alto, basta accettarequalsiasi 18 e poi laurearsi in fretta”, tutto questo significa che alla scuola sta accadendoqualcosa di inedito: essa deve giustificare il suo stesso diritto all’esistenza.14


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvioE’ finita allora anzitutto l’ovvietà di una scuola che incontra il consenso socialeUna studentessa statunitense che da una classe sociale bassa accedeva all’Universitàpoteva ancora pensare, 60 anni fa: “I miei nonni non sapevano né leggere né scrivere.I loro padri nemmeno. Una delle mie zie pure. I miei genitori non h<strong>anno</strong> frequentatole elementari e io le superiori. Ciò nonostante ecco che io, Frances K. Nolan, seguirò deicorsi all’università. Capisci, Francie? Frequenti l’università! Oddio mi sento male” 1 .Oggi non sembra che la scuola fornisca più il carburante per i sogni di promozionesociale. Occorre anzitutto dire che questa visione è viziata di eurocentrismo; tra ipopoli del sud e centroamerica ,come dell’Africa, l’associazione tra scuola ed emancipazionepolitica e sociale è ancora presente, forse anche più che in altre stagioni;e del resto l’Islam basa gran parte della sua forza su un rapporto pedagogico chenelle madrase e nelle scuole coraniche viene sviluppato anche sul piano sociale epolitico; ma è vero che in Occidente il valore di emancipazione della scuola e dellacultura è molto relativizzato, dalle famiglie, dai ragazzi e dalle ragazze, spesso daglistessi insegnanti.E’ finita anche l’ovvietà di una scuola indispensabile, di un appuntamento crucialeper la storia personale e soprattutto professionale dei singoli: la scuola puòanche essere bypassata, dal momento che le competenze fondamentali che la societàrichiede e che il mercato del lavoro seleziona e premia non sono quelle chesi imparano tra i banchi; anzi, sembra che lo spirito critico, l’approfondimento, lacapacità di discernimento che la scuola – quando funziona - offre ai suoi ragazzisiano qualità di disturbo, elementi del tutto irrilevanti per un mercato del lavoroche solo a parole premia gli spiriti indipendenti e critici, ma che nei fatti prediligespesso spiriti ottusi e obbedienti. La scuola allora potrebbe non servire più:potrebbe essere utilmente sostituita dai servizi a domanda individuale, meglio sea distanza e forniti attraverso quel nuovo Moloch che è il computer, oppure dacorsi gestiti in prima persona dalle aziende che s<strong>anno</strong> benissimo che cosa serveai giovani lavoratori/trici per inserirsi nel mercato del lavoro. Una delle ipotesi difine dell’esperienza dell’Università è questa: un servizio a diretto contatto con leaziende, che selezionano personale e contenuti e soprattutto tipologie di processiformativi; e non siamo sicuri che a tutti coloro che attualmente vi insegnano questasoluzione appaia così negativa.Infine sembra essere finita l’ovvietà di una scuola omogenea: sia a livello dicomposizione delle classi, sia a livello di curricolo, sia a livello di distribuzioneterritoriale. Se è buffo che solo l’immigrazione o la disabilità f<strong>anno</strong> riscoprire allascuola l’ovvietà di una cosiddetta didattica individualizzata (come se la didatticanon fosse di per sé rivolta sempre e comunque al singolo, raggiunto semmai attraversola classe), è anche vero che i soggetti che entrano nel territorio scolastico sonoportatori di differenze di grado molto più elevato di quanto non lo fossero i lorocoetanei anche solo due decenni fa. Resta da capire se le differenze ci fossero ancheallora e semplicemente fossero ignorate da una scuola che riteneva talmente ovvi i1 Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, (1943), 2007, Neri PozzaDossier 15


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvioconfronti alla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzionedell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopodella scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suovalore di emancipazione. Una scuola che neghi il proprio mandato istituzionale sisuicida; una scuola che lo fa proprio in modo acritico e irriflesso è davvero inutile esuperflua. Una scuola che lo assume fino in fondo mostrandone i limiti e le aporie èuna scuola non più ovvia: ma una scuola siffatta è possibile solamente in un regimedemocratico, “una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunqueessi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativapersonale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti neiquali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione” 2 . Inquesto senso, per quello che riguarda la discussione attorno ai temi fondamentalidella vita umana (si pensi alla generatività, alla nascita, alla sessualità, alla morte),ci sembra ovvio ribadire che una democrazia (e una scuola democratica) può solamenteessere relativista; non nel senso di ignorare o di schernire la ricerca dellaverità ultima che ogni soggetto è libero di portare avanti a seconda della sua fedeo ideologia, ma nel senso di non trattenere per sé e di non privilegiare nessunarisposta alla questione della verità: la democrazia è scettica perché questa è lasola posizione che permette realmente a tutte le risposte possibili di confrontarsi edi convivere; pretendere l’avallo dello Stato o della politica alle proprie posizionidottrinali rendendole obbligatorie per tutti è un atto di violenza intollerabile ecostituisce il vero discrimine tra il fedele, che rivendica giustamente uno spazio nelquale professare liberamente la sua fede e cercare individualmente o come collettivitàdi convincere gli altri e le altre, e il fondamentalista che si affida al bracciosecolare – che tanto dice di disprezzare - per operare quelle conversioni (spessoesteriori e di maniera, per fortuna!) che forse non è più in grado di realizzare. Inquesto senso allora l’unica forma di omologazione per una società democratica è lanon-omologazione, l’educazione ad inserirsi nel processo democratico come attoricritici pronti a modificarne le strutture quando queste non rispondono più ai lorostessi principi.E certo, la scuola è inutile: perché si sottrae alla perniciosa gerarchia dell’utile edell’inutile, misurati sempre con il metro del profitto, e introduce altri elementi digiudizio, basati sul piacere dello studio e sulla profondità dell’apprendimento, sullasocialità e sulla critica. La scuola, come del resto la formazione nel suo complesso,è una creazione del tutto umana, ha carattere artificiale: non deve mai essere concepitacome evento naturale, come qualcosa che accade comunque e che bisognalasciar accadere senza interferire, come una specie di legge di natura. Le scuole leabbiamo inventate noi, avremmo anche potuto non farlo, nessuno ci ha obbligati.Ma già che ci sono demarchiamole dallo spazio-tempo del quotidiano, rendiamoleun’esperienza qualitativamente altra, qualitativamente unica. In questo senso, daun punto di vista produttivista, le scuole non servono a niente. Solo a formare, a2 John Dewey, Democrazia e educazione, Milano, Sansoni 2004, pag. 96Dossier 17


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovviogiocare il rituale della formazione, a soffermarsi su oggetti desueti e fuori moda, afar compiere l’esperienza decisiva della profondità, della pazienza, della critica, dellasocializzazione del sapere, esperienza che i ragazzi e le ragazze non potrebbero compierealtrove.E infine, certo, la scuola è disomogenea; non nel senso che rifiuta l’idea di programmazionema nel senso che ogni acquisizione didattica, ogni scelta pedagogica,ogni strumento per insegnare devono trovare la loro legittimazione nel faccia afaccia quotidiano con il singolo ragazzo o la singola ragazza perché, nonostante leenfasi sui gruppi, l’educazione è sempre un faccia-a-faccia, un corpo-a-corpo, unaquestione che riguarda una persona posta di fronte a un’altra persona. E come lagiustizia nei tribunali è rappresentata con la benda sugli occhi perché non vuolevedere le condizioni di partenza dei soggetti ma li giudica, ascolta con attenzione lestorie dei testimoni e degli imputati, così nelle scuole entra chiunque (con buonapace di chi ha avanzato la proposta criminale di negare il diritto allo studio ai figlidegli immigrati), ma non in quanto “soggetti umani” ma in quanto Barbara e Debora,Muhamedd e Aaron, il ragazzino brufoloso di sedici anni di Quarto Oggiaroe la bambina di Palermo con l’apparecchio nei denti.E dunque una scuola all’altezza dei tempi, una scuola non ovvia, è ancora unascuola che emancipa, che serve, che è omogenea: emancipa rispetto al vuoto verbodel consumo e del mercato, insegnando la pazienza dei riti desueti (l’ascolto,la cura, la critica, l’attenzione, l’uso del tempo); serve a una democrazia che nonvuole essere travolta dalle spinte neo-tribali e dal piatto universalismo della merce;è omogenea perché crede che ogni soggetto umano, in qualunque angolo delmondo, possieda il diritto all’emancipazione attraverso lo studio e che godendo diquesto diritto riesce a completare la sua dimensione umana, il suo dialettico e maiconcluso percorso di esodo dall’animalità.Per questo occorre tenere aperte le scuole; perché non è più ovvio il motivo peril quale dovrebbero esistere, in un mondo nel quale è ovvia la rapina nei confrontidei deboli, la violenza sugli inermi, la voce urlata e gutturale di chi possiede la forzama non la ragione.*Docente di pedagogia generale e sociale Facoltà di scienze della formazione,Università Bicocca Milano18


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaLa scena educativaTroppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando ditrarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti diquesta mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazionedel territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventareattori di un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempiredi segni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è moltosimile al silenzio siderale dei corridoi del liceo di ColombineFrancesco Cappa*La scuola è un palcoscenico della vita.Le metafore sono la parte viva della lingua e questa vitalità permette alla realtàdi assumere nuovi significati, più o meno prevedibili. A volte le metafore si comportanoaddirittura come sentinelle e grazie ai loro rapidi spostamenti di significatoci avvisano di quello che nella realtà sta cambiando.Dire che la scuola è un palcoscenico della vita dovrebbe mettere d’accordo tutti:genitori, studenti, insegnanti, dirigenti e operatori scolastici, e in questo modoridare vitalità a un’esperienza, quella scolastica, quasi sempre bistrattata e mortificata.E invece in una metafora così apparentemente pacifica, oggi, va ravvisata unasottile e permanente minaccia al significato e al senso che dovremmo cercare diattribuire alla scuola. Scrivo “dovremmo” poiché credo che questa metafora vengamolto spesso mal interpretata. Il suo primo significato, anziché indicare la costruzionedi una scuola come “scena”, sembra aver vertiginosamente virato verso l’ideadi una scuola come “ribalta”, nella quale la profondità del palcoscenico teatrale èstata quasi azzerata dalla bidimensionalità virtuale della ribalta televisiva.Non è una mera questione di termini e per questo richiede un attenzione particolare.Non si tratta qui di rinvigorire l’ormai trita denuncia della volgarizzazioneprogressiva che la cultura televisiva ha portato ovunque, specie nella storia italianarecente. Se le metafore sono la parte viva della lingua, la televisione ha detronizzatocerti privilegi linguistici della cultura elitaria e ha confuso le carte della cultura ‘alta’con le ragioni, a volte brutali, della vita diffusa. La questione è, appunto, un’altra,anche se fino a un certo punto, ovviamente e potrebbe essere posta in questi termini:qual è il modello formativo latente, che ha animato l’esperienza scolasticarecente guidata “dalla bontà e dalla verità” della metafora della scuola come ribalta?La domanda non è né retorica né metaforica, ma riguarda direttamente la formache la scuola ha preso di recente e, forse ancora di più, quella che le si vorrebbe darenell’immediato futuro.La lingua contiene una tale quantità di informazioni sulla realtà passata e spessoanche su quella a venire, che vale sempre la pena di darle ascolto. Per “ribalta” siintende una lunga tavola di legno fissata con cerniere al proscenio, che, se ribaltata,impedisce alle luce di proscenio di illuminare la scena. La questione in fondosta già tutta in questa scarna definizione: la ribalta occulta la scena. Se si prova adDossier 19


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativaapprofondire i caratteri e gli impliciti di questo, apparentemente funzionale, occultamentosi comprende che non è solo una questione di termini.Se la scuola viene vissuta e interpretata come una ribalta ne discendono alcuneconseguenze che riguardano sia chi sta nei banchi che chi siede dietro o davanti allacattedra. Se vale la metafora della ribalta si presuppone che ciò che viene notato,<strong>anno</strong>tato e valutato è solo ciò che avviene in primissimo piano. La luce da captare,per chi frequenta la scuola e i suoi spazi, è solo quella del proscenio che impedisce,però, di illuminare la scena con chi ci sta, con quel che c’è, con la sua profondità,con le zone d’ombra che riguardano sia lo spazio esteriore che circonda ognuno siaquello interiore che ognuno custodisce e coltiva per sé.Se la scuola è una ribalta quello che viene privilegiato sarà il campo dell’espressionein sé (e non tanto “di sé”) e non quello che potremmo chiamare il campoaffettivo, che continuamente misura l’espressione di sé con l’intreccio di tutte ledimensione materiali e immaginarie che caratterizzano l’esperienza educativa e formativadi ognuno. Se quel che conta è l’espressione in sé quello che avrà valore eper cui ci si deve impegnare sarà la performance in sé.Oggi è sempre più difficile rinvenire i significati che il contenuto e la formadell’azione scolastica assumono nel rapporto con i desideri, con le esigenze specifiche,con la sperimentazione dei propri limiti e l’elaborazione dei propri disagisia degli studenti che degli insegnanti. La scuola come ribalta ci insegna che questisignificati v<strong>anno</strong> interpretati e rinvenuti orientando lo sguardo verso l’immagineche ognuno dà di sé e non sulla responsabilità rispetto a quel che si fa e si è.L’ultimo dei paradossi formativi alla moda è un effetto dei reality show, denigratida tutti e seguiti da quasi tutti. È nata la Sii te stesso School: “conosci te stesso”, esortaval’oracolo di Delfi; oggi si traduce, maldestramente, quello che era un monitooltre che un’indicazione con “sii te stesso”. Da questa esigenza nell’era dello spettacologeneralizzato è nata la Reality Tv School di New York, diretta dall’insegnante eattore Robert Galinsky. Come ha scritto Tim Black su spiked-online.com, i realityrichiedono di recitare ma non come negli sceneggiati, nei film o in teatro. “Mentreun attore professionista si sforza di perdere se stesso per calarsi nel ruolo, i partecipantidei reality sono in cerca di un’identità da presentare nel modo più vistoso possibile. Lacapacità di dissimulazione – essenziale in un attore – risulta controproducente. ‘Esserese stessi’ quindi per resistere all’inautenticità. In contrasto con un mondo in cui il lavoronon è appagante e i rapporti sociali in decadimento, l’esibizione di sé diventa un surrogatodella realtà”. Ecco il segreto del successo della scuola di Galinsky.L’immagine (ideale?) di quel che ancora non siamo viene esteriorizzata finoquasi ad esternalizzarla, come fossimo aziende di noi stessi, delegando la responsabilitàdelle nostre azioni ad altri, anziché essere cercata ed eventualmente “guadagnata”da una risonanza interiore che certo parte sempre da un effetto del ‘fuori’.In questo modo molto spesso a scuola si privilegia il fatto che lo studente “deve”riuscire a esprimere, prima di tutto (se stesso o quel che gli accade a scuola), piuttostoche apprendere, conoscere, sperimentare la propria dimensione cognitiva eaffettiva, attraverso quel rispecchiamento perverso che la scuola da sempre offre20


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativaappena fuori dalle mura materiali della propria casa e dalle mura immateriali dellapropria famiglia. Nella scuola-ribalta si ottiene un risultato “valutabile” che mostralo studente impegnato in una cattiva mimesi anziché in una rischiosa interpretazione.Da questo punto di vista il modello delle trasmissioni della De Filippi docet: levarie “Sar<strong>anno</strong> famosi” e simili h<strong>anno</strong> fatto dell’espressione di sé per cattiva mimesi(nel segno del talento) un vero e proprio format pedagogico, che incrocia la piùgrezza disciplina con il sentimentalismo paternalistico e utilitaristico, una sorta dinuovo cottimo pedagogico.La performance è la misura di tutto ciò che vale. Essa viene interpretata perlopiùcon categorie solo soggettive, ma viene anche portata ad un livello di oggettivitàe di valutabilità in virtù di un supposto sapere degli adulti di turno, legato allaperformance stessa e non alla densità di quel che si sa, alla responsabilità rispetto aquel che si vuole “necessariamente” insegnare e imparare. Questo format educativoe formativo è molto più pervasivo di quel che a volte si pensa, tanto da far capolinonei non detti di decreti legge e di annunci mediatici, dove l’ottimizzazione dei costie dei benefici segue anch’essa la logica della performance. Questo format, inoltre,è così pervasivo da instillare il dubbio persino nel corpo docente, che si ritrovapensosamente a cercare di intercettare le tecniche e i mezzi di un modello didatticotelevisivo che sembra motivare di più i ragazzi e offre criteri di valutazione “moltoutili”. Finendo così, invece, per rincorrere il giovanilismo ed essere quindi doppiamentecommiserati dai ragazzi che volevano sedurre. Piuttosto che rincorrerliil corpo docente dovrebbe cercare di portarli su un terreno comune differente daimodelli, molto potenti, già largamente disponibili fuori dalla scuola. In questavana rincorsa anche l’eros pedagogico si trasforma in una precettistica, poiché vienegiocato nella performance del docente in modo così esplicito e ammiccanteda non conservare nemmeno un po’ di quel coefficiente “erotico” che è uno deicombustibili più preziosi per spostare l’affettività dalle persone – che formano, insegnano– e dall’esclusività della relazione in sé verso le attività, le pratiche e i saperiche si animano nella scena scolastica.La questione non è riducibile alle solite invettive contro le peggiori conseguenzedella società dello spettacolo che oggi, come aveva ben visto Guy Debord trent’annifa, domina capillarmente gli aspetti anche più intimi della nostra esperienzaseguendo la passione più economica di tutte: il divenir merce del mondo e dellavita di chi lo abita.Piuttosto si dovrebbe riflettere meglio sulle condizioni strutturali che rendonopossibili certe interpretazioni – vale qui ancora la metafora teatrale – nella scuola edella scuola. Dobbiamo prenderci cura dell’interpretazione che studenti e docentipossono offrire nello spazio dell’esperienza formativa, che è cosa diversa dall’affrontarei problemi che la complessità di questo spazio mette in campo dalla prospettivadei ruoli che non tengono più la scena. La questione riguarda precisamentele condizioni di possibilità che rendono attuabile la sperimentazione di certeinterpretazioni e non di altre, che d<strong>anno</strong> l’opportunità di rielaborare la propriainterpretazione dei contenuti e delle forme presenti nella scuola. Queste condizio-Dossier 21


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/alberto_stanga/leichter22


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativani di possibilità dell’esperienza educativa riguardano il setting e il dispositivo dellascuola.Riflettere sul setting scolastico aiuta a pensare la formazione e l’educazione comeun dispositivo, come scriveva Riccardo Massa in un testo di una decina d’anni faintitolato Cambiare la scuola, ancora attualissimo. Perché nella scuola la questionedel setting sembra completamente rimossa e viene barattata con le solite banalitàsulla “disposizione” dei banchi e l’allestimento dei laboratori didattici. Il settingè qualcosa che riguarda l’assetto interno degli insegnanti e dei ragazzi, scrivevaMassa, a partire da un insieme di regole che rendano possibili i ruoli reciproci, mache ancor di più rendano formative le loro interpretazioni. L’importanza del settingfa capire bene perché sia necessario, per cambiare la forma della scuola, pensare laformazione come dispositivo. Il dispositivo è un sistema di procedure in atto, uncongegno che crea pratiche specifiche e discorsi in cui i contenuti e la relazionevengono giocati all’interno di una certa strategia pedagogica.Se la formazione è un dispositivo, la scuola non può essere interpretata comeuna ribalta, ma deve essere pensata e praticata come una scena. Una scena in cui siistituisce un campo di esperienza materiale e simbolica, in cui ci sia una relazionee una comunicazione orientata educativamente, in modo da evitare che l’educazione,la formazione, l’insegnamento si limiti ad essere un atto in sé, una performancein sé.Se l’azione formativa è orientata da un’idea di scuola come ribalta, la performanceavrà la meglio sull’interpretazione: l’esperienza della ribalta mostrerà unaserie sconnessa di “sfide”, azioni esteriori, frammentate, molto consone al canoneperformativo della diretta televisiva, dell’esecuzione in tempo reale. La performancescolastica cercherà dunque di istituire una comunicazione e una relazione coni contenuti (le discipline, le materie) tutta impregnata di persuasione immanente,senza sbavature, ma senza possibilità di verificare i punti di consistenza di quel chesi dice, di quel che si fa, in modo da potersi smentire appena dopo aver commessoil fatto senza il pericolo di subire immediati smascheramenti.La scuola come scena, invece, invita a sperimentare la profondità della comunicazioneche modifica i contenuti, costringe ognuno a domandarsi che cosa h<strong>anno</strong> ache fare con me le cose che sto conoscendo, che sto comunicando, il modo in cui lesto conoscendo e comunicando, i limiti e le opportunità di questa conoscenza e diquesta comunicazione nello spazio e nel tempo della scena scolastica, consentendoanche di criticarne l’inadeguatezza. La scena produce un effetto alone sui contenutie le forme della scuola, rende visibili e percepibili le zone d’ombra dell’esperienzache ognuno vive a scuola, immergendo in una tridimensionalità, in una profonditàdi campo e in una densità del tempo che sono molto lontane dalla ripresa televisivadella nostra realtà. Così nella scena scolastica l’interpretazione viene sorretta dallaprofondità e la performance, che comunque si dà, non può però puntare tutto sullacapacità di “bucare lo schermo” dell’indifferenza propria e altrui.L’immagine che si “produce” attraverso l’interpretazione che ognuno offre ascuola è importante, ma chiama a una responsabilità che ci supera e che riguardaDossier 23


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativail dispositivo pedagogico nel quale siamo immersi. Siamo responsabili insieme aglialtri che occupano con noi la scena “creata” dalla nostra azione e dagli effetti cheil setting può avere sulla scena stessa. Non siamo padroni del campo affettivo chela scena allestisce, la scuola dovrebbe piuttosto essere un “teatro senza autore”,scriveva ancora Massa. Un teatro in cui la rappresentazione ha perso il suo poteresimbolico, identificante e in cui gli attori materiali e immateriali v<strong>anno</strong> compresinelle relazioni che il dispositivo della scuola continua a mettere in scena anchese simbolicamente è collassato. Una scena quindi che permetta di sperimentarel’attraversamento del campo affettivo invece di rappresentare l’affettività, che siain grado quindi di offrire una elaborazione affettiva e cognitiva di secondo livellodelle rappresentazioni di tutte le altre realtà sociali che i soggetti, studenti e docenti,attraversano. Una scena che segni una differenza specifica rispetto a tutte lealtre rappresentazioni, nella quale il protagonismo e la competizione (tipici di unascuola-ribalta) si mostrino per quello che sono, ossia effetti possibili del dispositivoscolastico e che non vengano scambiati per fini, ma intesi e sperimentati comemezzi.La questione di come far luce sulla scena educativa e non solo sulle sue ribalteanche mediatiche è una questione essenziale, anzi è una questione strutturale, cheriguarda precisamente qualcosa che non si vede in superficie e che però rende lascuola quello che è, nel bene e nel male.Le questioni strutturali, quando di rado emergono nei discorsi, vengono immediatamenteconsiderate noiose, soprattutto dai media, o legate a logiche ormai anacronistiche.Questo rifiuto riguarda il fatto che le questioni strutturali non h<strong>anno</strong>le caratteristiche tipiche di ciò che prende la ribalta, qualità di immediata visibilitàche bucano l’affollamento del mare di notizie e di precetti morali minimi nel qualesiamo quotidianamente immersi, anche nostro malgrado. La ribalta impone unafalsa priorità dell’informazione che prende tutto il campo della comunicazione,rendendo così invisibile, irreperibile quella profondità della scena scolastica, con isuoi molteplici piani di fuoco, con l’intreccio di fattori materiali e immateriali chegenerano il “fatto” prima che si trasformi in notizia, in breaking news.Pensare la scuola come scena educativa ci consente di porre in luce i “fatti” chela scuola produce piuttosto che impegnare i nostri pensieri e i nostri discorsi sullenotizie che ci arrivano dal fronte scolastico. Come se la scuola diventasse reale epotesse produrre fatti solo quando assume su di sé le caratteristiche di un luogodi conflitto, quando somiglia alla striscia di Gaza, identificandosi così con il luogodi un conflitto irrisolvibile, luogo in cui le cause del conflitto sono avvolte daun’indecidibilità che si <strong>anno</strong>da con l’incertezza dei fatti stessi e della loro “corretta”interpretazione.In questo modo la questione dei fattori strutturali della scuola viene continuamenterimossa. Sono invece questi fattori che v<strong>anno</strong> illuminati, nella scenaeducativa essi trovano modo di essere assunti come contenuti da rielaborare, possonoessere trasformati, considerati nello loro relazioni reciproche. È sulla scenaeducativa, quello spazio d’azione drammatica che arriva fino alle “quinte” di ogni24


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativaistituzione, organizzazione, istituto, che si muovono i corpi materiali e immaginaridegli studenti e dei docenti. La ribalta appiattisce questi corpi riducendoli alla lorosemplice presa emozionale, li rende automi pronti a declamare monologhi ad effettocon retoriche da comizio, esecutori impeccabili indistintamente di scene-madre,di siparietti da cabaret o di intrattenimenti da navi da crociera.Sulla scena educativa, invece, questi corpi indicano con la loro presenza unaprofondità dell’esperienza che non è riducibile alla performance del momento.Una profondità data dall’intreccio di sguardi reciproci, dalla consistenza di ciò chenon si vede immediatamente se si osserva solo la ribalta, dalle latenze di un’esperienzascolastica fatta di piccoli ma significativi gesti, di pratiche attente e consapevolipiù che di estatici istrionismi e di colpi di teatro estemporanei, sia dei docentiche degli studenti.La scena educativa è il luogo di questa profondità che indica per contrasto lasuperficialità di ogni performance scolastica. La scena educativa propone l’attraversamentodi un campo affettivo da valorizzare a partire dall’esperienza concretadi chi vive nella scuola e la anima tutti i giorni. Una scena capace di rendere piùconsapevole la presenza di chi fa e di chi osserva là dove, invece, la ribalta educativacostringe ogni presenza nell’angolo angusto di un ascolto captivo ma distratto,paraipnotico come quello del teleutente o del consumatore coatto della propriaformazione.Quel che conta nell’esperienza della scena educativa è l’incontro con un corpoimmaginario che fa leva sul corpo reale e materiale degli studenti e dei docenti.Questo corpo immaginario è fatto dei desideri degli attori che si muovono sullascena, dei fantasmi che agitano le loro azioni e guidano le loro relazioni, relazionimediate dal corpus spesso e solido dei saperi e delle competenze. È questo corpoimmaginario che oggi sempre più ingombra la scena, tanto da aver ormai scalzato ilvalore simbolico che la scuola aveva ancora vent’anni fa e che può voler essere resuscitatosolo da chi ha nostalgia non tanto dei valori ma solo di certi valori. È la presadi contatto con questo corpo immaginario che può trasformare la forma-scuola etramutare un luogo qualunque in una scena educativamente attiva. Questa scenanon si attiva se e solo se c’è performance, ma se qualcosa di immaginario si rendepresente, concreto e significativo per tutti, per chi forma e per chi è formato.L’attenzione per le potenzialità di un campo affettivo che caratterizzi l’esperienzaeducativa, nell’intreccio fra conoscenza e pratica, è qualcosa di più di un sfondo(integratore), di una teoria, di un’idea: è ciò che pensando alla scena che la scuola èo è stata, per ognuno di noi, non fa immediatamente venir voglia di fuggire. L’istituzionedi questo campo affettivo – che rielabora l’esperienza degli “attori” scolasticiproprio a partire dall’intreccio dell’esistenziale e del professionale, dell’azione deldispositivo e della reazione delle pratiche e dei vissuti individuali – è la dimensioneresiduale per eccellenza dalla quale partire per cambiare la forma della scuola.Troppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando ditrarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti diquesta mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazioneDossier 25


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/la_scena_educativadel territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventare attoridi un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempire disegni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è molto simile alsilenzio siderale dei corridoi del liceo di Colombine, ripresi in modo eccezionaleda Gus Van Sant nel suo film Elephant. Un’esplorazione che è allo stesso tempouna pratica, la messa in scena di una tattica e di un incontro che ci veda interessatia modelli e immagini che non possiamo ancora misurare e comparare con nientedi consolidato, neppure con qualche idealtipo che guidi la nostra interpretazionedei fenomeni. Questa esplorazione del territorio scolastico a partire dall’esperienzadi chi la scuola la fa o la “subisce” ha come conseguenza un potenziamento delladimestichezza degli attori con il dispositivo pedagogico in cui sono immersi.Ogni vera esplorazione porta l’uomo fuori-di-sé: la scena è proprio il luogo incui l’uomo, fin dai tempi di Aristotele, sapeva di non essere “il soggetto della rappresentazione,piuttosto un esistente definito da un certo esser-fuori-di-sé, da una partecipazionea, o da una divisione della manifestazione come tale, cioè di ciò che mettequalcosa, in generale, fuor di sé”, ha scritto Nancy. Questo fa la scena, questo non èmai in grado di fare la ribalta, che rimanda sempre ad un’idea e ad un’immagine disé falsificata dal mito dell’unicità e della pienezza narcisistica.Solo se consideriamo la scuola una scena (educativa, immaginaria), carica delledimensioni del desiderio, del piacere, del potere che i saperi esercitano su di noie sugli altri nell’alveo della relazione e della comunicazione, potremo partecipareattivamente a quell’esperienza pedagogica capace di trasformare i fantasmi di studentie di docenti in vere presenze.*Esperto di Clinica della formazione, collabora con gli insegnanti di EducazioneEstetica e di Pedagogia Generale presso l’università Bicocca Milano26


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaIl benessere senza responsabilità.Alcune indicazioni educativeQualcosa non torna, all’educazione sta mancando qualcosa. Raziocinio ed emozioni,invece di coesistere, f<strong>anno</strong> a pugni, rompono le righe e invadono i confini della societàcivile. Non va bene. Tocca alla scuola sbrogliare la faccenda. E per farlo la scuoladeve esplorare il malessere della società di cui è immagine ma, prima, deve interrogarsisulla corrispettiva idea di benessere che questa stessa società si è costruita.Cristiana La Capria*Io ci sto dentro, alla scuola. A volte vorrei uscirne, confesso. Ma ci sto. Ecco perchésento di discutere di una questione necessaria per il destino che vorremmo assegnarealla funzione scolastica: l’educazione alla responsabilità. L’accostarsi di questedue parole dichiara un’alleanza tra due mondi che già si implicano a vicenda perchéa scuola non posso educare senza definire il rispetto che il campo di relazione conl’altro mi richiede e, di rimando, non posso avvertire l’effetto del bagliore educativosenza che la coscienza abbia fatto esperienza della responsabilità. Eppure negliultimi documenti istituzionali ritorna l’esigenza di specificare tale alleanza, invocatanelle circolari, nei documenti legislativi, negli articoli di giornale. Il che insospettisce,dato che insistere sulla necessità di unire due realtà significa che questedue realtà unite non sono, significa denunciare una generale fuga di impegnonel congiungere, senza confusione ovviamente, la dimensione dell’educare e delresponsabilizzare che non è più scontata, ma va ribadita, esplicitata, sottolineata.Perché si st<strong>anno</strong> registrando troppi sintomi di fallimento educativo, si avverte unmalessere diffuso a vari livelli del comportamento giovanile: violenze e abusi e maltrattamentie depressioni e assunzioni di sedativi e alcol e rabbia inespressa e rabbiaespressa e sindromi di iperattività e deficit di attenzione. Il malessere aumenta ediminuisce l’età di chi ne soffre. Qualcosa non torna, all’educazione sta mancandoqualcosa. Raziocinio ed emozioni, invece di coesistere, f<strong>anno</strong> a pugni, romponole righe e invadono i confini della società civile. Non va bene. Tocca alla scuolasbrogliare la faccenda. E per farlo la scuola deve esplorare il malessere della societàdi cui è immagine ma, prima, deve interrogarsi sulla corrispettiva idea di benessereche questa stessa società si è costruita. Quale benessere si insegue? Quale malesserene deriva quando il tentativo di raggiungere il primo viene a fallire?Per trattare la questione sistemo questa riflessione in tre tempi: nel primo riportoun’analisi delle condizioni sociali della formazione oggi e dell’idea di benesseredominante; nel secondo tempo mi soffermo su alcuni documenti degli ultimi dueministri dell’istruzione che, in risposta a tale condizione sociale, richiamano lascuola a istruire e a educare in un certo modo; in ultimo propongo il resoconto diuna sperimentazione progettata nella mia classe che vuole leggere il benessere e lesue conseguenze.Dossier 27


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativeIl fast-food della formazioneNon dimentichiamoci che l’educazione è inevitabile perché è “uno strumentodella storia”: il punto, quindi, non è se farla o meno, ma come farlameglio, posto che si sappia cosa sia il meglio dentro al contesto in cui l’educazioneavviene (De Giacinto 1977). Nel contesto di oggi l’accelerazionesubita a seguito della diffusione dei sistemi di trasporto e di comunicazione,insieme ai fenomeni di trasmigrazione di popoli e di merci, rende cogentel’impatto di una globalizzazione di ordine economico, sociale e culturalesulle biografie individuali. La caduta di speranze lavorative a lungo terminedetermina una caduta della progettualità in ogni sfera dell’agire sociale;i propositi rubricati alla voce ‘quotidiano’ dilatano il presente sul pianoprofessionale, residenziale e relazionale del cittadino globale. Si insegueil sapere perché funzionale all’aggiornamento delle competenze, che sonoallergiche al lungo termine e ai punti di domanda complicati. Non formazionecontinua, quindi, ma informazione discontinua. Più di trent’annifa Lyotard (1979) anticipò il futuro dell’identità dell’educazione e deisuoi responsabili nell’era dell’informatica quando non sarebbe più statonecessario tenere un corso tenuto “dalla viva voce di un professore”, perchésiccome “le conoscenze sono traducibili in un linguaggio binario, la didatticapuò essere affidata a delle macchine”. Ma la pedagogia e i docenti - egliconcludeva – non ne dovr<strong>anno</strong> necessariamente soffrire perché bisogneràpur continuare a insegnare qualcosa agli studenti: non più i contenuti, mal’uso dei terminali e, soprattutto, organizzare un nuovo tipo di domandaper ciò che si vuole sapere. “La domanda non è più: è vero? Ma: a cosa serve?”(Lyotard 2001). Si delinea così un quadro dove l’educazione si piega allalogica dell’utile. Non dissimile è la posizione di Bauman (2005) che associala formazione all’immagine del ‘fast-food’: bocconi di sapere sono consumatiin luoghi anonimi, in tempi ridotti e in sequenze disordinate per poivenire velocemente digeriti ed espulsi e fare posto a nuovi alimenti. Quindidimenticare è utile per fare spazio a nuovi saperi da consumare secondo lameccanica di una memoria usa-e-getta. L’assenza di stabilità, essenziale afare esperienza di qualsiasi relazione che sia significativa, mette in pericoloil senso di responsabilità, la capacità di rispondere all’altro in un processoche chiede tempo, impegno e spesso fatica. La cultura del consumo rapidocostruisce l’idea di un benessere che non si preoccupa delle conseguenze:relazioni con tanti inizi senza un poi (La Capria 2008), professioni inventatesenza lasciare seguito, informazioni accumulate senza farne esperienza.Se tutto vacilla senza appoggiarsi a legami né a reti sociali stabili, l’idea dibenessere non può che rifugiarsi nella solitudine, nel solipsismo che insegueil piacere veloce da ottenere e da consumare. Questa è una delle idee dibenessere dominanti nelle attuali società occidentali dove l’altro, spesso, èvissuto come un’esperienza di transito che possibilmente non lasci in ereditàconseguenze scomode da gestire.28


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativeA scuola di responsabilità globale 1Se da un lato la quotidiana forza dei sistemi di comunicazione e di informazioneelettronici ci rende vicino il distante e accorcia le distanze geografiche, dall’altrolato una maggiore quantità di contatti non vuole dire una migliore qualità dellerelazioni. Anzi. Perciò è necessario imparare a leggere e collocare la portata deglieventi al livello planetario. E per “leggere” gli eventi si intende starci dentro e risponderneopportunamente. La questione etica, quindi, è stato uno dei concettiemergenti nel testo relativo alle nuove Indicazioni per il curricolo redatte sotto ilministero Fioroni. Si sostiene che la scuola debba svolgere una funzione di iniziazione,di mediazione e di preparazione al rapporto responsabile tra il singolo ela collettività, tra il microcosmo e il macrocosmo dello studente che impara chequanto accade nello spazio prossimo a sé ha effetti su spazi distanti da sé e viceversa.In questo senso Mauro Ceruti ritiene essenziale sviluppare nelle coscienzedegli studenti e delle studentesse un senso di “responsabilità planetaria” (Bocchi,Ceruti 2004). Siamo parte del pianeta, lo influenziamo e ne siamo influenzati inmodi complessi e complicati. Quindi bisogna provvedere a una istruzione capacedi costruire mappe cognitive dinamiche per adattarsi alla discontinuità attuale. Ilmetodo che riduceva il complesso al semplice, non è più valido. Ora ai docenti èrichiesto di articolare i percorsi e poi connetterli senza preparare soluzioni fisse eunivoche. Il luogo dell’apprendimento non sta nella spedita elaborazione di dati,ma nella lenta creazione dell’itinerario di conoscenza, senza avere già pronta la pistadi arrivo. La scuola, insomma, deve istruire complicando lo sguardo sul mondoe facilitando la comprensione di esso. Sul piano del sapere formale, quindi, è necessariofornire nodi di raccordo tra le varie discipline per aprire e moltiplicare i pianidi conoscenza del pianeta. Sul piano del sapere relazionale, invece, la questioneresta più complicata da maneggiare. La scuola, come Massa ha scritto a squarciagola(1998), oltre a istruire deve educare senza schizofrenie di sorta: i docenti nonpossono dimenticare di avere di fronte un soggetto che è chiamato ad impararenon solo i contenuti ma pure le forme di relazione più appropriate. E coniugarei due ambiti è difficile. Nel testo delle Indicazioni per il curricolo si è invocataspesso l’esigenza di “istruire educando” che è un richiamo appunto a tenere insiemel’educazione e l’istruzione al punto da fare dell’una il canale, il mezzo e il mododell’altra: istruire per mezzo dell’educare, istruire mentre si educa, istruire attraversol’educazione. Cioè non si confida solo nell’attendibilità delle tecniche, deimetodi e degli strumenti di lavoro oggettivi perché la dimensione dell’esperienzascolastica, sebbene area artificiale e appositamente appartata rispetto alla vita sociale,con essa comunica. Quindi deve fondarsi sull’etica. E, come sostiene Perticari(2001) ,“l’etica non si può esprimere” perché si riferisce a un sentire implicito a ogniagire e pensare e prevede sempre una relazione: io mi preoccupo dell’altro, del suobenessere, della sua cura. Tale sensibilità non è data dalla nascita, ma va stimolata,1 La prima parte di questo paragrafo è una rielaborazione del seguente articolo: C. La Capria, (2008),Etica e responsabilità in www. laboratorioformazione.itDossier 29


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativeeducata, aiutata a realizzarsi: il senso di responsabilità non rimane astratto ma sisviluppa dal concreto dell’esperienza dell’educando.Quindi l’espansione degli orizzonti dell’esperienza ai cinque continenti imponeuna amplificazione della veduta responsabile nell’agire dei soggetti in età di sviluppo.Preso atto di elenchi di eventi che ultimamente rimandano a forme semprepiù sofisticate e quindi imprevedibili del bullismo e dei suoi derivati, si è ritenutoopportuno, sotto l’attuale ministero dell’istruzione Gelmini, di insistere sulla questionedella responsabilità.Tra le varie modifiche affrettatamente apportate al funzionamento della scuola,sta l’inserimento della disciplina Cittadinanza e Costituzione, come a dire: primadi viaggiare nelle sfere internazionali della responsabilità, qui dobbiamo impararele norme di convivenza civile dentro al nostro territorio. Indipendentemente dalleconfuse indicazioni sui tempi, i modi e gli sfondi teorici necessari all’applicazionedi tale disciplina, sarei interessata a ragionare sull’idea di responsabilità che sollevatale nuova legge. Quindi riporto un breve resoconto di una giornata di studio sultema 2A partire dall’emanazione della Legge 169 dell’ottobre 2008 con cui viene, appunto,inserito l’insegnamento della disciplina Cittadinanza e Costituzione nellascuola primaria e secondaria di primo grado, sono state proposte, al livello accademico,delle prospettive di riflessione in merito al significato e alla funzionedell’educazione alla cittadinanza dentro al percorso formativo delle giovani generazioni.In linea generale tutti gli interventi, di cui vengono di seguito presentati i puntiprincipali, condividono tutti due aspetti eminenti:1) la disciplina Cittadinanza e Costituzione non è una ripetizione della precedenteEducazione civica ma una sua innovazione e rielaborazione dovuta, principalmente,alla natura non più solo nazionale, ma europea e mondiale della funzionee dell’impegno richiesto dalla cittadinanza;2) la dimensione interdisciplinare e trasversale del sapere implicato da Cittadinanzae Costituzione coinvolge contenuti e forme, istruzione ed educazione: nonchiede solo la trasmissione di enunciati da memorizzare, ma ingloba l’intera esperienzaumana, richiama gli aspetti cognitivi ma anche emotivi, sociali ed etici dellostare al mondo. Quindi non solo sapere e saper fare ma anche saper essere.Ethnos diversi convivono in forza di un ethos comune, ha detto Annamaria DeDominici, secondo cui la scuola, attraverso la disciplina di Cittadinanza e Costituzione,esplicita il suo compito di “palestra di democrazia” per i giovani, compitodivenuto più gravoso negli ultimi tempi (le migrazioni, la trasformazioni sociali,il precariato economico) ma non per questo meno possibile: bisogna insegnare leregole del vivere e del convivere.Secondo Milena Santerini l’educare alla cittadinanza coincide con il com-2 L’educazione alla cittadinanza nella formazione degli insegnanti - Seminario di studio del 15.12.2008– Università Cattolica di Milano30


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativepito stesso della formazione tout court; eppure, guardando alla storia dell’educazione,tale insegnamento risulta non ancora pienamente riuscito in nessunaparte del mondo; come a dire che tale disciplina, pur così indispensabile, nonha ancora raggiunto un suo statuto epistemologico essendo così ambiguamenteimpregnata di aspetti politici, sociali e culturali mai ben definiti. SempreSanterini ricorda che la Circolare dell’11/12/2008 ha inteso specificare meglioche Cittadinanza e Costituzione vuole essere un insegnamento che trasforma laprecedente Educazione civica, non la sostituisce. La trasforma perché non vuoleessere solo un contenitore di ingiunzioni comportamentali: la disciplina, sepensata come semplice spazio disciplinare, sarà un fallimento perché ridotta aun elenco di articoli della Costituzione. L’educazione alla cittadinanza è compitodell’intero corpo docente, anche se l’incarico di sistematizzare il sapere loha il docente di Storia. Come se il docente di materie storiche costituisse unasorta di direttore di orchestra del senso etico dimostrato quotidianamente daglialtri colleghi. Posto che questa resta una questione assai problematica, qui contasottolineare l’esigenza di rendere fondante nella scuola l’insegnamento dellaresponsabilità e delle sue origini storiche in Italia. Non solo teoria, quindi,anzi. Giuseppe Bertagna ricorda che vi è sempre un “curricolo nascosto” chevibra tra i banchi di scuola ed è fatto dalla condotta e dallo stile etico adottatoda tutti i docenti di quella scuola, dal clima relazionale che si respira in classe.Queste sono note invisibili che si apprendono con molta più facilità da partedegli alunni che non le parole stampate su di un libro.La cittadinanza, tuttavia, non crea di per sé i cittadini e la loro convivenza, cosìcome la legge non crea la morale. Semmai è il contrario: è la convivenza che dàluce alla cittadinanza, il senso morale che alimenta la legge. Quindi, riprendendola tesi di Rousseau, Bertagna ricorda che la legge non funziona come ingiunzioneesterna a chi la vive ma deve essere elaborata e interiorizzata dall’individuo conopportune forme educative. Ecco perché l’educazione alla cittadinanza non puòessere a carico di un solo docente, ma in possesso dell’intera comunità scientificae scolastica. Non un elenco di elementi cognitivi, ma un sapere che comprende ilcognitivo come il sentimentale, l’estetico, il morale. Ogni Costituzione è un patto,un accordo reciprocamente stabilito dai contraenti. Se le leggi non riscontrano legittimitàcollettiva, allora non c’è nessuna legalità che tenga. Legittimità e legalitàdevono coincidere, altrimenti la società muore.Franco Cambi, ancora, ricorda che la nuova disciplina pur affondando le radicinel contesto locale, deve tenere conto dei processi di globalizzazione, quindi nonrimanere miopemente ancorata ai valori e ai principi nazionali. Per alcuni versila scuola italiana è già abituata ad alcune forme di cittadinanza postmoderna: lodimostra con i suoi progetti di accoglienza per gli alunni stranieri e con l’organizzazionedi attività volte all’alfabetizzazione degli alunni di altri paesi. Tuttavia lacultura scolastica resta etnocentrica: la storia, la geografia, le lingue sono il riflessoancora di alcune selezionate parti del mondo.Le riflessioni riportate mettono in luce l’esigenza del corpo docente, sia al livel-Dossier 31


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativelo scolastico che accademico, di lavorare sulla questione del senso di responsabilitàche è oggetto di istruzione e educazione, perché bisogna organizzare il sapere conoscendola storia della legge, le sue conquiste, le sue perdite ma bisogna pure fareesperienza del senso civico, di un senso di cura e attenzione all’altro che va guidatoe sostenuto dentro una relazione educativamente efficace. Relazione che certo nonpuò iniziare a scuola, ma che della scuola ha bisogno.Benessere responsabileEcco perché per l’<strong>anno</strong> scolastico 2008/<strong>2009</strong> abbiamo proposto nella nostrascuola un Progetto Pilota 3 finalizzato a promuovere lo sviluppo di un clima dibenessere in classe. Il Progetto coinvolge per il momento due classi. L’obiettivo difondo è sollecitare la conoscenza di sé e dell’altro per favorire il consolidarsi di relazioniappropriate allo sviluppo di coesione nel gruppo classe. Si tratta quindi di unprogetto che costruisce le condizioni utili a ridurre i problemi di comunicazione e,dunque, le forme di disagio relazionale che possono maturare nei gruppi classe.Il lavoro è attualmente in corso e prevede lo strutturarsi degli interventi nelleore curriculari di lettere, di matematica e di arte (pari a 12 ore complessive) durantele quali si propongono esperienze socio emotive per mezzo di lavori di gruppo,esercizi di espressione creativa e giochi di ruolo. La conduzione delle attività è ripartitatra le tre docenti responsabili che si impegnano a progettare gli interventi, amonitorare gli sviluppi in itinere e verificare gli esiti a conclusione dell’intervento.Un primo sociogramma è stato da me rilevato al principio dei lavori in modo datracciare le condizioni relazionali di partenza del gruppo della mia classe. Ciascuno èstato richiesto di fare delle scelte indicando i nominativi dei compagni che preferiscee che rifiuta per svolgere determinate attività, di lavoro e ludiche. Il quadro che ne èrisultato dice che le categorie sociali della prestanza estetica e intellettiva, dello statussocio-economico e dell’impegno scolastico sono collettivamente le più desiderabili equindi sono state criterio di selezione. I due leader positivi che h<strong>anno</strong> avuto il maggiornumero di preferenze rispecchiano l’immagine della razza “ariana” - come direbbe ilmio collega di educazione religiosa: sono biondi, chiari di pelle, belli, intelligenti, studiosie ben curati, mentre all’opposto i due più rifiutati risultano essere sensibilmentesprovvisti delle qualità dei loro colleghi perché non sono intellettivamente vivaci, néesteticamente attraenti. Nessuno troneggia per atteggiamenti gradassi o prepotenti.Qui ci sono i bravi e i non bravi, i belli e i non belli, i positivi e i negativi. Divisionemanicheista del mondo, nel mezzo i rimanenti venti alunni, la fascia media, la zonagrigia che ha raccolto qualche preferenza e qualche rifiuto. Però c’è una nota da fareperché i preferiti h<strong>anno</strong> riconosciuta una qualità che i rifiutati non h<strong>anno</strong>: la disponibilitàe la generosità. Dentro a un mare di notorie categorie socialmente discriminanti,quello che sembra fare la differenza è l’apertura verso l’altro. Che poi sarebbela socievolezza, la gentilezza verso il prossimo. Tutti si sentono rispettati e ben voluti3 Il Progetto Benessere è stato proposto dalla collega Agnese Alberti e da me presso la Scuola media“Leonardo da Vinci” di Saronno dove insegniamo.32


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educativedai due leader positivi, i due leader negativi, i vincitori del rifiuto, si distinguono peratteggiamenti egocentrici, competitivi e disinteressati al gruppo. Insomma gli alunnie le alunne che raccontano di passare buona parte del tempo libero al monitor deivideogiochi, cercano poi i legami nei luoghi dove finalmente non sono da soli, comein classe. Tuttavia li vogliono avere senza fare troppo sforzo. Giudicano, cercano oevitano l’altro senza averci mai comunicato davvero. Devono sapere che il benessererelazionale, invece, si impara. Quando sono stati invitati a scegliere di intervistare uncompagno o una compagna tra quelli meno frequentati, h<strong>anno</strong> impiegato del tempoprima di cominciare. H<strong>anno</strong> poi dichiarato di avere fatto molta fatica a sceglierequalcuno di lontano dal loro “ideale” di amico/a. Poi, richiesti di narrare un episodioin cui gli è capitato di mettersi nei panni di qualcuno, cioè di provare quantol’altro prova in una data circostanza, sono rimasti immobili, pensierosi. Ma uno diloro, Paolo, ha rotto il ghiaccio dicendo che lui sta male ogni volta che il compagnoAngelo viene preso in giro dagli altri perché, ha detto: “immagino come si può sentirelui in quel momento”. Molti altri, al seguito di Paolo, h<strong>anno</strong> raccontato episodi similidove emerge la fatica della comprensione, la scoperta del limite tra sé e l’altro,della differenza nella somiglianza. Un’alunna, dopo aver raccontato la sua storia diempatia, ha aggiunto: “io non ho pensato subito di raccontare questo episodio perché quistiamo facendo delle cose sul benessere e invece quello che vi ho appena detto mi ha fattostare anche male”. Questo è il punto. La comprensione empatica non è un semplicepassaggio dal mio posto al posto dell’altro mantenendo intatto il mio sistema cognitivo:in quel caso non farei che traslocare il mio modo di pensare nella situazione incui sta l’altro. No, qui si tratta di penetrare le forme emozionali e logiche dell’altroper arrivare non ad un “io penso come penserei al posto dell’altro” ma ad un :”io pensocome l’altro penserebbe in quel posto lì” (Franza 1981). Ecco la difficoltà. Il benesseresi impara e per farlo si frequenta anche il malessere. Perché è l’unica via per crearedei legami, cioè delle relazioni costruite con responsabilità. Benessere significa purequesto: che voglio del bene all’altro al punto che sto male se lui o lei sta male. Questoa scuola noi lo insegniamo.*Insegnante e PedagogistaRiferimenti bibliograficiBertolini P. (2005). Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze sociali. Utet, Bologna.Bocchi G.- Ceruti M. (2004). Educazione globalizzazione. Raffaello Cortina, Milano.De Giacinto S. (1977). Educazione come sistema. La Scuola, Brescia.Franza A. (1981). Riflessioni sul problema della conoscenza in pedagogia. La Nuova Italia, Firenze.La Capria C. (2008). Biancaneve divorzia. L’innamoramento in età contemporanea. Il Filo, Roma.Lyotard J.F.(1979). La condizione postmoderna. trad. it., Feltrinelli, Milano 2001.Massa R. (1998), Cambiare la scuola. Educare o istruire? Laterza, Roma-Bari.Perticari P. (2001). Pedagogia ed etica, ovvero: quel che resta dell’altro. In Tarozzi M. Pedagogia generale.Guerini, Milano.Porcheddu A. (2005). Zygmunt Bauman. Intervista sull’educazione. Anicia, Roma.Dossier 33


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaA scuola si diventa cittadini dioggi e di domani?Appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nel solomodo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessitàdi ipotesi.Giancarla Codrignani*Chiunque in Italia scriva di scuola in questa primavera del <strong>2009</strong>, qualunque sial’argomento di cui intende parlare, deve premettere qualche parola di denuncia perquanto sta accadendo in questo nostro paese. Non sono rose e fiori in nessuna partedel mondo, perché le società e, di conseguenza, i governi, se non sono in grado disostituire gli eserciti con la diplomazia, così - l’analogia non è senza senso - non f<strong>anno</strong>dell’educazione la priorità delle priorità. In tempi di crisi i bilanci spingono avanti esigenzeche, per quanto poco intelligenti, h<strong>anno</strong> carattere di necessità e, assurdamente,limitano gli investimenti sociali. In Italia, già giudicata severamente dall’Ocse, siamoarrivati al masochismo. Un governo può ridursi a far cassa anche a d<strong>anno</strong> dei servizi,ma non può contrarre la durata degli orari di scuola, chiudere gli edifici scolasticinelle zone del paese meno abitate, tagliare posti di lavoro degli insegnanti nella cifradi 30.000 docenti per l’<strong>anno</strong> <strong>2009</strong>-10 e altri settantamila nel biennio successivo. Seaggiungiamo l’esclusione dall’insegnamento le lingue straniere che non siano l’inglese,la storia dell’arte e perfino l’informatica, una delle celebri “tre i” berlusconiane,è facile capire quanto sia ottusa la politica governativa di togliere futuro alla propriasocietà. Infatti, anche se anche un altro governo riparatore ridesse ossigeno allapubblica istruzione, almeno una generazione - in termini scolastici le generazioni sisusseguono ogni cinque anni, la durata di un corso completo delle superiori - , unagenerazione di giovani resterà ignorante, non potrà uscire dalla precarietà e i danniricadr<strong>anno</strong> su tutta la società, destinata a perdere competitività internazionale. Und<strong>anno</strong> incalcolabile, perché anche il ripristino delle regole non potrebbe risarcire unagenerazione di studenti culturalmente dequalificata.La premessa ha senso particolare per chi vuole parlare, appunto, del futuro, argomentoda sempre fondamentale in ogni questione pedagogica, ma essenziale nei nostridecenni, che segnano non lo scorrere del tempo, ma un suo precipitare epocale.La paideiaè stata storicizzata in migliaia di testi e, nel corso dei secoli, in innumerevolitendenze di pensiero. In questo tempo è necessario ripensare con urgenzaassoluta tutto ciò che concerne le attività educative e attualizzare (non banalmente) laconoscenza dei modelli ormai obsoleti. Infatti la modernizzazione non è questa voltainserita nel solito procedere della storia: la trasformazione in corso è così radicale daessere diventata antropologica. I bambini, gli adolescenti, le giovani donne e i giovani34


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?uomini non sono più gli stessi, non crescono con le stesse scansioni di sviluppo fisicoe psicologico e, per certi versi, sembrano irriconoscibili rispetto agli archetipi tradizionali.Addirittura si rovesciano rapporti e ruoli, se è vero, per esempio, che l’adultosi sente diminuito di fronte alle capacità tecnologiche del bambino. Ne deriva cheservono poco le teorie redatte da pedagogisti, scienziati dell’educazione, teologi, intellettualivari, abituati ad insegnare come si deve insegnare, spesso avendo scarsoriferimento con ragazzi (e ragazze) veri. Anche mirando ad un progetto di uomo/donna ideale e migliore, tutto è da ripensare da capo. Infatti, non abbiamo idea dicome sarà l’umanità futura e ci domandiamo perfino se ci sarà un’umanità psicofisicamenteancora rappresentabile negli stessi termini della nostra.La crisi economica in attuale, rapida evoluzione avrà conseguenze gravi in ognisettore, ma non potrà rallentare più di tanto la svolta che la storia, in certo senso,ha già compiuto: in fondo, la stessa crisi, derivata da fallimentari progettazionifinanziarie speculative, dimostra che la svolta è già alle spalle. Provvederemo a tamponarei guasti con le vecchie ricette, lo Stato e Keynes, forse con qualche arresto disviluppo democratico, ma la globalizzazione ha cambiato la sistemica di ogni disciplinae non bastano più le vecchie nozioni del Prodotto Interno Lordo o le ricettedel Fondo Monetario. Le donne, in particolare le economiste, h<strong>anno</strong> formulatoper tempo proposte interessanti per modificare il concetto di Pil integrando laproduzione con la riproduzione, innovazione radicale che trasformerebbe di colpole priorità di tutte le politiche di tutti i governi: non facile, ma da tentare.D’altra parte, la richiesta di coraggio innovativo nei settori fondamentali dell’economiaè parallela al disagio delle reazioni, individuali e collettive, espresse da manifestazioniche di buono h<strong>anno</strong> solo il fatto di non essere (ancora) ideologiche, ma chenon sono più identificabili in precisi obiettivi. Pochi mesi fa tutto il mondo dell’istruzione- dalle elementari alle università e inglobando non solo studenti e insegnanti, maanche genitori e rettori - è stato in sommovimento inedito e ha tenuto impegnata lapubblica opinione; oggi non è scomparso, ma prosegue per spezzoni ormai separati suspecifiche questioni, unificabili nell’opposizione alle deliberazioni governative, ma difatto rispondenti a precisi interessi settoriali. Per questo il comune denominatore dellaconservazione degli interessi non intacca il consenso politico a questo governo, mentreciascun gruppo sociale esprime singole esigenze quasi mai imperniate su un progetto.Tranne i casi - in crescita continua - di preoccupazione per la continuità lavorativa, nonsi riscontrano motivazioni argomentate sui problemi da affrontare. Si resta al “no”: noal docente unico, no al tempo ridotto, no alla riduzione della spesa universitaria, no aitagli alla ricerca. E’ chiaro che le proposte del governo sono inaccettabili e la ministraGelmini con i grembiuli, il voto di condotta e le classi differenziate proposte dai leghistiagisce in tandem con il ministro Tremonti per assestare il bilancio. Ma non sono piùaccettabili neppure proteste che non entrino nel merito di un riordino della scuola nellasocietà della conoscenza e, in essa, di quale diritto allo studio e di quali innovazioniqualitative dell’insegnare e dell’apprendere.In Italia si è tenuto impegnato il settore scolastico per decenni in discussionisu riforme sempre rinviate o abortite e l’ultima rottura reale è stato il varo dellaDossier 35


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?scuola media unica (1963), con il paese deviato a dividersi sulla questione “latinosì/latino no”. Il ceto docente, all’epoca, non si rendeva pienamente conto dellanecessità di sollevare tutta insieme la società per un domani di rapporti più civili espesso non riuscì ad evitare la pur prevista massificazione; allo stesso modo rimasediffidente, senza impugnarne la traduzione in termini di personale innovazionequalitativa, davanti alle riforme sia Ruberti per l’università, sia Berlinguer per lascuola e, successivamente, dell’autonomia scolastica che dava, volendo, potere diprogrammazione culturale ai collegi docenti e non solo alla dirigenza burocratica.Anche l’università, definita “malata” dal governo, dalla pubblica opinione e dai docentistessi oggi viene stroncata da 1,5 miliardi di euro sottratti al bilancio del prossimotriennio, dalla mancata assunzione di migliaia di precari e dalla sostituzionedi un solo ricercatore ogni cinque pensionati nonché dall’ipotesi di trasformarla in“fondazioni” (legge 133/08). Eppure è tutt’altro che da buttare; peccato che nonsi sia saputa autoriformare nel numero eccessivo di sedi, negli insegnamenti superflui,nell’assenza di riconoscimenti del merito, nel nepotismo, nella scarsa democrazia,nelle spese spesso incontrollate, mentre in altri paesi è ovvia la trasparenza.Tuttavia, anche nel campo universitario occorre che l’offerta didattica sia quellanecessaria alla società della conoscenza.Oggi il sapere è la questione centrale: dice Marcel Mauss (Saggio sul dono) che sel’umanità fosse eroica sarebbe soddisfatta di sapere che il suo fine ultimo è la conoscenza.Si constata, invece, che è cresciuta, in modo imprevisto, l’ignoranza: anche lapersona colta non ha capacità di giudizio rispetto a saperi specializzati. Un amministratorepubblico è soggetto alle valutazioni dei tecnici e dei funzionari e firma deliberedi cui non sempre gli è totalmente chiaro il contenuto. Per un biologo possonorestare incomprensibili le conseguenze, se non le stesse procedure, di un processo diclonazione. Gli insegnanti lamentano la perdita dei saperi tradizionali, ma non sonoincoraggiati ad accedere a saperi nuovi, con il risultato che si continua ad insegnareciò che si è imparato, senza accorgersi che molto dell’imparato è superato.Su scala mondiale il livello fra la grande conoscenza e l’analfabetismo si è enormementeallargato e quella che era la differenza di classe sta moltiplicando i suoieffetti sulla base del sapere. Sembra perfino difficile capire come si possa conviverein un mondo globalizzato, in cui il solito battito di ali di farfalla in Brasile puòprodurre catastrofi o miracoli in altre parti del mondo, se ciò che chiamiamo alfabetizzazioneè lontano dagli standard di vita di milioni di persone che pure vivonole nostre esigenze, conosciute attraverso la visualizzazione dei modelli, ingannevolianche per noi, dei nuovi media.Forse non ci si rende sufficientemente conto del fatto che chiamiamo “cultura”fenomeni non interpretabili a senso unico, anche se gran parte delle popolazioni“avanzate” usa il termine al plurale e accetta di relativizzare i propri schemi. Unamondializzazione corretta vorrebbe escludere i rapporti di dominio, che, tuttavia,continuano a schiacciare chi, comprendendo con ricchezza la vita, sarebbe in gradodi dare contributi di valore, ma è escluso dalla possibilità di prendere la parola. Unariflessione sulla situazione africana è esemplare: i colonizzatori non possono cancel-36


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?lare le conseguenze della presunzione universale dei loro principi. In qualunque deipaesi che si sono rivendicati ad autonomia i maestri e i capi h<strong>anno</strong> frequentato leuniversità di Oxford e Parigi e solo secondo le regole delle nostre sintassi contanoe governano a casa loro. E’ vero che nel Medioevo lo stesso accadde ai “barbari” eil greco, prima e ad Oriente, il latino, poi in Occidente, furono le lingue delle cancelleriee degli studi. Ma c’è un’idea del vecchio Socrate - che riteneva inadeguataalle esigenze della comunicazione umana la scrittura - che vale la pena di tenerepresente come paradosso: il grande saggio intendeva dire che non ci si relazionase non si parla. Anche i saggi africani, i poeti di villaggio e di strada dicono con lavoce, come faceva Omero. Ai nostri tempi un Socrate redivivo penserebbe che noi,quando abbiamo adottato mezzi che partono dal visuale - la televisione - abbiamoesportato carichi di mezzi e contenuti culturali, deformando anche lo sguardo,ormai incapace di vedere il mondo se non con occhi uniformati. E’ ben vero chePlatone raccontava di Socrate scrivendo e che a noi resta solo la provocazione.Che vale agganciare al nostro continuo bisogno di capire di più, guardando lontano,per ripartire da noi. Con un uso meditato delle programmazioni nazionali televisiveavremmo battuto l’analfabetismo e avremmo capito che conta impegnare la mente neiragionamenti e nella creazione continua di idee, non nella loro registrazione scritta.Se è vera la constatazione che la democrazia che non si evolve attualmente informe differenziate che diano reciproci input innovativi a quella “partecipazione”sempre evocata come spontaneità e che rinnovino il senso del voto, dell’elezione,difficilmente salveremo la parte migliore della “civiltà occidentale” e metteremo arischio non solo la giustizia, ma la libertà. Non necessariamente le catene sono soloquelle delle galere.Dalla scuola, nel nostro sistema, si può uscire alfabetizzati e grammatizzati, maanalfabeti di autonomia mentale rispetto ai bisogni del nostro tempo. Un ragazzofornito di grandi abilità tecnologiche può diventare facilmente il braccio umanodella macchina. Forse con esiti sociali peggiori dell’operaio alla catena di montaggiodi anni ormai lontani, a cui non era vietata la relazione con i compagnidi lavoro, con cui scambiava parole e perfino informazioni sindacali nel reparto:il rapporto individuale con il computer fa sì che la comunicazione con i colleghinon sia esclusa, ma venga praticata di fatto, chattando in solitudine virtuale, conscambi di vignette e partite a carte. Intanto i ragazzini sulle playstation imparanoad usare la violenza per gioco e ad uccidere senza sentir male e senza provaresentimenti; i più grandi inseguono ricerche di siti anche molto strani, solitamenteignoti ai genitori, che reagiscono allarmati se vengono a sapere che il ragazzo hacerca contatti insensati e pericolosi.Siamo solo all’inizio di trasformazioni maggiori. Chiamiamo in questione l’etica,ma siamo prevalentemente dipendenti da religioni che non s<strong>anno</strong> riproporsirinnovando il senso dei loro pur grandi messaggi; così, acriticamente, non distinguiamola fede dalle superstizioni e, soprattutto, dai pronunciamenti politici delleautorità sacrali. Gli avanzamenti delle scienze preoccupano (e nessuno nega cheimpegnino a riflessioni pesanti); ma se con un chip sotto pelle potremo aprire laDossier 37


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?porta di casa, dobbiamo prevenire ipotesi di condizionamenti della volontà. Esagerazioni?Ma se stiamo desiderando di essere controllati dalle telecamere ad ogniangolo di strada...Il Max Planck Institute sperimenta una risonanza magnetica che consente di fotografarele intenzioni del cervello “per prevenire gli attentati e al fine di realizzarenuovo opportunità per il marketing”. Abbiamo già visto il film Minority Report equalche brivido ci corre nella schiena.I robot h<strong>anno</strong> raggiunto un livello di alta specializzazione e attentano qualunquefutura piena occupazione. L’intelligenza artificiale potrebbe diventare cosìindispensabile da fornire ai governi progettazioni tecnologicamente inattaccabilida critiche di competenza e governare essa stessa tutte le politiche sociali.Non riusciamo a pensare che fino a due decenni fa persone che oggi si trovanoin coma non sarebbero sopravvissute e che, forse, fra altri vent’anni la medicinariuscirà a escludere la caduta nella morte cerebrale. Ma abbiamo paura di ragionaresulla vita e sulla morte, che della vita fa parte.C’è bisogno di un nuovo illuminismo: l’esperienza del precedente ci rende pessimistiperché, incompreso tempestivamente, non prevenne rivoluzione e guerre. Ilnostro rischia un analogo sbocco, se la democrazia si dibatte in affano.Allora appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nelsolo modo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessitàdi ipotesi. Necessario per farsi carico di generazioni che non potr<strong>anno</strong> essere onniscientinel crescere continuo delle informazioni, ma dovr<strong>anno</strong> essere in grado, anchein un campo solo, di superare in profondità concettuale il livello cognitivo di oggi.Lo vediamo in particolare in quella responsabilità sempre meno attiva che è il“fare politica”. I giovani sono sempre meno padroni dei diritti di cittadinanza enon si pongono alcun problema su chi sarà il “nuovo principe”, una volta che si siaesaurita la “forma partito” per abbandono di partecipazione e controllo. Non c’ènulla di più importante, ancor prima di affrontare il cambiamento dei massimi sistemi,del dare senso - nella scuola come primo momento di quella vita associata dicui nessuno può fare a meno nell’epoca della solitudine virtuale di My Space - FaceBook- ai patti fondativi della cittadinanza. E’ stata una vera pena constatare - in occasionedel referendum costituzionale del 2006 - quanto grande sia l’attaccamentodegli italiani alla Costituzione e quanto grande ne sia parallelamente l’ignoranza.La società della conoscenza resta pur sempre società, basata su principi, diritti,doveri, regole funzionali e di legalità. Che nelle scuole dei buoni Comuni si pratichila raccolta differenziata e ogni aula abbia tre cestini e l’istituto sia esentato dallatasse per l’immondizia, significa educare ai benefici di una società bene ordinata.In molti istituti superiori l’educazione fisica insegna anche la correttezza delle normestradali e abilita al patentino dei motorini, mentre vi sono città in cui i ragazziguidano senza casco o senza cintura. Qualcuno può obiettare che, se privilegiamouno sviluppo cognitivo più alto e complesso, non ci si può perdere a constatarequanto sia importante o lecito che un genio sia trasgressore e paghi le multe.In realtà, come non è possibile che qualcuno resti nell’arretratezza in tempi38


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?in cui il futuro - e non la modernità - sollecita tutti con pregnanza di domande acui non sono ancora pronte le risposte, così non si produce avanzamento moralee sociale senza responsabilizzazione circa il proprio posto nel mondo in termini didiritti e doveri.Non sapere che il Parlamento e le istituzioni h<strong>anno</strong> significato personale e identitariosignifica essere disposti a non guidare i processi e a subire effetti di cause checoinvolgono l’interesse del singolo. La stessa ritualità istituzionale evidenzia che laCostituzione e il Parlamento rappresentano il paese, come totalità e come singoli(la gente vota, si forma una maggioranza con un leader, questo va dal Presidentedella Repubblica per presentargli la compagine governativa, il Presidente lo rinviaalle Camere per ricevere la fiducia e il Parlamento vota. La maggioranza “governa”- e non comanda - e l’opposizione costituisce - e costruisce - il Parlamento con pienatitolarità di rappresentanza. Sia il governo sia l’opposizione sono soggetti - allostesso titolo e in complementarietà di funzioni - alla Costituzione.I giovani non possono progredire nell’ignoranza del loro destino. Il “fare politica” èstato per lunghi decenni un’attività sospetta nella scuola; giustamente, se la si intendecome arena di interessi contrapposti, ma senza alcun senso se si toglie al ragazzo l’antennache gli fa cogliere l’interesse di essere riconosciuto come soggetto titolare di diritti.Se, come si dice, neppure i maestri e i formatori di professione h<strong>anno</strong> preparazioneper immaginare il futuro e predisporre gli strumenti adatti a fruirne vantaggiosamente,sembra conveniente partire da forme che, qualunque siano gli esiti checi attendono, costruiscono piattaforme sicuramente utilizzabili con profitto. Aprireil ventaglio delle possibilità offerte dalla società della conoscenza, rafforzare lestrutture logico-comunicative della mente, radicare l’educazione sentimentale nellasalvaguardia dell’umanità relazionale e responsabilizzare la coscienza dei diritti chespettano ad esseri umani - uomini e donne - liberi e capaci, per aver conosciuto ilimiti dei contesti in cui vivono e operano, di adempiere doveri che, nello spaziopubblico, rendono possibile la vita in reciproco riconoscimento di dignità.*Giornalista, saggistaDossier 39


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaCritica della scuolaper una pedagogia criticaLa mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorsosulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessiagli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale.Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto,contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica manon della dimensione politica della pedagogiaPiergiorgio Reggio*Tra le numerose difficoltà che la scuola incontra nel nostro Paese figura il fattoche su di essa si riversano attese e visioni assai consistenti e, spesso, divergenti.Sul terreno delle politiche scolastiche si giocano ancora – più che in altri ambitiistituzionali – contrapposizioni ideologiche e concezioni della società. Tale enfasifinisce per ottenere un effetto paradossale – ma non troppo a ben riflettere - disvuotamento effettivo dei contenuti della discussione. Le divergenze, spesso assaimarcate, rispetto alle specifiche misure di riforma, dichiarate o sottese, non arrivano– infatti - a mettere in discussione radicalmente i fondamenti della logicadell’istruzione formale. Eppure ciò oggi va fatto, consapevolmente e con spiritocostruttivo, poiché lo scenario mondiale pone proprio l’educazione, insieme al lavoro,alla salute ed all’utilizzo delle risorse naturali come questioni rispetto allequali è necessario (ri)pensare le logiche dello sviluppo a fronte delle sfide dellaglobalizzazione ed alle sue complesse crisi 1 .Può essere utile, in tal senso, considerare – sia pure sinteticamente – alcunipassaggi cruciali del dibattito critico sulla scuola in Italia come si è sviluppato negliscorsi decenni, per guardare, successivamente, verso quali prospettive possonoessere rivolte le energie di innovazione della realtà della scuola.1 In questo mio breve intervento cerco di proporre alcune riflessioni maturate dal confronto coneducatori ed educatrici, ricercatori e ricercatrici di vari Paesi del nord e del sud del mondo interessatialle questioni del ruolo della scuola nelle società odierne che vivono le dimensioni dellaglobalizzazione. La rete internazionale degli Istituti Paulo Freire che, nei diversi continenti riuniscechi opera in ambito educativo ispirandosi agli orientamenti del pedagogista brasiliano, è stato unodegli ambiti privilegiati di confronto. Vorrei ricordare, a tal proposito, il sesto “Forum mondialePaulo Freire”, tenutosi a San Paolo del Brasile nel mese di Settembre del 2008 ed il terzo Forumitaliano Paulo Freire tenutosi a Torino il 13 Dicembre, sempre dello scorso <strong>anno</strong>, dal titolo “Unascuola senza speranza? Quale speranza per la scuola?”, con la partecipazione qualificata di rappresentantidi associazioni e gruppi operanti in ambito scolastico, socio-educativo e della cooperazioneinternazionale.40


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_criticaAbbiamo criticato la scuola, ci sono stati educatori critici ma non abbiamoavuto una pedagogia critica.Dalla fine degli anni ’60 numerose e diverse sono state le critiche rivolte all’istituzionescolastica, della quale sono state messe in luce, di volta in volta, le responsabilitànella riproduzione sociale di condizioni di ingiustizia e diseguaglianza, latendenza ad educare al pensiero conformista, il privilegio accordato all’astrattezzadel sapere a discapito dell’apprendimento dall’esperienza, la separazione dalla vita edalla società. La denuncia di Lettera a una professoressa, nel 1967, squarciò un velodi silenzio e anticipò le analisi dei sociologi della riproduzione sociale, collocandosiin una stagione di critica al ruolo delle istituzioni nella creazione di condizoni didominio delle culture, delle menti e della vita quotidiana. La critica si sviluppavain un’epoca di diffusa tensione verso processi di deistituzionalizzazione, che raccoglievaistanze assai diverse di carattere sociale, politico e culturale. La critica dellascuola di Barbiana può essere letta in parallelo all’analisi di Basaglia nei confrontidell’istituzione psichiatrica, alla contestazione degli obiettori di coscienza versol’istituzione militare. Sul piano del confronto teorico, le analisi si susseguirono conradicalità; la prospettiva della descolarizzazione tracciata da Illich non venne peròcolta nel suo più profondo significato di critica alla logica fondante e pervasivadell’istituzionalizzazione della conoscenza e dell’apprendimento. In tal senso, nonne venne compresa – all’epoca - la portata potenzialmente riformatrice dei sistemidi istruzione. Solo oggi, in presenza di una diffusa, e per molti versi retorica, enfasiposta sulla prospettiva del Long Life Learning, riconosciamo l’originalità dell’analisie delle intuizioni di Illich, che anticiparono scenari oggi ampiamente realizzati:la condivisione della conoscenza in rete, il valore dell’apprendimento in situazioniinformali, la centralità dei processi di learning rispetto a quelli di teaching, laconvivialità come alternativa – anche educativa – all’esproprio istituzionale dellepotenzialità dei soggetti di apprendere e costruire comunità.Sul piano, invece, delle pratiche educative, a questa stagione di critica esplicitaseguirono esperienze originali e innovative. A scuola e fuori (talvolta anche controla scuola) nacquero luoghi educativi e forme dell’educazione ricchi di significato:non solo extrascuola ma anche progetti educativi tra città e scuola, presenza di educatoriqualificati dentro la scuola, collaborazioni tra insegnanti ed operatori socialinel campo della prevenzione.A tanta ricchezza esperienziale non è però corrisposta un’adeguata elaborazione sulpiano pedagogico ed un corrispendente riconoscimento sociale, politico e culturale.In Italia alla critica della scuola non è succeduta un’altrettanto esplicita e radicale pedagogiacritica, come è invece avvenuto – ad esempio – negli Stati Uniti. Non sonocertamente mancati gli educatori critici (don Milani, Dolci sono noti – ad esempio - intutto il mondo) ma non si è affermata una prospettiva critica in pedagogia, fondatasulla messa in discussione delle cause e delle conseguenze dell’azione istituzionale inambito educativo. Una prospettiva di pedagogia critica si intende come analisi dei rapportidi reciproca influenza tra scuola e società, tra sapere accademico e pratiche socialie del lavoro; si tratta di assumere uno sguardo specifico volto a cogliere le implicazioniDossier 41


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_criticaistituzionali, culturali e politiche dei sistemi di istruzione. Una prospettiva di pedagogiacritica può considerare in modo specifico la scuola per coglierne le funzioni culturali eistituzionali, il ruolo di dominazione o di sviluppo delle coscienze. Una pedagogia riescead essere tale e ad esercitare un proprio legittimo e riconosciuto ruolo sociale quando èin grado di elaborare gli slanci e la concretezza dell’agire educativo; ciò avviene non soloattraverso una rigorosa attenzione teorica e metodologica ma anche per mezzo dell’impiegodi chiavi di lettura politiche. Tale prospettiva si configura, infatti, come essenzialmentepolitica e risulta – probabilmente proprio per questa ragione - sostanzialmentemarginale nel panorama pedagogico italiano, nel quale da sempre prevalgono piuttostoapprocci di carattere filosofico e psico-pedagogico.Certamente il dibattito sulla scuola accende a periodi, come anche negli scorsimesi è accaduto, la vita politica italiana ma altra cosa è la critica politica alla scuola;la separazione tra scuola e società (vita reale) è ancora talmente consistente daimpedire, nei fatti, un’analisi istituzionale e politica della funzione dell’educazioneformale. In questa situazione, le critiche radicali alla scuola espresse con luciditàprofetica da Lettera a una professoressa, non h<strong>anno</strong> potuto essere trasformate in progettopedagogico, giacchè tale trasformazione necessitava proprio di uno scenariointerpretativo di carattere politico, culturale e istituzionale.Per una pedagogia critica, a scuola e nella societàLa mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorsosulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessiagli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale.Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto,contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica (manon della dimensione politica della pedagogia), rimanendo però assai lontano dallaconsapevolezza dei grandi temi epocali che oggi attraversano i popoli e le società.Mentre ci si attarda, quindi, in dibattiti che rivelano il sostanziale provincialismodel nostro ragionare pedagogico, i rivolgimenti della globalizzazione forzano i tempie le modalità della scuola, lacerata – al di là dei confini nazionali (ma ancheculturali e disciplinari) - da tensioni dialettiche quali:- globale/locale, che in ambito educativo riguarda non solo la definizione deicontenuti di insegnamento ma i linguaggi ad essi relativi e le forme stesse di insegnamento.I paradigmi del globale e del locale generano orientamenti educatividivergenti, la cui integrazione non è facilmente praticabile, la dialettica va assuntanella propria originale provocatorietà, ricca di incognite e, forse, di opportunità;- autonomia/dipendenza, dialettica che pone in relazione dimensioni divergentirelative ad aspetti diversi ma complementari dell’agire educativo e dell’isituzionescolastica. La dialettica tra autonomia e dipendenza riguarda il versante amministrativoe istituzionale, quello specifico dei processi di apprendimento e del ruolodegli insegnanti. Tra autonomia e dipendenza si gocano gli esiti di apprendimentodegli studenti, come le possibilità di sviluppo delle scuole a livello locale;- inclusione/esclusione sociale, poiché è evidente come la scuola possa costituirsi42


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_criticacome ambito e strumento tanto di promozione di cittadinanza, quanto di produzionedelle diseguaglianze e di marginalità per specifiche fasce della popolazione;- sviluppo senza limiti/sostenibilità dello sviluppo, poiché la concezione e le scelterelative allo sviluppo (economico, sociale, produttivo) recano inevitabili conseguenzesui sistemi di istruzione. La conoscenza per un mondo concepito in incessantecrescita, fondato sulla convinzione dell’inesauribilità delle risorse naturali esulla potenza umana di perpetuarle è radicalmente diversa dalla conoscenza comeindividuazione e padronanza del limite di responsabilità nel rapporto tra uomo emondo. Diversi e contrapposti sono gli esiti che tale dialettica presenta;- monocultura/intercultura, quale dialettica che attraversa i processi educativi mache si ritrova anche nei campi dell’economia e del lavoro, della convivenza sociale,dei sistemi di cura e che rappresenta una sfida della post-modernità alla quale anchela scuola è chiamata a rispondere.Dinanzi a simili tensioni dialettiche si comprende facilmente come la scuolarisulti esposta a sfide radicali, per molti versi insostenibili. Affrontando tali questioni,un pensiero critico sulla scuola può risultare efficace se, parallelamente, sisviluppano strategie e pratiche di pedagogia critica, cioè di propositiva affermazionedi logiche educative improntate a tradurre operativamente le istanze dellacritica istituzionale e politica alla scuola. In tale prospettiva è possibile recuperaree valorizzare la ricchezza che, in questi anni, si è venuta creando in ambienti intornoalla scuola, in rapporto – talvolta anche conflittuale – con essa: esperienzeun tempo definite extrascolastiche ma oggi maturate verso condizioni di maturitàeducativa che le connotano in termini non più residuali ma come componenti diun sistema educativo territoriale articolato, all’interno del quale la scuola si collocaridefinendo continuamente le modalità del proprio agire. Approfondimento sulpiano della ricerca e sviluppo di pratiche educative in una prospettiva di pedagogiacritica possono essere realizzati assumendo alcun orientamenti di fondo che, diseguito, sinteticamente tento di esplicitare.E’ importante, innanzitutto, assumere come impegno strategico - nella sua concretezza- il dato, da tempo riscontrato, dell’esaurimento della centralità dell’istituzionescolastica nei processi di apprendimento degli individui, dei giovani come degli adulti.Ciò non significa fine della scuola ma implica la necessità di superare il paradigma (dipensiero, di azione) fondato sull’implicita gerachia di valore tra scuola ed altre formee luoghi dell’apprendimento. I processi educativi in ambito formale, non formale edinformale non solo sono tutti importanti ma v<strong>anno</strong> assunti come effettivamente dotatidi pari dignità. Le raccomandazioni dell’Unione Europea agli Stati menbri v<strong>anno</strong> intal senso, sollecitando forme di integrazione tra i sistemi, attraverso il riconoscimentodella pari dignità degli apprendimenti che in essi si sviluppano. “Il riconoscimento ela valorizzazione degli “apprendimenti comunque acquisiti”, costituiscono prospettiveche superano ogni classificazione rigida ed ogni tentativo di stabilire gerarchie ancherecondite. L’avverbio “comunque”, riferito alle forme degli apprendimenti significain modi, tempi, con strumenti e relazioni, logiche differenti e in ogni caso riconosciuticome validi, giacchè gli esiti ai quali tali diversità conducono sono “comunque”Dossier 43


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_criticavalidi per il soggetto, ne rappresentano il patrimonio di conoscenze, la competenzadi apprendimento essenziale, che trova riconoscimento a livello sociale. Il portatodemocratico di tale prospettiva è estremamente rilevante, la sua dimensione politicaevidente, chiare le implicazioni per ogni ragionamento di riforma dei sistemi scolastici.Essi v<strong>anno</strong> visti quali possibili ambiti di sviluppo degli apprendimenti dei soggetti,ai quali va attribuita centralità. Intorno ad essi, alle loro caratteristiche e specificità, aivincoli ed alle opportunità dei contesti concreti di vita v<strong>anno</strong> rapportate le strategiedi sviluppo e integrazione dei sistemi educativi. Vi sono aree geografiche del mondonelle quali l’educazione formale va sostenuta e sviluppata perché insufficiente e dovevi è un bisogno urgente di garantire condizioni minime e il più possibile diffuse didiritti d’apprendimento (e non solo); in altre realtà, come sono la gran parte deiPaesi del nord del mondo, invece, accanto a processi d’innovazione dell’educazioneformale, è urgente investire risorse per il potenziamento e il riconoscimento effettivodell’educazione non formale e di quella informale, che vengono spesso già praticatedai soggetti in apprendimento con esiti soddisfacenti.La centralità degli apprendimenti implica un’attenzione educativa privilegiata per isoggetti e le esperienze che essi vivono, quali modalità per costruire conoscenza. La scuolaviene, di conseguenza, situata all’interno di un contesto sociale che offre molteplici opportunitàdi apprendimento, anzi che si pone esso stesso come oggetto di apprendimento.Questa prospettiva si fonda inevitabilmente, quindi, su una concezione dell’apprendimentocome fenomeno sociale, processo non individuale ma socialmente influenzato ecostruito. L’apprendere è forma del rapporto tra uomo e mondo, non atto di dominiodell’umano sulla realtà ma di relazione tra persone e tra queste e il mondo. Paulo Freireesprimeva tale concezione con l’espressione “essere col mondo” , che si pone come formarelazionale in grado di superare il semplice “essere nel mondo”, che non esprime né relazionené umanizzazione. In questa visione freiriaina si rintracciano suggestioni significativedi Martin Buber, che vedeva nella coppia “io-tu” la parola fondamentale, costitutiva delsenso di umanità, del rapporto con il mondo e, quindi, anche dell’educazione.L’apprendimento come processo di relazione con il mondo e di costruzione diesso è strettamente connesso con la realizzazione di pratiche educative basate sullacritica e sullo sviluppo di forme di coscienza, appunto, critica. Sempre Freire intendeva,con questo termine, riferirsi ad un atteggiamento attivo del soggetto che si ponedinanzi alla realtà concependola ed affrontandola come “problema”, anzi problematizzandola.Quando riusciamo a trasformare fatti ed eventi, persone ed oggetti inproblemi, per noi e per la società, stiamo ricercando ed attribuendo significato alnostro “essere col mondo”. Non subiamo passivamente e acriticamente ciò che avvienema tentiamo di viverlo come esperienza, innanzitutto di apprendimento. In questomodo, costruiamo relazione e sviluppiamo coscienza come forma di rapporto colmondo; essa, secondo Freire, è “transitiva” (e critica), nel senso che permette il passaggio,la transizione tra soggetto e realtà esterna. La persona si apre al dialogo con glialtri, col mondo, con se stessa e vive l’educazione come esperienza dialogica, criticae problematizzante. Perché la scuola sia luogo di sviluppo della coscienza critica, larealtà sociale della vita quotidiana locale e globale deve entrare in essa ordinariamente44


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_criticacome tema da problematizzare, insieme di eventi che possiamo trasformare in apprendimenti.Non si tratta di cercare nessi – spesso formali e artificiosamente indotti- tra conoscenze disciplinari e realtà quotidiana; al contrario è dall’esperienza direttae personale di chi apprende che scaturiscono i fatti che possono essere trasformatidiatticamente in problemi e generare apprendimenti.Nel processo di problematizzazione, che genera coscienza critica, trovano unospazio specifico e rilevante le dimensioni politiche, sociali e culturali alle quali si è inprecedenza fatto riferimento. Sono queste le prospettive interpretative attraverso lequali l’educazione e la scuola assumono una funzione “coscientizzante” e non puramenteadattiva. Inoltre, tale logica di analisi e problematizzazione viene applicata allascuola stessa, quale situazione sociale appositamente ordinata per generare apprendimenti.Cosa insegnare e come? Quali sono i ruoli dell’insegnante e dello studente?A cosa servono conoscenze e abilità che si acquisiscono? Da dove provengono edove ritornano i saperi che a scuola vengono affrontati e trattati? Questi interrogativivengono ordinariamente assunti come criteri critici di costruzione della conoscenza,rappresentano lo sforzo per significare l’esperienza scolastica come momento dialogico(tra persone, tra queste e l’istituzione) e problematizzante. La scuola non devetanto risolvere problemi quanto crearne, perturbando l’apparente quiete che cela lecontraddizioni, i conflitti che non si intendono esplicitare né socialmente affrontare.Una scuola che crea contraddizioni e problematizza fatti ed eventi è una scuola chepratica la critica come strategia educativa sistematica ed intenzionale, sia da partedegli insegnanti, sia da parte degli studenti e degli altri soggetti sociali interessati(famiglie, gruppi e associazioni, istituzioni, organizzazioni di lavoro…). Una delleprincipali obiezioni solitamente formulate nei confronti di una simile prospettivastrategica, che conosce peraltro significative realtà di attuazione in Italia come in numerosialtri Paesi in continenti diversi, riguarda il timore di “ideologizzazione” dellacultura e, quindi, della situazione scolastica, che si teme possa essere ridotta a terrenodi contrapposizione e di disputa tra orientamenti diversi. Occorre considerare, a talproposito, come sia proprio l’orientamento corrente volto a non problematizzare, aproporre fatti (conoscenze, eventi) in modo apparentemente oggettivo ed asettico acostitutire il portato ideologico dominante. Il pensiero unico si costruisce proprioattraverso l’abitudine a non concepire alternative, non indagare cause e conseguenze,ritenere “oggettivo” e indiscutibile ciò che, in realtà, rappresenta l’esito di rappresentazionidiverse, incontri e talvolta scontri tra interessi. Adottare una logica problematizzanteva, quindi, proprio nel senso dello sviluppo delle capacità critiche autonome,antidoto al pensiero ideologico, unico e valido al di là delle specificità dei contesti socialie dei momenti storici, che intende preparare menti pronte ad accogliere – senzaalcuna resistenza – ogni nuova forma di colonizzazione delle culture e delle società.*Docente di Pedagogia della comunicazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione– Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa prevalentementedi educazione degli adulti, pedagogia sociale e interculturale. Vice-presidente di IPF-Italia (Istituto Paulo Freire) e Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Valutazione.Dossier 45


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaEducare o istruire?La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare unriferimento epistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondodell’educazione ha spinto un gruppo di collaboratori storici, amici colleghi estudenti del pedagogista ad immergersi nella comprensione e consapevolezzapedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto.Dafne Guida Conti*La decisione di dare vita a un Centro Studi dedicato a Riccardo Massa che si cimentassein percorsi di ricerca negli ambiti educativi a partire dal pensiero e dall’opera dell’autorevolepedagogista è oggetto della breve presentazione realizzata in queste pagine.Riccardo Massa, pedagogista, muore, prematuramente e improvvisamente, il 1gennaio del 2000. Fino ad allora egli ha condotto una intensissima attività di ricerca,ha rinnovato linguaggio, introdotto declinazioni critiche inusuali conferendo dignitàscientifica a non pochi ambiti, da sempre ai margini o trascurati, dell’educazione.Con Riccardo Massa, i toni della riflessione sul senso dell’educazione e dell’istruire,conobbero ed h<strong>anno</strong> conosciuto, senza soluzioni di continuità, la presenza diuna voce autorevole, provocatoria, propositiva.Massa ha svolto un ruolo importante nella fondazione e nello sviluppo della Facoltàdi Scienze della formazione, fortemente voluta e appassionatamente costruita.Ha svolto con studenti e colleghi riflessioni illuminanti sulla creatività pedagogica,sulla formazione e sulla formazione dei formatori. L’attività e l’impegno di RiccardoMassa non furono mai chiusi solo dentro all’Università, ma dialogarono semprecon istituzioni, enti, associazioni impegnati nell’educazione a diversi livelli.La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare un riferimentoepistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondo dell’educazione ha spintoun gruppo di collaboratori storici, amici colleghi e studenti del pedagogista ad immergersinella comprensione e consapevolezza pedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto. IlCentro Studi Riccardo Massa nasce per l’appunto dal desiderio di non disperdere l’ereditàpedagogica di Massa e dal tentativo di sviluppare quell’attitudine al lavoro educativo di cuispesso il pedagogista parlava nei suoi scritti. “Esiste – aveva sostenuto Massa poco prima dellasua morte in una intervista rilasciata a <strong>Pedagogika</strong>.it – una specifica attitudine alla creativitàpedagogica, quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze dicontenuti o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiareun dispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”.In quale cornice prende vita il Centro Studi Riccardo Massa e quali presupposti epistemologici,quali finalità, e quale oggetto della ricerca orientano il suo operato nelle intenzionidegli ideatori? Il Centro Studi è nato per volontà della famiglia di Riccardo Massae di un gruppo di pedagogisti, suoi allievi e collaboratori, ed ha come soci fondatori,oltre alla famiglia e agli allievi, l’Università degli Studi di Milano, dove Riccardo Massaha lavorato per molti anni dirigendo l’Istituto di Pedagogia e l’Università degli Studi diMilano-Bicocca, in cui ha fondato e presieduto la Facoltà di Scienze della Formazione.46


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/educare_o_istruire?In particolare i suoi soci fondatori sono l’Università degli Studi di Milano,l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Stefania Massa e Francesca Massa,Anna Rezzara, Lucia Zannini, Piero Barone, Jole Orsenigo, Stefania Ulivieri Stiozzi,Cristina Palmieri, Paola Marcialis, Igor Salomone, Giorgio Prada, FrancescoCappa, Francesca Antonacci.La prospettiva in cui nasce il Centro Studi Riccardo Massa è quella di un “bilancio”dell’eredità pedagogica di Riccardo Massa. L’obiettivo è anche quello di indagare qualeimpatto ha avuto l’opera di Massa, a qualsiasi livello esso si situi (istituzionale, comenel caso dei servizi extrascolastici, o di pratiche locali, come nella sanità). Oltre allaricostruzione dell’incidenza dell’azione di Massa, finalità del centro è offrire uno spaziodi riflessione su quali altri impatti futuri possa avere il suo pensiero nei diversi contestieducativi. ll Centro Studi Riccardo Massa è una associazione di promozione culturaleche si propone di diffondere il pensiero e l’azione di Riccardo Massa mantenendoli vivinel dibattito della pedagogia italiana contemporanea, in cui continuano ad essere puntodi riferimento e stimolo alla ricerca teorica e pratico-applicativa sull’educazione.La finalità del Centro Studi è la promozione di studi pedagogici con particolareattenzione agli ambiti di ricerca che h<strong>anno</strong> costituito oggetto della riflessione di RiccardoMassa: tale finalità si declina sia nella promozione della ricerca educativa sianell’esercizio di pratiche formative fondate sulla proposta della Clinica della Formazionee rivolte a tutte le figure professionali dell’educazione e della formazione.Allo scopo di restituire il legame indissolubile tra teoria e prassi dell’educazionenel percorso di pensiero e di vita di Riccardo Massa, l’Associazione intende operaresecondo tre direttrici di azioni:- Centro di Ricerca e Formazione Riccardo Massa, per la promozione e realizzazionedi ricerche sui temi dell’educazione e della formazione e sulle figure professionalidell’educazione e per la progettazione e gestione di corsi di formazione eattività di consulenza per tutte le figure coinvolte nella pratica educativa.- Centro di Studio e Documentazione Riccardo Massa, con lo scopo della promozionee organizzazione di cicli di incontri, tavole rotonde, conferenze, seminari,convegni e scambi culturali a livello nazionale ed internazionale.- Archivio Riccardo Massa, con lo scopo della raccolta a catalogo di materiale bibliografico,notizie, corrispondenza, documenti, articoli, pubblicazioni, studi e ricerche compiuti,nonché delle opere di Riccardo Massa, da destinare alla pubblica consultazione.Data l’articolazione e la complessità del mondo educativo di oggi, in quali ambitiintende sviluppare il proprio operato il centro studi Riccardo Massa? Il Centro Studiintende, anche in collaborazione con altre istituzioni pubbliche o private, promuoverela circolazione e il confronto del pensiero educativo e del sapere pedagogico con l’ambizionedi diventare un vero e proprio punto d’incontro, diffusione e progresso dellacultura dell’educazione e nella formazione e valorizzazione delle professionalità educative.I suoi settori di intervento possibile sono stati individuati in tre ambiti: quello dellascuola, quello dell’educazione extra scolastica e della cooperazione, quello della sanità.*Psicopedagogista, Direttore Generale Stripes Coop. Soc. ONLUSDossier 47


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Dossier 49


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaL’interrogazione dello stereotipo.Un metodo possibile nell’educazionealla differenza e alla relazioneLo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruoloprotettivo costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare disé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterleinnanzi che necessariamente precede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore,esterno o interno che sia.Letizia Lambertini *Gli stereotipi del femminile e del maschile sono una delle più significative espressionidi quello che all’interno della riflessione femminista è stato definito l’ordine fallologocentrico,un sistema di rappresentazioni sostanzialmente teso a istituire e mantenere ilpotere di un genere sull’altro e la deprivazione della possibilità per l’uno e per l’altro diconfrontarsi realisticamente e di ridefinirsi in una relazione di effettiva reciprocità.Si tratta di uno dei sistemi di potere più pervasivi e subdoli, capace di esaltaretalmente gli uomini da far perdere loro la misura, anche rassicurante, della propriafinitudine e di idealizzare a tal punto le donne da sottrarre loro il diritto di raggiungerela propria pienezza se non a rischio di divenire incomprensibili e terrificanti.Il fallologocentrismo nega il femminile escludendo le donne dalle pratiche autorappresentativee finisce con questo per negare anche gli uomini, costringendoli a unconfronto tutto simbolico e perciò irreale e acritico. Come scrive Hélène Cixous “ilfallologocentrismo è il nemico: di tutti. Gli uomini rischiano di perdere conservandolo,in maniera differente ma tanto seriamente che le donne”. 1Lavorare sugli stereotipi femminili e maschili significa avere ben chiaro che essi sonola risultante e non il presupposto di un processo e che pertanto, in una prospettiva educativa,è più utile, piuttosto che contrastarli, andare alla ricerca del punto di intersezioneindividuale tra il sistema di potere che rappresentano e le potenzialità di ciascuna edi ciascuno di sottrarsi ad un destino predefinito.È l’opportunità di ogni donna e di ogni uomo di costruirsi in libertà. Non la libertà assolutadell’individualismo ma la libertà relativa nella quale la nostra definizione “dipende”dalla possibilità e dalla capacità delle altre e degli altri di accoglierla e di comprenderla.Una prospettiva che non può essere altro che politico-culturale nella misura in cui laforza prodotta dalla ridefinizione di ciascuna e di ciascuno costringe ogni altra e ognialtro che la incontra a interrogarla e a interrogarsi.Dal punto di vista metodologico, l’obiettivo prioritario di un progetto di educazione alladifferenza e alla relazione tra i generi è quello di porre l’attenzione sui processi di costruzione1 Hélène Cixous, Sorties, in Emily Menlo Marks e Isabelle De Courtivron, New french feminism,Schocken, New York 1981.50


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipodel sistema-identità e di capire quali connessioni legano coercizioni espressive e personalità.Non si tratta cioè di sostituire stereotipi con controstereotipi o di destrutturare gli stereotipi apartire dai nostri convincimenti culturali quanto piuttosto di sostenere percorsi di costruzione diidentità consapevoli e progetti esistenziali sostenibili. Ancora, non si tratta di portare le personedove pensiamo sia “giusto” andare ma di accompagnarle là dove possono e vogliono andare.Costruire un progetto educativo intorno a queste evidenze significa guidare a consapevolezzala domanda “chi sono io?” e, insieme, sostenere e incoraggiare un’attenzione a “chinon siamo”, disponibile a porre a lei/lui, prima di ogni cosa, la domanda “chi sei tu?”. 2Significa cioè fare dell’esperienza della differenza e della relazione il nucleo di queisentimenti di unicità e di partecipazione capaci di salvarci al tempo stesso dal rischiodell’uniformazione e da quello del solipsismo.Il luogo della nascita del Male,la fonte dell’infelicità è l’UnoHanna ArendtL’uomo esiste solo in quanto coesiste,è reale solo nell’opposizione io e tu.Hans Urs von BalthasarLo stereotipoMaschi e femmine sono diversiPer riconoscersi.AlessandroI primi due lavori prodotti, nell’ambito del progetto Alla scoperta della differenza,uno con un gruppo di soli bambini, l’altro di sole bambine furono intitolatidagli stessi partecipanti Noi forzuti e Il libro delle scarpette di cristallo.Lo stereotipo, nel lavoro all’interno del grande gruppo, ha una iniziale funzioneprotettiva. Si tratta dell’utilizzo convenzionale di un’espressione che permettedi riconoscersi. Per molti e molte costituisce il punto di partenza reale senza l’affermazionedel quale il tragitto che porta alla sua elaborazione non ha motivo dicominciare. Lasciare allo stereotipo il tempo di esprimersi, senza contrastarlo immediatamente,significa essere disposti a riconoscere la persona così come sceglieo è costretta a presentarsi e ad accettare di cominciare il lavoro da quell’innegabiledato di fatto.2 “Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione dellacondizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazionedella condizione umana della pluralità, cioè del vivere come essere distinto e unico tra uguali.Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano devenello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: ‘Chi sei?’”. HannaArendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991.Dossier 51


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoIo sono bella.Sono una femmina perché ho i capelli lunghie perché certe volte a casa porto anche lagonnellina.Le femmine si riconoscono perché h<strong>anno</strong>le collane di perle,v<strong>anno</strong> al mercato e comprano le cose damangiare.(Concetta, 5 anni, Il libro delle scarpettedi cristallo 1996 )Io sono M., sono un maschio perché hodue spade per uccidere gli altri uominicattivi. Ho una casa con l’oro per compraredelle armi e vicino alla casa c’è unaroccia. Ho anche un pugnale e quando hole spade mi chiamo guerriero.(Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996 )Mi piace essere maschio perché ci si puòdifendere con le cose che insegnano aimilitari(Stefano, 9 anni, Generi in famiglia 1997)La mamma pensa che le femmine sonoimportanti per l’uomo perché f<strong>anno</strong> damangiare, lavano, stirano e f<strong>anno</strong> i lavoricasalinghi(Sabrina, 9 anni, Generi in famiglia 1997)Io voglio essere un re per comandare.(Enrico, 6 anni, La storia della forza tremante1996)Mi piace essere maschio perché abbiamoschiave le donne(Giuliano, 9 anni, Generi in famiglia 1997)Questa sono io. A me piacciono i vestiti, mimetto gli anelli e le collane. Le femminegiocano con i bambolotti... Le femmine simettono i tacchi alti.(Cristina, 5 anni, Il libro delle scarpettedi cristallo 1996)In questa fase la funzione degli operatori è quella di permettere alle persone coinvolte didire di più. Spesso è attraverso un semplice “cioè?” oppure un “ho capito bene..?” cheessi inseriscono nella conversazione una sollecitazione a “dirla proprio tutta”. Si tratta diuna richiesta di chiarimento più che di una domanda nel senso forte del termine.Una richiesta di chiarimento attenta a non aggiungere mai elementi che non sianogià contenuti nelle parole che la precedono.- Noi facciamo degli altri giochi. Dei giochiche le femmine non f<strong>anno</strong>perché le femmine giocano con la cucina...Noi giochiamo alla lotta.- Fate anche la lotta?- Il gioco di pollo arrosto.- Come funziona questo gioco?- Eh, che bisogna dire pollo arrosto e diventipiù forte.- E cosa vuol dire diventare più forte?- Vuol dire che hai più muscoli e sei più forte,Sei forte vuol dire che spacchi le panche.- E le femmine giocano a pollo arrosto?- No perché sono magre e non sono forti”Pietro, Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996- Noi siamo delle femmine.- Che cosa vuol dire essere una femminaper voi?- Perché siamo delle bambine.- E come si fa a capire?- Perché siamo nate bambine.- Quando siete nate come h<strong>anno</strong> fattoa capire che eravate delle bambine?- Perché... eravamo nate col fiocco rosa.- Siete venute fuori dalla pancia conun fiocco rosa?- No, ce l’h<strong>anno</strong> messo.- Ma come h<strong>anno</strong> fatto a capire chevoi eravate delle femmine?- Ci h<strong>anno</strong> visto col fiocco rosa.(Michela, Marina, Cristina, 5 anni,Il libro delle scarpette di cristallo, 1996)52


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoLo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruolo protettivocostituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di sé. È come un tastareil terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle innanzi che necessariamenteprecede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore, esterno o interno che sia.Ma se si ha la pazienza di ascoltarlo, senza opporvisi ideologicamente, di farlo parlarefino, per così dire, ad esaurirsi, allora accade che dal suo involucro comincino ad emergerevoci estremamente più complesse di quanto il suo schematismo lasci trapelare:Mi sono sentito fare e dire delle cose chenon avevo mai detto.La cosa più difficile è la rabbia...Perché a scuola se piangi non c’è conforto invecea casa c’è la mamma che mi consola.(Antonio, 10 anni, Corpo aggressivitàviolenza 1997)Perdi il contatto con le capacità del tuocorpo, le conoscenze del tuo corpo, dimisurare le sue possibilità... Ci autolimitiamo.Esplorare lo spazio? Quale spazio?..Mi sono ritrovata a farlo per la prima volta.(Mara, 43 anni, L’unità divisa 1997)Mi sono sentita della forza nel corpo.La mia forza comandava.(Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza1997)L’uomo e la donna non h<strong>anno</strong> ruoli fissi,ma la nostra abitudine ci suggeriva che ladonna doveva lavorare in casa e l’uomodoveva lavorare fuori(Vincenzo, 13 anni, Generi in famiglia 1997)Ora, per quanto queste voci possano apparire tutt’altro che stereotipate, scinderledallo stereotipo, all’interno del quale, in un primo momento, si esprimono non èper niente facile. Per non dire poi decisamente arbitrario.Lo stereotipo rimane accanto all’espressione liberata dal suo stesso schematismoe la fatica sta nello stare di fronte a questa contraddizione senza la presunzione divolerla “risolvere”.- Che cosa vuol dire per voi essereuna femmina?- Essere una ballerina.- Con la corona.- Con l’anello.- Gli orecchini.- Il vestito.- È una principessa.- E cosa fa questa principessa? Comesi comporta?- Bene.- Che cosa vuol dire bene?- Gli piace ballare.- Gli piace cantare.- La femmina c’ha anche un cuoricino.Cioè?- Così... d’amore... Vuol dire che vuolebene.- Ah, allora la femmina vuole bene?- Vuole bene a tutti.- ... È gentile.- E cosa vuol dire essere gentile?- Così, guarda, così. (Una da un bacioall’altra).- E buona.- E buona? Come si fa ad essere buona?- Si deve stare in silenzio.- E ascoltare.- Ascoltare chi?- La maestra.- Poi cosa fare?Dossier 53


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo- La mamma, lavorare.- Ubbidire sempre.- Ubbidire al papà, ai fratelli, a tutti.- Ma a voi piace questa cosa?- Sì.- Vi piace ubbidire o vorreste fare dellealtre cose qualche volta?- Io ubbidire..- Io ubbidire..- Io ubbidire..- Sempre ubbidire?- Sììì!!!- Perché, è così bello ubbidire?- Perché se no andiamo a letto senza cena.- E a ubbidire come vi sentite?- Bene.(Cristina, Claudia, Manuela, Ester, Michela,5 anni, Il libro delle scarpette dicristallo 1996 )- I maschi difendono le femmine.- E come f<strong>anno</strong> a difenderle?- Con la guerra.- I maschi le salvano.- Perché le femmine da sole non sis<strong>anno</strong> salvare?- Perché loro non h<strong>anno</strong> i muscoli e i maschile difendono da...- Chi vince... si prende una donna, invecese vince il cattivo il buono va via e siprende la sposa ma se la sposa vuole il cattivo,la sposa si prende l’altro e se, la sposa,vince il buono non vuole il buono prendeil cattivo.(Lorenzo, Pietro, 5 anni, Noi forzuti1996)- E i maschi?- I maschi sono cattivi.- Ah, sono cattivi?- Un pochino.- Cioè spiegatemi.- Eh, f<strong>anno</strong> un po’ gli sciocchini.- F<strong>anno</strong> i dispetti, d<strong>anno</strong> i calci.- I pugni.- Le sberle, gli schiaffi.- E voi no?- No, noi non gli facciamo niente, madopo glieli ridiamo indietro.Perché loro ci h<strong>anno</strong> fatto male a noi.(Elena, Martina, 5 anni, Il libro dellescarpette di cristallo 1996)- A noi piace avere un bimbo nella pancia.- A me piacerebbe avere un bimbo nellapancia.- Anche a me perché lo vorrei tenere tuttoper me...- ... Anch’io e dargli il nome, il nome Giovanni- A me piace molto averlo...- Però farà un po’ male alla pancia...(Pietro, Davide, Lorenzo, 5 anni, Noiforzuti 1996)La funzione della domanda: quando e come porla?Arriva a questo punto il momento in cui è possibile porre una domanda.La domanda va posta in modo tale da non impedire alla contraddizione di esprimersima anzi di rendersi manifesta e di essere compresa nel suo carattere di “indizio”.Siamo quello che diciamo di essere ma c’è anche dell’altro.E che cosa è questo altro?La domanda serve ad evidenziare le tracce da seguire per poter progredire.Ma sebbene inviti a seguire, non chiede un cammino passivo.Essa ha lo scopo di attrarre l’attenzione su quel punto di non connessione (l’indizio,la traccia) che è inizio di comprensione.Comprensione letteralmente significa “tenere insieme cose diverse tra loro”, “ab-54


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipobracciare”. È il punto nel quale i forzuti dicono di desiderare un figlio, la sposasalvata dal buono decide di andare con il cattivo e le ballerine dalle scarpette dicristallo restituiscono, per sana legge del taglione, i calci ricevuti.È la scoperta della differenza a partire da sé e l’inizio di un percorso (l’acquisizionedi un’identità) che chiede necessariamente di accogliere la propria contraddizione.- Io ho sempre saputo fin da piccola che le femminematurano prima, che capiscono di più,che s<strong>anno</strong> com’è la vita e il mondo.- Perché i maschi quando vogliono unacosa insistono sempre.- ... Noi femmine invece non ci arrabbiamomai...- ... Le femmine esprimono solo dolcezza...- Le femmine però non mi sembrache siano solo dolci...- Certe volte quando sono al limite devonosfogarsie diventano aggressive.- Siete sicure che solo quando sonoal limite?- Però anche quando siamo a metà.- Chi è stanca di essere dolce?- Io, vorrei essere amara, cattiva...- Quando mi arrabbio sento una cosadentro di me,tipo un diavolo che ti dice:Dai sfogati, dai un calcio a quell’altro...Lo sento nel cuore e nella mente.(Elena, Ave, Marta, 9 anni, Corpo aggressivitàviolenza 1998)- Io sono felice quando lei mi prende e poimi lascia perché ha il diritto di stare anchecon le altre e non deve stare solo con me.- Ma sei felice?- Sì.- Io non ti ho visto tante volte felice.(Fa il gesto così così).- Così così, cioè cosa vuol dire?- Un po’ mi sento un po’ male perché credoche non sia più mia amica e però mi sentoanche un po’ felice perché ha il diritto diandare anche con le altre.- E la riesci a sopportare questa cosa?- Così così.- E quando lei ti lascia tu che cosa fai?- Io mi tengo qua (indica la gola) il pianto.- Dove qua, nella gola?- Sì.- Ti viene il magone?- Eh sì, il magone.- E non lo vuoi buttare fuori?- No .- E perché?- Perché mi vergogno.- Di chi ti vergogni?- Perché io sono già sono un po’ grandeallora mi vergogno di piangere.- Perché piangere non si può da grande?- Sì, si può ma mi vergogno.- E... Quel pianto com’è?- È un po’ sorridente e un po’ piange.- E come lo definiresti quel pianto segli dovessimo dare un aggettivo? Tiviene da piangere perché sei?- Sono un po’ contenta e un po’... non contenta.- Cioè, non contenta cosa?- Perché credo che non mi voglia piùbene.- E quindi che cosa hai verso di lei?- Un po’ di rabbia.(Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito1997)- Se uno è grosso fino al cielo il drago èmeno forte. (M)- ...- A voi piacerebbe essere grandi?- Sì. (M,F)Dossier 55


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo- Perché se siete grandi cosa avete?- La forza. (M)- E con la forza cosa si può fare?- Tutto. (M)- E invece essere piccoli cosa vuoldire?- Vuol dire che non si riesce a fare niente eneanche qualcos’altro. (F)- E come si sente una cosa piccola?- Si sente un po’ scomoda. (F)- Cioè cosa vuol dire scomoda?- Vuol dire che vuol diventare grande. (F)- E quindi?- Si sente un po’ così cosà. (F)- Cioè?- Male. (F)- Perché?- Perché essere piccoli non piace. (F)- È una cosa che fa paura essere piccoli?A chi?- Io. (M).(Giacomo, Michele, Giada, Fiorenza,Sara, 5 anni, Il libro stregato 1997)Ma non sono sempre gli operatori a porre la domanda. Avviene infatti anche che essaprovenga dalla parte cui si presumeva di indirizzarla. Si tratta di domanda nel senso fortedi cui si è detto prima. Domanda capace di cogliere il punto di crisi e di riproporlo,in questo caso all’operatore, come traccia da seguire nel suo percorso di approfondimento.(Il neretto indica, in questo caso, la voce dei bambini e delle bambine).- La vera domanda è cos’è la paura? (M)- Eh... Cos’è la paura?- Eh, io non lo so. Io me lo chiedo,ma non so la risposta... (M)- Cos’è la paura per te? (M)- Cos’è la paura? È un bel problema in effetti.- Noi l’abbiamo detto, però sei te chenon hai detto niente. (M)- Hai ragione.- Adesso te fai la bimba, va bene? (F)- E noi siamo sedici maestri. (M)- Allora cos’è la paura... Infatti questa domandache tu mi hai fatto mi ha moltocolpita. Se devo dire la verità non è che poi iosappia tanto rispondere a questa domanda.- Nessuno lo sa. (M)”.(Fiamma, Beatrice, Giovanni, Luca, 7 anni,I nostri mostri oscuri 1997)- I maschi h<strong>anno</strong> un pisello e le femmineuna pisella...- Il pisello e la pisella sono segni della diversitàe così nella scuola siamo partiti daquello per capire cosa vuol dire essere diversio simili...- E cosa vuol dire buono o cattivo? Perchéper la gente buono e cattivo sonodue cose diverse ma non è così.(Marta, 9 anni, Conversazioni 1997)Comincia a manifestarsi una posizioneSe la domanda è una domanda reale e non preoccupata di trovare conferme al suoporsi, anzitutto in chi la esplicita, se è posta al momento giusto, se infine ha la forza diaccettare quello che non può a questo punto definirsi come una mera risposta ma comeuna vera e propria posizione, allora lo stereotipo non ha più ragione di r-esistere.La concretezza della propria storia affiora in tutta la sua complessità e l’esperienza di sé inquanto maschi e femmine comincia a mostrarsi in tutta la sua contraddittoria vitalità.56


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoParametri di convenzionale valutazione delle posizioni femminile e maschile risultanoa quel punto scardinati da espressioni realmente variegate e tutt’altro checonfuse. Esse dimostrano come l’acquisizione di un’identità avvenga nella messa inrelazione di forze tra loro contrastanti, differenti, nell’assunzione della complessità,della contraddizione che siamo.- E allora com’è? Ce l’aveva paura o no?- Per me la paura ce l’aveva ma non la usava.- Cosa vuol dire non usare la paura?- Di non essere coraggiosi.- La paura l’aveva ma non la usava,cioè? Prova a spiegarci meglio... Checosa vuol dire che non la usava?- Che... non mi viene la parola.- Cosa intendi tu per usarla?- Se la uso ho paura, se non la uso vuol direche non ho paura però ce l’ho la paura.- Ho capito, allora se la usi vuol direche hai paura e hai paura, invece...Invece se non la usi vuol dire che ce l’hodentro di me però non la uso, la tengo lìdentro a fare niente- Quindi che cosa vuol dire? Uno dentrodi lui ha paura... vuol dire una cosatipo che fa finta di non averla?- Eh, sì. Lui la paura la pensa solo, perònon fa: “Aiuto!”, sta zitto.(Giovanni, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998)- Io invece quando parlo che poi dicodelle cose che a mia mamma la f<strong>anno</strong> riderelei è gentile e poi dice: Eh quando sarai grandenon li devi fare questi discorsi.E poi quando la faccio arrabbiareche tante volte gli faccio... (agita una mano)ma non gliela do...:“Mamma, la vedi questa mano?..”,allora lei mi dice:Eh guarda che ce ne vuole ancora di tempoper diventare grandi...Perché io faccio così se no gli do una sberla...- La vorresti picchiare, le vorresti dareuna sberla?- Sì e lì quando mia mamma mi picchiami sento grandee invece quando sono buona mi sento piccola(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)Mi piace essere maschio perché non devopartorire mai.Non mi piace essere maschioquando si deve andare con la banda disoli uomini per esempio in guerra o qualcos’altro(Salvatore, 9 anni, Generi in famiglia 1997)L’aggressività la tiro fuori con molta facilità,non altrettanto l’intimità. Mi sento piùsicura quando sono aggressiva. Sono diventatacosì anche nel rapporto sentimentale.Voglio dominare io, condurre il gioco io...Faccio fatica a toccare le persone e non mipiace essere toccata.(Monica, 35 anni, L’unità divisa 1998)Io quando penso a essere sempre e nonguardo niente,dico: Ho coraggio, comando tutto,poi dopo... si guarda attornoe pensa che non può comandare tutto.(Flavio, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998)Le cose sono molto intrecciate.(Francesca, 8 anni, La forza dell’amorerapito 1996)Comprendere la complessitàOra se la complessità è percepita anzitutto internamente, e se il lavoro educativo ne sollecital’elaborazione in quanto punto di forza, la persona che la esperimenta, la riconosceDossier 57


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoe la nomina diventa anche consapevole di avere in sé gli strumenti che le consentono dirapportarsi all’altro, all’altra; di sostenere la sua presenza senza tradire la propria.Paura e desiderio, disponibilità e difesa, forza e debolezza sono allora comprese inun ordine. L’identità le contiene e le esprime senza esserne sopraffatta ma divenendopiuttosto in tal senso veicolo di reciprocità.Mio babbo dice che per litigare bisognaessere sempre in due(Gabriele, 9 anni, Generi in famiglia 1996)Ho provato tristezza, paura, felicezza, rabbia.(Filippo, 10 anni, Corpo aggressività violenza1997)Maschi e femmine sono diversi per riconoscersi(Alessandro, 11 anni, Merlo o merla? 1998)Quando spingevo l’altro sentivoche qualcuno mi desse tutta la forzaper spingere l’altro,praticamente un sentimento che non avevomai sentito.Quando l’altro mi spingeva io sentivoun coraggio meraviglioso dentro di meche cercava di mantenermi ferma.(Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza1997)Io la odio e la vorrei ammazzare, distruggere.Sarei un po’ triste se la distruggo ma sarei felice.Quando faccio così mi sento aggressiva edopo mi sento bene.(Olga, 10 anni, Corpo aggressività violenza1997)- Quando hai paura cosa fai?- Sono così (trema tutto).- Tremi allora.- Ma dopo sento il cuore che mi dice: “Nontremare, non tremare che tu sei forte”.Allora ho smesso di tremare e dopo sonostato fermo.(Marco, 7 anni, La paura ti spaventa epoi scappa via 1997)- ... Questi personaggi provano dei sentimentinon sempre uguali... E a voi visuccede di essere anche così diversi,di essere buoni però anche cattivi, diessere tristi però anche arrabbiati...Di volere bene e...- Come un divorzio?- Cioè?- Ti innamori e poi ti lasci.(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)- Il momento della divisione è il momentodella liberazione.Ricomincio a stare da sola... sto bene.- ... Si stava bene insieme... Da sola continuavoa pensare come si stava bene insieme- Io dico sempre che da sola sto bene manon è vero.Mento a me stessa.(Serena, Angelica, Mara, 31, 40, 43anni, L’unità divisa 1997)L’incontroEd è attraverso la consapevolezza del proprio essere “fatti di parti” che arriva adesprimersi l’esigenza dell’incontro.Si tratta dell’aspirazione ad una pienezza, ad un ricongiungimento profondo, intimocui l’“anelito amoroso”, fin dalle sue prime manifestazioni, cerca in qualche modo didare voce. È una voce che ad ascoltarla bene, non separa mai interno ed esterno mapiuttosto continuamente collega e insieme contiene quelli che il nostro linguaggiodualistico altro non riesce a definire che “dentro” e, separatamente, “fuori”.58


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoC’era un’oca e un oco.Questo oco andava a giocare con la mucca.Una volta la mucca gli ha dato una spintacon il musoche dopo l’oco è andato sotto la ruota deltrattore.Allora dopo la donna, l’oca,lo cercava sempre però non l’ha più trovatoe così per il dispiacere che lui era mortonon ha più covato le uovaquindi non ha fatto più figli.(Pietro, 7 anni, Merlo o merla? 1998)- L’amore non può essere solo baciare, puòessere anche volersi bene che non ci sibacia... Uno vuole bene a una personaperò non la bacia.- Però l’amore non vuol dire proprio tramaschio e femmina che... Ad esempio iovoglio bene all’I., io voglio bene alla C., adesempio io voglio bene alla G., ma non ciamiamo, cioè ci amiamo però...(Cecilia, Giulia, 8 anni, L’amore indimenticabiledi un’unità 1998)Dove sei mia unica figlia? Tu mio dolcegermoglio?Rispondi a tua madre che ti cerca e ti cerca;ti cercherò fin in capo al mondo pur ditrovarti, so che sei da qualche parte, rispondi...Ti cercherò fin in capo al mondo.Chiunque l’avrà presa me la pagherà cara,anzi carissima.Fino al tuo ritorno mi circonder<strong>anno</strong> dolore,rabbia e tristezza.Torna o mio germoglio, torna o mia unicafiglia, torna, torna da tua madre.(Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1996)- Un giorno in piscina siamo entrati nellospogliatoio delle femmine e le abbiamoviste tutte nude.- Erano bellissime.(Michele, Lorenzo, 7 anni, Corpo aggressivitàviolenza 1997)Quando ho incontrato l’altra un po’ tremavoma non era paura, era imbarazzo.Quando lei se n’è andata ho sentito unasensazione di solitudine.(Armanda, 56 anni, L’unità divisa 1997)- Io prima di oggi non ci ero mai andatoa pensare,non mi ero mai fermato a pensare da dovederiva l’amore... (M)- Gli studiosi scientifici lo s<strong>anno</strong> come ènato l’uomo,però dell’amore lasciano immaginareperché non lo s<strong>anno</strong>... (M)- S<strong>anno</strong> come si fa, ma non s<strong>anno</strong> da cosaviene... (M)- Noi bambini non è che ce ne intendiamotanto dell’amore... (M)- Perché cosa bisogna avere per intendersidell’amore? (F)- Esperienza. (M)- ... Poi a scuola le nostre maestre ci diconoche noi siamo troppo piccoli per amare. (F)- E voi cosa ne pensate? (F)- Non è giusto... (F).(Arianna, Ruggero, Erica, Matteo, 8-10anni, Uguali ma diversi 1998)- A. e A. sono innamorati.- Ah, siete innamorati? E secondo teAve che cos’è l’amore? Prima hai dettoche è una cosa bella?- Sì perché sei felice, perché poi se non ti sposi,non ti innamori sei sola, non sai cosafare...- Per me è un sentimento di emozione.(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)- Perché è più forte di loro...- Che cosa è più forte di loro?- L’amore.- E cioè cosa vuol dire?- Vuol dire che non si riescono... Come si dice?- ... A separare.(Edoardo, Tommaso, 6 anni, La storia)della forza tremante 1996)Dossier 59


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipoUnicità e unitàLa definizione, pur anche stereotipata, del maschile e del femminile è quel punto dipartenza che permette di sottolineare quella differenza che è sottesa a tutte le altre.La funzione di questo lavoro è quella di sollecitare chi la riconosce a compiere un percorso. Persuo tramite, la differenza stessa dal suo grottesco stigmatismo, dimettendo progressivamentel’abito della contrapposizione, impara a scoprirsi anche nell’identità. È il passaggio dall’identitàdualistica che comprende in sé schematicamente polarizzati maschile e femminile all’identitàintegrata quella che così mirabilmente Simone Weil esprime nei suoi Commenti a Platone:La nostra sventura è di essere in stato di dualità... La separazione dei sessi non è che un’immaginesensibile di questo stato di dualità... che è la nostra sventura è il taglio, la frattura per cuicolui che ama è altro da ciò che è amato, colui che conosce è altro da ciò che è conosciuto, lamateria dell’azione è altra da colui che agisce; è la separazione tra soggetto e oggetto.L’unione è lo stato nel quale soggetto e oggetto sono una sola e medesima cosa, è lo stato di coluiche conosce se stesso e ama se stesso. (Simone Weil, Intuitions pré-chrétiennes, 1941-1942).Ora, tornando per concludere ai testi riportati in apertura, ritengo utile esprimerequalche considerazione che ne renda forse più comprensibile la citazione.L’Uno di Hanna Arendt nulla ha a che fare con l’unità di cui scrive Simone Weil. L’unità èla ricongiunzione a seguito della separazione, l’Uno è l’indifferenziato che nega la pluralità.Simone Weil parla dell’unione ma di quest’unione continua a nominare le componenti. Lasola e medesima cosa di soggetto e oggetto potremmo anche definirla l’identità che accogliee ama la propria complessità e che per questo è pronta ad accogliere ed amare ogni alterità.In questi termini essa ricompone alfine la differenza senza negarne l’esistenza, senzadimenticare che è la via attraverso la quale è divenuta tale. L’unità non confonde; laseparazione è assorbita ma non ne viene cancellata la memoria.L’Uno concede invece l’unica possibilità della subordinazione, rimarcando alfine ladifferenza nell’unica forma della polarizzazione.*Specializzata in antropologia di genere. Lavora dal 1993 per organismi di Pari Opportunitàoccupandosi di formazione, orientamento al lavoro, mediazione linguistica e culturale e,in particolare, di progetti di educazione al confronto tra generi e culture.BibliografiaArendt H., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1997.Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1998.Braidotti R. e Butler J., Femminismo, anche con altro nome…, in Bellagamba A., Di Cori P. eBraidotti R., Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gendertheories, in Il filo di Arianna (a cura di), La Differenza non sia un fiore di serra, Angeli, Milano 1991.Butler J., Corpi che contano. I limiti discorsivi del ‘sesso’, Feltrinelli, Milano 1997.Cigarini L., La politica del desiderio, Pratiche Editrice, Parma 1995.Cixous H., Sorties, in Menlo Marks E. e De Courtivron I., New french feminism, Schocken, New York 1981.Irigaray L., Chi sono io? Chi sei tu?, Biblioteca di Casalmaggiore, Casalmaggiore 1999.Restaino F. e Cavarero A., Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999.60


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaL’accoglienza e l’integrazionenelle scuole degli alunniistituzionalizzati e adottatiLa scuola, oggi più che in passato, è chiamata a dare risposte sempre più appropriatea richieste educative nuove, talvolta anche insospettabili e per le quali spesso si trovaimpreparata. Tuttavia, essa, pur di non venire mai meno ai suoi compiti istituzionali,etici e sociali, una volta intercettato il nuovo bisogno educativo, si organizza per conoscerlo,interpretarlo e soddisfarlo. E’ proprio in questo ambito della pedagogia specialeche si colloca l’esperienza che sto conducendo nella provincia di Caltanissetta.Carmelo Benfante Picogna*Tra i tanti aspetti critici della quotidianità scolastica, quello dell’accoglienza deglialunni destinatari di provvedimenti giudiziari, personali o di riflesso, e adottatiè uno dei meno codificati.Nel primo caso si tratta di alunni che, per svariatissimi motivi riguardanti loropersonalmente o le famiglie di provenienza, sono allontanati, momentaneamente odefinitivamente, dal loro ambiente di appartenenza per essere affidati ai servizi socialio comunità penali di luoghi più o meno lontani dalla loro residenza abitualementre nel secondo caso si tratta di alunni adottati o in affido eterofamiliale.In entrambi i casi comunque siamo di fronte a bambini o ragazzi con bisogni speciali.E’ ovvio, e su ciò siamo tutti d’accordo, che questi bambini o ragazzi, ancora soggettiall’obbligo scolastico, devono frequentare la scuola. Quello che invece è impensabileconcepire, ma ahimè è esattamente quello che avviene, è il fatto che questi bambini daun giorno all’altro (e non è un modo di dire), si vedono catapultati da una famiglia, ocasa-famiglia, da una scuola, da una città ad un istituto, ad un’altra scuola ad un’altracittà. Già basta questo per comprendere a quali turbamenti siano sottoposti!L’avere allontanato il soggetto da una situazione manifestamente o potenzialmentepatologica va giustamente interpretato come un fatto positivo oltre che giuridicamentedoveroso, ma l’aver o il non aver considerato adeguatamente l’accoglienza nella nuovarealtà è un fattore molto determinante per il recupero della serenità del bambino/ragazzo.Nelle scuole in cui il flusso in entrata e uscita di questi alunni è molto alto il problema staevidenziando implicazioni socio-educative e professionali molto rilevanti. Da una parte viè il dovere del rispetto delle norme al quale nessuno vuole sottrarsi e quello etico-socialeconnaturato con la missione della scuola, dall’altra la difficoltà oggettiva a dare seguitoa queste istanze senza gli strumenti che richiederebbero. Si tratta, dunque, di trovare unpunto d’incontro tra le diverse esigenze, giudiziarie, sociali, scolastiche e psico-pedagogicheper far si che la presa in carico dell’alunno de quo avvenga in modo sinergico, tempestivoe con la massima attenzione al suo già fragile sistema psicologico. Per far questo occorrecostruire un know how adeguato e non demandato solo ed esclusivamente alla scuola.Dossier 61


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuoleEcco, dunque, il protocollo d’intesa seguito ad un <strong>anno</strong> di lavoro presso l’UfficioScolastico di Caltanissetta. Dopo aver monitorato il fenomeno nelle scuole ed avereaccertato che oltre cento alunni si trovano nelle condizioni appena descritte abbiamocostituito un gruppo di lavoro istituzionale, affiancato successivamente da quellointeristituzionale (Prefettura, Procura della Repubblica e Tribunale per i minorenni,Istituto penale minorile, case-famiglia, Provincia, Questura, AUSL) per capire comeciascuna Istituzione opera nella gestione della propria parte del caso. Ci siamo resiimmediatamente conto che occorrono maggiore comunicazione, sinergia ma soprattuttouna regia unica che, pur rispettando la specificità (e nel caso degli atti dell’AutoritàGiudiziaria il massimo riserbo) degli interventi di ciascuna Istituzione, affrontila gestione dell’alunno adottato o istituzionalizzato sin dal primo atto.Il protocollo è stato siglato lo scorso 12 dicembre presso i locali dell’UfficioScolastico di Caltanissetta ed erano presenti oltre il Dirigente, il Prefetto, il Presidentedella Provincia, Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per iminorenni, il Presidente del Tribunale per i minorenni, il Questore, il DirettoreAmministrativo dell’AUSL2 e tutto il gruppo di progetto che ha lavorato nelladefinizione del testo del protocollo.Già il prossimo mese di gennaio si partirà con la formazione del personale scolasticoe degli altri operatori appartenenti alle amministrazioni partners.Di seguito il testo di alcuni degli articoli più significativi del Protocollo siglato:PROTOCOLLO D’INTESA TRAUFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO-PREFETTURA -CALTANISSETTAPROVINCIA REGIONALE - CALTANISSETTAPROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNITRIBUNALE PER I MINORENNI -CALTANISSETTA;QUESTURA DI CALTANISSETTA -UFFICIO MINORI;AUSL 2 DI CALTANISSETTA -SERVIZIO DI PSICOLOGIA- U. O. ADOZIONIUFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE CALTANISSETTA;PREMESSAIl diritto allo studio rappresenta per tutti gli alunni l’affermazione di un principio Costituzionaleineludibile il cui esercizio non può e non deve essere messo in discussione né tantomenominato da problemi di comunicazione e integrazione in seno alle Istituzioni. In particolare,l’inserimento e l’integrazione dei minori adottati o comunque provenienti da altri Paesi e/odi differenti culture nonché dei minori seguiti dagli Uffici Giudiziari Minorili rappresenta unpassaggio importante e delicato, che richiede la piena partecipazione delle Istituzioni firmatariedel presente Protocollo. Infatti, la scuola, che in questi momenti così particolari della vitadel bambino costituisce un importante punto di riferimento, da sola rischierebbe di fallire inquesto intento se non adeguatamente supportata dalle altre Istituzioni. E’ nella scuola, infatti,che sar<strong>anno</strong> affrontate le necessità connesse alle specifiche condizioni dei predetti alunni,anche con riferimento alle diverse fasi dello sviluppo e della crescita di essi.Diviene, pertanto, necessario individuare dei punti di convergenza, di incontro programmaticoe di distribuzione-integrazione dei compiti tra i diversi Enti e le diverse Istituzioni territoriali.62


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuoleArticolo 1 – Oggetto ed obiettiviL’UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE (NUCLEO AUTONOMIA SCOLASTICA-SUPPORTO ALLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE) per assicurare, ottimizzare e coordinare,con le istituzioni scolastiche, di prevenzione e giudiziarie, sanitarie e con il territorio, iservizi da erogare e le azioni da intraprendere a favore degli alunni, istituisce un Tavolo Tecnicopermanente per esaminare e gestire in modo concertato le problematiche che riguardano laloro accoglienza, integrazione ed il loro esercizio completo del diritto allo studio; la formazionee l’aggiornamento del personale scolastico (Dirigente, Docente, ATA), giudiziario, sanitario,degli Enti Locali e delle Forze dell’ordine. Ciascun soggetto nel cooperare alla programmazionee alle attività comuni è chiamato a rendere effettivi gli scambi con altri soggetti, le competenze,il linguaggio e il sapere specifico; a ciascun soggetto dovrà comunque essere offerta l’opportunitàdi porsi in relazione, nel rispetto delle diverse identità.La collaborazione tra le Istituzionisottoscrittrici sarà realizzata tenendo conto di tutti gli elementi connessi all’analisi dei bisogni,alle risposte da offrire e alla necessaria mutevolezza delle stesse in relazione allo stato di salute eallo sviluppo del percorso formativo del singolo individuo.Articolo 2 – Tavolo TecnicoIl Tavolo Tecnico, che ha sede presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta, è compostoda un rappresentante per ciascuna Istituzione sottoscrittrice designato dai rappresentantilegali di ciascuna delle Parti.Il Tavolo Tecnico dovrà:• Sovrintendere alla corretta applicazione del Protocollo d’intesa;• Formulare le proposte adeguate ad ogni singola situazione e proporle agli organi competentipresso ciascuna delle Istituzioni firmatarie;• Coordinare l’attività degli interventi;• Promuovere la formazione, l’aggiornamento, la ricerca, il monitoraggio, il coordinamento,occupandosi della supervisione;• Svolgere attività permanente di osservatorio sull’impatto delle decisioni;• Evidenziare le aree di criticità da portare all’attenzione di altri tavoli e organismi che operanonel settore;• Redigere una relazione annuale delle attività da presentare ai Legali Rappresentanti dellesingole Istituzioni sottoscrittrici;• Coordinare preventivamente l’inserimento degli alunni attraverso opportuni contatti congli operatori scolastici.Il Tavolo Tecnico si riunisce ogni tre mesi nei locali dell’Ufficio Scolastico Provinciale.Articolo 3 – FormazioneLe Parti si impegnano, ciascuna per la loro competenza, a fornire proprio personale perprogettare, realizzare e supportare percorsi formativi rivolti agli operatori delle istituzioniaderenti al Protocollo e ai genitori.*Insegnante, si occupa di supporto all’Autonomia Scolasticapresso l’Ufficio Scolastico Provinciale di CaltanissettaDossier 63


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuolaDalla parte della costituzioneParlerò da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre profondamente creduto,che la scuola non ha mai considerato un mestiere e che, se gli fosse dato di rinascere,tornerebbe a fare il professoreAlcide Malagugini *Non ripeterò, o almeno mi sforzerò di non ripetere, quanto h<strong>anno</strong> detto altricolleghi, specialmente l’onorevole Binni, e poco fa l’onorevole Codignola, con lecui conclusioni sostanzialmente concordo, anche se da essi qualche sfumatura midivide: di forma più che altro e di intonazione. Non lo ripeterò, anzitutto perragioni di buon gusto e di economia di tempo, ma anche perché essi sono giovanie filosofi, ed io, ahimé, giovane più non sono e con la filosofia, intesa almeno nelsenso dottrinale e scientifico della parola, non ho mai avuto, lo confesso e non mene vanto, una soverchia dimestichezza.Non disturberò, quindi, le ombre magnanime dei grandi pensatori antichi emoderni, ma parlerò praticamente da uomo di scuola, che nella scuola ha sempreprofondamente creduto, che la scuola non ha mai considerato un mestiere, che allascuola ha dato - perdonatemi l’espressione anche se può sembrare immodesta – ilmeglio del suo intelletto e del suo cuore; e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbea fare il professore.Curioso destino il mio, che mi consente di parlare di questo argomento allaluce di una esperienza multiforme, talvolta non lieta, ma sempre istruttiva. Infatti,ho iniziato la mia carriera nelle scuole di Stato; estromessone per incompatibilitàcon le direttive politiche del governo fascista, ho insegnato per parecchio tempoin un vecchio istituto privato, ora scomparso, che chiamerò laico tanto per intenderci,anche se diretto da una figura ascetica di apostolo della scuola e della fede,Francesco Grassi; che nessuno o quasi di voi avrà sentito nominare, ma che fuscienziato illustre e maestro incomparabile, di una vita così illibata, di una religiositàcosì alta e pura, da farmi pensare, colleghi democristiani, che la santità nonpossa avere caratteristiche o aspetto diversi dal suo. Poi fu la volta di un istitutoreligioso parificato, fra i più seri e accreditati; infine ebbi l’audacia di dar vita a unascuola mia personale, di carattere strettamente privato, senza alcun riconoscimentolegale, vissuta, come potete immaginare, piuttosto pericolosamente, ma che resistettetenace fino a quando, incalzando gli eventi, la maggior parte dei docenti edei discepoli prese la via della congiura o della montagna. Scuola di Stato, scuolaprivata aconfessionale, istituto religioso parificato, mi ebbero successivamente insegnante;una scuola personale, non legalmente riconosciuta, assolutamente libera,mi ebbe direttore e maestro. E fu - ve lo assicuro - osservatorio assai interessante.Nella scuola di stato pre-fascista non tutto, è vero, andava nel migliore dei modi;ma si studiava sul serio e i professori, pur con stipendi modesti, compivano nobilmenteil loro dovere. E i giovani crescevano moralmente sani e affrontavano gli64


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/dalla_parte_della_costituzioneuffici e le libere professioni sufficientemente preparati. Una prima scossa la scuolasubì in occasione della guerra 1915-1918; non tanto durante il suo svolgimento,quanto dopo la sua conclusione. Era il collasso inevitabile dopo lo sforzo immane.Poi la lotta politica assunse forme sempre più aspre, ma la scuola non ne risentì, senon in una minore severità di giudizio resa inevitabile dalla necessità di sanare losconvolgimento prodotto dalla guerra. Allora le scuole private non erano molte;pochissime, come adesso del resto, le scuole pareggiate; e la parola «parificazione»non era stata ancora inventata o, per lo meno, non era stata introdotta nel vocabolariodella legislazione scolastica. Con il fascismo cominciarono, ed era naturale, iguai. E se è vero che la scuola oppose per qualche tempo una certa resistenza, chetorna a suo onore, una certa resistenza passiva al nuovo ordine che si proclamavadi voler instaurare in tutti i settori della vita nazionale, non si può d’altra partenegare che dopo il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 ogni resistenza fu infrantae si passò, lentamente ma inesorabilmente, alle abdicazioni e alle prostituzioni,attraverso le quali la scuola perdette ogni suo carattere educativo per diventarestrumento di dominio e preparatrice di servi ignoranti e presuntuosi. La scuola, hodetto, tutta la scuola con poche apprezzabili eccezioni e senza sensibili distinzioni.Tutta la scuola: pubblica e privata, parificata e non parificata, dal cosiddetto ordineelementare all’ordine medio o secondario, all’ordine universitario. [...] A che cosaè servita la scuola privata, la scuola libera, la scuola orientata, come direbbe l’onorevoleColonnetti; quale compito diverso dalla statale ha essa assolto in regime diservitù politica [...]? E quali posizioni minacciate deve essa ora difendere in regimedemocratico se la scuola di Stato è (non sono parole mie, sono parole dell’onorevoleMoro che traggo dalla sua relazione) se la scuola di Stato è la scuola di tutti aservizio di tutti?D’accordo con lui, che essa deve «meritare la fiducia di tutti i cittadini i qualipossono conformarla come meglio credono in relazione ai loro orientamenti spiritualie morali».D’accordissimo che essa deve «esprimere senza falsificazione la profonda volontàdel popolo italiano e deve essere tale da meritare la fiducia delle famiglie ». Ecome può egli temere che avvenga altrimenti se la scuola di Stato sarà organizzatadallo Stato attraverso le leggi studiate ed emanate dal Parlamento, libera espressionedi quella profonda volontà del popolo italiano che, se non erriamo, è tutt’unocon le famiglie di cui deve meritare la fiducia? Perché la scuola esprima la volontàdel popolo e meriti la fiducia delle famiglie, creda a me l’onorevole Moro, credanoa me i colleghi della Democrazia Cristiana, non occorre tanto che vi si insegni ilcatechismo [...] ma è necessario che vi si spieghino seriamente e intelligentementele lettere e le scienze costituenti il programma dei singoli corsi, che si coltivino conamore le attitudini naturali dei figlioli, che si infonda loro entusiasmo per tutto ciòche è bello, che è vero, che è buono (io rimango fedele a questo vecchio trinomioanche se a tal uno sembrerà che odori di naftalina); occorre in una parola che l’insegnantesia un maestro nel senso più nobile e più completo della parola. Ed eccocial punto per me fondamentale.Dossier 65


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/dalla_parte_della_costituzioneL’onorevole Colonnetti, iniziando il suo discorso, ha detto che il problema dellascuola è un problema di libertà. Ebbene, a costo di passare per semplicista, ioaffermo che il problema della scuola è un problema di insegnanti o il problemadegli insegnanti. Assicurare agli insegnanti condizioni economiche, giuridiche emorali dignitose che consentano loro non solo di vivere materialmente, ma diintegrare ed aggiornare continuamente la loro cultura e la loro preparazione: eccoil dovere dello Stato. E poi essere inesorabile nel pretendere che essi facciano tuttointero il loro dovere, eliminando senza pietà gli inetti e gli indegni. Un problema,lo so, che non si risolve in poco tempo; occorrer<strong>anno</strong> degli anni, bisognerà a pocoa poco rinnovare i quadri, ché i vecchi irrugginiscono o scompaiono e i giovani,anche se colti e preparati a insegnare, non sono sempre maturi per essere degli educatori,dato il clima in cui son nati e in cui si sono formati. Ma una cosa è certa:che lo Stato dovrà concentrare ogni suo sforzo per una soluzione alla quale tuttisentiamo, che sono legate le possibilità di resurrezione morale del nostro Paese.[...] Un accenno, rapidissimo, al cosiddetto «esame di Stato» che - come ebbi adire qualche giorno fa interrompendo un collega - non deve essere l’esame controlo Stato, cioè fatto per imbrogliare lo Stato. [...] Bisognerà rivedere la tecnicadell’esame di Stato. Vi siete mai domandati, egregi colleghi - parlo a quelli di voiche non sono giovanissimi e che, o come insegnanti o come padri di famiglia, oanche come candidati h<strong>anno</strong> avuto a che fare con l’esame di Stato - vi siete maidomandati perché, anche nella sua forma originaria, questa prova abbia rivelatonella pratica attuazione tanti inconvenienti? Il difetto fondamentale consisteva nellaformazione delle commissioni esaminatrici, non sempre all’altezza del compitoad esse affidato [...]. In secondo luogo, molti dei commissari, pur valenti nella lorosingola materia, mancavano di equilibrio e di comprensione e o non davano alcunaimportanza alla carica e promuovevano tutti, o peccavano di eccessiva severità -efacevano strage, persuasi che nello scibile non esistesse altra disciplina che la loro,oppure si comportavano in modo stravagante, facendo domande impossibili, le piùstrane e strampalate, e provando una sadica voluttà quando vedevano la vittimaprescelta confondersi e arrendersi a discrezione. Ebbene, in quegli anni lontani,io ho sempre chiesto a me stesso (non potevo chiederlo ad altri, da quel reproboche ero) ho sempre chiesto a me stesso come mai il Ministero non utilizzava i suoiispettori, integrandone magari il numero con altri elementi idonei, per distribuirlicome osservatori nelle varie sedi di esame, in modo che dopo tre o quattro anni sicostituisse un corpo di esaminatori selezionati, con la eliminazione degli scettici,dei cerberi e dei pazzi. Quello che non si è fatto allora - perché, come le successivedeformazioni h<strong>anno</strong> dimostrato, non si volevano e non si sapevano fare le cose sulserio -si potrà e si dovrà fare domani, quando l’Assemblea legislativa sarà chiamataa riordinare tutta la complessa materia scolastica. Ho detto riordinare, evitandodi proposito la parola riforma, della quale l’esperienza mi ha insegnato a diffidare.Io penso, e non da oggi, che in fatto di scuola, di educazione, di cultura, tutti gliordinamenti sono buoni o suscettibili di buoni risultati: il problema sta tutto nelmodo con cui la scuola si fa, con cui la cultura si impartisce, con cui l’educazione66


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/scuola/dalla_parte_della_costituzionesi forma. In una parola - ripeto quanto ho già detto poc’anzi - il problema sta tuttonegli insegnanti. [...] Libertà nella scuola, più e prima che libertà della scuola;purché si tenga sempre presente il principio del retore antico maxima debetur pueroreverentia, non molto dissimile, del resto, dal res sacra puer, che è stato più voltericordato da precedenti oratori. Principio che solo le tirannidi non possono, perovvie ragioni, accettare e al quale solo uomini liberi e amanti della libertà possonoattenersi.Nel lontano 1926 un Ministro fascista, alla caccia di pretesti per allontanaredalla scuola gli spiriti liberi, affermava, tra l’altro, che il mio passato politico difervente sovversivo non offriva nessuna garanzia di fedele adempimento dei mieidoveri scolastici. Ebbene, in una lettera che il tempo ha ingiallito, ma che io conservocome il mio maggior titolo di orgoglio, rispondevo -pur riaffermando la miafede incrollabile nella idealità socialista, che poteva come può essere mal servitadagli uomini o magari bestemmiata dai partiti, ma è pur sempre « luce nuova, solenuovo che sorgerà dove l’usato tramonterà» -, rispondevo, ripeto, che nella scuolaio non avevo e non avrei mai portato l’eco delle battaglie politiche o, peggio, il fermentodelle passioni di parte. Questa concezione, dopo tanti anni e tante vicende,io non mi sento di abbandonare; a questa concezione persisto a credere che tuttigli uomini liberi debbano rendere omaggio. Del resto, egregi colleghi, tutte questeiniziative, queste manifestazioni, questi tentativi di svincolarsi dalla autorità delloStato, queste conversioni, spesso di data recente, a forme di autonomia in altri tempiaspramente combattute o sprezzantemente derise, sono sempre molto sospette.Si ha l’impressione - io almeno ho l’impressione che credo condivisa da questaparte dell’ Assemblea -che, fino a quando lo Stato era tutto e completamente nellemani dei ceti privilegiati e delle forze conservatrici, da parecchi degli attuali assertoridi libertà e di autonomia (o meglio dai loro naturali legittimi predecessori) sifacesse ogni sforzo per consolidarne l’autorità e difenderne la sovranità in tutti isuoi attributi. [...] Oggi in cui le forze nuove, le forze del lavoro h<strong>anno</strong> cominciatoa penetrare, purtroppo ancora assai debolmente, negli ingranaggi dello Stato, e tentano,nel più scrupoloso rispetto della legalità democratica, di smantellare l’edificiodel privilegio e della conservazione trasformandolo nella casa di tutti per crearecondizioni di vita più umane agli umili e ai diseredati -gli statalisti di ieri, quelliche facevano propria e applaudivano la formula «tutto nello Stato, nulla fuori delloStato, nulla contro lo Stato» sono improvvisamente diventati fierissimi fautori delprincipio opposto e attribuiscono al centralismo statale tutti i guai di cui soffre ilnostro infelicissimo Paese.Io non intendo qui soffermarmi sul complesso problema, che avrà modo diessere ampiamente trattato a proposito di altri titoli della Costituzione. Affermosoltanto che, anche per quel che riguarda la scuola, sono affiorate e v<strong>anno</strong> moltiplicandosida qualche tempo a questa parte, spesso inconfessatamente e da partedi tal uni forse involontariamente, preoccupazioni e tentativi del genere. Ora noidiciamo, rifacendoci a quanto nella discussione generate ebbe a raccomandare ilcompagno nostro onorevole Basso, che la Costituzione non può e non deve essereDossier 67


- o almeno non dovrebbe essere –un documento di parte, sia pure della parte cheha nell’ Assemblea il maggior numero di rappresentanti. Già in taluni degli articolifin qui approvati c’è stata la prepotente affermazione di questa volontà preponderante.Non credo che fareste opera saggia e duratura, o colleghi della DemocraziaCristiana, se continuaste oggi, a proposito della scuola, come domani per altrigravi problemi che verr<strong>anno</strong> in discussione, ad imporre il vostro punto di vistafidando su maggioranze occasionali e provocando alleanze innaturali o pericolose.(Commenti). Io non voglio aver la pretesa di darvi consigli né aver l’aria di abusaredella mozione degli affetti. Vi dico soltanto: facciamo una Costituzione chesia veramente tale e non un ibrido miscuglio di principi generali e di disposizionilegislative. Credete nella bontà della vostra politica? Avete la certezza o almeno lafiducia che il Paese la comprenda e la segua? Ebbene, quest’autunno tornerete qui,a riprendere il discorso e a fare le leggi: anche le leggi per la scuola. Ci troveretefermi -quelli di noi, s’intende, che verr<strong>anno</strong> -al nostro posto di leali combattenti.Per ora siate paghi di enunciare formule che uniscano, non particolari vincolativiche possano dividere il popolo italiano. Il quale, credetelo -e non è l’uomo diparte che parla, ma l’uomo della scuola che anche in questa veste obbedisce a unafondamentale esigenza unitaria -il quale popolo italiano non ha nella sua enormemaggioranza altro desiderio che quello di poter mandare con serena fiducia i proprifigliuoli alla scuola pubblica. Lavoriamo insieme per irrobustirne la struttura, perrafforzarne la autorità, per far si che diventi veramente la scuola di tutti e prepari,in un clima rinnovato di effettiva democrazia, i quadri dirigenti della società didomani. (Vivi applausi a sinistra - Congratulazioni).(Discorso alla Costituente sulla scuola del 21-aprile-1947)* Alcide Malagugini nacque a Rovigo il 15 ottobre 1887. Avvicinatosi giovanissimoagli ideali socialisti (a Rovigo fu compagno di liceo di Matteotti), si laureò in lettere aPavia dove, agli inizi del Novecento, fu segretario della Camera del Lavoro. Fu l’ultimoSindaco democraticamente eletto di Pavia prima del Fascismo, dal 1920 all’ottobre del’22, quando fu costretto alle dimissioni e al trasferimento a Milano. Nel 1924-25 insegnòLettere classiche al Liceo Manzoni, da dove fu allontanato per “incompatibilità conle direttive del fascismo”. Convinto sosteni-ore della scuola pubblica, fu allora costrettoper vivere a insegnare in scuole private: potrà tornare nel suo Manzoni, questa voltacome Preside, solo dopo la Liberazione, dal 1945 al 1955. Fu membro della Consulta,poi eletto alla Costituente, quindi alla Camera dei deputati per il collegio Milano-Pavia per le prime quattro legislature: per il PSI sino al gennaio 1964, quando, conla formazione del primo Governo di centro-sinistra, passò allo PSIUP, che nel 1964 loindicò come proprio candidato di bandiera alla carica di Presidente della Repubblica.Morì a Milano il 24 dicembre del 1966.68


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<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienzeProspettive famigliari nei giovani.La famiglia tra valore e possibilitàLa famiglia continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi di crescitadella persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di basenel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutivafondata su legami forti.Enrico Miatto*Uno degli aspetti peculiari dell’età giovanile risiede nella dimensione progettualeche la connota e che caratterizza l’essere del giovane nei suoi aspetti vocazionali, affettivo-relazionalioltre che etico-valoriali e di senso. Da queste dimensioni rappresentativedi elementi identitari forti prendono forma, nell’esistenza giovanile, le scelte di coraggioche talvolta orientano percorsi relazionali, affettivi, professionali ed esistenziali.In particolar modo, nella nostra società, che agli sguardi sociologici appare frammentatae caratterizzata da rischio 1 e fluidità relazionale 2 , una delle scelte principali, sul pianodella realizzazione personale in età giovanile, ha a che vedere con l’esperienza di coppia ela prospettiva di costruzione famigliare. Si tratta di una prospettiva che si presenta oggi,più che mai nella storia, modificata e non priva di elementi di complessità, nella quale il“mito famigliare” resiste e pare rappresentare ancora una meta auspicale per la realizzazionepiena del sé e per la soddisfazione del desiderio di generatività insito nell’uomo 3 . Un“mito” che, tuttavia, viene a dipendere da una realtà sociale profondamente trasformata eda un aumento esponenziale dei modi di “metter su famiglia”, riconoscibili nelle famigliemultiple, monoparentali, ricomposte, allargate, unipersonali, ecc 4 .Di generazione in generazione, infatti, il “mito famigliare” sembra aggiungerenuovi pezzi al puzzle che raffigura la famiglia, sostituendo o affiancando, di voltain volta, pezzi già esistenti, e modificando così i modi di essere, di fare, di vivere, diriprodurre lo stesso spazio famigliare 5 .Di fatto, a condizionare il desiderio di famiglia presso i giovani, sul versante esi-1 U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità (tit.orig. Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eineandere Moderne, 1986), Carocci, Milano, 2005, pp. 155-184.2 Cfr. Z. BAUMAN, Amore liquido (tit. orig. Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, 2003),Laterza, Roma-Bari, 2004.3 E.H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità (tit. orig. Identity Youth and Crisis, 1968), Armando,Roma, 1987, p. 160.4 Il rapporto Eurispes 2003, in particolare, mette in risalto come di famiglia si possa parlare in modopluriforme essendo questa descrivibile in qualità di famiglia estesa, famiglia allargata, famiglia nuclearenormo-costituita, famiglia di genitori soli, famiglia ricostituita, famiglia multi-etnica, convivenzamore-uxorio, famiglia unipersonale. Per approfondimenti si rimanda al testo EURISPES, Rapporto Italia2003. Percorsi di ricerca nella società italiana, Ed. Eurispes, Roma, 2003, pp. 1213-1225.5 P. LE REST, L’errance des jeunes adultes. Causes, effets, perspectives, L’Harmattan, Parigi, 2006, pp. 205-206.70


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovanistenziale, sembra concorrano due prospettive fondanti e imprescindibili. La primainsita nell’esperienza vissuta della famiglia presso il nucleo famigliare e relazionaledi origine e rintracciabile negli stili relazionali sperimentati ed appresi dentro almondo famigliare, nei modi propri di essere del nucleo famigliare, nelle esperienzedi crescita personale, nel “lessico famigliare”, nello scambio dialogale proprio deirapporti tra genitori e generati, negli episodi di gratuità, testimonianza e vicinanza,ed infine, nei modi della cura, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro e dellaresponsabilità all’interno della stessa famiglia.La seconda prospettiva, invece, mai slegata dalla prima in quanto nasce dallastessa esperienza vissuta presso la famiglia di origine, risponde al desiderio “diessere in un certo modo” quel che l’esperienza famigliare di origine permette, influenzandola possibilità medesima, per i giovani, di costruire una propria famigliaperseguendo un determinato modello coniugale, prima che famigliare.Avvicinando lo sguardo a queste due prospettive, mediante un’ottica pedagogica,in grado di scorgere gli spazi di crescita e di autoformazione che l’esperienzafamigliare permette, è possibile rendersi conto che la famiglia non cessa oggi dirappresentare, nel presente e nelle sue possibilità future di manifestazione, quelpreciso “spazio-territorio relazionale” 6 , intriso di valore, in cui trovano vita generatività,gratuità e responsabilità verso l’altro da sé.Esperienza e possibilità di famigliaSu questa base, dunque, l’osservazione ravvicinata della prima prospettiva individuata,permette di scorgere come la famiglia, al di là delle modificazioni assuntea causa delle evoluzioni istituzionali e dell’organizzazione sociale, delle alterazionieconomiche e degli sviluppi culturali della società legati a contingenze storiche cheh<strong>anno</strong> sancito il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare 7 , non abbiasmesso di essere connotabile, al suo interno, come il luogo principale della relazionalitàe dell’affetto 8 , in cui è possibile sperimentare la protezione, la trasmissionedi valori e norme, la socializzazione e lo sviluppo attraverso un percorso educativocongiunto.La famiglia, infatti, continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi dicrescita della persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di basenel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutiva fondatasu legami forti 9 , in cui la reciprocità si corrobora mediante due modalità ben precise:l’essere con e l’essere per. Il primo come frutto dello stare insieme e dell’unione tra identità6 V. IORI, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento, 2006, p. 81.7 C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, il Mulino, Bologna, 1998, pp. 23-46.8 Cfr. C. Xodo, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit.9 Cfr. P. D ONATI, (a cura di) Quarto rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo(Mi), 1995 e Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”. VIIrapporto CISF sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2001.Temi ed esperienze 71


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovanie differenze, il secondo inteso negli aspetti della cura e della responsabilità per l’altro 10 .Nel suo ruolo educativo di sostegno e accompagnamento allo sviluppo dellapersonalità e di introduzione del bambino all’interno della società, la famigliamuove dalla dimensione della cura e dell’affetto, dal bisogno e dal desiderio, connaturatialla persona, di essere amata da coloro che contano, di essere presa inconsiderazione, accolta e accompagnata lungo le vicende che segnano lo sviluppo ele esperienze dell’esistenza. È, infatti, nella famiglia e attraverso di essa che l’uomoapprende, progressivamente, a stare nel mondo, dando vita ad un rapporto dialetticotra il divenire della propria identità e la scoperta dell’altro da sé.In essa il nucleo famigliare, spazio-territorio relazionale privilegiato dalla relazione,accompagna il bambino a diventare grande nella doppia dimensione del tempo,sia in termini cronologici determinanti il progressivo percorso temporale verso l’essereadulti, sia in termini valoriali di un tempo privilegiato della maturazione, dellaguida ai valori attraverso la condivisione dello spazio abitato dalla famiglia.Nucleo peculiare di relazionalità, la famiglia consente, attraverso l’abitare,l’esperienza della crescita, della scoperta e del dono. Una esperienza, nel contempo,di effettività e di possibilità nella quale la famiglia, habitat della relazione, raffiguralo spazio dello sviluppo 11 , ma anche l’occasione di abitare e far proprio il mondocircostante e i valori che lo caratterizzano.In qualità di luogo degli affetti e del valore, la famiglia raffigura, dunque, il nidoda cui muoversi per affrontare le giuste prove di volo verso l’autonomia, l’indipendenzae la realizzazione del proprio sé.Proprio da questa angolatura della vicenda famigliare, in cui ci si affaccia aduna esperienza condivisa di famiglia 12 recuperando la centralità affettiva ed eticovalorialeche essa è in grado di garantire 13 , attraverso i legami intra e inter-generazionali,è possibile l’osservazione della seconda prospettiva individuata, in grado dicondizionare, sul versante esistenziale, il desiderio di famiglia presso i giovani.Si tratta di una prospettiva racchiusa nel desiderio “di essere in un certo modo”,che l’esperienza famigliare di origine consente, preparando progressivamente, attraversola sperimentazione diretta di un preciso contesto relazionale, affettivo evaloriale, il terreno di esperienza da cui il giovane potrà attingere per costruire unapropria vita di coppia e una personale esperienza di costruzione famigliare.Le premesse a questa prospettiva sono rintracciabili nelle riflessioni di J. Nuttinsulla dimensione progettuale futura. Lo studioso, infatti, asserisce che la genesi diuna prospettiva che coinvolge il futuro, nonché l’idea stessa di progetto nel futuro,viene data da un progressivo processo di sviluppo. Pertanto, “nella misura in cui un10 N. GALLI, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2006, p. 158 e seg.11 V. IORI, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia, 2001, pp. 93-99.12 B. BETTELHEIM, Un genitore quasi perfetto (tit.orig. A good enough parent, 1987 ), Feltrinelli,Milano, 2004, p. 371.13 E. SCABINI, V. CIGOLI, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore,Milano, 2000, p. 39 e seg.72


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovaniindividuo, sull’esempio di modelli che egli imita e rinforza, per esperienze riuscite nelpassato, si costruisce degli scopi nuovi, egli sorpassa, un po’ alla volta, il suo orizzontetemporale” 14 , facilitando, così, l’elaborazione di progetti futuri.Così intesa, l’esperienza vissuta nella famiglia di origine influenza non solo l’idea difamiglia che il giovane prospetta nel suo prossimo, ma anche la rappresentazione stessadel patto coniugale, raffigurando 15 le relazioni famigliari, i processi e gli stili educativida prendere in considerazione e il più generale ruolo simbolico che la famiglia, qualeistituzione prima e primaria, rappresenta e rappresenterà nella sua esistenza.La famiglia: valore possibile?Le due prospettive prese in esame, individuate come elementi in grado di condizionareil desiderio di famiglia presso i giovani, portano a chiedersi se ancora oggi, afronte delle numerose manifestazioni famigliari (che fondono insieme struttura famigliare,famiglia relazionale e legami parentali), la famiglia come modello relazionale ededucativo privilegiato, venga riconosciuta come una traiettoria valoriale percorribiledai giovani. O, invero, se in alternativa ad essa i giovani adulti di oggi preferiscano altrimodelli di costruzione famigliare basati sul principio della semplice coabitazione.A tal proposito pare interessante sottolineare gli esiti di una indagine condottapresso i giovani sulla famiglia come valore, la quale ha preso in esame l’esperienzafamigliare nei suoi vissuti emozionali e nei significati esistenziali, sondando la praticabilitàdel “mito famigliare” nei desideri futuri dei giovani 16 .Ciò che ci preme rimarcare, più che una ripresa in toto della ricerca, è che il valorerappresentato dalla famiglia, emerso da tale indagine, è risultato essere in larga misurariconosciuto presso i giovani, al punto che è possibile affermare che la famiglia è presenteanche nei desideri e nella prospettiva futura dei giovani. Essa si configura comeuna strada percorribile, nonché come una meta auspicata e raggiungibile per i giovani.Meta che assume valore e significato per la proiezione futura giovanile, proprio invirtù dell’esperienza significativa sviluppata presso la famiglia di origine 17 .Si tratta di un dato che lascia il lettore positivamente sorpreso, se comparato congli andamenti individuati dalle osservazioni sociologiche in merito ai cambiamentirelativi alla formazione della famiglia moderna. È, infatti, noto come il “mito fami-14 J. NUTTIN, Motivazione e prospettiva futura (tit.orig. Motivation et Perspectives d’Avenir, 1980),LAS, Roma 1992, p. 15.15 M. DELAGE, La famille permanente ou du besoin d’attachement in J. Aïn, (a cura di) Familles. Explosionou évolution?, Rès, Ramonville Saint-Agne 2008, pp. 131-146.16 Cfr. C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit.17 Nell’indagine, il 72% dei giovani intervistati avverte la presenza educativa della famiglia nellapropria vita. L’81% sottolinea la coerenza dei genitori rispetto ai valori affermati. Il 92% dei giovaniritiene fondamentale il ruolo esercitato dalla famiglia nella loro fase di vita. L’85% condividelo stile relazionale della propria famiglia. Il 60% considera i genitori come un modello positivo e,dato interessante, l’81,5% dei giovani si proietta nel futuro con una propria famiglia. Circa l’80%dei rispondenti intende instaurare con il proprio partner un legame fondato sul matrimonio.Temi ed esperienze 73


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovanigliare”, nell’ultimo trentennio, sia stato esposto a molteplici modificazioni 18 . Si èassistito, nelle società occidentali, all’elevarsi dell’età del matrimonio degli uomini edelle donne, all’aumento della quota di persone celibi e nubili, alla crescita del numerodi giovani adulti che vivono soli, all’incremento delle convivenze more uxorio e alprolungamento della permanenza dei giovani presso la famiglia di origine 19 .La famiglia ha assunto i contorni di una realtà dinamica, in continua costruzionee aperta all’imprevedibilità delle mutazioni dei rapporti tra le persone, secondoun “processo che, quotidianamente, deve metabolizzare le sollecitazioni esterne, l’evoluzionee le trasformazioni dei singoli, e correggere, adattandola, la trasformazioneconseguente dell’insieme famigliare” 20 .Nonostante tali modificazioni le prospettive individuate e i dati della ricerca a cuiabbiamo brevemente fatto cenno f<strong>anno</strong> emergere, chiaramente, il desiderio di famigliapresso i giovani, esplicitato nell’auspicio di costituire legami e unioni famigliari solide.Un desiderio che proietta il “metter su famiglia” nella progettualità futura, cheprende in esame la costruzione di una famiglia diversa da quella di origine; differentenon tanto nella trasmissione dei valori e del loro riconoscimento, ma soprattuttonella gestione delle relazioni e del dialogo 21 . La famiglia immaginata daigiovani, si fonda su alleanze coniugali sancite attraverso il matrimonio religiosoo l’unione civile, ma è anche caratterizzata dalla presenza cospicua di figli e dallavicinanza, significativa e preziosa, al nucleo famigliare di origine.In conclusione, lontani dalle analisi che decostruiscono la possibilità e l’esistenzadel “mito famigliare” presentandolo come superato, pare possibile affermare cheanche dai giovani, la famiglia ritorna, o chissà continua, ad essere proposta comevalore e modello relazionale, unico ed unitario, nel quale è possibile prefigurare,accogliere e crescere ancora l’umano.*Dottore di ricerca in Scienze pedagogiche e didatticheCollaboratore alla cattedra di Pedagogia generaleFacoltà di Scienze della Formazione, Università di Padova*Il presente articolo presenta una riflessione a partire dal contributo Come il giovane abita la famigliapresente e pensa quella futura pubblicato in C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia, PensaMultimedia, Lecce, 2008, pp. 205-240.18 Cfr. M. BARBAGLI, C. SARACENO, a cura di, Lo stato delle famiglia in Italia, il Mulino, Bologna,1997; P. DI NICOLA, a cura di, Prendersi cura delle famiglie, Carocci, Roma, 2002; C. SARACENO,Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, op. cit.19 E. RAMOS, Rester enfant, devenir adulte. La cohabitation des étudiants chez leurs parents, L’Harmattan,Parigi, 2002, pp. 129-231.20 V. IORI, Per una pedagogia fenomenologia della famiglia in Adultità: Immagini di famiglie, n. 14, 2001, p. 59.21 M. BENETTON, Il ruolo educativo della famiglia in C. XODO, a cura di, Dopo la famiglia, la famiglia,Pensa Multimedia, Lecce, 2008, pp. 105-167.74


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienzeAdolescenza: assunzione delo esposizione al rischio?L’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agireconcretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozionedelle stesse, sono fenomeni normali, necessari perché evolutivi. Tuttavia, peralcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essi possono cristallizzarsi in patologia,in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazione dolorosa dei vissutialtamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita.Valeria Perrucci*L’adolescenza è un cambiamento improvviso, percepibile come travolgente eburrascoso – nell’accezione positiva ma, anche, negativa dei termini – in quantosovversivo dell’ordine delle cose. Segna l’ingresso nell’“epoca” delle nuove e importantiesperienze; suscita grandi emozioni, tant’è che viene frequentemente ricordatacon calore e nostalgia da chi ormai se l’è lasciata alle spalle.Con la prepubertà inizia la Via verso la “seconda nascita” (Dolto, 1988), versola riedizione del Sé e la ricontrattazione della propria identità di genere, sessualee sociale. I rapporti fra genitori e figlio conoscer<strong>anno</strong>, da qui in poi, una trasformazionedolorosa ma necessaria, in quanto evolutiva, che, se avrà successo, maipiù riporterà alla calda, tenera, sicura, avvolgente, ma inglobante e totalizzante,condizione infantile. È un “duplice distacco” (Vegetti Finzi, Battistin, 2000), fisicoe mentale, durante il quale i genitori giudicati e contestati rimangono comunquemodelli di riferimento e di identificazione, ma che porta il ragazzo a cercare nuoverelazioni oggettuali significative con i coetanei. Se gli adulti divengono sempremeno credibili e via via sempre più “incapaci” di comprendere quanto il ragazzosta vivendo, i pari sono i nuovi oggetti privilegiati con cui condividere la vicendatrasformativa individuale, che porta cambiamenti e di questi si alimenta.L’uscita, fisica e mentale, dal nido familiare tuttavia non è un abbandono. Iragazzi, ora ancor più che in adolescenza, continuer<strong>anno</strong> a farvi ritorno, ogniqualvoltale tendenze regressive susciter<strong>anno</strong> il bisogno di accoccolarsi fra le bracciadei genitori, nonostante l’alta statura e il sentirsi grandi. Il corpo prepubere prima“latente” si risveglia, assumendo forme nuove e talvolta esperite come inquietanti.I fuochi pulsionali infantili tornano ad ardere, e, unitamente alla nuova tempestaormonale, travolgono l’ex bambino in una metamorfosi senza ritorno, inarrestabile,alla quale è impossibile opporsi. Non rimane che cedere alla corrente e remareverso la meta ignota, affinché la propria barca prenda le onde migliori. Oppurelasciarsi trasportare passivamente, aspettando che qualcosa accada, sperando dinon schiantarsi contro gli scogli, e annegare. O ancora, si rimanda la partenza.Il viaggio viene negato, ci si aggrappa fortemente alla riva, unghie infilzate nellasabbia, come a non voler lasciare la gonna della mamma, ignorando la risacca chepuntualmente torna a ricordare l’ora di partire.Temi ed esperienze 75


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischioL’adolescenza, quindi, rappresenta una seconda nascita, richiede il conseguimentodel “processo di separazione” dalla nicchia primaria e della individuazioneidentitaria, conseguente, quest’ultima, all’adeguata avvenuta elaborazione del duplicelutto – oggettuale e narcisistico – legato alle rappresentazioni infantili. Losviluppo adolescenziale prosegue lungo regressioni, progressioni e ritiri narcisisticivolti a mantenere l’autostima e il sentimento di integrazione di Sé. Vi è una normaletendenza difensiva a negare la dipendenza.Normalmente, quindi, ai cambiamenti adolescenziali si accompagna un senso di disagiopiù o meno intenso: contro di esso viene facilmente posta in essere la menzogna,una forma di negazione conscia e/o inconscia più o meno massiccia, che contribuisce adeterminare la differenza fra maturazione adolescenziale normale versus patologica.Sviluppo adolescenziale, famiglia e societàGli adolescenti di oggi si rapportano con le trasformazioni epocali avvenute dal dopoguerrain poi, tutt’ora sussistenti e in evoluzione. Micro e macro società (la famiglia el’ambiente allargato di appartenenza) sono nettamente differenti rispetto al passato.La famiglia da etica s’è fatta affettiva (Pietropolli Charmet, 2000) o, spesso,anaffettiva (Francesconi, 2006). È spesso incapace di trasmettere valori e normeadeguate e di educare i figli secondo un corretto equilibrio fra gratificazione efrustrazione. In essa vengono confusi funzioni e ruoli: accanto ad una figura maternaipertrofica, totalizzante, “onnisciente”, “onnipresente” e, tendenzialmente,“onnipotente”, fagocitante, sussiste spesso la dissolvenza della “Legge del Padre”,fondamentale, tuttavia, per accedere alla risoluzione edipica e narcisistica.La scuola, le agenzie di socializzazione e la società tutta propongono modelliformativi, educativi, ricreativi nuovi, talvolta di grande interesse, altre volte inadeguatio fuorvianti. I ruoli e le funzioni dei responsabili dell’educazione dei ragazzist<strong>anno</strong> via via cambiando, in direzione evolutiva ma anche, spesso, omologante econfusiva. Nuove figure professionali, “specialisti” dell’età adolescenziale, vengonocostantemente formate: psicologi, psicopedagogisti, insegnanti tutor, counselor.L’assetto stesso della “mente gruppale sociale”, infine, è in continuo cambiamento,ora coinvolto in una lotta tra miti: chi, tra Edipo e Narciso, avrà la meglionell’imporsi come organizzatore psichico individuale e collettivo? La cultura adultavigente inneggia a valori e modelli di stampo prevalentemente individualistico enarcisistico: pubblicizza la possibilità della negazione del limite, dell’attesa, dellafrustrazione, esalta la ricerca del “bello ad ogni costo” e della perfezione. Vi è quindi,nella struttura familiare e sociale, una pervasiva dissolvenza dell’Edipo – organizzatorepsichico e sociale – ed una dominanza narcisistica. Molti adolescenti faticanocosì a trovare, spesso sin dall’infanzia, validi punti di riferimento e adeguatimodelli con cui identificarsi. La costruzione identitaria passa attraverso travagliativissuti narcisistici, per i quali tollerare la frustrazione, il “no”, il “diverso da me” e,dunque, non rispecchiante, diviene sempre più difficile.L’adolescente si trova “nel punto di incrocio tra bambino e adulto, tra gruppo eindividuo, tra gioco e lavoro, tra sviluppo maturativo e deviazioni perverse, è nella po-76


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischiosizione di massimo movimento e di più difficile e delicato equilibrio” (Lussana, 1992,p. 167). Tutti i cambiamenti che avvengono intorno a lui – nella famiglia, nellascuola, nel gruppo dei pari, nella società – influiscono sulle stesse trasformazioniche avvengono nel suo mondo interno, contribuendo alla definizione della organizzazioneidentitaria post-adolescenziale.Alcuni ragazzi “migrano” dall’infanzia all’adultità senza troppe “spaccature” nelloro percorso evolutivo, senza far “troppo rumore”. Altri, invece, possono esperirevissuti più dolorosi o confusivi. In loro, l’elaborazione del percorso identitario si fapiù ardua; talvolta la sofferenza viene percepita come incomprensibile, insostenibilee incontenibile, tanto da dover essere impulsivamente e coattivamente espulsaattraverso l’azione, anche rischiosa.Adolescenza e acting outL’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agireconcretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozione dellestesse, l’esposizione al e l’assunzione del rischio sono fenomeni normali, necessariperché evolutivi. Tuttavia, per alcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essipossono cristallizzarsi in patologia, in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazionedolorosa dei vissuti altamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita.Per acting out si intende una reazione comportamentale “compulsiva”, irrazionale,o apparentemente razionale, distruttiva o di rottura con l’abituale stilecomportamentale del soggetto; è espressione del vissuto emotivo rimosso e perturbante,può diventare potenzialmente d<strong>anno</strong>sa e pericolosa per l’incolumità delsoggetto, e/o di terzi, e da questi talvolta difficilmente identificabile e motivabile(Laplanche J., Pontalis J B., 1967). È relazionale, ovvero ha in sé un messaggio,solitamente una richiesta di attenzione, aiuto, contenimento, per l’Altro.“Acting” – dall’inglese to act out – rimanda a capacità evolute di creatività,espressività, simbolizzazione. Acting maturi sono l’espressione artistica, musicale,la scrittura, la cura e la personalizzazione dell’immagine di sé. Anche il “rischiocome azione di prova” (Carbone, 2003) rappresenta una modalità matura di elaborazionedella e apprendimento dalla esperienza. Diverso è il concetto psicodinamicodi acting out: ad esso sono legati impulsività, inibizione intellettiva e analfabetismointrospettivo. Non è possibile l’elaborazione e l’apprendimento dall’esperienza, mapersiste una coazione a ripetere agiti antievolutivi. Ci si espone al rischio ma senzaassunzione di consapevolezza e responsabilità. Gli acting più citati nella letteraturadell’adolescenza sono le gare automobilistiche, l’abuso di alcool, spesso associatoalla guida, le dipendenze, gli agiti sessuali, l’uso tirannico/depressivo/eccitatoriodel corpo, le psicosomatosi, gli incidenti stradali.Adolescenti e incidenti stradaliPer incidente, domestico, stradale o sportivo, si intende un episodio provocantelesioni fisiche, che è determinato da un comportamento lesivo/autolesivo non intenzionale.Generalmente le motivazioni addotte dai ragazzi riguardano la distrazione, laTemi ed esperienze 77


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischiofatalità, la fretta, il destino e “profezie autoavverantesi” conseguenti a premonizioni.Ciò rimanda ad una mancanza di consapevolezza e ad un atteggiamento altamentederesponsabilizzato, alimentato spesso dagli adulti che, colludendo, definiscono l’incidenteuna ragazzata o una disgrazia. In tal modo, curando soltanto “l’arto ferito”, non siinterviene sul vissuto psicologico perturbante che soggiace e che ha scatenato l’evento.La letteratura chiarisce infatti come vi possa essere una profonda correlazione fra incidentee problematiche legate allo sviluppo adolescenziale, quali la maturazione sessuale,la tematica edipica, il processo di separazione dalla nicchia primaria familiare. Ancora lacostruzione identitaria, il rapporto con l’altro sesso, i sensi di colpa, la fragilità narcisistica,la difficoltà di rinunciare al senso di onnipotenza infantile, i sentimenti depressivi,la fuga nell’azione, il ricorso massivo a meccanismi di difesa come negazione, diniego,formazione reattiva, intellettualizzazione, razionalizzazione, isolamento.Gli incidenti, quindi, possono rappresentare, in senso psicodinamico, “tentatisuicidi velati semi-intenzionali, provocati da un’intenzione inconscia che attende ilverificarsi di un’occasione che si possa sostituire alla causa reale” (Freud, 1901). Ladifferenza fra tentato suicidio e incidente risiede nel livello di pensabilità e consapevolezzadel progetto autodistruttivo.È importante affrontare la problematica da un punto di vista psicologico, per aiutarei ragazzi a responsabilizzarsi e a prendere consapevolezza di quali siano le dinamiche psicologicheed emotive che li h<strong>anno</strong> portati, spesso ripetutamente, ad essere “vittime” diincidenti. Altrimenti si rischierebbe il reiterarsi di un circolo vizioso “trauma-fantasmatrauma”per cui l’adolescente rischia, a seguito di plurime insufficienti elaborazioni, diincorrere ripetutamente in pericoli fisici e fissazioni psicologiche. Problemi psicologicorelazionalipossono portare infatti all’imporsi di meccanismi difensivi disfunzionali che,se “sorretti” da una insufficiente elaborazione dei vissuti perturbanti, tendenzialmenteportano alla “fuga nell’azione”. Ciò determina un’esposizione ai pericoli e la possibilitàdi incorrere più facilmente in incidenti. La lesione somatica che ne consegue “nasconde”quella emotiva-psicologica scatenante. Ne deriva un’ulteriore insufficiente elaborazioneed una nuova fuga nell’azione che alimenta così il circolo vizioso traumatogeno.La sofferenza non elaborata conduce a incidenti “per eccesso o per difetto”: acting outderivanti da fughe maniacali (incidente a seguito di trasgressioni, sfide, esibizione) o dacadute depressive (incidenti conseguenti a distrazione, “atti mancati”).L’incidente non va quindi sottovalutato, in quanto altamente correlato con ledinamiche psicologiche e le fasi evolutive proprie dell’adolescenza; va consideratocome un comportamento rischioso, o un sintomo psicopatologico che si inserisceall’interno della “psicopatologia di un evento della vita quotidiana”. Questo non significache si debba patologizzare in tutti i casi l’incidente, ma neppure sottovalutarneil valore di segnale (Carbone, 2003).Negli ultimi trent’anni, con l’introduzione di nuove leggi e misure protettive,si è ridotta considerevolmente, nella popolazione in generale, la mortalità da incidenti;questo miglioramento, però, non ha interessato gli adolescenti, soprattuttoquelli appartenenti alla fascia d’età, quella più a rischio, tra i 15 e i 24 anni. Moltiragazzi, nonostante i progressi normativi e tecnologici, nonché le numerose inizia-78


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischiotive informativo-preventive, continuano a rischiare, spesso facendosi seriamentemale, talvolta rimettendoci la vita (Carbone, 2003).Malgrado l’esposizione al e l’assunzione del rischio siano fenomeni normali e maturativiin adolescenza, essi, per alcuni ragazzi particolarmente vulnerabili, possonoanche sconfinare nella patologia.“C’è da chiedersi se questa passione per il rischio rappresenti una caratteristica inalteratanelle generazioni dei giovani, una sorta di stigmate della loro imprudenza, delloro desiderio di uscire dalle convenzioni e contrapporsi alle norme più restrittive eclaustrofobiche, o se vi sia qualcosa di sinistramente attuale, qualcosa che fa si chequesto bisogno trasgressivo sia presente oggi ancora più che tra le generazioni passate...Il rischiare la vita ha esercitato sui giovani, da sempre, un fascino tutto speciale, legatocom’è all’onnipotenza che trasmette: è un’età quella dove la vita non la si vuole solovivere, ma, soprattutto, dominare esorcizzando la morte. Nessuno di quei ragazzi cheall’alba, dopo un sabato notte in discoteca, spingono a folle velocità i loro piccoli e potentissimibolidi dentro la nebbia o lungo strade tortuose vuole davvero morire; essi, alcontrario, paradossalmente vogliono provare a se stessi di vivere e lo vogliono fare… amodo loro, con il loro ritmo sincopato, con la loro fretta, con la loro superficialità. Inassenza o scomparsa dei riti di passaggio, quando il superamento dello scoglio dell’adolescenzanon è marcato dalla società in cui vive l’individuo… l’iniziativa spetta a lui. Inquesto senso, il gioco con l’idea della morte favorisce nel giovane un’esplorazione di sé edella propria relazione con il mondo, portandolo a costatare la sua personale precarietàe quella di chi gli sta vicino” (Goisis, 2000).Prevenzione in adolescenzaLa tematica della prevenzione in adolescenza, dal rischio patologico, dagli incidenti,dai TS, dai DCA, non è certo di facile comprensione, dati gli innumerevoliaspetti socio-psicologici collettivi e individuali implicati, né di semplice attuazione,come testimoniano plurime esperienze fallimentari o controproducenti.Ciò che è chiaro, tuttavia, è che l’essere umano, in adolescenza, è facilmentetravolto da emozioni piacevoli e dolorose, contrastanti, che vuole/deve esprimere,sopprimere, ignorare o negare. L’organizzazione più o meno stabile ed evolutadell’Io ne determinerà la (o la mancata) elaborazione-integrazione.Sono i ragazzi più vulnerabili, quelli che h<strong>anno</strong> sperimentato più insuccessisociali, scolastici, amorosi, personali, familiari, che tendono a vivere le emozioni,belle o brutte che siano, a un livello più superficiale e corporeo. Più il vissuto si faintenso, insostenibile e incontenibile, più l’autoriflessione e l’autocontenimentosono bloccati a favore di un agito e/o di una somatizzazione che divengono significantidella sofferenza/ipereccitazione esperita.La prevenzione comincia in casa. Ma la famiglia “tipo” attuale sta riorganizzandose stessa, “vive” la crisi e la (con)fusione dei ruoli, accettandola come normale,liberatoria, deresponsabilizzante. Molti adolescenti faticano a trovare, nei genitori,contenimento, ispirazione, riferimenti adeguati. A scuola la situazione è spessoanaloga: anche laddove l’organizzazione delle strutture e delle funzioni sia adegua-Temi ed esperienze 79


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischiota, spesso ne persiste il totale disconoscimento da parte dei genitori e, conseguentemente,dei ragazzi stessi.Tutto ciò ha promosso il continuo sorgere di nuove agenzie educative e relativefigure formativo-preventive. Esse sono impegnate ad accogliere quegli adolescentipiù vulnerabili che necessitano di recuperare nello psicologo, nell’assistente sociale,nel counselor, nel tutor, quella figura capace di contenimento, competenza, coerenzae obiettività che non sono riusciti a trovare nei genitori, nella scuola, negli amici.La società si trova ad aver bisogno di investire sempre di più sulla prevenzionesia perché la famiglia non è più capace di trasmetterla al suo interno, attraversouna corretta educazione dei figli, sia perché l’ambiente stesso talvolta offre pochee/o inadeguate possibilità d’espressione ai bisogni e ai vissuti adolescenziali, gliambienti di vita sono spesso degradati, non tanto in senso economico, quanto intermini di opportunità formative, ricreative, professionali.Purtroppo molte delle campagne preventive realizzate sinora sono state per lopiù fallimentari, o non h<strong>anno</strong> sortito alcun effetto nel lungo termine o h<strong>anno</strong>addirittura provocato un effetto boomerang, per citare un solo esempio, le frasiincollate ai pacchetti di sigarette.La cause sono diverse. Innanzitutto, sussiste un “paradosso preventivo” (Carbone,2003): vengono create campagne per influenzare la “minoranza estrema” manon la “maggioranza meno estrema”. Gli adulti si focalizzano sugli aspetti più eclatantidel rischio, come l’abuso di alcool associato a guida spericolata, le stragi delsabato sera, dimenticando, però, che la maggioranza di adolescenti rischia, anchequotidianamente, ma secondo modalità assai diverse e più “silenziose”. Inoltre, laprevenzione viene progettata prevalentemente come intervento informativo-esortativo-intimidatorio.I ragazzi, però, sono spesso “ultra-informati”, e guardano aqueste iniziative con noia, disprezzo o atteggiamento di sfida.Le azioni preventive sono poi pensate sulle singole “categorie” comportamentalirischiose (fumo, sesso, droga, A.I.D.S), mentre dovrebbero favorire la riflessione suche tipo di significato ha il rischio per l’adolescente. Questo non solo per incentivareun lavoro introspettivo incentrato sul quid che porta al rischio, ma anche perchéspesso, alla rinuncia di un comportamento rischioso, se ne sostituisce un altro. Se èvero che la famiglia affettiva ha perso gran parte della sua funzione di trasmissionedi regole sociali, e l’aspetto normativo lo si rileva maggiormente nel gruppo deipari dove, peraltro, si manifesta la maggioranza dei comportamenti rischiosi - sullascia di dimostrazioni di fedeltà, coraggio, conformismo- si può ipotizzare che laprevenzione andrebbe realizzata e rivolta non tanto al singolo individuo, quantoalle aggregazioni formali e informali adolescenziali.Prevenzione, quindi, che venga “giocata” in modo interattivo coinvolgendo lafamiglia, la scuola, le agenzie educative e gli operatori esperti. Una società allargatache si renda corresponsabile dell’educazione, della protezione, del recupero di queiragazzi che ne h<strong>anno</strong> bisogno. Ciò significa infondere negli adolescenti, e negli adultiche presiedono alla loro crescita, un’etica del limite e una cultura della norma adeguatae dell’ascolto, che vadano a sostituirsi alla prevenzione intesa come sovrainformazione80


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischioo intimidazione, alla cultura narcisistica intollerante alla riflessione e alla frustrazione,a modalità relazionali “affettive” celanti, in realtà, lassismo e mancanza di ascolto.La società ha quindi, oggi più che mai, bisogno di adulti che si informino esi formino circa l’età adolescenziale; adulti che responsabilizzino i ragazzi e che siresponsabilizzino a loro volta, con serietà e, soprattutto, competenza. Non è sempredetto, infatti, che, come sancisce la sapienza popolare, “volere” sia “potere”.“Ho detto ai miei alunni:«Domani portate una cassetta. Di legno possibilmente».Volevo una cassetta con tre fori da un lato e tre fori dall’altro…«Terremo la cassetta quisulla cattedra» ho detto, «ci metteremo dentro le vostre domande. D’accordo?». Silenziopaziente, del tipo: tutto passa, basta tener duro. Poi una ragazza mi ha chiesto:«I fori acosa servono?». Ho spiegato che servivano a far respirare le domande. Le domande – hoaggiunto – sono vive: h<strong>anno</strong> il punto interrogativo, l’unico segno di interpunzione conuna certa guizzante vivacità. «Voi imbucate le domande nella cassetta e poi ci metteremoa cercare le risposte».Sono passati giorni e giorni, ma la cassetta delle domande non è comparsa. Certo,potevo procacciarmene una io, senza aspettare che provvedessero loro, ma non l’ho fattoperché ho pensato: «Se si decidono a portare la cassetta, vuol dire che poi arriver<strong>anno</strong>anche le domande». Così la cattedra è rimasta senza cassetta e senza domande”.Chi parla è un professore di alunni adolescenti, che si ispira alla cassetta de IlPiccolo Principe perché affezionato all’idea di una scuola dinamica, creativa, una“scuola tutta domande”; da anni saccheggia libri in cerca di idee che lo aiutino afare l’insegnante, perché non riesce ad arrendersi all’evidenza di un eterno e sterilerapporto docente-studenti che si esprime soltanto con lunghi monologhi, compitie verifiche, valutazioni, e nel quale i ragazzi parlano “solo quando interrogati”.Egli crede nel dialogo, nella fertilità del confronto: “Con la cassetta delle domandevolevo fare un altro tentativo di redenzione mia e dei miei alunni. Se i miei allievimi avessero interrogato, avrei saputo qualcosa in più su di loro. Se mi fossi provato arispondere, avrebbero saputo qualcosa in più su di me. Ma la cassetta non è piaciuta,pazienza. Faccio sempre più fatica a stare dietro agli adolescenti. In genere mi assecondanocome si fa coi matti. Ma sento che intanto smaniano nei banchi e trovano sempremeno ragioni per sedermi di fronte ogni mattina... Il problema non sono io; il problemaè allontanare con le buone e le cattive maniere ogni novità scolastica che prometta dimutarsi subdolamente in studio, rubando altro tempo a ciò che conta... Quello che perloro conta cerca di trovare una via soprattutto tra i materiali extrascolastici. Perciòdubito che la mia cassetta delle domande comparirà mai. Ciò che appartiene alle aulenon ha punti interrogativi veri. Alla scuola non si rivolgono domande. Appena apri labocca, mette i voti... Di ‘studére’ – essere desideroso di – non è rimasto niente. Per i mieiallievi studiare è un verbo del castigo. «Oggi non posso. Devo studiare»”.Il professore le pensa tutte. Osserva i suoi studenti con attenzione, riflette, crea,verifica, suffraga o confuta ipotesi. Pensa a se stesso quand’era ragazzo. Si impegnaa “riesumare” non l’allievo che, tempo addietro, si è sforzato di essere, ma l’allievoche teneva ben nascosto, “dietro le apparenze, per non sfigurare” agli occhi di insegnantie compagni di classe. Giura che non avrebbe mai fatto ai “suoi” ragazzi ciòTemi ed esperienze 81


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischioche lui stesso, da studente, non avrebbe mai voluto “subire”. Mette continuamentein discussione se stesso come persona, come docente, nonché il modo con il qualeaffronta ed “offre” l’insegnamento.Inaspettatamente e magicamente, contro ogni previsione, una mattina cometante la classe lo “accoglie” avvolta da una strana atmosfera. Fra sé, pensa: “«Mettiamocial lavoro e vediamo che cosa ci suggeriscono oggi gli errori di Eraclito» proporrò.Ma in classe trovo i ragazzi sospettosamente silenziosi. All’inizio non noto niente,vedo solo la malizia degli occhi. Allora faccio per gettare il cappotto sulla cattedra emi accorgo che c’è la cassetta con tre buchi da un lato e tre dall’altro, quella che avevochiesto quasi due mesi fa. Non dico niente, è un bel lavoro. L’avr<strong>anno</strong> fabbricata loro,l’avr<strong>anno</strong> commissionata a un falegname? Borbotto: «Bene, sono contento». Poi ci ripenso,certe volte gli studenti f<strong>anno</strong> brutti scherzi. Cosa ci avr<strong>anno</strong> messo? Faccio fintadi aver cose da fare…Quindi mi decido, sollevo bruscamente il coperchio della cassetta,guardo dentro. È zeppa di foglietti colorati, le loro domande. Comincio a leggere. Capiscosubito che non so rispondere” 1 .*Psicologa, Centro EOS, PaviaBibliografiaCarbone P., Le ali di Icaro, Bollati Boringhieri, Torino, 2003Dolto F., (1988), Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16anni, Oscar Mondadori, Milano, 1998Francesconi M., relazione al convegno “I giovani e il fascino del rischio. Insegnanti, genitori e psicologia confronto sul rischio in adolescenza”, Novara, 10 e 11 marzo 2006Freud S. nell’edizione Boringhieri, Torino, 1989, delle Opere: Frammento di un’analisi d’isteria (Casoclinico di Dora), vol. 4, 1901Goisis P. R., relazione al convegno “Le ali di Icaro. Wrooam, Screech, Crash: corse, sfide e scontri suglischermi. La rappresentazione dell’immaginario adolescenziale”, Roma, 23 e 24 giugno 2000Laplanche J., Pontalis J.B., (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Editori Laterza, Bari, 2003Lussana P., L’adolescente, lo psicoanalista, l’artista, Borla, Roma, 1992Starnone D., “Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso”, UniversaleEconomica Feltrinelli, Milano, 1998.Vegetti Finzi S., Battistin A. M., L’età incerta – i nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 20001 D. Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso, Milano,Universale Economica Feltrinelli, 1998.82


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienzeAdolescenti e legalità.Il disimpegno morale e la“mal-educazione” degli adultiE’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovanoil protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegatee protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gliobiettivi evolutivi preservando il proprio benessere.Cecilia Armenise*Il tema della legalità e, nello specifico, la necessità inderogabile d’individuarepiù incisive forme di “educazione alla legalità” per gli adolescenti, è di stringenteattualità, a causa dei numerosi fatti di cronaca dei quali gli stessi molto spesso sonoi protagonisti, incuranti delle norme del vivere civile e, sovente, pure del codicepenale. I mass media, l’opinione pubblica, gli esperti - o presunti tali - quotidianamentedibattono e s’interrogano sulle cause del dilagare di tanta violenza e di comportamentiauto-etero lesivi tra gli adolescenti, evidenziando, tra l’altro, l’assenzae/o la crisi di riferimenti o presidi valoriali, educativi, normativi.Il tema del rapporto degli adolescenti con la legalità, la loro percezione della stessa,a mio avviso si colloca naturalmente nello spazio d’intersezione tra l’adolescente, impegnatonel processo adolescenziale e nei relativi compiti di sviluppo, e l’odierna societàoccidentale, nella quale tale processo si dispiega, con tempi sempre più dilatati.Generalmente, infatti, in questa fase si verifica una più significativa aperturadell’adolescente alla società, con individuazione di figure di riferimento esterne allafamiglia, la conseguente scoperta della possibilità di modalità differenti di relazionee la contestazione dei valori di riferimento.L’adolescente costruisce la propria identità in un laborioso processo, che passaanche attraverso l’identificazione in ambito familiare e nel gruppo dei pari.Secondo il costruzionismo sociale (K. Gergen) la costruzione dell’identità viene“negoziata” attraverso un “dialogo esteriore ed interiore”, con gli altri significativi e con le“strutture simboliche della cultura alla quale più o meno coscientemente apparteniamo” 1 .L’accento è da porsi, pertanto, sulle principali agenzie educative - famiglia escuola - ma anche sull’importante funzione svolta dal gruppo dei pari, il quale puòoffrire l’occasione per sperimentarsi in un contesto rassicurante o per assumereidentità preconfezionate, pure negative. Nel perseguire i compiti di sviluppo l’adolescentepuò passare anche attraverso l’assunzione di comportamenti a rischio, daisignificati e dalle funzioni peculiari, rispetto ai quali i diversi stili educativi e l’educazionemorale, in particolare, rivestono un ruolo rilevante tra i fattori protettivi1 G. Mantovani, La costruzione narrativa dell’identità, in Psicologia contemporanea n.151/99,Giunti, p.25Temi ed esperienze 83


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalitàdal rischio. Gli adulti significativi possono svolgere un ruolo decisivo stimolando,attraverso il dialogo e il confronto, l’adesione ai valori e l’empatia. La famiglia èuno dei canali fondamentali, se non il principale, per la trasmissione di comunicazionenormativa e valoriale.Il padre, in particolare, esercita un’influenza decisiva per la formazione di una coscienzaetica, l’introiezione di regole e valori, oltre che, naturalmente, come modello di ruolo.Già abbiamo considerato 2 , tuttavia, come da più parti si osservi da tempo unaprogressiva e diffusa “maternalizzazione” della famiglia e dell’odierna società occidentale,con conseguente assenza dei “codici affettivi paterni” (F. Fornari). Lapredominanza del codice affettivo materno sembra esaltare l’aspettativa di riceverel’appagamento di ogni desiderio, indulgenza e protezione incondizionate. Ciò cheviene a mancare è il “principio paterno” su “cui si fonda la norma, la legge, l’autorità:il terzo polo nel triangolo familiare che attira a sé il figlio e lo separa dalla madre, stabilendoun ponte verso l’esterno, la società” 3 .La famiglia, del resto, è immersa nell’atmosfera culturale della società in cui vive. Aipunti fermi, interiori - convincimenti religiosi o ideologici -, da cui in passato discendevanole leggi morali, si sostituiscono i “valori” imposti da una società massmediale inincessante trasformazione: denaro, competizione, potere, successo, apparenza.L’autorità genitoriale, in questo scenario, è spesso esercitata in maniera frammentariaed incoerente, quando non lascia campo aperto ad un vero e propriolassismo; l’amore dei genitori, poi, veste i panni di un “consumismo affettivo” (S.V.Finzi, A.M. Battistin, p.188) che, insieme all’assenza di divieti e limiti, ha la funzionedi tacitare ansia e sensi di colpa, fornendo l’illusione d’evitare insanabili rotturecoi figli, e di renderli felici.La famiglia, d’altro canto, può svolgere un’importante funzione di promozionesociale e protezione dal rischio: alcune ricerche (Marta e Scabini, 2003) evidenzianol’importanza di relazioni familiari positive e, in particolare, di una “famiglia prosociale”.Con riguardo alla “trasmissione” della prosocialità, una ricerca (E. Marta 2002)ha evidenziato l’importanza del supporto e della prosocialità del padre nel renderepiù efficace il ruolo materno, di per sé importante perché il figlio s’impegni concretamentenel volontariato, e nel favorire la partecipazione attiva di quest’ultimo alla comunitàsociale. La famiglia prosociale, più nello specifico, sembra rivestire un ruolodi rilievo nel determinare il coinvolgimento dei giovani nell’impegno di volontariato,vissuto perciò con maggiore donatività e consapevolezza; impegno che si ritiene abbiauna specifica valenza protettiva rispetto al rischio psicosociale di devianza.Disimpegno morale e societàIl sistema sociale, e con esso tutte le agenzie educative, svolge un’azione determinanteper la formazione di una coscienza etica e di un orientamento prosociale. “E’ infattiil sistema sociale e culturale che detta i principi morali e reclama che l’azione si conformi al2 C. Armenise, L’adolescente nella società senza padri, in <strong>Pedagogika</strong>, n.3/2005, Stripes Edizioni.3 S. Vegetti Finzi, A.M. Battistin, L’età incerta, ed. Mondadori, 2006, pp.188-19384


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalitàgiudizio che ne consegue” 4 ; ma lo stesso sistema può legittimare azioni in contrasto conprincipi morali o doveri, anche se condivisi socialmente, quando prevalgano interessio imperativi morali superiori. I media, a loro volta, presentando gli eventi, possonoattivare o disattivare il giudizio morale, attenuando e rimovendo le responsabilità.Oggi la teoria sociale cognitiva, a partire dalla stretta correlazione tra sviluppo efunzionamento della personalità ed influenza socio-culturale, individua dei meccanismidi disimpegno morale, ovvero “strategie cognitive che gli individui utilizzano persvincolarsi dalle norme e dalle responsabilità” 5 ; nel corso dell’esposizione vedremoalcuni esempi esplicativi di alcuni di essi, tra i più ricorrenti nella personale esperienzaprofessionale. “I meccanismi del disimpegno morale… non sono occasionalicedimenti ad un ipotetico “istinto perverso” ma ordinari processi di pensiero, pervasivie diffusi, che trovano alimento nelle pieghe del discorso morale collettivo” (Caprara,p.33). Lo scarto tra pensiero e azione morale in genere non è attribuibile ad un deficitdell’intelligenza, a un blocco nello sviluppo o all’assenza di principi, piuttostoa modi di pensare condivisi e incoraggiati dalla società.La diffusione di comportamenti quotidiani, quali trasgressioni “lievi” volte aricavare vantaggi personali da violazioni meno gravi dei diritti altrui o dell’ordinamentosociale, oppure ad evitare conseguenze delle proprie azioni o responsabilità,si declina sotto il segno della furbizia, dello scambio di favori, della connivenza.La fonte d’autoassoluzione, in chiave “risarcitoria”, viene spesso individuata nellefrodi più gravi o nell’iniquità di alcune leggi.Tali comportamenti insinuano modi di pensare che, minando i valori e le normefondanti il vivere civile e le democrazie, alimentano anche il “sentire mafioso”,“un modello inconsapevole e dogmatico di pensare”, che non comporta l’adesione allacriminalità, ma “la condivisione, spesso inconsapevole, dei valori della criminalità” 6 .Disimpegno morale e devianza minorileLa questione dello sviluppo del senso della legge assume un’importanza rilevante,in termini di psicologia evolutiva, anche nell’ottica degli interventi preventividella devianza.Bandura assegna un ruolo determinante ai meccanismi di disimpegno moralenell’innescarsi di vari tipi di trasgressioni e prevaricazioni, che, tuttavia, non sonoesclusivi di bullismo e delinquenza, bensì pervadono svariati aspetti della vita quotidianadi ciascuno.Alcune ricerche sul disimpegno morale e civile (G.V. Caprara e Cristina Capan-4 G.V. Caprara, Disimpegno morale e autoassoluzione: minima moralia, Psicologia contemporanea,n.160/2000, pp.34-355 Eiss, Il servizio sociale nel sistema della giustizia e la devianza minorile, in Rassegna di ServizioSociale n.2/20006 G. Lavanco, I luoghi comuni delle mafie, Progetto formativo:“Minori e criminalità organizzata: analisidel fenomeno e ipotesi d’intervento, Scuola di formazione del personale Giustizia Minorile, Roma9.10.2002Temi ed esperienze 85


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalitàna), inoltre, h<strong>anno</strong> evidenziato che gli uomini ed i giovani, rispetto alle donne ed aglianziani, sono più inclini al disimpegno morale, considerato un importante fattore dirischio, sul versante dell’individuo, anche dai più recenti orientamenti teorici in tema didevianza minorile. Questi ultimi individuano nuove variabili cruciali, fattori di rischioe di protezione - personali, comportamentali ed ambientali - e nuovi processi, sottesialla devianza, che “si genera e si costruisce all’interno dell’interazione circolare e ricorsiva trai fattori di protezione e i fattori di rischio”.(De Leo G.,’96-’98; De Leo, Patrizi ’92) 7L’osservazione sul campoL’esperienza e l’osservazione maturate “sul campo” in circa venti anni di eserciziodella professione in un servizio minorile della giustizia (Distretto di Corted’Appello di Bari), mi h<strong>anno</strong> persuasa che anche i minori denunciati all’AutoritàGiudiziaria, come vedremo di seguito, f<strong>anno</strong> spesso ricorso ai meccanismi di disimpegnomorale. Ritengo, tuttavia, che lo stesso “sistema giustizia”, qui intesonella sua accezione più ampia (con particolare riferimento alle istituzioni, i servizied i professionisti che vi afferiscono o che a vario titolo collaborano per le problematichedei minori), non sia immune dal fenomeno esplorato.Nelle aule dei Tribunali per i Minori ad esempio, capita di assistere alla “colpevolizzazioneo svalutazione della vittima”, da parte di legali che nel difendere il minorenneautore di reato, insinuano ombre sulla vittima, sulla sua “moralità” o sulla sua”attendibilità”, con ovvie implicazioni sul piano educativo. Perfino la “Giustizia” nonsembra avulsa da questi meccanismi (si tratta, fortunatamente, di casi eccezionali,che tuttavia destano preoccupazione e sdegno): una recente sentenza della Corte diCassazione, per esempio, ha ridotto la pena inflitta ad un adulto accusato di molestiesessuali, poiché la vittima, minorenne, aveva già avuto rapporti sessuali.Infine anche i professionisti d’aiuto, o coloro che comunque svolgono funzionieducative, talvolta sembrano incorrere nell’utilizzo, anche inconsapevole, di meccanismidi disimpegno morale, quali la “diffusione o il dislocamento delle responsabilità”,spinti, ad esempio, dal bisogno di giustificare insuccessi, o di fronteggiare situazioniche per la loro complessità e problematicità possono comportare un intollerante sensod’impotenza o di frustrazione, specie quando non si disponga di risorse adeguate. Ildisagio e la fatica, rivenienti, poi, dal confronto estenuante con pastoie burocratiche o,ancora, con l’“Autorità”, sono solo alcuni degli esempi che talvolta possono spingere glioperatori a “rifugiarsi” in tali meccanismi, assumendo comportamenti “disimpegnati”.Per quanto concerne più specificatamente gli adolescenti incappati nelle maglie dellagiustizia, essi adducono spesso motivazioni “autoassolutorie” basate, ad esempio, sulmeccanismo di disimpegno morale della “giustificazione morale” (“ho rubato per aiutarela mia famiglia”), oppure della “colpevolizzazione o deumanizzazione della vittima” (“responsabile”per esempio, d’aver lasciato “incustodita” l’auto di proprietà con le portiere“aperte”, o d’aver lanciato “segnali inequivocabili di disponibilità”, come nel caso di vittimedi molestie sessuali, o, infine, d’essere “pazza”), o, ancora, del “dislocamento delle responsa-7 Eiss, idem, p.9586


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalitàbilità” (minori che si ritengono “costretti” a rubare un’auto, perché il comune di residenzanon garantisce il funzionamento dei mezzi pubblici ad una certa ora). Altre volte, i ragazzidiluiscono nelle responsabilità del gruppo quelle proprie (diffusione delle responsabilità) esolitamente “sottostimano le conseguenze” delle proprie azioni (“ho preso il suo motore soloper giocargli uno scherzo, pensavo di restituirlo, non credevo mi denunciasse…”).Generalmente, inoltre, non sembrano agevolare l’individuazione degli altri o dei“veri” responsabili, mostrandosi convinti ed orgogliosi di non essere “infami”, salvopoi lamentarsi dell’inettitudine o “iniquità”della legge. E’ un atteggiamento assimilabilead una sorta di “omertà di consorteria”, diffuso non solo tra soggetti appartenentialla criminalità organizzata, ma anche tra ragazzi cosiddetti “normali”, come evidenziaanche un’interessante ricerca 8 . I comportamenti illeciti dei ragazzi, inoltre, frequentementesono giustificati anche dai loro genitori col richiamo a fatti di cronaca- i cui protagonisti sarebbero, per esempio, esponenti della politica o rappresentantidelle forze dell’ordine -, oppure al malcostume o ad un’imperante e generalizzata corruzione(confronto vantaggioso). Il più delle volte, ancora, i genitori sostengono conveemenza l’innocenza dei loro “bambini” (così li definiscono e spesso li considerano),negando perfino l’evidenza; ritengono delle “bravate” o delle “sciocchezze” i reati daloro commessi, anche se comportano forme di violenza sulla vittima, spesso ingiuriatae talvolta tacciata d’“infamità” perché non ha subìto in silenzio.Si tratta di atteggiamenti, lo evidenziamo, che non si riscontrano solo in famiglieappartenenti al circuito criminale, bensì in nuclei estranei alla criminalità,rappresentati in eguale misura da quelli segnati da marginalità socioculturale e daquelli di ceto medio-alto.Qui s’intravede l’ulteriore scenario del “malessere del benessere”, nel quale la marginalitàsociale, il basso status socio-economico della famiglia e il livello di scolarizzazione,per citare alcuni degli indicatori tradizionali, non sono più i fattori principaliche possono determinare il disagio, la devianza o la criminalità tra gli adolescenti.Considerazioni conclusiveI comportamenti a rischio, quindi, non indicano di per sé il fallimento nel percorsodi sviluppo o il segno di un disadattamento patologico, e costituiscono unasfida ai compiti educativi degli adulti.L’attuale realtà adolescenziale, infatti, presenta fasce di marginalità che riguardanol’area della relazionalità e dell’interiorità, che pervadono tutto il tessuto sociale,a partire dall’ambito della cosiddetta “normalità”, anch’esso colpito spessoda varie manifestazioni della devianza minorile. La caratteristica espressiva delleforme di devianza giovanile più praticate o ammesse può essere letta anche comeuna strategia per comunicare un disagio, spesso legato a disfunzioni relazionali e/oeducative, e quindi, come tale, richiede d’essere interpretata e risolta. Sappiamo,8 F. Perussia, G. Benso, A. Lovisolo, Il senso della legge e della giustizia e del sistema penale in giovaniminorenni maggiorenni, in F. Perussia, (a cura di), Materiali di psicologia sociale e della personalità,vol.1, Torino, Celid, 1997Temi ed esperienze 87


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalitàinfatti, che la devianza ha forti valenze comunicative, che rappresentano sia rischisia risorse: appare fondamentale, pertanto, riconoscere la funzione specifica che idiversi comportamenti assumono all’interno di un processo teso alla costruzionedell’identità, individuale e sociale, di quell’adolescente, nel suo contesto di vita;così come è fondamentale individuare i fattori di rischio che potrebbero stabilizzarnela condotta “rischiosa”, e quelli protettivi, che possono limitare il tempo ela gravità dell’incursione nel pericolo. Occuparsi di legalità oggi, perciò, significasaper leggere e conoscere il disagio, il suo manifestarsi, nelle nuove generazioni.L’educazione alla legalità, quindi, non può che partire dai comportamenti tipicidella sub cultura giovanile, che vede spesso molti giovani considerare leciti o innocuialcuni comportamenti, siano essi d<strong>anno</strong>si “solo” per la salute e/o ritenuti illeciti dallanorma - quali, ad esempio, il consumo d’alcool o di sostanze stupefacenti leggere, lapirateria musicale, il mancato utilizzo del casco, il fare a botte - e manifestare unadifficoltà sia a riconoscerne l’illiceità, sia a stimarne le conseguenze, anche penali.E’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovanoil protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegatee protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gliobiettivi evolutivi preservando il proprio benessere. La scuola in questo senso puòsvolgere una funzione di rilievo, anche rispetto alla prevenzione di comportamentidevianti, elaborando un insieme condiviso di regole, di norme precise ed espliciteda rispettare, e prevedendo sanzioni riparative; in tal modo si può “favorire e svilupparel’assunzione di responsabilità” (De Leo, 1997), che ha una valenza protettiva rispettoai comportamenti a rischio. Inoltre, la scuola è il luogo in cui si possono avviare“momenti di riflessione di gruppo finalizzati al riconoscimento dei meccanismi didisimpegno morale ed allo smascheramento delle strategie assolutorie e giustificative” 9 ,ed anche implementare competenze sociali e comunicative.S’impone, quindi, la necessità di una prevenzione diffusa, che favorisca il riconoscimentoe l’emergere dei vissuti, delle emozioni e dei bisogni dei ragazzi, occultatianche da spinte all’adeguamento dell’immagine indotte dalla società dei consumi.Il benessere globale degli adolescenti, dunque, non è determinato dalle sole caratteristicheindividuali o intrapsichiche, o da fattori familiari, essendo in stretta relazioneanche con le condizioni di vita ed i processi che si verificano negli ambienti socialiin cui vivono. Perché l’educazione alla legalità risulti efficace, pertanto, è necessarioche sia intesa e praticata come progetto sostanzialmente condiviso da tutte le agenzieeducative di un determinato territorio (famiglia, scuola, comunità ecclesiali, associazionismolaico), con un approccio metodologico di tipo sistemico, che promuovaazioni dirette ad implementare l’efficacia collettiva e lo sviluppo di una comunità.*Assistente Socialespecialista presso L’U.S.S.M. di Bari, Dipartimento Giustizia Minorile9 S.Bonino, Le condotte antisociali e devianti nell’adolescenza, in Psicologia contemporanea n.155/199,Giunti, p.2588


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienzeIl “Progetto di ricerca” e la qualitàdella formazione in ambito pubblicoPer costruire un’alleanza di lavoro spesso si pensa allo spazio della formazione oalla supervisione del lavoro del gruppo, ma l’aspettativa di intervento e di cambiamentoappare riposta all’esterno.Emanuele Toniolo*, Emilia Canato**, Giannamaria Grisolo***Nel progetto di ricerca sulla gestione dei disturbi maggiori in adolescenza (aspetti epidemiologici,diagnostici, terapeutici), per l’organizzazione di un modello di assistenza basatosull’integrazione fra Servizi dell’età evolutiva e dell’età adulta, l’esperienza formativaha assunto un spazio significativo, in termini qualitativi soprattutto. Nel progetto generalele Aziende Ulss coinvolte sono state tre, e adesso ha collaborato al progetto il Centro Specialisticodell’Ulss16 di Padova. H<strong>anno</strong> partecipato: psicologi, neuropsichiatri e psichiatri(complessivamente circa 20 operatori delle aziende interessate). L’attività di formazione siè concretizzata in un percorso di più occasioni di confronto e intervento.In particolare negli incontri mattutini si è lavorato su temi generali inerentila ricerca, la definizione dei pacchetti diagnostici, l’identificazione degli indicatorida considerare e sulla concreta supervisione del lavoro clinico su casi propostidalle équipe, considerati utili e significativi per la problematica evidenziata. Negliincontri pomeridiani si sono affrontate le situazioni di maggiore urgenza e disagioin carico ai servizi, i consulenti h<strong>anno</strong> svolto colloqui e valutazione diretta consuccessivo rinvio agli operatori competenti.La formazione, poi, per l’aggiornamento delle conoscenze degli operatori è statoaffidata ad esperti esterni in giornate dedicate.Nello specifico, oggetto di formazione e di ricerca per un periodo di 7 mesi èstata la “…la condivisione di linee guida e protocolli clinici”, e “l’individuazione dibuone prassi per l’inquadramento diagnostico, in ambito di gestione dei disturbimaggiori in adolescenza”. La formazione è stata accreditata secondo le linee guidaregionali relative ai programmi di Educazione Continua in Medicina, quale attivitàdi “formazione e ricerca sul campo”.L’attività di ricerca, nel suo svolgersi, ha comportato attività di studio, raccolta eorganizzazione di materiale bibliografico e clinico, una raccolta di documentazione edi materiale da condividere per l’elaborazione di dati e di risultati. La presentazione deicasi clinici e dei risultati relativi alla applicazione dei protocolli, ha reso necessaria l’individuazionedi un coordinatore per ogni singola azienda, consentendo così la stesura direlazioni da parte di ogni singolo gruppo, ciò per mantenere e valorizzare le differenzedei contesti di lavoro e, nell’insieme, strutturare l’evento formativo condiviso.Il periodo di formazione e ricerca è stato relativamente breve, è andato strutturandosicon incontri quindicinali di coordinamento e supervisione, ma con una proficuaattività clinica nei rispettivi servizi e di specifica consulenza per l’utilizzo delle procedurenelle nuove situazioni segnalate e prese in carico. Dalle considerazioni emerse nelleTemi ed esperienze 89


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricercarelazioni conclusive dei coordinatori e dalle procedure elaborate e utilizzate, il percorsoformativo e di ricerca è stato sostanzialmente positivo ed è stata formulata la richiestadi continuare il lavoro, per verificare longitudinalmente l’efficacia delle procedure appresee l’evoluzione dei trattamenti avviati. Il modello sperimentato è stato approvatoe condiviso con una buona ricaduta formativa per gli operatori che h<strong>anno</strong> aderitoall’esperienza, sono emersi suggerimenti operativi efficaci e possibilità di intervento conimpatto sui contesti lavorativi più allargati, negli aspetti relativi alla definizione del settinge nel passaggio di informazioni tra i Servizi coinvolti o comunque interessati.La modalità operativa adottata ha consentito di lavorare all’analisi dei diversicontesti coinvolti, attraverso la presentazione di casi clinici in carico, e ha permessodi formulare una scheda per la raccolta anamnestica, in grado di tener conto siadei problemi sia dei punti di forza del soggetto e del contesto familiare e sociale.Il percorso ha poi evidenziato la necessità di definire una batteria di test adeguati,rendendo diffusa la conoscenza di tali test e l’effettiva praticità del loro utilizzo.Questi strumenti diagnostici sono stati sperimentati su un campione di casi dinuova segnalazione (complessivamente una ventina, almeno cinque per gruppo dilavoro), rendendo confrontabile ed utile il modello e le relative procedure.Il momento del confronto ha consentito una costruttiva elaborazione dei nodiproblematici, ricercando le possibili soluzioni. Questo passaggio di elaborazionee analisi dei risultati ha consentito proposte comuni e ipotesi di miglioramento,differenziate all’interno dei singoli gruppi di lavoro aziendali.Non sempre i contesti formativi favoriscono un cambiamento ed un’elaborazionedi nuove prassi. Molto probabilmente il contesto di “ricerca “ ha consentito un’evoluzionedel gruppo senza particolari conflittualità, ritrovando nell’obiettivo comune unreciproco arricchimento, attraverso le differenti pratiche applicative. L’elaborazionedi linee guida in fase di iter diagnostico e la loro applicazione in contesti differenti, hafavorito la riflessione e quindi la condivisibilità, suggerendo più chiavi di lettura.La tematica relativa alla presa in carico di adolescenti, nella fascia di età 14-22,coinvolge più servizi e presuppone più livelli di procedure, di percorsi di intervento e ditrattamento. La fascia di età interessa, infatti, servizi per minori ed altri per adulti conmandati istituzionali differenziati. Il contesto formativo, di ricerca, è pertanto partitodal presupposto di elaborare proposte condivise di miglioramento, ed ha consentito losvilupparsi di una strategia connessa alla consapevolezza dei differenti mandati, inserendolinegli scopi stessi della ricerca; garantendo così le differenze, ma sviluppando nelcontempo un aspetto interattivo in grado di perseguire scopi comuni.Potremmo descrivere l’esperienza formativa come una co-costruzione di alleanze ingrado di strutturare “nuove possibilità di intervento con scambi ricchi e differenziati”.Nel libro Il triangolo primario E. Fivaz-Depeursinge e A. Corboz-Warnery sviluppanoil tema della dinamica relazionale triadica in ambito familiare, non qualefonte di relazioni disfunzionali, ma come base costruttiva di alleanze in gradodi consentire crescita e apprendimento. Quindi se si prende in considerazione lastrutturazione di processi interattivi modulati e differenziati secondo le fasi di crescitadel bambino, la relazione può essere vista nella duplice ottica di accrescimento90


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricercaaffettivo del bambino, ma anche dei genitori, che affinano e acquisiscono competenzee modalità interattive nuove. Questi processi interattivi possono essere scompostiin due sub-unità, una strutturante rappresentata dalla componente “coparentale”,ed una “evolutiva” rappresentata dal bambino. Utilizzando questo schema interattivo,ogni sequenza o unità interagente, che costruisce nuovo apprendimento,nuove conoscenze, ristruttura il precedente e pertanto questo “modello interattivo”rappresenta potenzialmente un modulo formativo ristrutturante.L’utilizzo di questo modello è una chiave di lettura per tutti quegli eventi formativiin grado di costruire alleanze di lavoro ristrutturanti ovvero portatrici di nuove proceduree modalità operative. “…le famiglie volontarie non chiedono un intervento, maquelle cliniche se lo aspettano” 1 . L’attesa di un qualcosa dall’esterno caratterizza il modelloformativo classico, con la richiesta all’esperto di accrescere e modificare conoscenze easpetti operativi, diverso è ricercare qualcosa con l’atteggiamento di apertura propriodella ricerca sul campo, con la possibilità di riformulare ipotesi e premesse.L’atteggiamento di intraprendere un percorso per validare o modificare ipotesidi lavoro consente una partecipazione individuale aperta e disponibile, nonimbrigliata in rigidità comunicative come nelle interazioni dei gruppi familiariproblematici.Partendo dalla nostra esperienza va evidenziato che nella presentazione e discussionedi ogni specifica tematica o caso clinico, è stato possibile valutare le criticità,condividere i suggerimenti pratici e la possibilità di sperimentare ed evitare percorsichiusi o inopportuni. Nel gioco delle parti tra chi presenta il problema e chiosserva, si sono stabilite le premesse per lo sviluppo di sequenze tra componentistrutturanti contenitive e moduli evolutivi di consapevolezza del problema.La “volontarietà” ha connotato l’esperienza anche nella fase di sperimentazionedi nuove procedure. L’attività di “ricerca sul campo” si è inserita nel lavoro di ciascunServizio, ma con una collocazione logistica e spaziale differente nella sua fasedi elaborazione, quindi è apparsa estranea ai vincoli istituzionali.Per costruire un’alleanza di lavoro in ambito istituzionale, spesso si pensa allospazio della formazione o alla supervisione del lavoro del gruppo degli operatori, mal’aspettativa di intervento e di cambiamento appare riposta all’esterno e il grupposi struttura nell’interscambio in un’attesa indefinita del nuovo. Pertanto, come nellavoro con famiglie “cliniche”, gli scambi interni/esterno possono essere influenzatidal tipo di coerenza interna (collusiva, disturbata, o relativamente buona); se mancala negoziazione dei compiti, dei ruoli, della temporalità, si rischia infatti di rinforzaree irrigidire il modello relazionale preesistente e gli aspetti disfunzionali, ovvero ilgruppo si chiude maggiormente e non crea novità operativa. Nella logica del miglioramentodelle prassi operative appare necessario confrontare modelli formatividifferenziati per fornire maggiori possibilità e opportunità operative. Nel nostro casogli incontri interlocutori e la costruzione di un percorso secondo fasi, a volte anche1 E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery, Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche trapadre, madre e bambino, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 175Temi ed esperienze 91


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricercarigide, ha consentito di produrre a scadenze fisse materiale di studio con successivifeed-back clinici, così la casistica che ogni singolo servizio ha sperimentato è diventatapatrimonio del gruppo e ampliamento di conoscenze nei vari contesti.Gli stessi operatori “esperti” sono stati coinvolti nella consulenza diretta e, a turno,potremmo dire, che tutti h<strong>anno</strong> potuto svolgere le funzioni “strutturanti” ed “evolutive”.Ai fini dell’accreditamento ECM, per i progetti di ricerca sul campo, la RegioneVeneto ha predisposto delle linee guida abbastanza rigide per la definizione deiruoli e dei compiti: responsabile del progetto, garante della ricaduta formativa,tutor, capogruppo o coordinatore di sottogruppi, esperto, partecipante, con unadifferenziata ipotesi di impegno e di orari.Anche le fasi di lavoro sono state definite dalla Regione, in particolare sonostate previste:- analisi del problema, esplicitazione delle ipotesi di lavoro, indicazione dei metodidi controllo e di validazione dei risultati;- raccolta dati su un campione di riferimento;- analisi dei risultati:- validazione o rifiuto della ipotesi di lavoro.Lo schema rigido di accreditamento e la possibilità di negoziare in premessa ruoli efunzioni, sono stati un valido strumento di differenziazione, utile per la costruzione di unaalleanza di lavoro collaborante. Le fasi di lavoro così strettamente predeterminate h<strong>anno</strong>scandito i tempi di lavoro, coordinando i vari sottogruppi. La possibilità di accrescere ingruppo le conoscenze sul tema, attraverso una raccolta di informazioni e di materiale autogestitae condivisa, ha rappresentato il filo conduttore dell’esperienza formativa.Alcune situazioni cliniche sono state seguite in corso di diagnosi e/o in psicoterapia,all’interno di un assetto teorico di tipo psicodinamico ad orientamentopsicoanalitico. Il confronto nel gruppo è stato particolarmente interessante perchéha permesso un processo di integrazione tra il materiale clinico e gli aspetti emersisia nei test proiettivi e psicometrici, sia nei questionari valutativi dei genitori, effettuatida operatori diversi. In questo modo il lavoro con gli adolescenti è statoarricchito ed i singoli operatori si sono sentiti sostenuti nel loro lavoro.A livello macro organizzativo l’esperienza ha consentito un benchmarking “dibuone prassi” fra gruppi di lavoro diversi e, parallelamente, ha permesso di rafforzareun’integrazione verticale fra i servizi che si occupano di fasi evolutive successive,operando nella direzione prevista dal P.O. Tutela della salute mentale 1998-2000 edelle linee nazionali per la salute mentale (2008).L’analisi della casistica, le considerazioni sulla prevalenza trattata e lo scarto con laprevalenza attesa secondo i dati della letteratura, h<strong>anno</strong> introdotto la necessità di unariflessione sia sui modelli organizzativi dei servizi (accessibilità, capacità di intercettare ibisogni), sia sulla congruità fra risorse disponibili e bisogni presenti nella popolazione.*Direttore Dipart. di Salute mentale Az. USSL 18 Rovigo** Psicologa e Psicoterapeuta Az. USSL 18 Rovigo*** Neuropsichiatra infantile Az. USSL 18 Rovigo92


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/alberto_stanga/come_libri_al_rogoDossier 93


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/La differenza di genere nell’Odissea.Donne, sentimenti, incontriLa ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensionedell’alterità, che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amoreche l’altro ci può offrireDario Costantino*I personaggi femminili h<strong>anno</strong> un forte valore educativo nel processo di formazione diUlisse e testimoniano concretamente una tangibile “cultura della differenza di genere”.Il nostro eroe arricchisce la propria personalità, confrontandosi con una “femminilitàdi valore”, che è fondamento e motore dell’azione investigativa e conoscitivadell’uomo. Ulisse interagisce con un ampio catalogo di donne, ciascuna conuna funzione precisa nel percorso dell’eroe.La principale educatrice – in ordine di tempo – dell’uomo/Ulisse è Anticlea 1 ,la madre. Ulisse incontra la sua genitrice durante la discesa nel regno degli Inferi.Drammatico l’incontro tra i due. L’atmosfera è inquietante, ma di profonda riflessione.L’incontro con la morte è per l’uomo-Ulisse un’esperienza estrema, maanche una tappa necessaria di crescita.È forte in Ulisse il desiderio di “toccare” fisicamente la madre. Egli la senteancora viva, ma in realtà, non lo è più. Di fronte alla madre, il figlio conosce ericonosce l’amaro significato della rinuncia 2 , per questo matura e diviene semprepiù consapevole di sé. Egli è addolorato per essere stato involontariamente causadella morte della madre.È singolare pensare che colei che ha già dato la vita ad Ulisse, da morta, fornisceal figlio valide motivazioni per continuare a vivere. La madre rafforza nell’eroe lavolontà e il bisogno di tornare in patria 3 . L’incontro con la madre si configura come“un nuovo venire alla luce”, una nuova rinascita, dolorosissima come un secondotravaglio. La donna offre al figlio un reale e sincero strumento di ricerca del suo séautentico. Lo rinsalda nel suo proposito di fare ritorno in patria.Antitetico nel significato, ma altrettanto intenso, l’incontro con le Sirene, metaforadella perdizione umana. Questi demoni marini sono personificazione dei pericoli delmare, ma rappresentano anche uno straordinario strumento di crescita pedagogica.La femminilità delle Sirene è distruttiva, ma non per questo Ulisse rinuncia all’incontro,né a godere del loro inebriante canto. La loro forza è trascinante e violenta, distruttivo1 Figlia di Autolico e Anfitea. Sposa di Laerte, morta secondo alcuni di dolore, secondo altri uccidendosinell’apprendere la falsa notizia della morte del figlio. Cfr. G.L. Messina, Dizionario dimitologia classica, Roma, Angelo Signorelli Editore, 1985, p. 26.2 A. Semeraro, Omero a Baghdad, Roma, Meltemi, 2005, p. 82; cfr. P. Citati, La mente colorata,Milano, Mondadori, 2002.3 G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero. Lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005, p. 171.94


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdisseae decisivo l’effetto. Sono un limite da superare. Il desiderio di Ulisse non è solo la dilatazionedei confini della conoscenza umana, ma lo sviluppo dell’essenza stessa dell’uomo,l’essere con gli altri. L’incontro con le Sirene è pericoloso e probabilmente negativo, ma avvieneuno scambio reciproco tra i protagonisti. Ulisse cresce grazie al pericolo rappresentatoda queste due creature marine. Le Sirene, dal canto loro, grazie all’eroe, conquistanogloria imperitura e assurgono ad archetipo di creature maliarde e dissacranti.Nel suo percorso Ulisse incontra anche altre donne, che non rivestono unarilevante funzione narrativa, ma che h<strong>anno</strong> un grande spessore umano e svolgono,comunque, una funzione educativa.È il caso di Euriclea, fedele nutrice, figura emblematica. Presenza forte ma discretanella famiglia di Ulisse; in alcuni momenti risulterà anche decisiva. Accoglie Ulisse,tornato a Itaca sotto mentite spoglie. È pronta a lavare i piedi allo straniero/Ulisse,che vive una condizione di disagio, forse, simile a quella del suo amato padrone.La nutrice mostra nei confronti del mendico/Ulisse un’empatica condivisione delle sofferenzee della sorte avversa. Comprende che l’uomo che le sta di fronte ha pudore e ritrosiaper il suo stato fisico, a tal punto da fuggire addirittura lo sguardo delle ancelle. Probabilmente– pensa – che, in un altro luogo, anche il suo Ulisse abbia lo stesso problema.Euriclea, mossa da compassione, lava i piedi allo straniero. È il momento della anaghnórisis(riconoscimento di ciò che è familiare). La fedele nutrice lo “riconosce”. Recuperaimmediatamente un patrimonio identitario straordinario. Euriclea è stata testimone diun atto, che ha definito per sempre l’identità di Ulisse. Il passato dell’eroe e la cronistoriadella ferita 4 , procuratagli da un cinghiale, le balzano alla mente d’un tratto. La donnatocca con le palme delle mani la ferita e la riconosce al tatto. Coglie fisicamente l’identitàdel suo padrone; la cicatrice è l’inequivocabile segno di riconoscimento.Un incontrastabile senso di gioia e dolore la pervade, il pianto scende copioso,la voce le si arresta in gola. Sta per urlare l’identità di Ulisse, ma questi con forzal’afferra per la gola e la blocca. La minaccia, svelandole la sua identità e i disegni divendetta. Euriclea, allora, rinnova con forza la lealtà al sovrano.L’iter dell’eroe Ulisse è labirintico e tortuoso. Gioie e dolori, amicizia e inimicizie,separazioni e condivisioni. Sensazioni forti si susseguono senza soluzione di continuitàcon un affascinante ritmo alternato, che rende unici questi “incontri al femminile”Aréte e Nausicaa, madre e figlia, principessa e regina dei Feaci offrono un grandeaiuto all’eroe bisognoso. Aréte accoglie l’ospite con grande benevolenza. È leilo strumento per ottenere una nave per fare ritorno in patria. La regina è “curiosa”dello straniero, “desiderosa” di conoscerlo, ma anche di “comprenderlo”.Rispetto, voglia di confronto e soprattutto desiderio di ascolto, caratterizzanoquesta donna, che vede nel naufrago/Ulisse l’altro con cui confrontarsi, e un’occasionedi crescita personale.La principessa Nausicaa, illuminata da Atena, soccorre con dolcezza lo straniero,e lo aiuta nel suo progetto di ritorno in patria.4 Cfr. Omero, Odissea, XIX, vv. 392-395, trad. it. di G.A. Privitera, Milano, Fondazione LorenzoValla Arnoldo Mondadori Editore, 1985-1990.Temi ed esperienze 95


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdisseaAréte e Nausicaa sono esempi di forte identità femminile, che Omero arricchiscecon particolari descrizioni.Aréte attua pienamente il cerimoniale dell’ospitalità. La regina vuole offrire il meglio allostraniero. Ospitalità è anche sinonimo di cultura della “differenza di genere”. L’elementofemminile segna una lenta, ma profonda transizione educativa e sociale. Si afferma nellacultura greca e non solo come elemento identificante. Tra i Feaci, ad esempio, le decisioniimportanti sono prese con una fattiva e concreta partecipazione anche dell’elemento femminile.Basti pensare alla posizione decisiva di Aréte in merito all’aiuto concesso ad Ulisse.Esempi di pari incisività educativa, però, sono rappresentati anche da Calipso e Circe.La ninfa occulta nel suo confortevole antro l’eroe, per ben sette anni. Importante la suafunzione narrativa, ma ancor più la sua valenza pedagogica. Numerose le analogie con Circe.Calipso è occasione di confronto e crescita per lo straniero. È l’assolutizzazionedel desiderio femminile. Calipso è ostacolo e sprone per la crescita di Ulisse. Loblocca, infatti, nella sua isola. A seguito dell’ordine di Zeus, però, Calipso divieneoccasione e strumento di crescita per l’eroe. Egli non ha fiducia nei confronti dellasua “dolce carceriera”. La ninfa, però, lo rassicura sulla necessità del suo ritorno,offrendogli ospitalità prima e assistenza nella realizzazione della zattera dopo.Ulisse si riconferma eroe della scelta. Vive un profondo dilemma tra un’immortalitàanonima e un’esistenza mortale, ricca dei ricordi delle esperienze vissute.Non avrebbe mai potuto accettare un dono illusorio; nessun mortale si sarebbemai potuto impegnare in un eterno rapporto d’amore. L’itacese è un eroe errante,identificato dalla speranza di un approdo definitivo al luogo caro, irrinunciabile:Itaca. La ninfa maliarda chiede all’eroe un impossibile contraccambio per il suovantaggioso dono, ma Ulisse è segnato dalla necessità del rientro in patria.Calipso con il suo comportamento comunica una reale condivisione e compartecipazionedelle sofferenze di Ulisse. Rinuncia a un amore, che è stato rubato dalla volontà divina,affinché Ulisse compia il suo destino. Accetta, sia pur con dolore, il volere della divinità, infrangibilee ineluttabile. L’eroe, dal suo canto, cresce grazie a questo amore, comprendendosempre più come la sua identità sia legata alla necessità del ritorno in patria.In realtà la permanenza nell’isola di Calipso ha rinsaldato ulteriormente il “desideriodi umanità” di Ulisse e la ricerca di una personale e autentica identità. Ladea è immortale e senza vecchiaia, Ulisse, però, desidera ugualmente tornare dallasua Penelope. Non importa che il ritorno alla sua identità richieda enormi sacrifici,egli è pronto a patire di nuovo, ad affrontare innumerevoli peripezie.L’amore di Calipso è supremo atto donativo; serve a chi dona, ma anche a chi vuole ed ècapace di accogliere il dono 5 . Calipso asseconda Ulisse in tutto, lo lascia andare senza rancore,confidando nel suo bene. Amore è donarsi, ma anche sacrificarsi per il bene altrui.Notevoli sono gli spunti di riflessione pedagogica, che anche la maga Circe propone.Forte e significativo il contributo che la sua femminilità offre alla paidéia di Ulisse.La maga accoglie caldamente il sovrano di Itaca, angosciato nel ricevere la sua5 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 91; cfr. A. Bellingreri, Per una pedagogia dell’empatia,Milano, Vita e Pensiero, 2005.96


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdisseairrifiutabile ospitalità. Amore, odio tra i due. L’una tenta i suoi incantesimi, mainvano, quindi chiede pietà. L’altro la aggredisce e ne esce vittorioso. Si compie laprofezia. Cessano le ostilità tra i due, affinché si possano unire e scambiarsi reciprocafiducia. Palese il cambiamento di comportamento di Circe. Si confronta conil sovrano itacese e si perde nella loro unione d’amore.Passo dopo passo, il nostro eroe compie la sua paidéia. È costretto a superare difficoltà esoprattutto se stesso. Gli ostacoli sono insiti nel suo essere uomo. La sua dimensione individualematura grazie alla dea. Sarà Circe con i suoi preziosi suggerimenti a fornire all’eroe lachiave del successo di questa ennesima avventura, il suo viaggio di ritorno a Itaca.Circe e Calipso h<strong>anno</strong> instaurato con l’eroe un vero rapporto di philía, di amore.H<strong>anno</strong> desiderato Ulisse e, a malincuore, se ne sono separate, sapendo che laseparazione era a fin di bene, voluta dal destino.Ulisse costituisce la sua identità attraverso speciali “rapporti di amore” con la differenza.Crea due rapporti forti, tali per cui in ogni caso il partner è diventato l’altromio 6 . È il caso di Calipso, di Circe, ma anche di Penelope. Tra gli amanti si stabilisceuna tacita e reciproca garanzia di appartenenza, che si rinnova continuamente.L’eroe di Itaca è consapevole delle difficoltà, ma anche dell’ineluttabilità del suodestino, che è comune agli uomini di tutte le generazioni. È il mistero della vita,che lo guida e lo sorregge.Last but not least la fedele sposa Penelope, donna paziente, sa soffrire. La suatela è strumento di difesa e di lealtà nei confronti del marito, ma anche metaforadell’esistenza stessa. Penelope assurge a paradigma di una femminilità, che riescea ritagliarsi un proprio “spazio”. Non si piega al ruolo e al confinamento che lasocietà e il marito Ulisse potrebbero assegnarle 7 . La regina di Itaca rappresenta unnuovo orizzonte identitario, sa di non essere come Ulisse, né vuole esserlo.È l’eroina dei sentimenti, del fermentum che si genera nel suo animo. Mantienefermi i valori riconosciuti coram populo. È exemplum di femminilità e differenza digenere saldamente connotata, creatrice di nuovi e forti rapporti. Separa con straordinariachiarezza due ruoli femminili. Il primo è legato a una idea non propositivadella femminilità, assimilata a mansioni prettamente domestiche, l’altro a unaidentità che crea nuove relazioni – basti pensare all’incontro con il marito – checonferiscono all’eroina una nuova identità femminile.Tutto ciò è indicativo di una transizione culturale in atto. Siamo in una societàin cui la donna vive una condizione di segretezza e di confino, dalla quale la regina,con la forza della sua dignità, vuole uscire.Come Ulisse è eroina della métis (“senno, saggezza, prudenza”). È speculare al marito,è il suo alter ego femminile. La regina, esperta tessitrice, come lo sposo architettaun abile ing<strong>anno</strong>. La sua intelligenza e astuzia consistono proprio nella azione femminiledel tessere e disfare la tela 8 . Solo apparentemente accetta un ruolo femminile6 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 83.7 A. Cavarero, Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 23.8 Ivi, p. 20.Temi ed esperienze 97


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdisseaimpostole dall’ordine simbolico, che vede la donna in paziente attesa del marito eattenta alle pratiche domestiche. Penelope sceglie il silenzio e la più tipica delle attivitàfemminili dell’antichità, per assurgere ad archetipo di una nuova e attiva identitàfemminile. Penelope è condizione necessaria e indispensabile del ritorno di Ulisse.L’Odissea non è solo la glorificazione di Ulisse, ma anche di Penelope. I due coniugidevono riconoscersi tali. Penelope spiega che possiede con Ulisse dei segni inequivocabilidella loro identità, che nessuno conosce. Chiederà allo sposo la chiave identificativa delloro amore. Ulisse comprende che la sua identificazione deve necessariamente passare attraversoaltre prove. Momenti e difficoltà lo migliorer<strong>anno</strong> e gli consentir<strong>anno</strong> di palesarela sua vera identità. L’accorta personalità di Penelope è “perfettamente speculare a quelladi Ulisse”. Egli accetta la momentanea indifferenza della regina, dovuto all’aspetto pocoregale, comprendendo l’incredulità della moglie. Ulisse sceglie di confrontarsi con Penelope,concordando con lei quale sia lo strumento migliore per testare la sua identità.È il “miracolo del riconoscimento”, che dona nuova luce ad Ulisse, che potrà finalmenteabbracciare la consorte. Egli toglie all’alterità ogni opacità, perché Penelope si ricongiungecon l’agognato sposo. Tra i due vi è un sistema di segni, che li rende sintoni e autentici.Penelope e Ulisse superano il reciproco risentimento, l’una per essere stata messaalla prova, l’altro per non avere ricevuto subito l’accoglienza sperata. I due sonoprovati, ma il loro amore ne è uscito migliore, più forte.Un’altra dura prova, però, “senza misura”, attende i devoti amanti. Penelope vuol sapere,non vuole attendere dopo il dolce sonno. È necessario che si compia la profezia diTiresia. Solo dopo avere conosciuto popoli altri, i due potr<strong>anno</strong> ricongiungersi serenamentein vecchiaia. Penelope comprende che questa prova renderà migliore Ulisse. I duesi abbandonano al desiderato amore e Penelope gode dei lunghi racconti del marito.Il reciproco riconoscimento rinsalda e rifonda il loro legame nuziale. Ulisse raccontaanche di Calipso, del dono rifiutato dell’immortalità. Attraverso la reciprocaagnizione Ulisse recupera, finalmente, l’io autentico e il loro “amore proprio”. Illoro rapporto ha alla base un progetto etico-morale, consolidato da questa esperienzaestrema. Egli si confronta a fondo con Penelope, perché è colei che puòconsentirgli di “trarre un più alto sentimento” di se stesso.Il catalogo dei feminina si chiude con un personaggio particolarmente importantenel percorso formativo dell’eroe: la dea Atena. È figura chiave nel percorso dimaturazione di Ulisse e compagna fedele in ogni sua avventura.Atena sente una reale e concreta condivisione con il suo “amico”, che patisce interre lontane dolori, vittima di raggiri ad opera di maghe maliarde.Stimola, provoca, sprona continuamente Ulisse e gli infonde coraggio. La dea ha un“preciso progetto formativo”: rendere migliore il suo pupillo. Gli dà consigli validi sucome agire. Funge da educatore e secondo padre per Telemaco. Si conferma così discreta,ma costante, presenza nella vita di Ulisse e di coloro che egli ama. Interviene in alcuni momenti,rendendo padre e figlio più forti e/o più belli. Riversa opportunamente sul giovaneTelemaco grazia divina. L’educatrice “facilita” in parte il travagliato percorso dell’eroe.Crescere è difficile, ma è un passo necessario per diventare degno erede di un tale padre.Le tecniche pedagogiche di Atena sono incisive, talvolta difficili a comprendersi e98


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdisseacomportano dure esternazioni. È una figura femminile, che, per la maturità e la consapevolezzaattribuitale da Omero, rappresenta davvero un momento ineludibile di crescita, dimaturazione ed esempio per i suoi allievi. Ulisse, uomo moderno, grazie a lei, ha imparatoa sopportare, a non protestare più, a “sintonizzarsi” con il proprio destino (móira).Le figure femminili dell’Odissea interagiscono concretamente con Ulisse. L’attod’amore – è il caso di Calipso, Circe e Penelope – è una spinta verso l’Altro, perespandere e superare il soggetto stesso. È il tentativo, sia da parte maschile che femminiledi “trapiantarsi nell’Altro”, aggiungendogli qualcosa, ma anche guadagnandola.È il tentativo di preservare la propria identità, ma anche di creare qualcosa dinuovo, che sia qualcosa “di più”.Privarsi del proprio amato è il gesto d’amore più grande che le eroine possanocompiere (Circe, Calipso), ma anche attenderlo per vent’anni per l’adempimentodella propria missione (Penelope), o guidarlo nel suo percorso di vita (Atena), odargli l’estremo materno saluto (Anticlea).Calipso e Circe soffocano in sé il dolore del discidium con Ulisse e, per il suobene, ne accettano il ritorno in patria. Penelope, invece, aspetta l’amato consortevent’anni e accetta che subito dopo riparta per l’ultima missione, prima del definitivoritorno in patria e del godimento di una serena vecchiaia.Nel suo viaggio di conoscenza, Ulisse comunica sempre con le donne amate.La sua è una comunicazione aperta attraverso un ricordo che è sempre forte in lui.Questo amore resta sempre vivo e pronto a direzionare le sue forze verso altro.È una memoria giusta quella di Ulisse. Le gioie conosciute attraverso Calipso eCirce, l’inebriante canto delle Sirene (“goduto” legato ai ceppi dell’albero maestro dellanave) diventano parte integrante del background esperienziale dell’eroe di Itaca.La ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensione dell’alterità,che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amore che l’altro ci puòoffrire. È il caso delle eroine che incontriamo. Questi personaggi, con i loro sguardi ecomportamenti, attivano azioni positive in Ulisse, che cerca sempre la loro approvazione.Il femininum e il masculinum interagiscono, si differenziano, lottano per conquistareuna nuova identità e finalmente si riconoscono l’uno arricchito dall’altro.*Docente di pedagogia sociale, Facoltà di Scienze motorie, Università di PalermoBlibliografiaCANTARELLA E., Itaca: eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli, 2004.COSTANTINO D., Ulisse e l’Altro. Itinerari della Differenza nell’Odissea, Milano, FrancoAngeli, 2007.LORAUX N., Il femminile e l’uomo greco, Roma, Laterza, 1991.LORAUX N., a cura di, Grecia al femminile, Roma, Laterza, 1993.PANCERA C., La paideia greca: dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici, Milano, Unicopli, 2006.PRIVITERA G.A., Il ritorno del guerriero: lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005.VERNANT J.P., Le origini del pensiero greco, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 1997 4 .VERNANT J.P., C’era una volta Ulisse: e anche Perseo, Polifemo, Circe e Medusa, trad. it. di I. Babboni,Torino, Einaudi, 2006Temi ed esperienze 99


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienzeIl percorso vale più della metaLa mano nel cappello: dal libro ad un convegno per intravedere nuovi orizzontinelle professioni sociali che si occupano della persona con disabilitàAnnamaria Bianchi Cesareo*Nello scambio comunicativo tra chi scrive e chi legge appare utile trovare leparole per trasferire il senso dei contenuti. Vorrei provare a farlo raccontando unadelle tappe, che registro con soddisfazione, nella storia del percorso che da anni hointrapreso professionalmente.L’idea di realizzare La mano nel cappello, cioè l’incontro tra operatori interessatialla questione della disabilità, appartiene alla convinzione che solo la costanza neltenere aperti spazi culturali, di ricerca e di studio, inneschi processi migliorativi dellacondizione umana. Gli operatori sociali che si occupano di disabilità sono chiamatiquotidianamente ad interrogarsi, sono delegati alla cura, ma anche a leggere imutamenti dei contesti interni ed esterni in cui si esprime l’esistenza della personacon handicap grave. Questo cammino professionale è costellato di situazioni difficilida sostenere e da affrontare. Il sistema dei servizi, nonostante aggiornamentie riforme, appare un sistema che corre il rischio di essere ingessato da normative,orari e schede di programmazione che tendono a prevalere sulle storie soggettivedelle persone di cui ci occupiamo. A loro vogliamo dedicare un tempo speciale einsostituibile: dall’osservazione alla riflessione, allo studio e alla comprensione delleistanze, siano esse comunicate verbalmente o con i comportamenti.Anche a noi stessi appare utile dedicare un tempo speciale, affinché ci sia spazioper accogliere le nostre istanze, quelle che ci sorprendono nei gesti e nei rituali delservizio, quelle che ci portiamo a casa e accompagnano i nostri pensieri, a volteinvolontari, a volte curiosi e interessati.Per questo si è sentita l’esigenza di istituire un tempo dedicato a porre a confrontoriflessioni ed esperienze. Avviare un processo culturale intorno alla questionedella disabilità, che a partire dal convegno del 23 gennaio a Fino Mornasco(Co), si snodasse nel tempo, promuovendo azioni, coinvolgendo le istituzioni etutte quelle figure professionali che contribuiscono nei territori a garantire i dirittidi cittadinanza a tutte le persone.I temi della mattinata portavano due punti di vista diversi, ma entrambi utiliper la ricerca di senso del nostro lavoro. Un concetto comune: “preservare la dignitàdella soggettività”. Dobbiamo essere capaci di porci il problema. Finché eviteremodi farci delle domande, non potremo cercare le risposte.Giovanni Merlo, direttore dell’Associazione LEDHA, ha provocato stimoli diriflessione di un certo spessore, invitando l’assemblea di 120 persone a rifletteresull’attualità della condizione della persona con disabilità, riferendosi alla ConvenzioneONU sui diritti delle persone con disabilità, qualcosa di più specifico rispet-100


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/temi_ed_esperienze/Il_percorso_vale_più_della_metato alla Dichiarazione dei Diritti Umani. Ha illustrato una proposta da prendere sulserio, con cui non è più possibile non confrontarsi.Angelo Villa, psicoanalista e supervisore di numerosi gruppi di lavoro dei serviziper la disabilità, ci ha tenuto strettamente attenti e partecipi al tema del “direqualcosa di nuovo”. Il nuovo non è ciò che viene per ultimo, ma è qualcosa cherompe con il consueto. Il fulcro sta nel fatto che la soggettività del disabile può trovarevoce nel momento in cui incontra la soggettività dell’operatore. La soggettivitàfunziona per entrambi. Come cercare di dire qualcosa in proposito rinunciando a“cose scontate”? Come porre al centro del nostro lavoro la riflessione sulla soggettività?In cinque punti declinati, ci siamo portati a casa un bel po’ di carburanteper ripartire nel nostro percorso professionale e umano. “Un giorno insieme” traoperatori del sociale, che svolgono ruoli professionali differenti, ma che grazie alleattività dei gruppi pomeridiani, h<strong>anno</strong> trovato un rinnovato entusiasmo nel riscontrareche le loro difficoltà sono quelle di altri e che le loro proposte sono condivisibili,nella considerazione di “essere in un percorso” che nel tempo, a scansionidi tappe periodiche, innesterà quel germoglio di cambiamento socio-culturale, ritenutonecessario per l’espressione della reciproca soggettività.Dal suo libro La mano nel cappello sono sgorgate riflessioni corroboranti peraprire il confronto, per discutere, per crescere professionalmente e per affrontare imutamenti del contesto, sapendo promuovere innovazione di servizio e valorizzazionedei diritti umani.*Presidente Coop. Sociale Il Mosaico, Bulgarograsso (Co)Temi ed esperienze101


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<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/culturaAngelo VillaA due VociNon dimentico la risata che mi feciquando una mia amica bibliotecariami chiese se Davide Van de Sfroos, ilsublime bardo “laghée”, fosse originariodel paese dei tulipani. Questioni diprovenienza geografica, probabilmente.Per me che avevo trascorso unaparte consistente della mia infanzia edella preadolescenza “su per i bricchi”,giusto sopra quel ramo del lago diComo, immortalato dal grande (ebbene,sì) don Lisander Manzoni, il problemadella corretta interpretazione diquel nome d’arte non si è mai posta.C’ero abituato. Mia nonna, amorevolecerto, ma tosta e asciutta come unacima della Grigna, quel nome, infatti,me lo appioppava spesso, come unrimprovero. Fagocitandoil mio sensodel dovere che, giàsin da piccolo, nonabbisognava d’essereincoraggiato. Pena lasua successiva trasformazionein un sadicostrumento di tortura(e di godimento) aduso esclusivamentepersonale. Quandolei, donna di chiesa,supponeva o scoprivache io avevo combinatoqualche pasticcioo qualche, lo giuro,innocua trasgressione,mi accusava diavere l’aria sfuggente,evasiva. E, quindi,sospetta. Mi colpevolizzava,sperandoche tradissi l’ipoteticamalefatta. In po-Benito MazziNel sole zingaro.Storie di contrabbandieriInterlinea Edizioni, Novara, 2007pp. 140, € 12,00Da alcuni anni mi interrogo su unadifficoltà di linguaggio che mi trovoad affrontare e alla quale mi sembravadi non trovare risposta. La difficoltà èinerente all’uso del dialetto. Sono cresciutoin un ambiente bilingue, doveaccanto all’italiano, nelle relazioni siusava quasi sempre il dialetto, l’italianoera riservato alle occasioni ufficiali,alle interazioni con le istituzioni pubbliche,all’ambiente scolastico. Neglianni, allontanandomi dal mio paese, leoccasioni di lunghi discorsi in dialettosi sono fatte più rare ma nell’ultimoperiodo, tornandovi in modo più frequente,assisto ad uno strano fenomenonegli incontri con amici o parenti:mi sembra che mi manchino le paroleper esprimermi indialetto. Ho attribuitoall’inizio questedifficoltà alladisabitudine, mala risposta mi sembravainsoddisfacente.Mi sono poiaccorto che questadifficoltà insorgequando devo esprimermisu argomentiche sono lontanida quel mondo,vuoi per contenuti,ma soprattutto peresprimere sentimentiod emozioni.Sembra quasi chequel linguaggio siamonco, manchi dialcune possibilità,sia privo di paroleper uscire da quegliorizzonti, sia ade-Ambrogio Cozzi104


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/a_due_vociche parole, dato che parlava dialetto,additava la mia condotta come tipicadi quelli che “ van de sfroos” , a cui eroall’istante assimilato. I contrabbandieri,insomma. Quelli, cioè, che h<strong>anno</strong>qualcosa da nascondere. E che quindi,a loro volta, si nascondono, tirano viafrettolosamente, cercando e sperandodi non essere visti o notati. Mia nonna,in quell’improbabile italiano cheavrebbe gettato nella più cupa e rassegnatacosternazione anche il più rozzodei linguisti, su eventuale richiesta italianizzavaall’occasione l’espressione,proponendo un quasi letterale “andardi sfroso”. Chissà, ma qui è la mia benevolenzae la mia gratitudine verso dilei a stravolgere la realtà, magari contandosu una analogia significante conun vocabolo che gli fa da eco come “difrodo”. Chi, ad esempio, pesca di frodoè infatti ben possibile che, in ragionedel reato che sta commettendo, sene vada di “sfroso”.Ovviamente, l’interpretazioneè tirata per i capelli. Ilbisticcio , però, mi si è incastrato nellamemoria, simile a un chiodo, fisso perl’appunto. A testimonianza, alla facciadel super-io, del fascino che quelli chev<strong>anno</strong> di “sfroso” conservano per me.In particolare, aggiungo, la loro figuraè a miei occhi enfatizzata dal luogo cuiinevitabilmente sono associati, quellodella frontiera.Debbo confessare che sono rimastodispiaciuto quando in Europa, lefrontiere sono state, quasi, abolite.Mi ricordo, infatti, in passato, quandoci si avvicinava a un Paese straniero.La frontiera, nel bene comenel male (penso ai Paesi dell’Est oalla Spagna franchista), era un luogo.Uno spazio a se stante, una terraguato ad un mondo piccolo, chiuso.Una sorta di universo autosufficienteche nomina le cose vicine ma faticaad accogliere e dire cose lontane. Unmondo di cose immediate che quasipossono essere indicate invece chenominate, dove le parole sono ancoraaderenti alle cose, fatto di silenzi suisentimenti e sugli affetti.Questa premessa mi è sembrata necessariaper introdurre uno dei motivipiù interessanti del testo di BenitoMazzi. Mi è sembrato di ritrovareanche lì questa difficoltà, risolta attraversocostruzioni sintattiche che cercanodi rendere conto della chiusuradel mondo della valle Vigezzo, dove ilracconto è ambientato. Chiusura chesi ritrova come contenuto nei distacchiche avvengono da quel mondo e checoincidono o con la discesa a lavorarea Milano, lontananze su cui cala il silenziodei protagonisti, di cui si coglielo spaesamento, lo smarrimento nellalontananza, solo per cenni, mezze parole.Sembra che anche qui manchinole parole e che il ritorno coincida conil chiudersi nelle abitudini e in quellinguaggio che sa dire quel mondo, maè afono sul resto del mondo.La valle si chiude, e si chiude proprioin prossimità di una linea di confineche viene continuamente attraversato,quasi a disegnare una aleatorietà delconfine per un verso e a tracciarne unaltro, più consistente, che è il confinedi un mondo segnato dalla miseria. Iconfini tracciati dalla Storia non coincidonocon quelli delle storie, le epocheche il testo di Mazzi attraversa bendelineano questa discrepanza, questadifferenza che segna le esistenze; nellepieghe della Storia si insinuano leCultura 105


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/a_due_vocienigmatica tra un Paese e un altro.Un Paese immaginato, prima ancorache reale, proprio grazie a un confineche faceva sorgere la fantasia su quelche stava aldilà. L’emozione era garantita,perché si passava, è il termineesatto, da una cultura, da una lingua,da una storia a un’altra. Da un mondoche si conosceva a un altro menoconosciuto. Il confine materializzaval’idea di un transito, non solo realema simbolico. Ora, i contrabbandierisono quelli che illegalmente continuanoa passare. I “passeurs”, perdefinizione, come i protagonisti deiromanzi di Biamonti, apprezzati daCalvino, un sanremese. Ambientatiintorno alla linea di confine che, apochi chilometri dalla città dei fiori,separa l’Italia dalla Francia.Benito Mazzi con il suo Nel sole zingaro.Storie di contrabbandieri ci porta,invece, da un’altra parte, in valVigezzo, la valle dei pittori, sopraDomodossola. La frontiera è quella,stavolta, con la Svizzera. Il contrabbandiere,cioè lo “sfrosìno”nel lessicodi Mazzi, è un povero Cristo, un eroepopolare. Fuori legge per necessità.O, forse, chissà per recondita passione.Un personaggio in grado di animareun immaginario romantico dicui Mazzi ricostruisce l’epica di untempo che sembra distante anni luceda quello attuale, nel mentre vi si allontanasolo di qualche decennio. Lamemoria, ormai, è corta, si nutre avidamentesolo dell’ambizione insoddisfattadel presente. Il resto non conta.Bene fa, dunque Mazzi, a ricordarcida dove veniamo. I racconti che compongonoil libro sono tessere di unstorie dei soggetti, la attraversano, nerisentono i colpi ma non si esaurisconoin essa. Si vedano le pagine cheanalizzano come le decisioni politichesi ripercuotono sulla vita dei contrabbandieri,oppure quelle dedicate allepartenze per il servizio militare che siprolunga perché interviene una guerra,e pr alcuni non c’è più ritorno.Ma il testo di Mazzi indaga ancheall’interno di quel mondo, riesce lì atrovare le parole per consegnarci unmondo rigido, segnato da valori socialiimmobili e immobilizzanti, fattodi relazioni segnate dalla violenzadell’esclusione, dove anche le scelteaffettive sono segnate dalla famiglia edalle convenienze economiche, doveanche il denaro accumulato con ilcontrabbando non apre ad altri orizzontima segna una differenza cheviene esibita in feste interne alla piccolacomunità, momenti di svago peri pochi intimi. Qui il contrabbando,privato di orpelli romantici, si legaa scelte che includono la violenza, ilrischio di morire per qualche fucilataper poter sopravvivere, per potersfuggire ad un destino di povertàsentito come immutabile. Le paginededicate all’immediato dopoguerraci tratteggiano questo mondo continte dolenti, la parola viene affidataalle cronache dell’epoca, si fa asciuttanell’elencare episodi e morti.Questa parte si stacca dallo sfondocome capitolo a se stante, nelle pagineprecedenti e in quelle che seguonoi soggetti sono dotati di vita, vengonoseguite le loro storie, a volte a partiredall’infanzia, a volte li incontriamoall’improvviso già adulti, caratterizza-106


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/a_due_vocimosaico che si declina sullo sfondo diun mondo povero e dolente, sebbenenon privo di orgoglio e dignità, comequello della montagna. Mia madre ela sua gente lo riassumeva in una formula,quella delle “tre effe” che, tradottenella lingua italiana, corrispondonoa fame, freddo e fastidi. Pocoda mangiare, poco da scaldarsi, tantiproblemi. Quando venne in città aggiunseun’altra effe, quella di fumo: lefabbriche. Altri tempi, insomma. Uncontrabbandiere, uno “sfrosìno”, unospallone si portava sulla schiena qualcosacome trenta o quaranta chili diroba. Avanti e indietro per la Svizzera.Scambiava merce contro altra merce.Era il suo lavoro, a metà tra bisognoe ricerca di libertà. I doganieri, la finanzarappresentavano i suoi acerriminemici. Ma, attenzione, non eraun gioco. La vita era , infatti, non dirado la posta in palio. Si scappava, sisparava e, come scrive Sinigaglia nellasua presentazione, soprattutto sirischiava la pelle…Mazzi sostiene che “col sacco in montagna,dopo il ’60, ormai non sfrosavapiù nessuno in Vigezzo”. Ora, aggiungecon una nota di tristezza, ilcontrabbando ha altri volti, inseguealtre strade. Nessuno si avventurapiù per sentieri scoscesi e pericolosi,come un Ercole solitario e inquieto,confortato da un’unica compagna,ovvero la luna, la “tenue luna deicontrabbandieri”; cioè, per l’appunto,ecco svelato l’enigma del titolo, Ilsole zingaro. Leggerlo fa bene comeguardarsi in uno specchio non compiacente,inviso a Narciso. Colonnasonora consigliata: Davide Van deSfroos. Ci sono dubbi?ti da una vitalità che si esprime nellaribellione, una ribellione non soloall’arbitrarietà dei confini, ma anchealle regole di vita della valle, quelleregole che scandiscono il ritmo dellerelazioni sociali, e alle quali i protagonistisfuggono per scelta, per la decisionedi sottrarsi ad un destino amaro.In questa scelta si costruiscono solidarietà,legami che rimangono chiusiall’esterno vuoi per la sopravvivenzanecessaria per quel “mestiere”, vuoiperché si legano ad un’estraneità piùprofonda, a cicatrici di cui non si puòparlare, perché le parole non ci sono(si veda il silenzio che cala sul passatodi spazzacamino in città di uno deiprotagonisti).Ci sono scene in cui si riesce a ridere,episodi buffi o francamente comici,episodi in cui sembrano riecheggiarele risate carnascialesche di Gargantuae Pantagruel analizzate da Bachtin,ma in quelle risate rimane un fondotragico, quasi a segnare la marginalitàdi quei gesti come piccole rivincite diuna ribellione destinata a perdere controil destino segnato dalla Storia.Un come eravamo che ci riporta alleradici di quel mondo non per inseguiresciocche nostalgie, ma per ricordareun mondo che è rimasto senzamemoria e che solo nella forma diricordi che ingigantiscono e rimpiccioliscono,affidati ai racconti oralipermane oltre la sua scomparsa. Ritrovarela parola di quel mondo è ilpregio di questo testo che cerca di restarefuori dalle mitizzazioni e di trovareun discorso che ne parli e lo fissiper noi come un’immagine in unospecchio poco rassicurante ma forsepiù veritiera.Cultura 107


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/culturaScelti per voiLibri, musica, cinemaa cura di Ambrogio CozziFranco LolliPercorsi minoridell’intelligenza.Saggio di clinicapsicoanaliticadell’insufficienzamentaleFranco Angeli,Milano, 2008, pp.144 ,€ 16.00Cos’è l’intelligenza?La domanda potrebbe trascinarsi dietroun dibattito tanto interessante quantoinfinito. Speculazioni su speculazioni, sivola alto. Più interessante e, indubbiamente,più coraggioso è però provare arispondere all’interrogativo, laddovel’intelligenza stessa sembra persino nongodere di un suo diritto di cittadinanza.Espropriata da un umano in cui l’umano,o più esattamente, il “normale” faticaa riconoscersi. E, di conseguenza, ariconoscervi dell’umano.Stiamo parlando della disabilità, aggiungograve. L’individuo avvertitopotrebbe, infatti, facilmente obiettare:sì, ma cosa c’entra, in questo caso l’intelligenza?Non ci troviamo di fronte auna franca, innegabile contraddizione?Il libro di Lolli scava, e come scava!,tale contraddizione con competenza einvidiabile rigore scientifico. Il quesitosi trova quindi capovolto, rovesciato.Sintetizziamolo così: cos’è, cosa puòessere l’intelligenza in individui, perdefinizione, non intelligenti? L’interrogativonon è affatto privo di una suatenace pertinenza, specie allorché nonè, come accade in questo testo, consegnatoa una retorica vacua e ideologica.Quel che, infatti, qui viene messo inprimo piano è l’analisi di come funziona,come si esprime, come cerca unavoce lo psichismo di un individuo segnatoda una grave disabilità. La postain gioco è decisiva, poiché, come il librodi Lolli mostra bene, il problema stessodell’intelligenza finisce per incontrarenecessariamente quello della soggettività,quale manifestazione più autenticae veritiera di un singolo individuo. Piùil deficit è devastante, più il problemadell’intelligenza ha, del resto, meno ache fare con una questione “cognitiva”,con il dilemma di una facoltà e più inveceaderisce all’essenza stessa dell’esseredel soggetto. Sino a rappresentarne ilnodo più radicale. E’ qui, infatti, che sicoglie il senso della prospettiva cui mirail testo di Lolli: evidenziare il funzionamentodell’intelligenza o della soggettivitàin individui portatori d’handicap.Cioè, in definitiva, indicare la presenzadi quel che denota, caratterizza un lavorodell’umano in situazioni di oggettivacarenza, testimoniandolo attraversouna ricerca clinica attenta e rispettosa.Alla luce del pensiero analitico, Percorsiminori dell’intelligenza offre un panoramaesaustivo e ben documentato delladialettica che presiede al processo dicostituzione della soggettività nel disabile,focalizzandone le impasse, senzaper questo dimenticare la tensione vitaleche, non senza fatica, sopravvivenelle pieghe dell’affacciarsi del soggettoall’incontro con l’Altro. Decisamenteun testo utilissimo e stimolante per chilavora e vuole riflettere, in maniera non108


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voisuperficiale e sbrigativa, sulla disabilitàe sull’enigma che essa pone ai cosiddettinormali.Angelo VillaEugenio Gaburri,Laura AmbrosianoLa Spinta a esistere.Note cliniche sullasessualità oggiBorla, Roma, 2008,pp. 200, € 23.00Bush va in una scuolaelementare e la maestradice ai bambiniche possono fare qualsiasi domanda alpresidente, allora si alza il piccolo Bob edice: “Signor presidente avrei tre domandeper lei: perché ha deciso di fare la guerraall’Iraq? Perché ha voluto fare tanto maleal popolo iracheno? Perché al primo mandatoè stato eletto senza la maggioranzadei voti?” Il presidente non fa in tempoa rispondere perché suona la campanelladell’intervallo. Al termine della ricreazionerientrano in classe e la maestra dice chepossono fare tutte le domande che vogliono,allora si alza il piccolo Sam e dice:“Signor presidente avrei cinque domandeper lei: perché ha deciso di fare la guerraall’Iraq? Perché ha voluto fare tanto maleal popolo iracheno? Perché al primo mandatoè stato eletto senza la maggioranzadei voti? Perché la ricreazione è iniziataventi minuti prima? dov’è Bob?”Riprendo questa storia dalla pagina 16del testo perché mi sembra di poterlautilizzare come bussola di lettura. Gliautori analizzano casi non eclatanti didisturbi della vita sessuale, sottolineandocome inquadrarli nell’ambito delleperversioni possa portare ad un grossofrainteso, che non ne permetterebbe lacomprensione. Questi disturbi nella vitasessuale si collegano con una rinunciaa vivere, con una paura a riprendere ledomande di Bob. La plasticità della vitasessuale, ai confini tra natura e cultura,impregnata dagli umori di entrambe,ben si presta ad essere il campo in cuiqueste paure si svelano, o meglio si rivelano,nel senso che la sessualità permettedi calare un nuovo velo, di evitarel’impatto con domande che porterebberoad una necessità di differenziazione.Necessità di differenziazione rispetto aduno sfondo indistinto al quale si sente diappartenere, indistinto perché nell’appartenenzasi è cosa, si è parte di un tuttoomogeneo, di un blob come dice uno deipazienti citati nel testo. Ma in questa indistinzione,l’appartenenza gioca un ruolorassicurante, garantisce un’esistenza alriparo dalle scelte che l’incontro con lasessualità invece ripropone. Da qui unavita sessuale degradata, impoverita, quasinulla, per continuare a stare nella sicurezzadel riparo e per tentare di mantenerequesta sicurezza si replica nella vitasessuale l’indifferenziazione. La replica èuna ripetizione dell’identico senza la percezionedi alcuno scarto, come un’operateatrale che viene appunto replicata. Laripetizione può però configurarsi comeuna ripresa, come un’opera teatrale puòessere ripresa, cambiando il regista e lascenografia, introducendo quindi un elementodi novità che permette una differenza,che permette di chiedere dov’èBob. Gesto vitale che crea un’uscita dallaprotezione assumendosene i rischi, odetto in altri termini mettendo in giocoil proprio desiderio.Le domande di Bob, nelle loro impertinenza,sono le domande che si situanoCultura 109


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voinell’infanzia, alla lettera nel fuori linguaggio,nel bambino che ognuno accudiscee che trama le relazioni con i proprifigli, in una trasmissione tra le generazioniche inconsciamente impedisce che lafamiglia faccia da sfondo al singolo posizionandolonell’indistinzione o in postisimbolici che altri h<strong>anno</strong> lasciato vuoti.In questo intreccio tra le diverse generazionisi trasmette quell’appartenenzainvischiante e al contempo rassicuranteche genera la paura del vivere, che impediscele scelte e in cui il soggetto si senteallo stesso tempo prigioniero e protetto.Sono queste le paure che poi si declinanonel degrado della vita sessuale, cheimpediscono di cogliere l’ingresso nellasessualità come occasione di differenziazionee di incontro con l’altro. La vita ègiocata al risparmio e l’altro si configuracome simile o alieno, la curiosità, l’interesseviene abolito, il mondo esterno è unmondo di nemici, luogo dell’ignoto chespaventa, palcoscenico delle paure agite.La domanda di analisi può assumere allorauna duplice valenza. La prima come luogoin cui venga accolta una testimonianzache allora qualcosa è accaduto. Evidenziamoi due termini allora e accaduto. Lievidenziamo perché introducono sia unascansione temporale rispetto ad un passatoche nell’oggi può essere ripreso, siaperché non tendono a cercare altre testimonianze,altre certezze, ma accolgonoappunto la verità del paziente non in toniconsolatori, ma come verità che ritrova laparola indistricandosi negli agiti del passato.Testimonianza perché la parola scavae circoscrive un non detto che pesa, cherischia di configurarsi come impossibile adirsi, trasmettendosi poi ad altre generazionicome un’eredità silente.Il secondo aspetto è quello di coglierela paura del paziente. Su questo invitoa rileggere nel testo l’analisi di un raccontodi Conrad, in particolare l’analisidel momento in cui il capitano coglie lapaura di Mark, sottraendosi alla sfida,evitando di situarsi nel posto che la follagli indica e si attende da lui. E’ lo scorgerela paura che permette al capitano,come ben scrivono gli autori, di accogliereil passato di Mark, di permetterglidi trovare la parola per narrare l’orrore ela colpa. E’ la paura di uscire dal noto edal rassicurante, perché percepito comeprotettivo, che accompagna i pazientiincontrati nel testo, la paura della catastrofenell’incontro con l’ignoto, e cheporta a vivere una vita al risparmio, unavita che spesso si riduce a sopravvivenza,e che nella sessualità si svela.La domanda centrale diviene allora sevalga la pena vivere, vivere come scelta enon come sopravvivenza, scegliere di lasciareil fardello che tanto pesa ma tantoè rassicurante, uscire dal gruppo per avventurarsinel rischio dell’esistenza. Noncredo che tutto si riduca al fare i conticon la morte, con la possibilità di morireche è insita nell’esistere. Penso piuttostoche gli autori si riferiscano alla possibilitàdi vivere come vita activa come scrivevala Arendt, cioè una vita in cui sia data lapossibilità di trovare margini nel gioco,anche se le regole sono stabilite, le cartesono state distribuite, ognuno può deciderecome giocarle. In questo invito vedola dimensione etica del lavoro analitico,nell’accompagnare ognuno a riprendereil gioco invece che a replicarlo.L’altra linea di lettura del testo, moltorilevante, la individuo in un sommessoinvito alla laicità della psicoanalisi,meglio a recuperare un atteggiamentolaico che forse negli anni si è perso. Le110


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voipagine dedicate al pericolo che la teoriasi trasformi in ideologia sono veramentepreziose per chiunque eserciti questaprofessione. Se l’ideologia è importanteper fare gruppo, se spesso intorno ad essasi fa gruppo anche in campo psicoanalitico,gli autori invitano a ritornare allateoria, al lasciarsi interrogare da ciò che ipazienti dicono e vivono, a cogliere dietrole apparenze le domande centrali chei pazienti portano. La chiusura in gruppirassicuranti, cementati dall’ideologia, èuna possibilità che attrae anche gli psicoanalisti,evitando proprio quell’aperturaalla novità e alla differenza che l’incontrocon ogni paziente comporta e che portaalle identificazioni nel gruppo attraversol’individuazione del nemico, sempre allaricerca di garanzie di partenza che permettonodi eludere il peso del passato,l’eco del silenzio di chi abbiamo perso,dimenticando Bob e le sue domande,scordando quell’impertinenza per certiversi sfrontata ma vitale.Dov’è Bob?Ambrogio CozziAntonio ErbettaPedagogia e Nichilismo.Cinquecapitoli di filosofiadell’educazioneTirrenia StampatoriTorino, 2007,pp. 144, € 18Si può tenere comefilo conduttore nellalettura del testo unadomanda posta dall’autore nell’introduzione“Quale orizzonte politico per unimpegno pedagogico che tenti di suturare lazeppa che separa il soggetto e la storia?”.E’ nel tentativo di cercare lo spazio peruna risposta che il testo si snoda da Nietzsche,per cui “l’educarsi” deve essere“sempre un educarsi contro il proprio tempo,aprendo in tal modo alla prospettivadel tragico come condizione attiva dellaformazione dell’uomo”. Da questa condizioneattiva nella formazione si inseguonopoi i fili in Bataille, nelle riletturadi un racconto di Filippini e in Pessoa eOttieri. La nozione di nichilismo vienedeclinata dall’autore come “negazionedei valori correnti”, individuando quindilo spazio pedagogico come sottratto alconformismo culturale e all’illuminismosenza dialettica, configurando il nuovocampo come “luogo della coscienza culturaleentro cui il soggetto tenta la carta dellapropria formazione esistenziale”.Le righe precedenti erano necessarie perevitare di cadere in risonanze semanticheconfusive sul termine nichilismo,inseguendo echi romantici o autodistruttivi.Qui il nichilista si configuracome “colui che del mondo qual è giudicache non dovrebbe essere, e del mondo qualedovrebbe essere giudica che non esista”.Tra sottrazione ad accettazione passivadella realtà con un contestuale rifiutodell’ideale, si scava lo spazio della pedagogia,sottraendosi in tal modo a due esigenzeche apparentemente contrapposterinviano entrambe alla pedagogia comeeducazione all’obbedienza, alla capitolazionedel soggetto, alla rinuncia ai purristretti ambiti di libertà esistenti.Il richiamo alla dimensione tragica nonè casuale, se individuiamo nella tragediail luogo della lacerazione, della messa inscena dell’enigmaticità del mondo, maanche il luogo dove viene esaltata l’assunzionedi responsabilità, dove divenendotitolari delle nostre azioni possiamosuturare le lacerazioni dell’esistenza,Cultura 111


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voianche se ne restano le cicatrici.Quindi il rinvio al nichilismo, così precisatodall’autore, e il suo legame conla tragedia, individuano il lavoro pedagogicocome non garantito ma anchecome sottratto al rinvio all’ideale, econfigurano la possibilità di una pedagogiaa “proprio rischio e pericolo”, nelsenso che essa comporta un’assunzionedi responsabilità verso l’altro e verso ipropri atti il cui esito non è garantito.La non garanzia rimanda allora ad uneffetto sorpresa che provoca una sortadi spaesamento, di incompletezza, cheErbetta individua bene nella sua analisidel racconto di Filippini.Pedagogia e nichilismo è un testo che rimettein campo l’assunzione di responsabilitàindividuale, sottraendosi al lamentofacile sull’esistente, al rimpianto di altreepoche, invitandoci a vivere la nostra, unrichiamo etico alto, che ci <strong>anno</strong>da al passato,ma per evitare di esserne schiavi, aduna pedagogia come “messa in questione,nell’angoscia e nella febbre, di ciò che unuomo sa del fatto di essere”.Ambrogio CozziGaurav Suri, HartoshSingh BalUna certa ambiguità.RomanzomatematicoPonte alle Grazie-Adriano SalaniEditore, Milano,2008, Pagine 360€ 16,80Il “Romanzo matematico”, come recitail sottotitolo, affronta il tema filosoficodella ricerca della certezza e la matematicasi propone, direi quasi inevitabilmente,come modello, come frutto ideale delpensiero umano, al quale ispirarsi; solo inquesta disciplina infatti sembra valere ciòche può essere dimostrato attraverso unacatena logica di passaggi sostenuta da definizionie assiomi iniziali assolutamentecerti e regole di deduzione esplicite: “Tommaso(Ceva) sosteneva che (il libro 1 degliElementi di Euclide) era come un’opera diBach: partiva da poche sempilici definizioniche davano il tono e modulava postulati checrescevano a ogni proposizione, laddove ognimovimento aveva infinite e sorprendenticonnessioni con quelli che lo precedevano,culminando nel gran finale del teorema diPitagora” (pag. 253).La vicenda è quella di Ravi Kapoor, unragazzo indiano, che a diciotto anni lasciail suo Paese per frequentare l’Universitàdi Stanford negli Stati Uniti. Qui viene aconoscenza del fatto che fa da filo conduttoredi tutto il romanzo:Vijay Sahni, suononno, un eminente matematico amantedel jazz, adesso scomparso, ma al qualeRavi era particolarmente legato, era statochiamato in gioventù dall’Università diMorisette, un piccolo centro vicino a NewYork; sempre in questa città era stato poiarrestato con l’accusa di blasfemia, per unsuo discorso, fatto in una pubblica adunanza,nel quale aveva negato l’esistenzae l’essenza di Dio. Attraverso le cronacheriportate su vecchie copie del MorisetteChronicle e documenti di archivio contenentii discorsi in carcere tra il matematicoe il giudice Taylor sul problema dellacertezza, discorsi in cui si fa largo uso diargomenti matematici, Ravi ripercorretutta la vicenda giudiziaria del nonno.Nel frattempo Ravi, spinto da un amico,decide di iscriversi al corso di matematica“Pensare l’infinito” del dottor Nico Aliprantis,anche questi appassionato di jazz112


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voie suonatore di sax. Inizia così per Ravi eper un gruppo di suoi tre compagni unperiodo intenso “fatto” di musica e di matematica,nel quale, con la guida di Nico,domina l’esperienza profonda e affascinantedell’incontro con tutte le problematicheche l’infinito matematico (l’infinitamentepiccolo e l’infinitamente grande) pone:molte pagine del libro sono dedicate ai risultatiche Cantor, Hilbert, Godel h<strong>anno</strong>ottenuto in questo ambito e a quelli cheBolyai, Lobacevskij e Riemann h<strong>anno</strong>ottenuto nell’ambito delle cosiddette geometrienon euclidee, tutti esposti con unachiarezza che è merce veramente rara.Nello svolgersi del romanzo la storia deicolloqui del nonno col giudice Taylor siintreccia costantemente con quest’ultimaesperienza e i pensieri e le riflessioni che essaproduce sul problema filosofico della certezza;il risultato, forse anche stavolta inevitabile,è che questo cammino porta, di fatto,al di fuori del contesto della matematica perripresentarsi, sgradito ospite, altrove.Una certa ambiguità è un libro nel qualepercorsi letterari e matematici si incrocianocon grande abilità e che proponeun cammino di lettura non usuale mache vale la pena di intraprendere finoalla fine.Marco TaddeiMaria ZambranoPer l’amore e per lalibertà, scritti sullafilosofia e sull’educazione(a cura di A. Buttarelli)Editrice Marietti,Milano 2008pp. 208, € 24,00Non sono sicura di essere entrata davveronello spirito di Maria Zambrano, masicuramente la sento intrigante, comesempre quando la filosofia viene visitatada una donna. In ogni caso riscontronel suo dire espressioni che travalicano iconfini (e questo mi sta bene), ma anchetermini legati a contesti di conservazioneo, quanto meno, datati (quale l’affettodiscepolare che la fa dipendente dalmaestro Ortega y Gasset); nell’insiemeci debbo ancora pensare.Recentissima è uscita la traduzione diun libro di suoi interventi “sull’educazione”già edito in Spagna da Angel Casadoe Juana Sanchez-Gey (Maria Zambrano,Per l’amore e per la libertà, scrittisulla filosofia e sull’educazione, a cura diAnnarosa Buttarelli, Marietti, 2008)che mi ha suscitato non poco interesse.A prescindere dagli equivoci che possonosorgere dalla sua predilezione, peresempio, per il temine vocazione usataper l’ arte del maestro, alcune notazionisono realmente affascinanti. Mi soffermosul valore dell’nfanzia.A partire dal suo far riferimento allanascita e alla vita - che la collega adHannah Arendt, quando osservava cheOmero chiama gli uomini “i mortali”e non (come direbbe una donna) “iviventi” - Maria, nella parte Sull’educazionee sull’insegnamento (1949-1977),dice a proposito dell’infanzia: “L’infanziaè un vero continente mai abbastanzaesplorato perché è l’immediata continuazionedella cosa più decisiva e misteriosadella vita: la nascita. Forse, fino a ora, lamorte ha ossessionato la mente occidentalemolto più della nascita, ma la verità è cheparlare di morire non è gran cosa rispettoall’essere nati”. E’ davvero sull’essere vivoe sentirsi unico che si fonda ogni trasfor-Cultura 113


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voimazione morale, spirituale e anche fisica.Zambrano sostiene che “nascere nonè un fatto riducibile all’essere. L’uomo è,prima di tutto, un nato, un essere viventenato” . Risulta evidente che Heideggernon aveva mai partorito se non pensieri.“Rivelazione”, dunque, fondamentalenon è essere per la morte, ma “trovarsinati nella vita ed essendo; essendo già eandando verso l’essere”. Per questo l’infanziaè “una continuazione della nascita,il nascere che si fa manifesto” e che vivesotto il segno della dipendenza dal cibocognitivo come da quello alimentare.“Se fosse possibile scoprire il coefficientedi desiderio nell’epoca dell’infanzia, siavrebbe un’indicazione di estrema importanzanel futuro. Ma il desiderio, quellatensione aperta a ricevere tutto, dipendein gran parte dall’ambiente; tanto l’estremainsoddisfazione come l’opposto possonosciogliere ma anche fissare in manieraindelebile il desiderio illimitato in coluiche è sottomesso al suo dominio”. Ma viè anche un’altra tendenza del desiderio,che “procede dall’essere che lotta per la suaindipendenza, senza rendersene conto....eporta un essere umano fino al suo ultimodispiegarsi, la radice stessa della libertà,dell’inesorabile libertà”. E’ qui che appareil senso del futuro, la creazione deltempo propriamente umano: “il desiderioelementare che si aspetta tutto inrealtà non sbuca da un prolungato presente;se permanesse al suo interno, l’esserenon avanzerebbe di un passo, anchese lo sviluppo fisiologico dell’organismoproseguisse normalmente...”. Il progettoeducativo di Zambrano vede nella chiusuradell’orizzonte cognitivo implicitonel desiderio che non si evolve la causadell’infantilismo e il ritardo mentaledel bambino dominato dall’avidità. Latendenza verso il futuro “già presentenel primo involucro della nascita”, vienesostenuta e fatta crescere nella famigliae nell’educazione. Affrontare la realtàpropria di soggetto e del mondo che staattorno da ogni parte trova il bambinoin condizioni di solitudine e di conflittualità:i genitori (spesso ignari dellacomplessità dei processi educativi) inprimo luogo, poi i maestri e gli adultiin genere debbono aiutarlo a usciredall’infanzia, senza fargliela perdere deltutto. Zambrano dice, con un termineun po’ arcaico che l’infanzia resta comepatria indistruttibile. Infatti “l’infanzia èil luogo che si porta sempre con sé nel benee nel male....è la tappa iniziale della vitache dev’essere superata come le altre, maalla quale si dovrà ricorrere una e un’altravolta ancora, e non solo in virtù dellanostalgia, ma per il fatto che è l’infanziail luogo in cui ci siamo risvegliati alla vitadall’interno della cura, della tenerezza e,quasi sempre, dell’amore”.Giancarla CodrignaniLuisa FressoiaProfumo di pane.Voci, storie e memoriedel ‘900.Raccolta di autobiografiedall’UmbriaAli&No Editrice,Perugia 2007,pp. 152, € 16,00Il volume raccogliele memorie scritte da un gruppo di 10anziani nati in Umbria e che vivono aPerugia o nei paesi intorno alla città,sulla valle del fiume Tevere.Le storie ripercorrono i grandi cambia-114


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/scelti_per_voimenti che h<strong>anno</strong> segnato il secolo appenatrascorso, in particolare il passaggiodalla società rurale e contadina allasocietà del benessere. Esse ci raccontano,in una lingua ogni volta originale,i traumi e l’entusiasmo, soprattutto ivalori attorno a cui si susseguono e siintrecciano gli eventi, e che determinanole scelte, i comportamenti, i gesti, leparole di uomini e donne e bambini; cidescrivono in forma minuziosa la vitache si svolge nella casa contadina, il sognoche segue di una casa di proprietàe il sopraggiungere delle macchine checambiano la vita nelle campagne.“Questo libro è una celebrazione dei valoridi un’intera generazione”, scrive nellaprefazione Laura Formenti: “il valore/passione del sapere, del capire, dell’onestà,della democrazia, della convivenza e dellaconvivialità, ma anche della personaamata”.E le storie raccontano della madre edel padre, della determinante funzioneeducativa da questi svolta, della forza,ancora presente, che il loro amore haimpresso nella propria vita. “Valori, che- rileva la curatrice Luisa Fressoia - lungidal rimanere astrazione o idealità, si materializzanonella famiglia, nella scuola,nella chiesa, nella comunità, nel paese,cioè in tutte le strutture deputate all’educazionee alla socializzazione di quellestesse persone. Si manifestano nell’etica dellavoro, nella solidarietà, nel rispetto delleIstituzioni (…) affiora dalle storie la consapevolezzadi un bisogno di elevazione odi “trascendenza a cui le persone rispondonoin varie forme…”L’amore e i valori, ancora, sembranoessere il filo conduttore dei ricordi; attornoa questi le memorie si aggreganoe diventano una Storia a tutti gli effetti,dotata di una trama, con una propriacoerenza e organicità.L’invito a scrivere di sé è stato raccoltocon creatività generosa dagli autori diqueste storie, che ci consegnano, attraversoi delicati affreschi della quotidianità,le voci, le credenze, i misteri e glistessi luoghi della memoria; tratti cheaccompagnano l’esistenza e l’incredibilevitalità di questi autobiografi, i qualisvolgono una parte molto attiva ancheoggi da pensionati, e che ci rimanda alconcetto di cura, nel suo senso più profondodi “avere a cuore” se stessi e glialtri.Cultura 115


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/culturaARRIVATI_IN_REDAZIONEGrazia Honneger FrescoI figli, che bella fatica. Il mestiere del genitoreEdizioni dell’Asino, Roma, 2008, pp.184, € 14.00Il duro ed esaltante mestiere del genitore in un contesto socialesempre più difficile e condizionato dall’invasività dei mediae del modello consumistico. L’educazione e la genitorialitàdi fronte alla prima infanzia e all’adolescenza. Si tratta di untema sempre più importante di fronte al ruolo negativo cheh<strong>anno</strong> le altre “agenzie educative” delta nostra società. L’effettoinvasivo della TV e la crisi del sistema scolastico assegnanoai genitori un ruolo sempre più importante…Halima Bashir, Damien LewisLa bambina di sabbiaSperling & Kupfer, Milano, <strong>2009</strong>, pp. 325, € 18.00Le tiepide notti nel deserto del Darfur e le dolci ninnananne maternesono i primi felici ricordi di Halima, una giovane donna della tribù neradegli zaghawa, nata e cresciuta in un villaggio ospitale nel sud della regione.Motivata dalla forza di carattere, Halima impara presto ad affrontarele difficoltà: si oppone con orgoglio alle compagne e alle insegnanti arabeche la discriminano, riesce a laurearsi e diventa il primo medico dellasua comunità. Intanto, però, la minoranza araba al governo scatena unaferoce campagna repressiva contro le popolazioni nere...Daniel WoodrellUn gelido invernoFanucci. Roma, 2007, pp. 224, € 15.00Ree Dolly è una ragazzina delle campagne del Missouri, esile epallida, e passa le sue giornate prendendosi cura della madre malatae dei fratelli minori. Suo padre, Jessup, è uscito di prigione impegnandola fattoria per pagare la cauzione, e poi ha fatto perderele proprie tracce. La data del processo si avvicina, e se l’uomo nonsi presenterà in tribunale, la casa verrà confiscata. È così che Ree,spinta dalla forza della disperazione, indossa un vestitino giallo...La paura di essere padreMagi., Roma, 2007, pp. 171, € 16.00La paternità rappresenta, da sempre, un ambito particolarmenteproblematico. Ce lo raccontano i miti, ce lo svela laBibbia, continua a testimoniarlo la quotidianità. Può sembrarequasi un paradosso che, mentre la psicoanalisi tutta di fattosi fonda sul Padre, alla paternità venga dedicato così pocospazio. Ogni neo-padre ripercorre la storia evolutiva lungamillenni e i grandi temi mitici vengono rivissuti ogni volta...116


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/cultura/arrivati_in_redazioneHenry KrystalAffetto, trauma, alessitimiaMagi., Roma, 2007, pp. 475, € 44.00È un volume sull’equilibrio emotivo dell’individuo e sui processiche lo creano e lo sostengono, sugli eventi che lo minanoe, qualche volta, lo distruggono e sulle modalità di cura – siapsicoterapeutiche che autoterapeutiche – che cercano di ripristinarlo.L’alessitimia, la difficoltà a riconoscere e a descriverei propri sentimenti, rappresenta il punto focale dell’interatrattazione…Fulvio De GiorgiIl medioevo dei modernistiEditrice La Scuola, Brescia, <strong>2009</strong>, pp. 352, € 24.00Il volume, che coniuga la storia dell’educazione e della pedagogiacon quella della cultura italiana tra Ottocento e Novecento,focalizza l’attenzione sul periodo del modernismo.Partendo dallo studio di Fogazzaro, Gallarati Scotti, Semeriae Murri fino a Tocco e Prezzolini...Dario Ianes, Vanessa MacchiaLa didattica per i bisogni educativi speciali. Strategie ebuone prassi di sostegno inclusivo. Con cd-romCentro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 200, € 19.50Il libro presenta una metodologia di didattica speciale, cioè piùefficace e più umana, alcuni metodi specifici di lavoro e varie“buone prassi” realizzate. L’insegnante avrà così a disposizioneuna cornice culturale generale, modelli operativi ed esempi...Monica T. Whitty, Adrian N. CarrIncontri@moci. Le relazioni ai tempi di internetCentro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 256, € 16.00Con un ricco apparato bibliografico e solidi dati di ricerca ilvolume esamina le implicazioni relazionali dei nuovi media:in che modo le relazioni online sostituiscono, integrano,entrano in conflitto o amplificano quelle tradizionali o neinaugurano di nuove? “lncontri@moci” è un arguto saggiosull’identità e l’alterazione della rappresentazione di séCultura 117


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/Copenaghenin_vistaL’educatore socialein un mondo globalizzatoAIEJI XVII World Congress, Copenhagen, 4-7 May <strong>2009</strong>Il presidente dell’AIEJI (Associazione Internazionale Educatori Sociali), BennyAndersen non ha dubbi: il convegno AIEJI di Copenhagen sarà un’opportunitàunica per tutti i membri della Federazione Nazionale degli Educatori Sociali difare una straordinaria esperienza e di scoprire cosa succede negli altri paesiincontrando altri colleghi dall’estero.Benny Andersen invita tutti a partecipare al XVII Convegno AIEJI: “Cogliete l’occasione eraggiungeteci! Sarà divertente oltre che un importante momento di riflessione”, dice, anche se,con il suo entusiasmo rischia che il numero dei partecipanti sia oltre la soglia prevista.“Ci organizzeremo. Possiamo tranquillamente arrivare a 1.000 persone e anche di più” diceBenny Andersen con uno sguardo che lascia trapelare la preoccupazione di far quadrare iconti. In particolare quando promette ingressi gratuiti ai 200 volontari che sono necessariper l’organizzazione e le 350 famiglie che offrir<strong>anno</strong> ospitalità agli ospiti stranieri.All’ultimo convegno mondiale in Uruguay, il vicepresidente della SL è stato eletto presidentedel network globale degli educatori sociali. Per lui questo congresso di quattro giornidi Copenhagen riguarda molto più che le mere politiche educative.Si tratta di avere un’esperienza personale che conta almeno come una settimana di formazione, se non comepiù settimane. Quasi a costo zero. Andersen pensa che i datori di lavoro dovrebbero concedere dei permessiretribuiti durante il congresso. Sicuramente sarà valsa la pena di aver fatto questo investimento.Pratica e teoria“Incontrerete educatori dai più svariati paesi di provenienza, eppure si scoprirà che i loro problemisono simili ai vostri problemi. Incontrare colleghi e pari in questo modo accresce molto, favoriscela riflessione e porta nuove conoscenze che sono spendibili poi nel proprio lavoro”, dice.Benny Andersen stenta a trovare le parole giuste per descrivere l’energia che si viene a creare quandoquasi un migliaio di educatori sociali con un background così differente si trovano a discuteredi educazione sociale – non di counselling o lavoro sociale in generale, ma esattamente dell’intersezionetra persone, organizzazioni e politiche sociali dove gli educatori si trovano ad operare.“Metteremo insieme le relazioni degli esperti alle discussioni al creare contatti: il convegno saràun misto di workshop e interventi teorici con l’apporto dei migliori teorici e operatori sul campodel mondo.” promette il presidente dell’AIEJI.Il suo entusiasmo è sincero e frutto della sua esperienza personale, dapprima come partecipanteal Convegno di Barcellona del 2001 e tre anni fa di nuovo a Montevideo dove venneeletto presidente.Ama il lavoro internazionale, gli incontri in paesi lontani e dal punto di vista personale eprofessionale la sua è una vera e propria passione. Cominciò nel 2001 quando partecipò aBarcellona con altri 11 educatori dalla Danimarca.“Due degli altri danesi conducevano un workshop, il primo sulla psichiatria infantile e il secondosul lavoro con i senzatetto mentre noi semplicemente partecipammo al convegno. Mi aprìletteralmente gli occhi” dice.Rompere il ghiaccio nell’educazione socialeNel 2001 il Congresso mondiale verteva sul tema piuttosto sterile della documentazione e118


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/Copenaghendella qualità. “Partecipai a un workshop dove due operatori di un’istituzione americana di reinserimentodi delinquenti minori spiegavano come lavorano sulla valutazione. Quella istituzionespendeva il 10% del loro budget sulla documentazione e la riflessione. Al workshop partecipavanotrenta persone e i due conduttori, nel migliore stile americano, snocciolavano dati sulle performancee risultati misurabili. Quando arrivammo alla domanda della sessione tutto divenne molto piùconcreto. Chiesi loro se dovevano preparare tutta quella documentazione per far piacere al lorosponsor, la Kellogg’s, ma in realtà essi erano più interessati al processo che non ai risultati. Avevanotrasformato le conoscenze empiriche in conoscenze misurabili, con tanto di dati e numeri, e questaparte era praticamente obbligatoria nel loro tirocinio così come lo era per gli operatori riflettere ecercare di migliorare la loro professionalità”, dice Benny Andersen. Nel loro budget e per ognieducatore sociale erano previsti 20.000 dollari per lo sviluppo di competenze e 5.000 dollariche gli educatori erano liberi di spendere in corsi di formazione a loro scelta.“Ciò che mi colpì è quanto poco valore diamo al nostro lavoro. Come educatori sociali produciamocontinuamente nuove conoscenze attraverso la nostra pratica. Se tutto va bene le condividiamocon i nostri colleghi o le appuntiamo sul nostro notes, ma non si va più in là di quello”dice Andersen.Era il 2001. Quando Andersen tornò a casa dal congresso era stato ispirato dai workshop edesiderava lavorare su percorsi di qualità all’interno della sua associazione, la SL. Da alloraha organizzato dei viaggi di istruzione nelle istituzioni del Michigan i cui operatori h<strong>anno</strong>poi visitato la Danimarca.“Abbiamo avuto dei risultati concreti: i due libri pubblicati sul miglioramento attraverso la qualitàsono diretta conseguenza del lavoro cominciato proprio nel workshop di Barcellona”, spiega.Il contatto personaleSempre a Barcellona Benny Andersen ha incontrato un catalano, Jordi, e dopo qualchebirra, una sera sono diventati amici e lo sono da allora. Come Benny anche Jordy è unsindacalista attivo, ma lavora anche con i senzatetto nella periferia di Barcellona.“Eravamo stati all’Assemblea Generale nel pomeriggio e avevamo sostenuto ognuno il nostro candidatoalla presidenza. Di sera avevamo continuato a discutere e infine eravamo riusciti a capire inostri diversi punti di vista. Da allora ci siamo incontrati molte altre volte. Mi ha fatto conoscereBarcellona e lui è venuto a visitare Copenhagen e a vedere concerti rock” spiega Andersen.Benny stimava così tanto Jordi da proporre che si candidasse per le elezioni della presidenza AIEJInel 2005. Che la stima fosse reciproca fu chiaro quando Jordi propose, nello stesso momento cheBenny si candidasse. Tutto ciò avveniva nel Congresso Mondiale di Montevideo, Uruguay.“Per me come educatore sociale era molto interessante visitare un’istituzione di un ghetto chelavora con i bambini di strada. I loro metodi sono diversi dai nostri ma come denominatorecomune abbiamo che gli educatori sociali devono relazionarsi con le condizioni che ci fornisce lasocietà, non importa se sia a Rio o in Danimarca”, dice Benny.“E’ sorprendente quante cose ci uniscano. Siamo uniti nel cercare di portare attenzione sulleconseguenze delle decisioni politiche. Dobbiamo agire politicamente se vogliamo fare il nostrolavoro fino in fondo – vale a dire essere la voce di chi non ha voce”.Andersen sapeva già tutto ciò ma fu una grande esperienza fare migliaia di kilometri per arrivarealle stesse conclusioni attraverso una prospettiva completamente diversa, quella dei bambinipoveri e di un’istituzione quasi altrettanto povera che faceva un’impressione tremenda.RispecchiarsiMa al Congresso non si avrà solo modo di trarre ispirazione dal resto del mondo ma si avrà anchela percezione della prospettiva degli altri riguardo le pratiche europee o nazionali, in questo caso,danesi. Benny Andersen dice di averlo sperimentato egli stesso al Congresso di Montevideo.“Durante un workshop degli uruguaiani mi chiesero come lavoravamo. Gli raccontai del personalenei centri residenziali e di come sia importante lavorare sulle relazioni” racconta Benny.Cultura 119


<strong>Pedagogika</strong>.it/<strong>2009</strong>/<strong>XIII</strong>_1/CopenaghenGli altri partecipanti del workshop trasalirono. In molti paesi latino americani normalmentevi è un educatore sociale ogni 20 ragazzi. “Dopo lo stupore iniziale mi chiesero: ‘e chirimpiazza l’educatore quando i ragazzi poi devono andare avanti con la loro vita?’ E avevanoragione perché dovremmo essere consci che i legami personali per quanto possano essere forti sonocomunque transitori”, dice.Benny Andersen è sicuro che anche al Congresso di Copenhagen gli educatori avr<strong>anno</strong>modo di avere esperienze simili con le proprie istituzioni e pratiche professionali messe indiscussione dai visitatori stranieri e conclude quindi con l’invito a partecipare al convegnopoiché se le pratiche e le istituzioni danesi sono conosciute dai più di certo non lo sono lereazioni internazionali ad esse.Articolo tratto da SocialPaedagogen, n. 65Traduzione di Nicoletta Re CecconiLe iscrizioni sono aperte online sul sito www.aieji<strong>2009</strong>.dk dove si trovano anche altre informazionisul Congresso.La dichiarazione di MontevideoCome educatori sociali dobbiamo capire la complessità della globalizzazione per analizzaree valutare i possibili sviluppi della nostra professione nel mondo globalizzato.Le nostre competenze professionali sono messe in discussione – quelle competenzeche abbiamo definito come professionali nella Dichiarazione di Montevideo al XVICongresso Mondiale dell’AIEJI nel 2005 come segue:Riaffermiamo e confermiamo l’esistenza del campo dell’educazione sociale come uncompito specifico teso ad assicurare i diritti delle persone per le quali lavoriamo, e cherichiede il nostro impegno continuo a livello etico, tecnico, scientifico e politico.Per svolgere questo impegno il ruolo dell’Educatore Sociale deve essere consolidatoattraverso l’integrazione in gruppi di lavoro e organizzazioni.Questo compito richiede che l’Educatore Sociale abbia una buona formazione inizialee permanente.La sua formazione deve focalizzarsi sulla pratica con una continua analisi critica.Consideriamo il processo della sistematizzazione della pratica professionale un importantemodo di contribuire alla formazione, all’accrescimento professionale – che è undiritto degli utenti dell’educazione sociale e all’approccio dei nostri obiettivi politici epedagogici.Riaffermiamo che l’etica deve essere un riferimento continuo, concepito e perseguitocollettivamente con la partecipazione critica dei soggetti.Come Educatori Sociali rinnoviamo il nostro impegno per la democrazia e la giustiziasociale, difendiamo il nostro patrimonio culturale e i diritti di tutti gli esseri umani.Siamo convinti che un altro mondo è possibile.Montevideo, 18 novembre 2005120

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