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in collaborazione con<br />

illibro<br />

del<br />

mare


illibro<br />

del<br />

mare


testi<br />

Roberto Giangreco<br />

illustrazioni<br />

Francesco Cometto<br />

grafica<br />

www.kromosoma.com<br />

stampa<br />

Grafiche Vieri<br />

stampato in carta ecologica<br />

2008 <strong>Legambiente</strong><br />

www.legambiente.eu


indice<br />

prefazione<br />

introduzione<br />

cap 1 elementi di ecologia<br />

cap 2 elementi di oceanografia di base<br />

i fattori abiotici<br />

i fattori biotici<br />

cap 3 caratteristiche degli ecosistemi marini<br />

cap 4 gli ambienti del mare<br />

cap 5 il Mediterraneo, le sue caratteristiche e specificità<br />

cap 6 la prateria di posidonia<br />

cap 7 le coste<br />

sistema dunale<br />

macchia mediterranea<br />

stagni salmastri e laghi costieri<br />

cap 8 la pressione dell’uomo sugli ecosistemi marini<br />

l’in<strong>qui</strong>namento<br />

la pesca incontrollata e la pesca abusiva<br />

il turismo selvaggio<br />

la pressione sulle coste<br />

cap 9 i cambiamenti climatici<br />

il cambiamento climatico e il mare<br />

la meridionalizzazione del Mediterraneo<br />

la tropicalizzazione del Mediterraneo<br />

l’invasione delle specie aliene<br />

cap 10 il futuro che ci aspetta<br />

appendice<br />

gli abitanti del mare<br />

il mare d’inverno<br />

attività per i ragazzi<br />

4<br />

5<br />

6<br />

10<br />

11<br />

12<br />

14<br />

18<br />

20<br />

22<br />

26<br />

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29<br />

31<br />

34<br />

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39<br />

41<br />

41<br />

42<br />

44<br />

44<br />

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46<br />

48<br />

52<br />

62<br />

66<br />

3


4<br />

Il mare non è mai stato amico dell’uomo.<br />

Tutt’al più è stato complice della sua irre<strong>qui</strong>etezza<br />

(Joseph Conrad)<br />

Vascelli pirati e mostri marini, terre di con<strong>qui</strong>sta e tesori da scoprire.<br />

Il mare delle imprese avventurose di Conrad, delle fantastiche esplorazioni del Nautilus e del<br />

suo Capitano, re dei nostri sogni di bambini, non più complice ma amico, oggi affida la sua<br />

sorte proprio a noi.<br />

Superate le ancestrali paure abbiamo imparato ad usarlo, talvolta nel peggiore dei modi.<br />

Rubandogli l’ossigeno, uccidendo i suoi predatori, scaricando nei suoi fondali rifiuti di ogni genere.<br />

Nel lungo viaggio di questi anni ho visto recuperare in pochi metri d’acqua le cose più<br />

assurde. Lavatrici, pneumatici, motorini, batterie esauste, lattine e plastica ma anche armi, bombe<br />

di profondità, siluri. Rifiuti che il tempo di una vita non riuscirà a cancellare, ma che in soli 50<br />

anni attaccati dalla ruggine diventeranno pericolosi. Se è vero come dicono che la natura sviluppa<br />

i suoi anticorpi e risponde ai veleni producendone di nuovi per difendersi, non voglio immaginare<br />

cosa sarà il futuro del nostro pianeta blu.<br />

Ma il mare come sta? Ci chiediamo in continuazione.<br />

Sopravvive, rispondiamo. Anzi risponde agli sforzi che, grazie all’infaticabile missione di<br />

associazioni ambientaliste come <strong>Legambiente</strong> a cui dobbiamo essere grati, sono stati fatti in<br />

questi anni per la sua tutela.<br />

Non c’è riserva o Area Marina Protetta dove l’effetto parco non abbia dato straordinari risultati.<br />

La rete di Amp di cui il nostro Paese si è dotato ha confermato che la strada della tutela integrale<br />

di alcune zone è quella giusta, moltiplicando in pochi anni la risorsa, reintroducendo specie<br />

oramai scomparse, riproducendo l’indispensabile biodiversità.<br />

Gestione integrata della fascia costiera, controllo della cementificazione, organismi di<br />

coordinamento e controllo internazionali, rispetto delle regole internazionali e degli accordi siglati<br />

dagli Stati più sensibili all’emergenza ambientale, sono le nuove sfide da sostenere.<br />

Ho imparato in Galizia, durante il disastro del Prestige, che ognuno di noi deve fare la sua<br />

parte. A Finisterre, Roberto Giangreco, in veste di esperto per il Servizio Difesa Mare del Ministero<br />

dell’Ambiente, mi ha mostrato una piccola pallina nera galleggiante. Era una infinitesima parte<br />

della marea nera che stava invadendo le coste spagnole, francesi e portoghesi, una minuscola<br />

goccia di greggio che portata dalla corrente avrebbe potuto arrivare ovunque e come quella<br />

milioni di altre. Anche quella andava rimossa e per farlo bastava una sola persona.<br />

Li voglio vivi è un inno alla consapevolezza. È il risultato di una vita dedicata alla natura,<br />

all’ambiente, al mare.<br />

È il libro giusto per chi ha voglia di trovare la propria goccia di mare da difendere.<br />

Donatella Bianchi<br />

Giornalista, conduttrice di Linea blu


Li Voglio Vivi compie dieci anni<br />

Nel corso del tempo la campagna ha posto all’attenzione del grande pubblico e delle scuole l’affascinante mondo<br />

del mare e delle coste italiane; ha cercato di presentarne, in modo divulgativo ma scientificamente corretto, un quadro<br />

completo, partendo dalla storia naturale degli organismi che lo popolano e dalla descrizione dell’ambiente fisico, della<br />

dinamica e del funzionamento degli ecosistemi marino-costieri, analizzando le minacce che ne mettono in pericolo la<br />

sopravvivenza e gli scenari futuri che il cambiamento climatico prospetta al Mare Nostrum.<br />

Per non disperdere il patrimonio di esperienza accumulato nel corso di questi anni, patrimonio che ha dimostrato<br />

di essere ampiamente gradito ed apprezzato dai ragazzi e dagli adulti che sono entrati in contatto con questa campagna,<br />

abbiamo pensato insieme al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di raccogliere e riorganizzare<br />

il materiale realizzato in un unico volume, che possa consentire al lettore di approfondire in modo sistematico la<br />

conoscenza del nostro mare e delle nostre coste e di comprendere, oltre i pericoli che ne minacciano il futuro, anche<br />

i comportamenti virtuosi che ognuno di noi potrà in prima persona praticare.<br />

Allo scopo di approfondire le tematiche trattate, abbiamo pensato di integrare il testo con delle schede che<br />

consentiranno di penetrare più a fondo i problemi del nostro mare e delle nostre coste, suggerendo percorsi di<br />

sperimentazione seguendo la metodologia dell’inchiesta. Questo lo rende un utile strumento didattico a disposizione<br />

di tutte quelle scuole che hanno seguito nel corso del tempo il nostro progetto.<br />

Buona lettura!!<br />

Sebastiano Venneri<br />

Responsabile Mare <strong>Legambiente</strong><br />

5


1ELEMENTI<br />

DI ECOLOGIA


Il nostro pianeta brulica di vita che colonizza ogni spazio disponibile e che assume miriadi di forme tanto diverse<br />

quanto affascinanti. Batteri, alghe, piante, microrganismi, molluschi, crostacei, vertebrati e l’uomo stesso dipendono<br />

per la loro esistenza da fattori legati alla natura dell’ambiente in cui vivono e ai rapporti che instaurano tra loro. La<br />

scienza che si occupa dello studio di queste relazioni si chiama ecologia.<br />

L'ecosistema è alla base dello studio dell’ecologia e rappresenta proprio il sistema dei rapporti tra le comunità<br />

viventi e il territorio che le ospita, quale che sia la sua dimensione. In un ecosistema abbiamo <strong>qui</strong>ndi due distinte<br />

componenti che interagiscono strettamente tra loro: l’ambiente fisico o biotopo e l’insieme dei suoi abitanti, chiamato<br />

biocenosi o comunità. Il biotopo è un ambiente delimitato da caratteristiche omogenee -come può essere ad esempio<br />

un prato o uno stagno- ed è caratterizzato dal supporto inorganico (suolo, acqua) e da tutti gli aspetti chimico-fisici<br />

(temperatura, luce, nutrienti) che ad esso sono collegati. Tutti gli esseri viventi che popolano un determinato biotopo<br />

costituiscono pertanto nel loro insieme una comunità o biocenosi.<br />

Il termine habitat è un’altra parola che indica l’ambiente fisico, ma è riferita ad una singola specie (ad esempio,<br />

l’habitat del cavalluccio marino è la prateria di posidonia) <strong>qui</strong>ndi è come se fosse l’indirizzo in cui è possibile trovare<br />

un determinato organismo, mentre in un biotopo troveremo numerose specie collegate tra loro.<br />

Sia le singole componenti che l’intero ecosistema funzionano grazie alla presenza di una fonte di energia, che viene<br />

trasformata e trasferita all’interno dell’ecosistema stesso, che si comporta quasi come una macchina il cui scopo è<br />

produrre vita. Salvo poche eccezioni, la fonte di energia di un ecosistema è la luce solare, ma a volte l’energia necessaria<br />

per consentire la sopravvivenza di un ecosistema è prodotta da reazioni chimiche, come nel caso dei batteri chemiotrofi,<br />

che possono così vivere in ambienti privi di luce come gli abissi marini. L’energia proveniente dal sole viene catturata<br />

mediante la fotosintesi dagli organismi autotrofi (chiamati anche produttori primari), ovvero le piante verdi e le alghe<br />

che sono per questo alla base dell’intero ecosistema. L’energia catturata viene usata dalle piante per crescere,<br />

immagazzinando il flusso proveniente dai raggi solari attraverso la produzione di glucosio e altre sostanze organiche,<br />

a partire dall’anidride carbonica presente nell’aria o disciolta nell’acqua e utilizzando i minerali inorganici a disposizione.<br />

Questa materia organica (biomassa) diventa <strong>qui</strong>ndi cibo per gli altri componenti del sistema: gli eterotrofi, cioè<br />

organismi che non sono in grado di ottenere il loro fabbisogno di energia direttamente dal sole ma che devono <strong>qui</strong>ndi<br />

cibarsi o di piante, come gli erbivori (chiamati <strong>qui</strong>ndi consumatori primari), oppure di altri animali come i carnivori (detti<br />

invece consumatori secondari); un’ultima categoria è infine costituita dai decompositori che si cibano della materia<br />

organica disciolta o dispersa nell’ambiente.<br />

Questa struttura composta dagli organismi autotrofi e dai successivi livelli di organismi eterotrofi è chiamata struttura<br />

trofica e ogni suo livello prende il nome di livello trofico. La struttura trofica è una caratteristica di tutti gli ecosistemi.<br />

Il primo livello è costituito dalle piante o dagli altri produttori, che catturano l’energia e la immagazzinano sotto forma<br />

di materia vivente. Il secondo livello dagli erbivori ed il terzo dai carnivori. Man mano che si passa da un livello all’altro<br />

gran parte dell’energia viene persa attraverso il metabolismo degli organismi e la perdita di calore in una percentuale<br />

che va dall’80 al 95% . La struttura trofica assume <strong>qui</strong>ndi una configurazione simile a una piramide a gradoni -per questo<br />

chiamata piramide trofica- con gradoni che diventano sempre più piccoli procedendo verso l’alto, perché il flusso di<br />

energia che passa da un livello inferiore al superiore può sostentare un numero di organismi molto minore. I carnivori<br />

possono a loro volta essere preda di carnivori più grandi, i cosiddetti superpredatori (come leoni, lupi, a<strong>qui</strong>le o squali)<br />

che possono pertanto formare un quarto gradino, il più piccolo. In quest’ultimo gradino possiamo includere anche gli<br />

onnivori, come l’uomo, che si nutrono sia di vegetali che di animali. A completare il funzionamento della struttura<br />

trofica di un ecosistema troviamo i decompositori, che sono organismi (principalmente batteri) che si nutrono dei resti<br />

la struttura<br />

trofica di un<br />

ecosistema<br />

ha una<br />

configurazione<br />

simile a una<br />

piramide a<br />

gradoni<br />

7


8<br />

degli organismi vegetali e animali. I decompositori operano a tutti i livelli della piramide trofica<br />

restituendo all’ambiente le sostanze organiche che verranno poi riutilizzate dalle piante dando<br />

di nuovo avvio al ciclo.<br />

Il trasferimento di energia all’interno di un ecosistema può seguire diversi percorsi; ogni<br />

percorso che trasferisce energia a partire da una sorgente fotosintetica e attraverso una serie<br />

successiva di livelli di consumatori (primari e secondari, cioè erbivori e carnivori) viene chiamato<br />

catena alimentare. La combinazione di tutte le catene alimentari presenti in un ecosistema (un<br />

piccolo gamberetto appartenente allo zooplancton può essere mangiato da una sardina come da<br />

un grande squalo filtratore) è chiamata rete alimentare, che è <strong>qui</strong>ndi la somma di tutti i percorsi<br />

che l’energia compie da un livello all’altro di una comunità o di un ecosistema.<br />

Componenti abiotici indispensabili della struttura trofica sono una sorgente di energia (luce<br />

solare o altro), i nutrienti inorganici e l’acqua. Gli organismi fotosintetici infatti non possono<br />

fissare l’energia e produrre molecole organiche complesse senza la luce solare e senza i nutrienti<br />

inorganici, come i nitrati e i fosfati, mentre l’acqua è indispensabile come mezzo in cui far<br />

avvenire molte reazioni necessarie alla vita.<br />

All’interno di un ecosistema, gli elementi chimici e i componenti organici che compongono<br />

il corpo delle piante e degli animali sono continuamente in circolo tra l’ambiente esterno e gli<br />

organismi stessi: il carbonio che le piante utilizzano per produrre glucosio durante la fotosintesi,<br />

viene prelevato sotto forma di CO2 presente nell’aria o disciolta nell’acqua, e viene poi restituito<br />

all’ambiente attraverso la respirazione o la decomposizione; l’ossigeno viene assunto<br />

direttamente dall’aria o dall’acqua per la respirazione e reinserito nell’ambiente legato al carbonio<br />

sotto forma di CO2; anche l’azoto, il fosforo e gli altri minerali utilizzati dagli organismi per le<br />

complesse reazioni chimiche che sono alla base della vita, sono soggette a questo scambio. I<br />

continui trasferimenti tra organismi e ambiente di queste sostanze vengono chiamati cicli chimici<br />

(ciclo chimico del fosforo, ciclo chimico del carbonio…) e sono fondamentali per la sopravvivenza<br />

dell’ecosistema.<br />

L'ecosistema, con questa complessa struttura che abbiamo descritto, funziona <strong>qui</strong>ndi nel<br />

suo insieme come una macchina che si basa su un e<strong>qui</strong>librio dinamico e che è dotata di capacità<br />

di autoregolazione. E<strong>qui</strong>librio dinamico vuol dire che un ecosistema subisce un continuo<br />

cambiamento dettato dalla necessità di adattarsi ai diversi fattori ambientali, ai loro mutamenti<br />

e alle interazioni tra questi e la grande quantità e varietà di specie animali e vegetali, in perenne<br />

competizione per la con<strong>qui</strong>sta di spazi e risorse. Un ecosistema <strong>qui</strong>ndi, non rimane identico nel<br />

tempo ma, per effetto delle stesse interazioni che si verificano tra i suoi componenti, è destinato<br />

ad evolversi. Ogni ecosistema vive pertanto delle trasformazioni nel tempo, perché tende ad<br />

adattarsi alle condizioni ambientali del momento. La sequenza delle trasformazioni<br />

dell’ecosistema (parliamo di periodi di tempo molto lunghi, da decenni a millenni) costituisce<br />

quella che viene chiamata successione ecologica, che tende a raggiungere prima o poi un punto<br />

di stabilità quando l’ecosistema è in e<strong>qui</strong>librio stabile con quel tipo di condizioni climatiche e<br />

fisiche, questo stadio finale è chiamato comunità climax.<br />

Un ecosistema è in grado di reagire alle sollecitazioni esterne grazie alla sua capacità di<br />

autoregolazione, ovvero la sua capacità di tamponare le variazioni determinate da fattori esterni,<br />

ripristinando il suo e<strong>qui</strong>librio. Ciò naturalmente vale solo entro certi limiti e al di fuori di questi<br />

l'e<strong>qui</strong>librio tra le componenti del sistema può spostarsi in modo irreversibile, determinando<br />

l'alterazione o la morte dell'ecosistema stesso. Quando ad esempio una comunità viene alterata<br />

dall’in<strong>qui</strong>namento, da un incendio, dalla scomparsa di una specie o dall’invasione di nuove<br />

specie, si possono creare grandi cambiamenti nella sua struttura e nella sua capacità di interagire<br />

con l’ambiente, che portano inevitabilmente al formarsi di nuove associazioni sia vegetali che<br />

animali, generalmente molto differenti dalle preesistenti, spesso costituite da poche specie<br />

dominanti, caratterizzate da una grande resistenza e adattabilità e dalla presenza di molti<br />

individui. Questa nuova comunità, che nascendo a seguito di un trauma tende ad essere poco<br />

stabile, troverà con il tempo un proprio e<strong>qui</strong>librio. Con il ripristinarsi delle condizioni originarie,<br />

questa nuova associazione tenderà a recuperare la struttura e la condizione che aveva<br />

precedentemente, che era funzionale alle condizioni fisiche in cui si era formata. Se però lo<br />

stress iniziale è troppo forte, anche le grandi capacità di autoregolazione di un ecosistema sono<br />

a quel punto vane per cui si arriverà inevitabilmente alla morte dell’ecosistema.<br />

Tra gli organismi che compongono una biocenosi si instaurano relazioni che influenzano la<br />

composizione e la struttura della comunità; tra queste riveste un ruolo fondamentale la<br />

competizione che nasce dal fatto che le risorse alimentari e di spazio in un determinato habitat<br />

non sono infinite e che le specie, <strong>qui</strong>ndi, dovranno competere tra loro per assicurarsele. La<br />

competizione può avvenire tra individui di una stessa specie (competizione intraspecifica) o tra<br />

specie diverse (competizione interspecifica) e può risolversi in diversi modi. Quello più cruento<br />

l'ecosistema<br />

è costituito<br />

da biotopo<br />

e biocenosi<br />

il pesce<br />

pagliaccio vive<br />

in simbiosi con<br />

l'anemone<br />

1<br />

ELEMENTI DI ECOLOGIA


consiste nella sopraffazione di una specie mediante l’eliminazione o l’allontanamento della specie perdente. Un tempo<br />

si riteneva che questa risoluzione fosse la norma nella competizione, dando luogo al principio della sopravvivenza del<br />

più forte, ora sostituito dal concetto di sopravvivenza del più adatto. Nella realtà non sempre le cose si concludono<br />

attraverso un meccanismo di sopraffazione e molto più spesso le specie (o anche gli individui nel caso della<br />

competizione intraspecifica), sotto la spinta della competizione, si diversificano e cercano di evitare la concorrenza<br />

specializzandosi e creandosi una propria nicchia ecologica, termine con cui si definisce il ruolo di una specie nella<br />

comunità. La nicchia ecologica costituisce pertanto l’insieme delle opportunità offerte ad una specie di accedere ad una<br />

particolare risorsa alimentare o di spazio (luoghi di nidificazione, territori), evitando la concorrenza di altre specie.<br />

Secondo una vecchia ma efficace definizione utilizzata in ecologia, che può servire a chiarire questo concetto, mentre<br />

l’habitat è l’indirizzo di una specie, la nicchia ecologica rappresenta la sua professione all’interno dell’ecosistema. In<br />

una biocenosi si avranno specie dominanti che per la loro importanza o per la loro numerosità caratterizzano l’intero<br />

ecosistema -come ad esempio il bosco di faggio per la faggeta o la Posidonia oceanica per la prateria di posidonia- e<br />

specie in cui il numero di individui è assai più basso, ma che sono tuttavia ugualmente importanti per l’e<strong>qui</strong>librio<br />

dell’ecosistema stesso.<br />

Le altre relazioni tra le specie sono basate sulla predazione, sul parassitismo -che in fondo è anch’esso una forma<br />

di predazione e che consiste in un rapporto tra due specie, generalmente per scopi alimentari che alla fine porta alla<br />

morte o al deperimento di uno dei due individui ad opera dell'altro- e su altre forme di relazioni via via più pacifiche<br />

ed al contempo più complesse che vanno dall’in<strong>qui</strong>linismo, in cui due o più specie occupano pacificamente lo stesso<br />

spazio, al commensalismo, che è un rapporto tra due o più specie in cui una guadagna molti benefici mentre le altre<br />

non ne traggono particolari vantaggi o svantaggi. Riguardo il commensalismo in mare ne esistono moltissimi esempi,<br />

basti pensare alle grandi spugne che al loro interno possono contenere più di mille individui: piccoli gamberetti,<br />

gobidi, gasteropodi, ofiure e granchi, cui garantiscono protezione e rifugio. Passando attraverso vari stadi di<br />

cooperazione sempre più complessi, si arriva alla simbiosi, che è una associazione tra specie da cui tutti traggono<br />

reciproco vantaggio e di cui uno degli esempi più famosi è costituito dal rapporto tra il pesce pagliaccio e l’anemone<br />

di mare. In questo caso infatti il pesce pagliaccio viene protetto dai predatori dalla barriera costituita dai tentacoli<br />

urticanti dell’anemone, mentre questo ne riceve in cambio pulizia dai parassiti e residui alimentari. Esistono poi anche<br />

altre relazioni che possono essere considerate di tipo più sociale, come il territorialismo, ovvero la difesa di un territorio<br />

per scopi alimentari o di riproduzione da cui vengono scacciati gli intrusi della stessa specie, o la tendenza, molto diffusa<br />

in mare, a formare raggruppamenti anche numerosissimi, allo scopo di difendersi dai predatori, o di facilitare il<br />

reperimento del cibo (come avviene per i gruppi organizzati di cetacei quali orche o delfini) o anche per scopi<br />

riproduttivi.<br />

Ovviamente più gli elementi che compongono questo complesso e<strong>qui</strong>librio sono numerosi, più esso sarà solido e<br />

stabile. Basti pensare ad uno sgabello: su uno a due gambe possiamo sederci solo se ci puntelliamo a qualcosa, uno<br />

a tre gambe sarà indubbiamente molto più solido, uno con sei gambe ci sosterrebbe anche se una delle gambe venisse<br />

segata via. Allo stesso modo funzionano gli ecosistemi, in cui le specie costituiscono le gambe dello sgabello; è per<br />

questo che la biodiversità, che in pratica è il numero delle differenti specie che compongono un ecosistema, è così<br />

importante: più specie sono presenti, più gambe sostengono lo sgabello, più questo sarà stabile e continuerà a<br />

funzionare. Per questo motivo è così importante difendere la biodiversità del nostro pianeta, perché è su essa che si<br />

regge lo sgabello che sostiene l’intera Terra.<br />

9


2ELEMENTI<br />

DI OCEANOGRAFIA DI BASE


Studiando il mare, una delle cose più affascinanti è scoprire che i fattori alla base della vita nelle sue acque seguono<br />

ovunque gli stessi principi e le stesse regole, tanto nelle calde acque della barriera tropicale quanto nelle gelide<br />

profondità dell’Antartide. Questi fattori che regolano la formazione e lo sviluppo delle comunità viventi possono essere<br />

suddivisi in due grandi gruppi, i fattori abiotici, non legati cioè direttamente alla vita, ed i fattori biotici.<br />

L’insieme dei fattori abiotici e di quelli biotici determina la composizione degli ecosistemi e delle comunità marine.<br />

I fattori abiotici<br />

La temperatura: può variare dai - 2,5°C raggiunti in alcuni punti dei fondali oceanici, ai 30 e oltre delle barriere<br />

coralline. Bisogna rammentare che ad eccezione degli uccelli, dei mammiferi marini e di alcuni pesci che sono a sangue<br />

caldo o omeotermi, le creature marine sono generalmente ectoterme, ovvero a sangue freddo e <strong>qui</strong>ndi molto influenzate<br />

dalla temperatura esterna. In mare troveremo organismi, detti euritermi, in grado di sopportare grandi variazioni di<br />

temperatura ed altri, detti stenotermi, che invece possono sopravvivere solo in un piccolo intervallo di temperatura.<br />

La salinità: l’acqua di mare contiene una percentuale di sali disciolti, in media 35 gr per litro, costituiti in gran<br />

parte da cloruro di sodio (il comune sale da cucina); questa percentuale, pur essendo abbastanza costante, subisce<br />

notevoli variazioni in presenza di estuari di fiumi o di acque basse soggette a forte evaporazione. Non tutti gli<br />

organismi reagiscono a queste variazioni allo stesso modo; esistono specie eurialine in grado di tollerare variazioni<br />

di salinità dell’acqua e specie stenoaline che invece tollerano intervalli molto ristretti di salinità. Esistono poi specie<br />

in grado di passare indifferentemente da un ambiente salato a uno dolce, come i salmoni che nascono e si riproducono<br />

in acqua dolce, ma trascorrono tutta la vita adulta in mare, o le anguille che fanno il percorso inverso, nascendo<br />

nell’oceano e trascorrendo la vita adulta nelle acque dei fiumi e dei laghi. Le specie come i salmoni sono dette<br />

anadrome, quelle come le anguille catadrome. Infine ci sono pesci come i cefali che vivono tra estuari, laghi costieri<br />

e mare aperto e passano indifferentemente da un ambiente all’altro.<br />

I gas disciolti: l’ossigeno e l’anidride carbonica, CO2, sono alla base della respirazione e della fotosintesi e <strong>qui</strong>ndi<br />

indispensabili per la vita; la loro percentuale nell’acqua, che non è uniformemente diffusa dalla superficie al fondo e che<br />

varia anche in funzione della temperatura, influenza la distribuzione degli organismi e la composizione delle comunità.<br />

I nutrienti: le sostanze inorganiche come il fosforo e l’azoto servono agli organismi che si trovano alla base della<br />

catena alimentare (i produttori primari, come le alghe e le piante superiori) per formare molecole complesse (nucleotidi,<br />

aminoacidi e proteine) e creare la biomassa, riuscendo così a trasformare minerali inorganici, anidride carbonica e luce<br />

del sole in sostanza organica, attraverso la fotosintesi.<br />

La luce e la trasparenza dell’acqua: nell’acqua torbida può diminuire di molto la profondità raggiunta dai raggi solari;<br />

la zona costituita dagli strati più superficiali della colonna d’acqua, dove c’è luce sufficiente per gli organismi vegetali<br />

superiore, è chiamata zona eufotica e può giungere sino ad una profondità che va dai 40 – 50 m sino ai 100 m nei mari<br />

più trasparenti. La zona fotica, dove c’è ancora un fievole barlume di luce, si spinge sino ai 200 m, mentre al di sotto di<br />

questa si estende la zona afotica, il regno dell’oscurità perenne, dove non possono <strong>qui</strong>ndi sopravvivere gli organismi<br />

produttori che si basano sulla fotosintesi per la produzione primaria. Gli organismi, in funzione del grado di tolleranza o<br />

dipendenza dalla luce, possono a loro volta essere suddivisi in fotofili -termine che alla lettera significa amanti della lucee<br />

sciafili, ovvero specie che preferiscono minore quantità di luce se non addirittura il buio vero e proprio.<br />

La pressione: in superficie è di 1 atmosfera e aumenta di una ogni 10 metri di profondità (questo vuol dire che a<br />

1.000 metri di profondità avremo una pressione di 101 atmosfere, sufficiente a schiacciare anche un sottomarino). Le<br />

specie che vivono alle profondità abissali sono prive di vesciche natatorie (<strong>qui</strong>ndi prive di spazi contenenti gas al loro<br />

interno) e riescono così a sopportare la grande pressione, poiché i loro li<strong>qui</strong>di corporei e i tessuti sono incomprimibili.<br />

I pesci che vivono a profondità meno elevate, ma comunque notevoli, sono invece dotati di questo organo di e<strong>qui</strong>librio:<br />

trasportati rapidamente in superficie, la vescica natatoria, adattata alla enorme pressione del fondo, scoppia come<br />

un palloncino!<br />

Anche il pH (l’indice che misura il grado di acidità del mare), la tipologia dei fondali, la viscosità, la densità e il<br />

movimento delle acque, influenzano la vita negli oceani.<br />

11


12<br />

Le onde, la cui causa prima è legata al vento, sono i movimenti della superficie.<br />

Le maree, che nelle nostre acque sono poco avvertite, sono movimenti periodici che si<br />

ripetono con cicli precisi, dovuti all’attrazione esercitata dai corpi celesti, dalla luna in particolare,<br />

sulla massa d’acqua, che deforma la superficie del mare innalzandola rispetto al livello normale.<br />

Sono quattro le fasi di marea: l’innalzamento, o flusso di marea; l’alta marea, in cui l’altezza<br />

raggiunge il suo apice; il riflusso di marea, fase di abbassamento del livello della superficie<br />

marina; e la bassa marea, in cui l’altezza del mare raggiunge il livello minimo. Il tutto accade in<br />

un arco di tempo di 24 ore e 50 minuti, che corrisponde al tempo impiegato dalla luna per<br />

compiere una rivoluzione attorno al nostro pianeta. Le maree più alte, dette sigiziali, si verificano<br />

durante particolari allineamenti della terra con il sole e la luna e possono raggiungere<br />

un’escursione di parecchi metri. In Mediterraneo il fenomeno è meno imponente rispetto a quello<br />

che accade nel Mare del Nord o negli oceani, dove l’escursione di marea raggiunge diversi metri,<br />

mettendo giornalmente allo scoperto estesissimi tratti di fondale marino, influendo <strong>qui</strong>ndi<br />

pesantemente sulla composizione e sulla struttura delle comunità che vivono in questa fascia.<br />

Le correnti, infine, hanno una notevole importanza biologica sia perché influiscono su tanti<br />

parametri fisico-chimici (come la temperatura, la salinità e i nutrienti) sia perché assicurano il<br />

ricambio dell’acqua e l’apporto di nutrienti e di cibo ai vegetali e agli animali bentonici che si<br />

nutrono di particelle in sospensione. Le correnti di risalita dai fondali oceanici, dette correnti di<br />

upwelling, assicurano la risalita dei nutrienti derivanti dalla decomposizione ad opera degli<br />

organismi dei fondali. Anche le correnti dunque permettono la distribuzione geografica delle<br />

specie, svolgendo un ruolo fondamentale sia per la regolazione della temperatura delle acque<br />

superficiali e profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi<br />

marini. Le correnti sono generate in gran parte dalle variazioni di temperatura e sono <strong>qui</strong>ndi al<br />

tempo stesso un utile indicatore dei cambiamenti climatici e uno dei fattori a risentirne<br />

maggiormente, a volte anche in modo imprevedibile.<br />

I fattori biotici<br />

Oltre ai fattori abiotici, alla composizione degli ecosistemi contribuiscono altri fattori legati<br />

alla vita stessa e alle relazioni tra le forme di vita. Tra gli organismi si instaurano <strong>qui</strong>ndi relazioni<br />

di cui abbiamo già parlato e che influenzano la composizione e la struttura della comunità: la<br />

competizione tra le specie per le risorse presenti nel biotopo, la creazione di nicchie ecologiche<br />

e l’affermarsi di specie dominanti, che caratterizzano il biotopo stesso e le relazioni tra specie<br />

che sono alla base delle catene alimentari, ovvero predazione, parassitismo, commensalismo,<br />

simbiosi.<br />

2<br />

ELEMENTI DI OCEANOGRAFIA DI BASE


le correnti di<br />

upwelling<br />

assicurano<br />

la risalita del krill<br />

di cui si nutrono<br />

le balene<br />

13


3CARATTERISTICHE<br />

DEGLI ECOSISTEMI MARINI


Scorrendo la lista dei fattori che influenzano la vita nel mare è a questo punto, abbastanza facile immaginare che<br />

pur basandosi sulle stesse leggi generali, le differenze tra gli ecosistemi marini e terrestri sono notevoli.<br />

Alcuni fattori molto importanti in mare, pressione, salinità, gas disciolti, sulla terra non rivestono alcuna importanza,<br />

mentre la luce, come abbiamo visto, svolge un ruolo molto diverso. Le biocenosi marine presentano rispetto a quelle<br />

terrestri delle differenze legate ad una maggiore complessità dovuta alla peculiarità degli organismi autotrofi marini e<br />

dalla enorme quantità di sostanze organiche in sospensione o che si depositano sul fondo, che danno origine a catene<br />

trofiche basate sul detrito. Gli ecosistemi terrestri sono dominati da grandi piante caratterizzate da una vita spesso<br />

lunghissima, in quelli marini i produttori, fatta eccezione per alcune grandi alghe come il Kelp, sono di piccole o<br />

microscopiche dimensioni, pur rappresentando complessivamente una enorme biomassa. Per questo fatto gli erbivori<br />

in senso stretto in mare sono assai pochi rispetto agli ecosistemi terrestri; nelle nostre acque, per esempio, la salpa è<br />

uno dei pochissimi pesci erbivori, la maggior parte degli altri pesci sono planctofagi o carnivori, o specializzati nel cibarsi<br />

di molluschi o in mille altre cose. In mare i consumatori primari sono <strong>qui</strong>ndi principalmente a livello dello zooplancton,<br />

perchè le alghe del fitoplancton, in gran parte unicellulari sono troppo piccole per essere predate da organismi delle<br />

dimensioni di un pesciolino. Esattamente al contrario di quanto accade negli ecosistemi terrestri; gli animali più grandi<br />

non sono erbivori, ma carnivori, nella fattispecie filtratori visto che sia il mammifero più grande -la balenottera azzurrasia<br />

i più grandi tra i pesci -lo squalo balena, lo squalo elefante, ed il megamouth- si nutrono filtrando zooplancton e<br />

krill, attraverso i fanoni o le branchie.<br />

Anche gli organismi che vivono in mare si differenziano in modo diverso rispetto a quelli terrestri e possono essere<br />

raggruppati in differenti categorie:<br />

Plancton. Costituisce l’insieme degli organismi che vive in sospensione nella massa d’acqua degli oceani, sono<br />

dotati di poca capacità di movimento autonomo e affidano i loro spostamenti alle correnti. Il plancton si suddivide<br />

ulteriormente in fitoplancton costituito dagli organismi vegetali come le alghe unicellulari e in zooplancton formato dagli<br />

organismi animali (piccoli crostacei, meduse). In quest’ultima categoria vengono generalmente compresi anche gli stadi<br />

larvali di molte specie appartenenti ad altre categorie come crostacei, pesci e molluschi.<br />

Necton. È costituito dagli organismi che si muovono attivamente nell’acqua, vincendo la forza della corrente. Vi<br />

appartengono molluschi cefalopodi, pesci e selaci pelagici, tartarughe marine e mammiferi marini.<br />

Benthos. Categoria che raggruppa gli organismi che vivono a contatto o fissati sul fondo marino o comunque sul<br />

substrato. Comprende pesci come la sogliola, selaci come le razze o certi squali, molluschi, stelle marine, filtratori<br />

come gorgonie e coralli.<br />

Da quel che abbiamo potuto vedere finora è <strong>qui</strong>ndi facile capire che le catene alimentari e la rete trofica in mare<br />

saranno <strong>qui</strong>ndi molto più complesse di quelle terrestri. Nelle acque marine pertanto possiamo trovare:<br />

Produttori primari, che possono essere batteri autotrofi o in maggior parte i vegetali autotrofi, sia planctonici, come<br />

le alghe azzurre e alghe verdi unicellulari, sia bentonici come le fanerogame marine. Tutti questi organismi nel loro<br />

insieme rappresentano i produttori che costituiscono la base della piramide trofica, la differenza principale negli<br />

ecosistemi terrestri sta nelle relativamente piccole dimensioni degli organismi.<br />

Sospensivori o sestonofagi. Si tratta di organismi microfagi che si nutrono di minuscole particelle sospese in acqua.<br />

Possono essere sia organismi plantonici, come i copepodi, sia organismi sessili (cioè che aderiscono a un substrato)<br />

come spugne, coralli, ascidie e gorgonie.<br />

Filtratori. Alcuni organismi filtratori sono i più grandi organismi mai vissuti sulla terra, le grandi balene infatti si<br />

nutrono filtrando lo zooplancton attraverso i fanoni e così fanno anche i più grandi tra gli squali, come lo squalo<br />

balena, lo squalo elefante, che vive anche in Mediterraneo e il misterioso megamouth, recentemente scoperto, che per<br />

filtrare il cibo utilizzano le branchie. Anche la manta, la più grande delle razze è un filtratore planctofago.<br />

15


16<br />

Detritivori microfagi. Sono animali generalmente bentonici che si nutrono dei detriti organici<br />

presenti sul fondo marino, oltre che di larve e di batteri o altri microrganismi. Ne fanno parte<br />

alcuni bivalvi, le oloturie e crostacei come anfipodi e isopodi.<br />

Limivori. Sono animali bentonici che si cibano ingurgitando grandi quantità di limo e<br />

sedimento da cui poi estraggono nel canale digerente le particelle nutrienti e i residui organici.<br />

Appartengono a questo gruppo molti policheti (arenicola, tremolina).<br />

Erbivori. Corrispondono ai consumatori primari terrestri e si nutrono di vegetali. Ne fanno parte<br />

pesci come le salpe, i ricci di mare, alcuni molluschi come l’occhio di santa lucia e l’opistobranco<br />

aplysia, detto anche lepre di mare. Rispetto all’ambiente terrestre questo gruppo non è molto<br />

abbondante per specie e per numero di individui, anche perchè gli animali che nello zooplancton si<br />

nutrono di fitoplancton, pur essendo in un certo senso erbivori, vengono considerati filtratori.<br />

Onnivori o spazzini. Macrofagi che si nutrono sia di vegetali che di carogne, oltre che di<br />

prede vive. Ne fanno parte crostacei decapodi, policheti, e gasteropodi come la nassa ed il<br />

buccino, oltre a diverse specie di pesci.<br />

Carnivori. Macrofagi (in grado di ingerire cibo di notevoli dimensioni) che si nutrono di altri<br />

animali. Alcuni di essi si nutrono degli organismi appartenenti ai gruppi già menzionati, altri, veri<br />

e propri superpredatori, si nutrono anche di altri carnivori. Appartengono a questo gruppo molti<br />

pesci, i selaci (squali e razze anche se alcuni sono filtratori), cefalopodi, mammiferi marini,<br />

meduse, stelle marine e molti molluschi gasteropodi come i nudibranchi.<br />

Parassiti. Gruppo molto numeroso di animali appartenenti a phyla molto diversi e che<br />

presentano specializzazioni molto accentuate. I parassiti abbandonano la vita libera,<br />

generalmente limitata alla sola fase larvale, per legarsi ad un ospite. Realizzano delle strutture<br />

che gli consentono di accedere all’ospite sia internamente (endoparassiti come nematodi, cestodi<br />

ed alcuni crostacei) o esternamente (ectoparassiti) aderendo alla superficie della vittima, come<br />

diverse specie di crostacei.<br />

La composizione delle reti trofiche in mare dipenderà da molti fattori come la profondità, la<br />

presenza di luce e le correnti marine che daranno vita a comunità e biocenosi differenti a seconda<br />

dell’influenza dei diversi fattori.<br />

L’esistenza di una rete trofica, pur rappresentando un sistema molto efficace per sfruttare<br />

l’energia che giunge sulla terra sotto forma di radiazione solare, presenta alcuni inconvenienti<br />

che possono creare problemi anche all’uomo: alcuni tipi di sostanze tossiche infatti, come il<br />

mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene<br />

alimentari e delle catene trofiche; si tratta di due fenomeni distinti che spesso possono combinarsi.<br />

Il primo è il bioaccumulo, che è costituto dalla concentrazione all’interno di un organismo di<br />

sostanze tossiche presenti nell’ambiente in cui esso vive. Queste sostanze vengono assunte<br />

attraverso l’alimentazione o in altri modi quali la respirazione o la penetrazione attraverso<br />

l’epidermide. Queste concentrazioni possono anche essere decine di volte maggiori rispetto<br />

all’ambiente esterno.<br />

Il secondo fenomeno è chiamato magnificazione biologica, parola complicata che non descrive<br />

ahimè qualcosa di magnifico, ma il processo in cui le sostanze tossiche presenti nell’ambiente<br />

vengono concentrate attraverso la catena alimentare in forti quantità man mano che si sale nei<br />

gradini superiori della piramide trofica, giungendo sino al punto di poter essere pericolose per<br />

i consumatori finali come i superpredatori e l’uomo. In pratica se il mercurio è presente nell’acqua<br />

del mare in quantità limitate, esso sarà concentrato nell’organismo di alcuni vegetali<br />

fitoplanctonici che verranno ingeriti da crostacei dello zooplancton, che concentreranno nel loro<br />

organismo tutto il mercurio accumulato dal fitoplancton. I crostacei verranno mangiati dalle<br />

sardine e così via salendo lungo le catene alimentari sino al tonno, superpredatore che si nutre<br />

di altri carnivori e che può <strong>qui</strong>ndi avere accumulato quantità di mercurio tali da renderlo tossico,<br />

per arrivare infine al superpredatore più in alto di tutti nella catena alimentare, l’uomo.<br />

le salpe sono tra le<br />

poche specie di pesci<br />

quasi esclusivamente<br />

erbivore<br />

il cetorino è uno<br />

squalo che si nutre<br />

di plancton<br />

3<br />

CARATTERISTICHE DEGLI ECOSISTEMI MARINI


4GLI<br />

AMBIENTI DEL MARE


Per cercare di descrivere meglio l’enorme massa degli oceani e delle creature che li popolano, gli ambienti del mare<br />

possono essere raggruppati in base a diversi criteri e suddivisioni, sia orizzontalmente che verticalmente. L’intera zona del<br />

mare aperto costituisce il Dominio Pelagico, che comprende l’intera massa d’acqua dove vivono gli organismi che popolano<br />

le acque, che nel loro insieme sono detti Pelagos. Al pelagico si contrappone il Dominio Bentonico, che è costituito dall’intero<br />

fondale marino e in cui vivono gli organismi del Benthos.<br />

Dal punto di vista orizzontale il Dominio Pelagico può essere suddiviso in due provincie: la Provincia Neritica, costituita<br />

dalle acque aperte che sovrastano la piattaforma continentale e la Provincia Oceanica che comprende le acque aperte sopra<br />

i bacini oceanici.<br />

In funzione della luce possiamo dividere invece l’ambiente oceanico in due zone:<br />

La Zona fotica: chiamata anche zona epipelagica, va dalla superficie fino al limite di penetrazione della luce solare che<br />

in media è attorno ai 200 m di profondità e in cui vivono le comunità basate sulla produzione di energia dagli organismi<br />

autotrofi. Lo strato più superficiale, sino ai 50 m di profondità è chiamato zona eufotica.<br />

La Zona afotica: si estende al di sotto del limite di penetrazione della luce. In essa vivono comunità basate in gran parte<br />

su organismi eterotrofi: carnivori decompositori e detritivori e pochi batteri autotrofi.<br />

Alcuni scienziati individuano una zona di transizione tra queste due chiamata Zona disfotica, in cui non c‘è abbastanza<br />

luce per la fotosintesi ma ce n’è ancora a sufficienza per consentire la vista e che si spinge dai 200 sino ai 1.000 m di<br />

profondità.<br />

Un'altra suddivisione verticale del mare prevede da 0 a 200 m una prima fascia epipelagica che coincide come abbiamo<br />

visto con la zona fotica; una seconda fascia mesopelagica che coincide con la zona disfotica, fino a circa 1.000 m di profondità;<br />

una terza fascia batipelagica dai 1.000 ai 2.000 – 4.000 m di profondità; una quarta fascia abissopelagica sino ai 6.000 m<br />

ed infine l’ultima, presente solo in poche zone degli oceani, la più profonda di tutte, la fascia adopelagica dai 6.000 ai 10.000<br />

m di profondità.<br />

Il Dominio Bentonico comprende invece il Sistema litorale o fitale suddiviso in piano sopralitorale, che comprende le zone<br />

normalmente non sommerse ma raggiunte dall’acqua solo tramite gli spruzzi delle mareggiate o nelle maree sigiziali; piano<br />

mediolitorale compreso tra i limiti della normale alta e bassa marea, piano che nel Mediterraneo è piuttosto ristretto; piano<br />

sublitorale che arriva fin dove vivono le piante fotofile. Nelle nostre acque, il piano sublitorale viene considerato il limite che<br />

può raggiungere la posidonia, ovvero una cinquantina di metri di profondità in caso di acque estremamente limpide. Troviamo<br />

poi il piano circalitorale che si spinge sino all’estremo limite della vita vegetale (popolato da alghe sciafile) e il Sistema<br />

profondo o afitale, in cui non esiste più fotosintesi, suddiviso a sua volta in piano batiale lungo le scarpate continentali, piano<br />

abissale e piano adale, che rappresenta il fondo delle fosse più profonde, oltre i 7.000 m di profondità.<br />

gli ambienti<br />

marini possono<br />

essere<br />

individuati in base<br />

a diversi criteri e<br />

suddivisi sia<br />

orizzontalmente che<br />

verticalmente<br />

19


5IL<br />

MEDITERRANEO,<br />

LE SUE CARATTERISTICHE E SPECIFICITà


Racchiuso tra tre continenti il Mediterraneo con oltre 46.000 km di coste, isole comprese, è il più grande bacino<br />

semichiuso del mondo. È caratterizzato da uno scarso ricambio delle sue acque che hanno un tempo di rinnovamento di<br />

circa 100 anni per le acque superficiali, ma che sale a 7.000 anni se si prende in esame l’intero volume d’acqua in esso<br />

contenuto. La sua lunghezza massima misurabile tra Gibilterra e la Siria è di 3.800 km mentre raggiunge la larghezza<br />

massima tra Francia ed Algeria con circa 900 km. La profondità media è di circa 1.500 m, con punte di oltre 4.000 m nello<br />

Ionio, ma esistono vasti tratti di piattaforma continentale con valori assai minori di profondità, come nel caso dell’Adriatico<br />

in cui la profondità nella parte settentrionale non supera i 200 m e non arriva ai 50 nella porzione più a nord.<br />

Il Mar Mediterraneo è un mare oligotrofico, cioè ricco di ossigeno e povero di nutrienti, con una temperatura media<br />

annuale di circa 15°C nel bacino occidentale e di 21°C in quello orientale, con una salinità media tra il 36,2 e il 39 ‰ (è<br />

<strong>qui</strong>ndi un mare piuttosto salato).<br />

L’elevata salinità del Mediterraneo deriva dal fatto che il bacino ha un bilancio idrico negativo: gli apporti dei grandi<br />

fiumi e dei corsi d’acqua che vi sboccano sono cioè insufficienti a rimpiazzare le perdite dovute all’evaporazione (destinata<br />

ad aumentare con l’innalzamento della temperatura). Il mantenimento del livello del mare dipende dal flusso di acqua in<br />

entrata attraverso lo stretto di Gibilterra, proveniente dall’Oceano Atlantico; secondo alcuni oceanografi una goccia d’acqua<br />

entrata dallo stretto impiega più di 150 anni a compiere tutto il giro del Mediterraneo!<br />

Le correnti vi svolgono un ruolo fondamentale, sia per la regolazione della temperatura delle sue acque superficiali e<br />

profonde, che per il trasporto di sostanze nutritive e di stadi giovanili di organismi marini.<br />

Le correnti mediterranee possono distinguersi in correnti superficiali, correnti intermedie e correnti profonde. Le correnti<br />

superficiali traggono origine dal flusso d’acqua che penetra dall’Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra e hanno<br />

generalmente un andamento antiorario: l’acqua proveniente dall’oceano è più fredda e meno salata di quella presente nel<br />

bacino e rimane pertanto sulla superficie lambendo le coste nordafricane e generando la corrente algerina che a sua volta<br />

si biforca in diverse altre correnti che conservano l’andamento antiorario. La corrente intermedia invece interessa lo strato<br />

di acqua compreso tra i 200 e i 600 metri di profondità ed origina dal Mar di Levante, la porzione di Mediterraneo dalle<br />

acque più salate che possono raggiungere il 39,1 per mille di salinità; l’origine di questa corrente ricorda un po’ l’effetto di<br />

una saponetta bagnata stretta nella mano. D’inverno, con il calo della temperatura dello strato superficiale, l’acqua diventa<br />

più densa e comprime lo strato d’acqua inferiore che viene spinto via originando la corrente intermedia. Questa corrente<br />

ha un andamento in direzione opposta a quella delle correnti superficiali, ed è divisa in un ramo principale che percorre<br />

l’intero Mediterraneo e in due rami secondari: uno che attraversa il golfo della Sirte e uno che attraversa lo Ionio e giunge<br />

quasi fino a Trieste per poi ridiscendere attraversando nuovamente lo stretto di Otranto.<br />

Le correnti di profondità interessano solo due aree del Mediterraneo -il bacino ligure provenzale e il Mar Ionio- e sono<br />

originate in inverno dal rapido raffreddamento delle acque superficiali provocato dal vento. Le acque più fredde e pesanti<br />

diventano più dense e sprofondano generando la risalita delle acque profonde, ricche di nutrienti. È proprio a causa di questo<br />

fenomeno generato dal gelido mistral, che soffia in inverno nel golfo del Leone, che la popolazione di cetacei nel Mar<br />

Ligure è così abbondante: le correnti di risalita che si formano, le cosiddette correnti di upwelling, sono ricchissime di<br />

nutrienti che richiamano una grande quantità di krill, piccoli crostacei che costituiscono un eccellente cibo per le grandi<br />

balenottere.<br />

Il Mediterraneo è un mare ricchissimo di biodiversità che contiene ben il 7% di tutte le specie marine conosciute al<br />

mondo. Sono presenti 580 specie di pesci, tra cui 48 di squali e 36 di razze, 21 specie di mammiferi marini e 5 di tartarughe,<br />

oltre a 1.289 specie vegetali marine. Proprio per la sua straordinaria ricchezza e per l’alta presenza di endemismi, Il<br />

Mediterraneo è stato indicato dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come global biodiversity<br />

hotspot, cioè uno dei posti non solo più ricco di biodiversità, ma anche più vulnerabile.<br />

Una delle specie più caratteristiche del nostro mare è indubbiamente la posidonia (Posidonia oceanica) fanerogama<br />

marina endemica del Mediterraneo, le cui praterie con una superficie di oltre 37.000 kmq, costituiscono uno degli ecosistemi<br />

più importanti del bacino.<br />

nel mar<br />

Mediterraneo le<br />

correnti svolgono<br />

un ruolo<br />

fondamentale<br />

sia per la regolazione<br />

della temperatura,<br />

che per il trasporto<br />

di sostanze nutritive<br />

21


6La<br />

PRATERIA Di POSIDONIA


La Posidonia oceanica, specie esclusiva del Mediterraneo, discende da vegetali terrestri che oltre 120 milioni di anni<br />

fa con<strong>qui</strong>starono i fondali marini. Anche se molti pensano sia un’alga, in realtà è una fanerogama, ovvero una pianta<br />

superiore, del tutto simile a quelle terrestri, dotata <strong>qui</strong>ndi di fusto, foglie e radici, che si è magnificamente adattata a<br />

vivere sul fondo marino.<br />

Le foglie della posidonia, di colore verde brillante, hanno una caratteristica forma a nastro, con l’estremità tondeggiante;<br />

sono larghe circa 1 cm e lunghe fino a 1 metro ma possono, in alcuni casi, raggiungere e superare i 150 cm di altezza. Sono<br />

raggruppate in ciuffi di 4 – 8 foglie disposte a ventaglio: le più vecchie, anche più lunghe, sono situate all’esterno e le più<br />

giovani, più piccole, all’interno del fascio stesso. Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi<br />

mareggiate, si verifica una massiccia caduta di foglie adulte, all’origine dei grandi ammassi che si formano sulle spiagge,<br />

detti banquettes, cui segue una nuova produzione di foglie nel periodo invernale.<br />

Una caratteristica fondamentale della posidonia è costituita dalla presenza di due differenti tipi di rizomi, una sorta di<br />

radici che in realtà sono fusti modificati, adattati all’ambiente sotterraneo:<br />

• Il primo tipo di rizoma, detto tracciante, ha uno sviluppo orizzontale, che rende possibile alla posidonia di ancorarsi<br />

al fondale grazie a una miriade di radici che si sviluppano sul lato inferiore; esso ha anche una importante funzione nella<br />

riproduzione asessuale della pianta, poiché origina stoloni che daranno vita a nuove piante in grado, a loro volta, di formare<br />

altri stoloni;<br />

• l’altro tipo di rizoma, quello da cui si originano le foglie, è invece caratterizzato da uno sviluppo verticale, in grado<br />

di contrastare la tendenza all’insabbiamento dovuta al continuo depositarsi di sedimento tra le foglie e i rizomi. Ciò permette<br />

alla pianta di continuare ad innalzarsi rispetto al fondo marino.<br />

Questa complessa organizzazione di ogni singola pianta è alla base della formazione di quello straordinario sistema<br />

vivente che è la prateria di posidonia, in grado di modificare in maniera molto significativa il fondo del mare.<br />

La crescita sia orizzontale che verticale della pianta origina le mattes, tipiche formazioni a terrazza, un complicato<br />

intreccio di rizomi e radici, che nel corso del tempo imprigionano i residui delle piante e degli animali morti, il sedimento<br />

e la sabbia, compattandoli e provocando negli anni un consistente innalzamento del fondo marino. È stato stimato che le<br />

mattes crescono mediamente di circa un metro ogni secolo, e possono continuare a crescere per periodi molto lunghi.<br />

La riproduzione della posidonia può essere sia sessuale, con fiori e frutti (le cosiddette olive di mare), che vegetativa.<br />

Nel secondo caso la riproduzione può avvenire mediante la formazione di stoloni o per formazione di talee. In questo<br />

caso assistiamo alla formazione di radici da parte di frammenti di stoloni dotati di almeno una gemma fogliare, strappati<br />

alla prateria da correnti e mareggiate, che daranno vita, se riusciranno ad attecchire nel fondale adatto a una nuova pianta<br />

in grado poi, con il lento processo di stolonizzazione, di accrescersi dando origine col tempo ad una nuova prateria.<br />

Ma la capacità della posidonia di propagarsi colonizzando nuovi territori è affidata anche alla riproduzione sessuale. I<br />

suoi fiori, non molto facili da osservare, sono di colore verdastro e raggruppati in numero variabile da quattro a dieci in<br />

infiorescenze, attorno ad uno stelo che spunta proprio al centro del ciuffo fogliare e che è avvolto per tutta la lunghezza<br />

da brattee, una sorta di sottili scaglie con funzione protettiva.<br />

Nelle praterie sino a 15 metri di profondità la fioritura può avvenire in settembre o in ottobre, mentre i frutti raggiungono<br />

la piena maturazione verso marzo - aprile.<br />

Nelle praterie più profonde, oltre i 15 metri, tutto il processo avviene con un paio di mesi di ritardo.<br />

Il frutto è chiamato oliva di mare per l’aspetto, le dimensioni e il colore simili all’oliva terrestre. Quando il frutto, ricco<br />

di sostanze oleose, giunge a piena maturazione, si stacca dalla pianta e galleggia sulla superficie del mare, affidato a onde<br />

e correnti che favoriscono <strong>qui</strong>ndi la dispersione dei semi in luoghi anche lontanissimi dalla prateria di origine. Cadono sul<br />

fondo solo dopo l’apertura del pericarpo che li avvolge, <strong>qui</strong>ndi dopo aver galleggiato per un discreto periodo di tempo. Se<br />

il seme cade su un fondale adatto, potrà colonizzarlo dando origine a una nuova prateria, in aree altrimenti inaccessibili<br />

con la semplice riproduzione vegetativa.<br />

La posidonia presenta una marcata stagionalità sia nei ritmi di crescita che nella produzione di nuove foglie; quest’ultima<br />

presenta un massimo a primavera e un minimo coincidente con la stagione estiva, quando la temperatura dell’acqua è<br />

23


24<br />

maggiore. Le foglie presentano una lunghezza diversa a seconda della stagione in cui sono spuntate,<br />

con il risultato che la prateria può apparire molto diversa nei diversi periodi dell’anno. In estate le<br />

foglie sono lunghe e dal colore bruno o rosato, mentre in autunno, dopo i primi temporali e le<br />

prime mareggiate, si ha una caduta massiccia delle foglie più vecchie e più lunghe, e i ciuffi di<br />

posidonia, costituiti ormai solo dalle foglie più giovani, appaiono più bassi e di un colore verde<br />

brillante.<br />

Generalmente una prateria può estendersi da un metro di profondità (in alcuni casi le foglie di<br />

praterie, in aree particolarmente riparate, in condizioni di bassa marea possono fuoriuscire<br />

parzialmente dall’acqua) sino a 30 - 35 metri, raggiungendo anche i 40 – 50 in presenza di acque<br />

particolarmente limpide, come quelle di Lampedusa e Linosa o di alcune zone della Sardegna. La<br />

posidonia è un importante indicatore biologico, molto sensibile agli agenti in<strong>qui</strong>nanti e, proprio per<br />

questo, purtroppo in forte regressione nelle aree di costa mediterranea.<br />

La prateria di posidonia costituisce un ambiente di straordinaria rilevanza per il Mediterraneo per<br />

molti motivi, tutti ugualmente importanti: l'elevata produzione primaria, ovvero la capacità di<br />

produrre la materia organica mediante la fotosintesi a partire dal carbonio e dalla luce solare; la<br />

grande biodiversità delle comunità animali e vegetali che ad essa sono associate; l’enorme contributo<br />

che offre alla difesa delle coste sabbiose dall’erosione.<br />

La prateria di posidonia infatti<br />

• produce ossigeno: grazie al notevole sviluppo di superficie fogliare, un metro quadro di prateria<br />

in buona salute può produrre 20 litri di ossigeno al giorno con un saldo attivo, sottraendo quello<br />

consumato dalla pianta per la respirazione, che va dai 14 ai 16 litri di ossigeno giornalieri;<br />

• contribuisce a difenderci dall’effetto serra: produce materiale organico (biomassa) in elevata<br />

quantità, intrappolando anidride carbonica (CO2). La produttività di una prateria può arrivare a 21<br />

tonnellate di peso secco per ettaro, comparabile a quella delle foreste temperate. Una prateria in<br />

buona salute, come tutta la vegetazione terrestre e marina, toglie anidride carbonica dall’atmosfera<br />

contribuendo a rallentare l’effetto serra. Questo è infatti dovuto alle grandi quantità di CO2 immesse<br />

nell’atmosfera dalle attività umane, principalmente dall’utilizzo dei motori a scoppio e dai processi<br />

industriali;<br />

• trasferisce biomassa ad altri ecosistemi: si calcola che circa il 30% della produzione di biomassa<br />

(materia organica) venga esportato in ecosistemi distanti e molto più profondi sotto forma di detrito<br />

fogliare utilizzato come cibo da altri organismi;<br />

• difende la linea costiera: fissa i fondali mobili, così come sulla terraferma le radici degli alberi<br />

e dei cespugli rendono stabili versanti e crinali prevenendo le frane;<br />

• protegge le spiagge dall’erosione: l’accumulo di foglie morte sulle spiagge durante l’inverno<br />

protegge la sabbia dalle mareggiate, mentre la presenza in sospensione in acqua di grandi quantità<br />

di detrito fogliare e di fibre smorza l’effetto delle onde. È stato dimostrato che la scomparsa di un<br />

metro di mattes può causare l’arretramento della linea di costa, nel caso di un litorale sabbioso, di<br />

circa 15 -18 metri.<br />

La posidonia è caratterizzata da una lenta propagazione vegetativa e da una capacità<br />

relativamente bassa di resistere agli effetti della degradazione dell'habitat. Il crescente impatto<br />

antropico (pressione demografica, urbanizzazione, industrializzazione, in<strong>qui</strong>namento) minaccia<br />

sempre più gli ecosistemi litorali e la regressione della Posidonia oceanica è testimoniata ormai in<br />

tutta l'area mediterranea. La prateria è un ambiente estremamente ricco di vita e di specie che<br />

scompaiono con la sua regressione.<br />

Una delle protezioni più importanti che la prateria offre è la marcata diminuzione del movimento<br />

dell’acqua in prossimità del fondo, a livello dei rizomi. La decisa riduzione dell’idrodinamismo offre<br />

un ambiente più tran<strong>qui</strong>llo e più stabile rispetto al substrato circostante. La prateria è infatti riparo<br />

dai predatori, zona di riproduzione e fonte di cibo per molti pesci, cefalopodi e crostacei, fungendo<br />

da vera e propria nursery per avannotti e giovanili di specie molto importanti per la pesca<br />

professionale.<br />

La costruzione di moli e porti ha un forte impatto sulla possibilità di sopravvivenza delle praterie,<br />

sia per gli effetti immediati legati all’aumento di torbidità per l’azione di scavo o messa in opera,<br />

sia per quelli a lungo termine, dovuti alla modifica del movimento di onde e correnti e, di<br />

conseguenza, dei delicati processi di trasporto litorale che presiedono alla distribuzione dei sedimenti<br />

lungo le linee di costa. A questi fattori si aggiunge la massiccia immissione in mare di in<strong>qui</strong>nanti,<br />

con conseguente alterazione del delicato e<strong>qui</strong>librio chimico–fisico alla base della crescita di una<br />

comunità vegetale, sia per l’effetto tossico diretto di alcuni elementi, sia per la mancanza di ossigeno<br />

dovuta all’eccessivo apporto di nutrienti, sia infine per la diminuzione della trasparenza dell’acqua<br />

con conseguente carenza di luce per la fotosintesi.<br />

la prateria di<br />

posidonia<br />

costituisce un<br />

ecosistema che<br />

ospita un gran numero<br />

di specie<br />

animali ed è molto<br />

importante per la<br />

produzione di<br />

ossigeno<br />

il frutto della<br />

posidonia<br />

6<br />

LA PRATERIA DI POSIDONIA


Altra grande minaccia è l’azione meccanica di sfregamento causata dalla pesca a strascico e da quella dei molluschi.<br />

Pesca illegale, dovremmo meglio dire, perché questo tipo di attività di cattura è consentito solo oltre le tre miglia dalla costa<br />

e a profondità superiori ai cinquanta metri, proprio con lo scopo di difendere le praterie che a quella profondità non sono<br />

certo presenti. Tuttavia, per la difficoltà dei controlli e la miopia di alcuni pescatori che in questo modo distruggono il loro<br />

stesso futuro, la pesca a strascico sulle praterie continua ad essere un significativo elemento di minaccia.<br />

Essa è infatti altamente produttiva nell’immediato (poiché consente il prelievo di specie pregiate come sparidi, scorfani,<br />

labridi, serranidi, polpi e persino aragoste) ma distrugge un ambiente insostituibile dove trovano rifugio gli stadi giovanili<br />

e gli avannotti di specie importanti, compromettendo seriamente lo sviluppo di numerose popolazioni animali e provocando<br />

un generale impoverimento dei nostri mari.<br />

Anche le ancore delle barche da pesca e da diporto, strappando i ciuffi, creano delle zone di diradamento su cui agisce<br />

l’erosione provocando la distruzione della prateria. Questa è infatti difesa dai fenomeni erosivi, dovuti alle correnti, dalla<br />

struttura compatta che abbiamo descritto, ma la presenza di zone nude facilita l’azione distruttiva delle correnti provocando<br />

la formazione di chiazze denudate sempre più ampie. Lo stesso fenomeno, ma su scala più vasta, è stato osservato sulle<br />

arature prodotte dalle reti per la pesca a strascico.<br />

25


7LE<br />

COSTE


Le nostre coste, anche se molto frequentate, non sono in realtà molto conosciute dal punto di vista naturalistico.<br />

Eppure i litorali sabbiosi, con i relativi sistemi dunali, gli specchi d’acqua e la macchia mediterranea costituiscono uno<br />

degli ambienti più importanti del nostro Paese. Nonostante l’attacco devastante della speculazione edilizia, degli<br />

incendi, dell’assalto dei turisti concentrati nei pochi mesi estivi, conserva ancora vasti tratti di naturalità che possono<br />

essere un eccellente laboratorio per iniziare a conoscere le dinamiche degli ecosistemi naturali. La presenza delle<br />

specie pioniere sulla duna, la ricchezza di interazioni nella macchia mediterranea e l’adattamento a lunghi periodi di<br />

siccità della sua vegetazione, la grande abbondanza di avifauna nei laghi costieri offrono molte possibilità a chi vuol<br />

verificare sul campo le affascinanti nozioni apprese sui libri.<br />

Sistema dunale<br />

Sui circa 7.000 km di coste che circondano la nostra penisola, quasi 3.000 sono costituiti da litorali sabbiosi, un<br />

ambiente molto interessante per le nostre osservazioni, anche se, purtroppo, è sempre più raro trovarne di intatti.<br />

Se paragonate ad altri ambienti o anche ad altri tipi di coste, la spiaggia sabbiosa e le dune che sorgono alle spalle<br />

del litorale potrebbero sembrare a prima vista una specie di deserto dal punto di vista biologico. Eppure, anche se è un<br />

ambiente decisamente ostile per la vita, la duna ospita una flora e una fauna assolutamente straordinarie. Per quello<br />

che riguarda la flora, quelli che a prima vista appaiono ciuffi miseri e stentati, sono in realtà degli autentici pionieri, in<br />

grado di con<strong>qui</strong>stare un territorio reso estremamente difficile dal sale, dal sole fortissimo, dal vento e dalla sabbia che<br />

questo trasporta, dal terreno assai povero e dall’acqua salmastra che diviene dolce solo a grande profondità.<br />

Se l’arma dei pionieri del far-west era il fucile, queste incredibili piante ricorrono ad altri strumenti, decisamente<br />

meno cruenti, come ad esempio radici dotate di una buona elasticità e resistenza, molto estese sia in profondità, per<br />

raggiungere l’acqua, che in larghezza, per ancorarsi meglio e resistere al vento; superfici tormentate e contorte, per poter<br />

resistere al disseccamento; spine che diminuiscono la superficie esposta alla traspirazione; strutture in grado di<br />

trattenere l’acqua come foglie e radici succulente.<br />

Il vento ha una fortissima influenza sulla vita e sulla formazione delle dune, che potremmo definire come delle<br />

vere e proprie figlie del vento, così come la spiaggia può essere considerata figlia del mare e delle sue onde e correnti.<br />

Le dune infatti non sono altro che cumuli di materiale sabbioso formati dall’azione del vento che, trasportando la<br />

sabbia verso riva ed incontrando un ostacolo, la deposita dando vita alla duna e continuando nel tempo ad<br />

accrescerne le dimensioni.<br />

Per questo motivo e per il fatto che la vegetazione può iniziare a svilupparsi solo a una certa distanza dalla costa,<br />

al di là della fascia raggiunta dalle maree e dalle mareggiate, normalmente le dune litoranee si sviluppano<br />

parallelamente alla costa. È per la continua azione di modellamento operata dal vento, fatta di fasi di deposizione<br />

alternate a fasi di erosione, che generalmente tutte le dune hanno una struttura che presenta il lato sopravvento con<br />

una inclinazione molto minore rispetto a quello sottovento (di norma rivolto verso l’entroterra). Infine, in presenza di<br />

venti molto variabili le dune possono assumere un andamento sinuoso, invece che parallelo alla costa, formando veri<br />

e propri golfi e insenature.<br />

Per loro stessa natura le dune sono estremamente mobili e, in assenza di qualcosa che ne cementi in qualche modo<br />

la struttura, tenderebbero a spostarsi verso l’interno sino a giungere alla barriera costituita dalla vegetazione costiera<br />

che, come una siepe di confine, ne blocca l’avanzata verso terra.<br />

Sono proprio le piante pioniere che iniziano l’opera di compattamento e consolidamento della duna, permettendo<br />

non solo la stabilizzazione ma anche l’attecchimento di ulteriore vegetazione che, in un processo dinamico fatto di<br />

progressi e regressioni, conduce alle formazione delle dune coperte di rigogliosa vegetazione che ancora oggi si possono<br />

osservare nei tratti di costa più integri.<br />

La prima fascia della duna sabbiosa, ad almeno una cinquantina di metri dalla costa, viene inizialmente colonizzata<br />

da specie vegetali in grado di svilupparsi rapidamente, generalmente piante erbacee annuali a ciclo breve con un<br />

periodo vegetativo di pochi mesi come il ravastrello marino, l’euforbia delle spiagge o l’erba cali, piccole piante dotate<br />

27


28<br />

di radici e rizomi succulenti in grado di trattenere l’acqua, che danno vita ad una associazione<br />

vegetale detta cakileto la quale, terminato il ciclo naturale, si secca e muore, dopo aver disperso<br />

i semi. Questi possono germogliare sulla stessa duna o, trasportati dal vento, germinare altrove.<br />

Le piante in grado di formare un ambiente più stabile e di sovrapporsi alle prime pioniere sono<br />

delle graminacee perenni dotate di lunghe e robuste radici superficiali, che formano una fitta rete<br />

sopra e sotto la sabbia: sono l’Agropyrum junceum o gramigna marina (questa associazione<br />

vegetale viene infatti detta agropireto) e, nella parte della duna più lontana dal mare, lo sparto<br />

Ammophila littoralis dai caratteristici cespugli a ciuffo, che origina l’associazione vegetale detta<br />

ammofileto. Sono proprio le radici di queste piante che riescono a rendere compatto un materiale<br />

cedevole come la sabbia e a far sì che le dune non siano disperse dal vento.<br />

Poiché l’acqua disponibile al di sotto della duna è fortemente salmastra, queste piante<br />

traggono il loro fabbisogno idrico, oltre che dalla umidità notturna, dalle precipitazioni che sono<br />

in grado di trattenere e di economizzare a lungo.<br />

In questa fase la duna può crescere fino a diversi metri di altezza con la sabbia che si<br />

deposita sugli strati e sulle piante preesistenti e, man mano che si prosegue verso l’entroterra<br />

e che aumenta il numero di specie colonizzatrici, la duna si stabilizza sempre di più ospitando<br />

una complessa comunità vegetale che si arricchisce di arbusti all’apparenza stentati e striscianti,<br />

ma che in realtà possono vivere centinaia di anni e diventare veri e propri alberi, come il ginepro<br />

coccolone, che si alterna con i primi cespugli di lentischi e a piccoli pinastri contorti dal vento,<br />

creando una vegetazione che continua a infoltirsi e inverdirsi mescolandosi alla fillirea, all’erica,<br />

alla palma nana, alle tamerici e all’edera spinosa. Su questa vegetazione vive una fauna<br />

composta da detritivori, erbivori e predatori, dando vita a un ecosistema complesso,<br />

caratterizzato da condizioni estreme e dalla particolarità dei suoi componenti.<br />

Le piante dunali hanno generalmente forme strane, spesso spinose, per resistere al meglio<br />

alla forte brezza marina e per ridurre la perdita d’acqua; sono resistentissime agli sbalzi di<br />

temperatura che farebbero morire la maggior parte degli altri vegetali.<br />

Tra questi pionieri i più comuni sono il ravastrello, la calcatreppola, pianta spinosa dal<br />

caratteristico colore verde tendente al bluastro, dai fiori bianco azzurri e dalle radici ricche<br />

d’acqua; il convolvolo, la soldanella dai grandi fiori rosa, lo sparto, che forma i caratteristici<br />

ciuffi di erba alta che possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e che svolge un ruolo<br />

fondamentale per stabilizzare la duna; la carota spinosa e poi il bellissimo pancrazio o giglio di<br />

mare, dal profumo penetrante che fiorisce tra luglio e agosto.<br />

Spesso ci si può imbattere in stagni retrodunali, generalmente salmastri, generati da<br />

depressioni più basse del livello del mare in cui l’acqua si infiltra o dalla presenza di terreni<br />

argillosi impermeabili che causano il ristagno dell’acqua piovana.<br />

Questo ambiente particolare è ricco di vita animale. Senza parlare della complessa fauna<br />

che vive al di sotto della sabbia: crostacei, come le pulci di mare che popolano i detriti di<br />

posidonia e gli onischi, molluschi rappresentati da alcune specie di chiocciole; insetti, come<br />

sempre molto numerosi, tra i quali spiccano diverse specie di farfalle e di falene come la bella<br />

falena del pancrazio, gli scarabei stercorari, le cicindele, coleotteri predatori caratterizzati dalla<br />

livrea verde metallico ornata di puntolini bianchi, o il feroce formicaleone, un neurottero la cui<br />

grossa larva armata di enormi mandibole uncinate scava delle trappole a imbuto nella sabbia,<br />

che franano al passaggio delle prede lungo i bordi trascinando i malcapitati verso le fauci del<br />

predone in agguato sul fondo dell’imbuto. Anche alcune grosse cavallette frequentano la<br />

vegetazione dunale e se ne possono trovare in grande quantità quando sciami di locuste<br />

migratorie terminano il loro viaggio precipitando esauste in mare.<br />

Danno la caccia a questi invertebrati gli anfibi come il rospo smeraldino e numerosi rettili<br />

come il curioso gongilo, una sorta di grossa lucertola dal corpo forte e muscoloso, serpentiforme,<br />

ma dalle zampette minuscole; qualche volta si avvicina alle dune costiere anche l’elegante biacco,<br />

il più comune dei serpenti italiani, lungo sino a due metri, mentre frequentatrice abituale della<br />

parte della duna confinante con la macchia è la testuggine terrestre, sia la Testudo hermani che<br />

la T. graeca e la T. marginata. Anche la tartaruga marina Caretta caretta frequenta le spiagge<br />

sabbiose, risalendole faticosamente per deporre le uova, anche se ormai nel nostro Paese sembra<br />

farlo solo in pochissimi siti, tra cui la famosa Spiaggia dei Conigli sull’isola di Lampedusa.<br />

Sono molte le specie di uccelli che frequentano spiaggia e duna. I più numerosi sono gli<br />

uccelli limicoli, ovvero quelli che si nutrono catturando con il becco, generalmente lungo e<br />

appuntito, i vermi e i molluschi che vivono nella sabbia umida lasciata scoperta dalla marea: il<br />

piovanello tridattilo, il corriere grosso, il voltapietre, il fratino o la rara beccaccia di mare,<br />

inconfondibile per il corpo dalla vistosa colorazione bianca e nera e con le zampe e il lungo becco<br />

rosso corallo. Anche uccelli marini come il gabbiano reale o le sterne si riposano la notte sulle<br />

spiagge e al mattino è facile ritrovare i segni della loro sosta: impronte e qualche penna.<br />

le coste costituiscono<br />

uno degli ambienti<br />

più importanti<br />

del nostro Paese<br />

la calcatreppola è<br />

una delle specie più<br />

frequenti del<br />

sistema dunale<br />

7<br />

LE COSTE


Frequentano la duna molti passeriformi diffusi anche nella macchia, come il pettirosso, il merlo, il tordo, la capinera,<br />

l’occhiocotto, il colorato gruccione e la bella ghiandaia marina.<br />

Tra i mammiferi il coniglio selvatico, diffuso ormai in parecchi punti delle nostre coste, l’onnipresente ratto e<br />

l’ubi<strong>qui</strong>tario topolino campagnolo. Tra i predatori insettivori i pipistrelli, la talpa ed il toporagno, presente con diverse<br />

specie, e alcuni visitatori occasionali provenienti dalla vicina macchia come l’istrice, il tasso e la donnola, oltre a<br />

predatori opportunisti come la faina e la volpe, che frequentano la spiaggia in cerca di rifiuti e di facili prede come<br />

pesci spiaggiati.<br />

Macchia mediterranea<br />

Alle spalle della duna ecco sorgere quello che forse è il più tipico degli ambienti del nostro Paese, che prende il<br />

nome dal mare stesso che ci avvolge: la macchia mediterranea.<br />

Nei luoghi in cui l’azione dell’uomo si è fatta meno sentire, esiste evidente continuità tra la vegetazione dunale e<br />

la macchia mediterranea vera e propria.<br />

Dove la duna si consolida e si stabilizza, cominciano ad apparire le avanguardie della macchia mediterranea,<br />

caratterizzata anch’essa da un forte adattamento ad ambienti piuttosto duri e non certo abbondanti di acqua. Inizia<br />

con dei bassi cespugli di cisto, fillirea e ginepro coccolone; si intrica man mano che si procede verso l’interno<br />

mescolandosi a mirto, corbezzolo, rosmarino, ginestra, lentisco, erica, alloro e ginepro; si intreccia, continuando il<br />

cammino, ad alberi di alto fusto come lecci, pini marittimi e pini di Aleppo, querce da sughero e querce spinose.<br />

Qua e là possono formarsi delle zone allagate, durante tutto l’anno o solo in inverno, le cosiddette piscine, un tempo<br />

molto più frequenti nelle grandi foreste planizie costiere -di cui abbiamo solo pochi resti- e che ospitano una ricca fauna<br />

di anfibi e rettili.<br />

La macchia mediterranea ha una grande variabilità geografica legata a fattori quali il microclima e la composizione<br />

del suolo con conseguenti differenze nella composizione della vegetazione, con prevalenza o assenza di alcune specie<br />

rispetto ad altre; potremo <strong>qui</strong>ndi imbatterci di volta in volta nella macchia a erica, a leccio, a corbezzolo, a rosmarino,<br />

a euforbia, a oleastro, a ginestra, ognuna differente per specie dominanti, ma assai simili tra di loro come struttura.<br />

Anche se questo ambiente è quello maggiormente rappresentato in tutto il Mediterraneo, in realtà la macchia non<br />

può essere considerata come un ambiente realmente naturale, quanto piuttosto il frutto dell’interazione durata millenni<br />

tra la nostra specie e le grandi foreste del Mediterraneo e poiché, come diceva Chateaubriand, i boschi precedono l’uomo<br />

e i deserti lo seguono, questa interazione si è concretizzata con incendi, disboscamenti, pascolo eccessivo di ovini e<br />

caprini, taglio degli alberi d’alto fusto per il legname da costruzione, per case o imbarcazioni. Il risultato dopo millenni<br />

è questo straordinario ambiente, verde tutto l’anno, ricco di aromi e profumi penetranti, ma dall’aspetto ruvido e<br />

scostante dovuto al gran numero di piante che si proteggono con spine o foglie appuntite e che in primavera, durante<br />

la fioritura diviene un vero e proprio spettacolo di colori e profumi. Un’esperienza indimenticabile è l’arrivo in nave in<br />

Sardegna all’alba, quando il buio non permette di distinguere ancora chiaramente la linea della costa, ma i profumi<br />

29


30<br />

della macchia, con i penetranti sentori del rosmarino, dell’erica e del mirto annunciano che la<br />

terra è ormai vicina.<br />

La presenza della macchia mediterranea, sia alta che bassa, è comunque legata a precise<br />

condizioni climatiche e alla tipologia del terreno; questo tipo di ambiente si sviluppa infatti in<br />

situazioni in cui le precipitazioni sono irregolari e concentrate principalmente nel tardo autunno<br />

e nell’inverno. La vegetazione che la compone deve <strong>qui</strong>ndi essere in grado di superare un lungo<br />

periodo di aridità estiva e di conseguenza, anche le specie che la popolano sono perfettamente<br />

adattate a queste condizioni: perdita delle foglie in estate, come accade alla ginestra spinosa e<br />

all’euforbia arborea; sviluppo di foglie persistenti e coriacee, dalla cuticola spessa adatta a<br />

trattenere l’umidità, come nel leccio, tipico albero della macchia alta e della foresta mediterranea.<br />

Da questo punto di vista, la macchia mediterranea bassa -costituita da associazioni vegetali<br />

di modesta altezza, per lo più fino a 1,5 o 2 m, tra cui lentischi, filliree, alaterni, ginepri, cisti- e<br />

la macchia alta -con piante alte fino a 4 o 5 m in cui sono presenti anche leccio, corbezzolo,<br />

sughero, pini marittimi, pini di Aleppo- costituirebbero due tappe di una successione che<br />

dovrebbe condurre alla sua comunità climax, ovvero alla lecceta o alla foresta sempreverde<br />

mediterranea, intricate e impenetrabili con alberi ad alto fusto (a predominanza di lecci nel primo<br />

caso, o con lecci misti ad altre essenze arboree nel secondo caso, in funzione del tipo di suolo<br />

e del microclima in cui si sviluppa) entrambe con un fittissimo sottobosco interrotto da piscine<br />

e piccole radure dovute a incendi o alla caduta di giganti della foresta giunti al termine del loro<br />

ciclo vitale.<br />

In realtà l’azione dell’uomo ha finito con lo spezzare il meccanismo della successione, facendo<br />

sì che la macchia cosiddetta primaria, quella cioè sviluppatasi esclusivamente in base alle<br />

caratteristiche fisiche reali dell’ambiente e del clima dove sorge, è assai rara nel nostro Paese,<br />

se non assente. Di conseguenza, le varie tipologie di macchia mediterranea in cui ci si imbatte<br />

sono, più che forme in evoluzione, forme di regressione dovute all’intervento umano sulla<br />

vegetazione originaria.<br />

una volpe nella<br />

macchia<br />

mediterranea<br />

LE COSTE 7


Il fuoco è sempre stato un fenomeno tipico dell’ambiente Mediterraneo e ha condizionato fortemente le<br />

caratteristiche e i cicli vitali delle specie vegetali di questo ambiente. Gli incendi di tipo occasionale non avrebbero di<br />

per sé grandi effetti permanenti nella macchia, poiché le specie vegetali che la costituiscono sono in grado, grazie<br />

all’emissione di polloni, di ricostituire abbastanza rapidamente la comunità incendiata. In assenza di altri fattori, nel<br />

giro di una decina di anni la vegetazione si ricostituirebbe naturalmente nel suo aspetto originario, rinascendo in un<br />

certo senso dalle radici stesse delle piante superstiti.<br />

Se però gli incendi sono, come purtroppo accade, ripetuti e ravvicinati nel tempo, la ripresa della comunità diviene<br />

impossibile e finisce con l’instaurarsi un ciclo negativo, detto pirogeno, ovvero generato dal fuoco, che può portare<br />

alla regressione definitiva della macchia, trasformando una splendida foresta con lecci, sughere e farnie, con un fitto<br />

sottobosco popolato di centinaia di specie animali e vegetali, in un’arida gariga sterposa.<br />

È questa al giorno d’oggi la principale minaccia, insieme ovviamente alle altre forme di disturbo e di interazione<br />

legate alla nostra specie, come il pascolo, l’urbanizzazione, l’abusivismo edilizio e la creazione di nuove strade costiere<br />

che interrompono la continuità tra macchia e sistema dunale, mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’ambiente più<br />

caratteristico del nostro Paese e della ricca e variegata fauna che lo popola.<br />

Anche se non paragonabile per diversità e abbondanza a quella dei boschi delle zone più ricche d’acqua, la fauna<br />

della macchia mediterranea presenta un elevato numero di specie, che occupano la grande varietà di nicchie offerte<br />

da questo ambiente, nei tre livelli costituiti dal terreno, dalla fascia arbustiva del sottobosco e dagli alberi più alti. Molte<br />

le specie di uccelli presenti, quasi tutte non esclusive di questo ambiente. Oltre a quelle già ricordate per le dune, si<br />

incontrano la ghiandaia, l’upupa, il picchio rosso maggiore e minore, il picchio verde maggiore e minore e il torcicollo;<br />

tra i numerosi rapaci ricordiamo il biancone, specializzato nella cattura di serpenti, piuttosto abbondanti in questo<br />

ambiente; oltre al falco pecchiaiolo e al lodolaio, tra i rapaci notturni, non molto abbondanti nella macchia fitta,<br />

troviamo la civetta, il piccolo assiolo, l’allocco, frequentatore della lecceta e il barbagianni, che occupa spesso i ruderi.<br />

Ricchissima la fauna di invertebrati che comprende numerosi insetti tipici di questo ambiente che costituisce, tra l’altro,<br />

un habitat molto favorevole alle scolopendre e agli scorpioni (non preoccupatevi! a dispetto della loro cattiva fama,<br />

non hanno niente a che vedere con i loro pericolosi cugini tropicali). Tra gli anfibi si vedono le raganelle, piccole rane<br />

arboricole dalla voce penetrante, e il rospo smeraldino; tra i rettili, che in questo ambiente trovano il loro paradiso,<br />

oltre a tutte le specie italiane di gechi e di lucertole (compresi ramarro e lucertola ocellata) scinchi e gongili, orbettini,<br />

il biacco, serpente che preferisce la macchia bassa e le radure, il cervone, che è il più grande serpente nostrano (supera<br />

i 2,5 m), il saettone dalle abitudini più arboricole degli altri (<strong>qui</strong>ndi frequentatore anche della macchia alta), la vipera<br />

comune, facile da osservare su rocce e muretti. Nel sud troviamo anche il bellissimo colubro leopardiano, uno dei più<br />

bei serpenti italiani. Frequentatrice abituale di questo ambiente è la testuggine terrestre, sia l’autoctona Testudo<br />

hermani che le meno abbondanti T. graeca e T. marginata.<br />

Numerosi i mammiferi: piccoli roditori come arvicole, ratti, topolini campagnoli, insettivori come i toporagni, le<br />

talpe che frequentano le radure e pascoli aridi, il riccio e diverse specie di pipistrelli; un abitante caratteristico è l’istrice,<br />

che contende alla marmotta il record di più grande roditore italiano; sono poi presenti la lepre e il coniglio selvatico.<br />

Altri piccoli mammiferi arboricoli sono lo scoiattolo rosso, il moscardino e il quercino, attivamente cacciati dalla sempre<br />

più rara martora, unico predatore arboricolo. Tra gli altri predatori, oltre all’onnivoro tasso, troviamo la faina, la donnola,<br />

la puzzola e l’ubi<strong>qui</strong>taria volpe. Tra gli ungulati, originari di questo ambiente sono il capriolo e il cervo, ai quali si è<br />

aggiunto il daino, importato in epoca storica dall’Asia minore, che ha spesso un effetto devastante sulla vegetazione<br />

della macchia. A questo proposito un cenno a parte merita il cinghiale, la cui varietà italiana piccola, rustica e poco<br />

prolifera sarebbe assai adatta a questo ambiente in cui si è evoluta; purtroppo è stata soppiantata, in gran parte del<br />

nostro Paese, da sciagurati ripopolamenti con esemplari dell’est europeo, adattati ai boschi di latifoglie ricchi di cibo,<br />

di dimensioni e prolificità doppie rispetto a quelle dei cinghiali nostrani, con conseguenti devastanti effetti sulla<br />

vegetazione mediterranea e sulle colture confinanti.<br />

Stagni salmastri e laghi costieri<br />

Nei lunghi tratti di costa pianeggiante, spesso il confine tra la terra e l’acqua non è così netto come potrebbe<br />

apparire: con una certa frequenza alle spalle delle dune sabbiose si formano lagune, laghi e stagni costieri. Sono<br />

ambienti umidi di straordinaria importanza, in cui la vita è fortemente condizionata dalla presenza più o meno<br />

significativa del sale.<br />

Anche se in alcuni casi le lagune sono create da movimenti di sprofondamento del territorio costiero, nella maggior<br />

parte la presenza di questi ambienti può essere ascritta all’azione delle onde marine.<br />

Le stesse onde che creano spesso problemi per la forte azione erosiva, in punti della linea costiera depositano quello<br />

che in altre parti hanno strappato.<br />

Il litorale lagunare si sviluppa <strong>qui</strong>ndi nei punti dove il moto ondoso può scaricare i sedimenti che derivano o dal<br />

trasporto di fiumi (spesso le lagune si sviluppano in connessione con le aree fluviali) oppure provenienti dall’erosione<br />

operata su altre aree costiere.<br />

Questo fenomeno si verifica in particolare quando il moto ondoso non è diretto in modo perpendicolare alla costa,<br />

ma la colpisce in modo obliquo, creando un flusso di sedimenti che vengono trasportati parallelamente alla costa e<br />

che finiscono per depositarsi ed accumularsi dove le onde, per diversi motivi, perdono la loro energia e forza.<br />

Questo può avvenire per l’esistenza di fondali con pendii molto dolci o per la presenza di ostacoli come secche,<br />

31


32<br />

isole o promontori. Si creano così zone di calma che consentono alle correnti di scaricare<br />

sedimenti e accumularli, dando luogo a delle barre sabbiose sommerse che possono innalzarsi<br />

sino a emergere, formando dei cordoni sabbiosi paralleli alla costa. In altri casi questi possono<br />

congiungere la costa alle isole o ai promontori: sono i tomboli, come quelli che si possono<br />

ammirare sul promontorio dell’Argentario e che delimitano la laguna di Orbetello.<br />

Con il tempo queste barre, che modificano a loro volta l’andamento delle correnti, finiscono<br />

con il saldarsi alla costa intrappolando al loro interno spazi di mare più o meno ampi, dando<br />

vita così a lagune, laghi costieri e stagni salsi e salmastri.<br />

Spesso, con il continuo depositarsi della sabbia e con la formazione di dune grazie all’azione<br />

del vento, diminuiscono gli apporti di acqua salata, dando vita a laghi di acqua dolce.<br />

Questo ambiente è generalmente caratterizzato da una notevole variabilità di fattori<br />

fondamentali come l’ossigenazione delle acque, la salinità e la quantità d’acqua presente nel<br />

bacino; variabilità che si genera in relazione alla tendenza all’insabbiamento, all’eventuale<br />

apporto d’acqua dolce, alle infiltrazioni di acqua salata, all’evaporazione (alcuni bacini si<br />

prosciugano nel periodo estivo).<br />

Questi specchi d’acqua costituiscono ambienti ricchissimi di vita, sia vegetale che animale.<br />

La vegetazione varia ovviamente a seconda delle caratteristiche dei suoli circostanti e del<br />

contenuto salino dell’acqua. Potremo dunque avere lungo le rive piante come lo statice, la suaeda<br />

marina o la salicornia che, come è facile intuire dal suo stesso nome, è amante delle alte<br />

concentrazioni saline, oppure una fitta distesa di canneti, carici, giunchi, tife, felci palustri, con<br />

una vegetazione sommersa che sfuma da alghe tipicamente marine come l’ulva alla vegetazione<br />

tipica dei laghi di acqua dolce.<br />

Il canneto può essere presente sia nelle paludi d’acqua dolce che negli stagni, nelle lagune<br />

e nei laghi salmastri, perché esistono specie tolleranti al sale (eurialine) e altre meno tolleranti<br />

(stenoaline).<br />

Questi ambienti, che un tempo venivano considerati plaghe desolate da bonificare e<br />

prosciugare, hanno in realtà una ricchissima fauna ittica, tanto che ai nostri giorni sono diventati<br />

importanti per la piscicoltura. Tra le diverse specie presenti spiccano pesci come le orate, le<br />

spigole o i cefali, in grado di vivere indifferentemente sia in mare che in acqua dolce. I cefali,<br />

che sono per questo annoverati tra le specie eurialine, a primavera entrano in gran numero nelle<br />

lagune e nei laghi comunicanti con il mare per poi uscirne in autunno, prima degli accoppiamenti<br />

invernali.<br />

Anche le anguille rientrano a buon diritto tra la fauna tipica di questi luoghi. Pesci dal corpo<br />

serpentiforme e dalla straordinaria capacità di resistenza fuori dall’acqua (respirano oltre che con<br />

le branchie anche attraverso la pelle umida) nascono in mare aperto dove le larve dalla tipica<br />

forma a foglia compiono i vari stadi della loro metamorfosi; a tre anni di età risalgono i fiumi e<br />

i corsi d’acqua, insediandosi anche nei laghi sia salmastri che di acqua dolce. Le anguille<br />

mediterranee nascono in pieno Oceano Atlantico, nel Mar dei Sargassi, penetrano attraverso<br />

Gibilterra, allungando il loro viaggio di un anno rispetto alle anguille nord europee.<br />

Per raggiungere la loro destinazione compiono un viaggio incredibile; durante la migrazione,<br />

che sembra sia guidata dall’olfatto e che le conduce a specchi d’acqua dove risiedono già anguille<br />

adulte, sono addirittura in grado di uscire fuori dall’acqua, strisciando come serpenti durante la<br />

notte sul terreno molto umido, per raggiungere stagni o laghetti isolati.<br />

I maschi trascorrono in questi luoghi dai 10 ai 12 anni mentre le femmine, molto più grandi,<br />

dai 10 ai 18 anni per poi migrare di nuovo in mare aperto per riprodursi, sempre nel Mar dei<br />

Sargassi. Alcuni esemplari, invece, trascorrono tutto il resto della loro vita nelle acque dolci e<br />

finiscono con il raggiungere dimensioni veramente considerevoli: le femmine possono superare<br />

1,5 m di lunghezza e i 5 kg di peso. La vita di questi esemplari può essere molto lunga e si<br />

conoscono casi di anguille allevate in acquario o in piccoli stagni vissute oltre 80 anni!<br />

Tra gli altri vertebrati troviamo rane e raganelle, oltre alla bellissima biscia d’acqua, e alle<br />

tartarughe palustri mentre numerosi mammiferi frequentano le rive, alcuni tipici come il toporagno<br />

acquaiolo, altri presenti anche nella macchia circostante.<br />

Una nuova specie da qualche tempo popola le acque di fiumi, laghi e lagune italiane. Parliamo<br />

della nutria, o castorino americano, grosso roditore originario del Sud America dall’aspetto simile<br />

a un gigantesco ratto, con la lunga coda scagliosa. Parecchi esemplari, fuggiti dagli allevamenti<br />

(o liberati volontariamente) hanno finito con il colonizzare molti corsi e specchi d’acqua. Altre<br />

specie esotiche arrivate nel nostro Paese sono il topo muschiato e il visone. Anche i ratti,<br />

ovviamente, frequentano le rive degli specchi d’acqua costieri, con una particolarità: vicino<br />

all’acqua, invece di fare il nido scavando gallerie nel terreno, costruiscono sui rami degli alberi<br />

più grandi dei complessi nidi di foglie dalla forma più o meno sferica!<br />

un airone cinerino<br />

nel lago costiero<br />

7<br />

LE COSTE


Ma lo spettacolo realmente straordinario è quello offerto dagli uccelli acquatici, a partire dal grande elegante<br />

fenicottero rosa. Negli stagni salmastri della Sardegna nidifica ormai dal 1994; forma grandi stormi di centinaia di<br />

individui che si nutrono di artemie saline (piccoli crostacei) che filtrano con il loro particolarissimo becco. Oggi si<br />

possono avvistare anche nel resto d’Italia. Gli eleganti aironi, il grigio, il rosso, la garzetta e il tarabuso, le tante specie<br />

di anatre, germani reali, folaghe, tuffetti, svassi, porciglioni, cormorani, cavalieri d’Italia, martin pescatori, il falco di<br />

palude, trasformano questi luoghi in autentici paradisi per i bird watchers di ogni età, purché forniti di un binocolo, di<br />

una macchina fotografica e di un buon manuale di identificazione.<br />

33


8LA<br />

PRESSIONE DeLL’UOMO<br />

SUGLI ECOSISTEMI MARINI


L’in<strong>qui</strong>namento<br />

Che vuol dire in<strong>qui</strong>namento<br />

Una delle principali conseguenze che le attività di una società industrializzata hanno sugli oceani, da sempre utilizzati<br />

come discarica finale, è l'in<strong>qui</strong>namento. Secondo gli esperti dell’ONU che si occupano di mare, l’in<strong>qui</strong>namento marino si<br />

può definire come «l’introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino... che<br />

provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa<br />

la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua e riduzione delle attrattive». Secondo questa definizione, <strong>qui</strong>ndi,<br />

l’in<strong>qui</strong>namento non è solo quello causato dalla fuoriuscita di petrolio durante un incidente oppure prodotto da attività illegali<br />

di scarico in mare di rifiuti, magari tossici, ma può assumere molte differenti forme, dalla immissione nel mare di acque<br />

calde per il raffreddamento di impianti industriali o delle centrali -che possono alterare la composizione delle comunità viventi<br />

presenti- al rumore prodotto dalle attività umane civili o militari che disturba i cetacei, all’immissione nell’ambiente marino<br />

di tutte le varie sostanze prodotte dall’uomo, come quelle presenti negli scarichi industriali o negli scarichi fognari urbani<br />

non depurati, che provocano in<strong>qui</strong>namento microbiologico o eutrofizzazione, o la dispersione in acqua dei pesticidi e dei<br />

fertilizzanti usati in agricoltura o delle altre miriadi di sostanze chimiche che usiamo ogni giorno come medicine, lubrificanti,<br />

detersivi, prodotti di bellezza, ritardanti antifiamma, isolanti elettrici, oppure gli scarti delle lavorazioni minerarie, o i rifiuti<br />

radioattivi ospedalieri, o gli indistruttibili cotton fioc che gettati nel water intasano i depuratori sino a tutta la plastica che<br />

produciamo: buste, barattoli e bottigliette. Tutti oggetti che se non vengono correttamente smaltiti e riciclati molto spesso<br />

finiscono in mare.<br />

L’accumulo degli in<strong>qui</strong>nanti<br />

Gli in<strong>qui</strong>nanti possono essere assorbiti dagli organismi in maniera diretta (per contatto o per ingestione della sostanza<br />

in<strong>qui</strong>nante) o indiretta, attraverso la catena trofica con il consumo di animali e piante che a loro volta sono entrati in<br />

contatto con la sostanza in<strong>qui</strong>nante e l’hanno accumulata o concentrata nel proprio organismo. Alcuni tipi di sostanze<br />

tossiche, come il mercurio, il PCB, il DDT, tendono ad accumularsi e a concentrarsi all’interno delle catene alimentari e delle<br />

catene trofiche a causa di due fenomeni, il bioaccumulo e la magnificazione biologica, di cui abbiamo già parlato e che<br />

possono combinarsi insieme con effetti disastrosi per l’ambiente.<br />

Magnificazione<br />

biologica:<br />

il fitoplancton viene<br />

ingerito dallo<br />

zooplancton di cui si<br />

nutre la sardina, che<br />

viene a sua volta<br />

predata dal tonno.<br />

Seguendo la catena<br />

alimentare, le<br />

sostanze tossiche si<br />

possono accumulare<br />

in quantità via via<br />

maggiori fino a<br />

divenire pericolose<br />

anche per l'uomo<br />

35


36<br />

Tipologie di in<strong>qui</strong>namento<br />

Possiamo distinguere tre differenti tipi di in<strong>qui</strong>namento marino:<br />

in<strong>qui</strong>namento sistematico causato dall’immissione continua nel tempo di in<strong>qui</strong>nanti: scarichi<br />

fognari, reflui industriali, dilavamento terreni,<br />

in<strong>qui</strong>namento operativo causato dall’esercizio di natanti: lavaggio cisterne, scarico delle acque<br />

di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antifouling,<br />

in<strong>qui</strong>namento accidentale causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da<br />

piattaforme, rottura condotte,<br />

In<strong>qui</strong>namento di origine marina.<br />

Secondo l’Organizzazione Marittima Internazionale delle Nazioni Unite tra le fonti di<br />

in<strong>qui</strong>namento delle acque solo il 23% è costituito da sorgenti marine e tra queste la percentuale<br />

del 12% è quella legata all’in<strong>qui</strong>namento dovuto al trasporto marittimo, alle attività di discarica<br />

a mare e alle attività di perforazione delle piattaforme petrolifere. Il 44% delle sostanze in<strong>qui</strong>nanti<br />

arriva invece dalla terraferma e il 33% dall'atmosfera. Secondo l’UNEP, il programma ambientale<br />

delle Nazioni Unite che si occupa di protezione dell’ambiente, finiscono in mare ogni anno oltre<br />

121 milioni di barili di petrolio provenienti sia da fonti terrestri che marine. Di questa enorme cifra,<br />

oltre 12 milioni di barili sono dovuti al solo traffico navale e di questi solo una parte relativamente<br />

piccola, circa 600.000 barili è prodotta da incidenti.<br />

Il resto proviene tutto o da operazioni illegali, come il lavaggio delle cisterne o da operazioni<br />

cosiddette di routine, cioè di scarichi in mare di miscele oleose che non solo sono perfettamente<br />

legali ma sono anche legati alla normale attività operazionale della nave, come per esempio lo<br />

scarico dell’acqua di sentina.<br />

Dati forniti dal Piano D’azione Mediterraneo delle Nazioni Unite ci dicono che da 100.000 a<br />

150.000 tonnellate di idrocarburi finiscono ogni anno nelle acque del mare nostrum (oltretutto per<br />

restarci visto che, come abbiamo già detto, il Mediterraneo impiega 100 anni circa per rinnovare le<br />

sue acque), in gran parte per in<strong>qui</strong>namenti legati a operazioni di routine. Si tratta di una quantità<br />

da 5 a 8 volte maggiore del petrolio fuoriuscito nel corso degli incidenti dell’Erika e del Prestige che<br />

causarono le due ultime terribili maree nere in Francia e Spagna e questo accade ogni anno!<br />

Oltre alle maree nere ci sono poi altre forme di in<strong>qui</strong>namento provocate dalla attività di una<br />

nave. Per esempio gli scarichi degli impianti igienici (pensate che alcune grandi navi da crociera<br />

hanno a bordo migliaia di persone, ovvero tanta gente quanta ce n’è in una piccola città!) e i<br />

rifiuti di bordo: rifiuti organici dalle cucine o plastica, vetro e scatolame provenienti dagli<br />

imballaggi del cibo e delle bevande che spesso finiscono con l’essere smaltiti semplicemente<br />

gettandoli in mare. Poi c’è l'in<strong>qui</strong>namento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di<br />

trasporto, infatti, le navi fino ad oggi hanno adoperato carburanti in cui il contenuto in zolfo e<br />

in ossidi di azoto (NO x) non era sottoposto ad alcuna limitazione (anzi diciamo che hanno<br />

adoperato quello che era troppo sporco per essere usato a terra!). Solo adesso sia a livello<br />

europeo che internazionale stanno entrando in vigore norme per diminuire l’impatto delle<br />

emissioni delle navi. La presenza di zolfo nei carburanti è all’origine delle piogge acide mentre<br />

un'altra fonte non trascurabile del fenomeno è rappresentata dalla deposizione atmosferica di<br />

ossidi di azoto (NO x) derivanti dalle loro emissioni.<br />

Particolarmente grave è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino<br />

attraverso le acque di zavorra, ma di questo parleremo in seguito con maggiore attenzione.<br />

In<strong>qui</strong>namento di origine terrestre<br />

Come abbiamo visto, secondo le Nazioni Unite circa l’80% di tutto l'in<strong>qui</strong>namento che troviamo<br />

nei mari e negli oceani deriva dalle attività a terra. Molte sostanze pericolose penetrano nell'ambiente<br />

marino in seguito allo scarico, all'emissione e alla fuoriuscita connessi a processi industriali, mentre<br />

un’altra serie impressionante di sostanze provengono dall’agricoltura intensiva che utilizza grandi<br />

quantità di pesticidi e fertilizzanti. Ma anche le normali attività commerciali o domestiche possono<br />

contribuire moltissimo! Spesso non ci si rende conto di tutto quello che noi stessi immettiamo<br />

giornalmente nell’ambiente e che finirà poi in mare, basti pensare agli amanti del fai da te che si<br />

cambiano da soli l’olio della macchina o del motorino e versano nello scarico l’olio esausto, spesso<br />

non sapendo che un litro di olio esausto può contaminare migliaia di litri di acqua di mare. Pensiamo<br />

poi alle medicine scadute o ai residui di sciroppi e antibiotici che laviamo via dal cucchiaio e facciamo<br />

finire in mare. O a tutte le centinaia di prodotti per la pulizia della casa, sempre più specializzati,<br />

anche se in realtà contengono sempre le stesse sostanze, detersivi che finiscono comunque in mare,<br />

e poi prodotti insospettabili, sostanze utilizzate come isolanti o ritardanti antifiamma nelle<br />

apparecchiature elettroniche, come i policlorobifenili o PCB una sostanza che per la sua caratteristica<br />

di persistenza ormai troviamo ovunque, persino nel latte materno e di cui non conosciamo ancora<br />

molti dei rifiuti che<br />

finiscono in mare<br />

liberano sostanze<br />

altamente in<strong>qui</strong>nanti<br />

e nocive per la<br />

salute<br />

ogni anno<br />

più di 100.000 t di<br />

idrocarburi finiscono<br />

nel Mediterraneo<br />

per operazioni<br />

illegali o di routine,<br />

senza contare gli<br />

sversamenti per<br />

incidenti<br />

8<br />

LA PRESSIONE DELL’UOMO<br />

SUGLI ECOSISTEMI MARINI


gli effetti sulla nostra salute. Data l’intrinseca tossicità, persistenza e tendenza al bioaccumulo, molte sostanze naturali e<br />

artificiali sono in grado di danneggiare i processi biologici negli organismi acquatici e possono anche finire con il penetrare<br />

nel nostro organismo.<br />

La natura degli in<strong>qui</strong>nanti<br />

L'impatto dell'in<strong>qui</strong>namento sul mare assume varie forme. L'in<strong>qui</strong>namento che deriva dai liquami delle fognature<br />

non sufficientemente depurate può creare problemi di in<strong>qui</strong>namento microbiologico, con presenza di virus come quello<br />

dell’epatite e batteri coliformi fecali. Ciò dipende dal mancato o insufficiente trattamento delle acque reflue. Gli scarichi<br />

urbani, la presenza di alcune sostanze presenti nei detersivi e gli scarti dell'agricoltura sono alla base del fenomeno<br />

chiamato eutrofizzazione, causata da un eccessivo apporto di nutrienti (azoto e fosforo). Un'altra fonte d’in<strong>qui</strong>namento<br />

non trascurabile è rappresentata dalla deposizione atmosferica di ossidi di azoto derivante dalle emissioni delle navi,<br />

che favorisce, in prossimità delle coste, la proliferazione di alghe che sottraggono ossigeno all'acqua. L'in<strong>qui</strong>namento<br />

industriale peggiora spesso la situazione, perché alcune delle sostanze che dagli scarichi delle industrie finiscono in<br />

mare contribuiscono anch’esse a sottrarre ossigeno all'acqua. Del petrolio abbiamo già parlato ma ci sono altre sostanze<br />

chimiche che minacciano la salute degli oceani. Sono infatti circa 100.000 i composti chimici impiegati in tutto il mondo,<br />

un numero alto che aumenta continuamente con un ritmo di oltre mille nuove sostanze immesse ogni anno sul mercato.<br />

Di queste, oltre 4500 sono potenzialmente pericolose per la salute dell’uomo e degli organismi marini; sono i cosiddetti<br />

POP, Persistent Organic Pollutant, ovvero in<strong>qui</strong>nanti organici persistenti, una definizione complicata per descrivere una<br />

cosa molto semplice: si tratta di sostanze che non solo sono tossiche, ma non vengono degradate nell’ambiente marino<br />

e tendono ad accumularsi nei tessuti degli organismi provocando conseguenze gravi come alterazioni del sistema<br />

ormonale, tumori, sviluppo embrionale alterato, inversione sessuale, difficoltà riproduttive, alterazioni del processo di<br />

crescita e del sistema immunitario. Alcuni esempi sono le diossine, i PCB insieme a molti tipi di insetticidi e al DDT.<br />

Come se non bastasse i POP possono essere trasportati lungo grandi distanze in atmosfera attraverso il meccanismo<br />

dell’evaporazione e della precipitazione delle piogge, con una tendenza a rimanere in maggiore quantità nelle regioni<br />

più fredde, dove l’evaporazione è meno intensa. Il risultato è che troviamo DDT -che ormai è usato solo da alcuni Paesi<br />

cosiddetti sottosviluppati per combattere il flagello della malaria- nei tessuti del salmone scozzese, nel grasso delle<br />

foche artiche e nell’organismo dei cacciatori inuit che di quelle foche si nutrono! La cosa più preoccupante, perché può<br />

darci una idea concreta di quanto persistenti siano questi composti, è che alcune delle sostanze più pericolose, da<br />

tempo ormai non utilizzate, continuano ad essere rinvenute in abbondanza nell'ambiente marino che ne conserva così<br />

la memoria. Quello che non bisogna mai dimenticare è che gli esseri umani sono in cima alla catena alimentare e<br />

<strong>qui</strong>ndi rischiano di essere i recettori finali di contaminanti che tendono al bioaccumulo e alla bioamplificazione.<br />

L'incremento delle attività umane lungo la costa (ad es. sviluppo dei porti, lavori di protezione del litorale, bonifica<br />

dei terreni, attività turistiche, estrazione della sabbia e della ghiaia) ha un grave impatto sugli habitat costieri e sui<br />

relativi processi ecologici, che può ripercuotersi anche a notevole distanza dalla riva. In particolare tra le attività<br />

industriali destano preoccupazione e necessitano di particolare regolamentazione le industrie minerarie (anche le<br />

piattaforme petrolifere) e le industrie di lavorazione dei metalli: la quantità di mercurio rilasciato nell'ambiente dalle<br />

attività industriali è quattro volte quella imputabile ai processi naturali come le eruzioni vulcaniche. L'in<strong>qui</strong>namento da<br />

macrorifiuti (plastica, polistirolo, lattine, bottiglie) è un problema che è purtroppo divenuto comune in tutti i mari del<br />

globo. Secondo un rapporto dell’UNEP ogni anno circa 6,4 milioni di tonnellate di macrorifiuti vengono scaricati in mare,<br />

con una media di oltre 8 milioni di pezzi al giorno! Di questi oltre 5.000.000 proverrebbero dalle navi. Nel Mare del<br />

Nord alcuni scienziati tedeschi hanno contato 110 pezzi di rifiuti (barattoli, bottiglie, plastica) per chilometro quadrato<br />

37


38<br />

di fondale: 600mila tonnellate solo nel Mare del Nord. Questi rifiuti possono soffocare i fondali<br />

e uccidere le forme di vita che li abitano. Ma è la plastica la minaccia maggiore: ogni anno<br />

vengono prodotte quasi dieci milioni di tonnellate di plastica, il 10% delle quali finisce in mare.<br />

Una buona fetta della plastica (fino al 70%) è più pesante dell'acqua e finisce sui fondali, come<br />

ben sanno i nostri pescatori a strascico: basterebbe dotare tutti i porti pescherecci di isole<br />

ecologiche per consentire ai pescatori di smaltire i rifiuti raccolti con le reti anziché rigettarli a<br />

mare, per raccoglierne migliaia di tonnellate all’anno. Conseguenze della presenza di questi<br />

rifiuti in mare sono l'annegamento degli uccelli, che rimangono intrappolati nei sacchetti di<br />

plastica, e la morte delle tartarughe, degli uccelli e dei cetacei per ingestione. Secondo le<br />

Nazioni Unite la plastica che finisce nei nostri mari uccide ogni anno fino a 1 milione di uccelli<br />

marini, 100.000 mammiferi marini e un numero incalcolabile di pesci. E la plastica non si<br />

decompone, se non in migliaia di anni. Il mare, il moto ondoso, il sole e l'abrasione meccanica<br />

riducono la plastica in minuscoli frammenti: ogni singola bottiglia può essere ridotta in tanti<br />

piccoli pezzi che rimarranno in mare per centinaia di anni. E questo rende ancora più grave il<br />

problema perché le creature del mare si decompongono ma non si decompone la plastica che<br />

le ha uccise, che rimane nell'ecosistema ed è perciò potenzialmente in grado di uccidere altre<br />

creature e di farlo più volte.<br />

Come se non bastasse, molti studi hanno dimostrato che la plastica assorbe magnificamente i<br />

contaminanti concentrandoli, diffondendoli e rendendoli ancora più micidiali per le creature che<br />

dovessero ingerirli. Inoltre i rifiuti di plastica trasportano vari tipi di organismi che li usano come una<br />

sorta di zattera per arrivare ed espandersi in zone che altrimenti non sarebbero in grado di<br />

raggiungere.<br />

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, in ogni km quadrato dei mari del mondo galleggiano<br />

13.000 pezzi di plastica. I rifiuti di plastica tendono inoltre ad accumularsi in quelle aree di mare dove<br />

i venti e le correnti sono deboli. Ci sono così aree oceaniche di enormi dimensioni che diventano<br />

una sorta di isola di plastica galleggiante con concentrazioni tali che per ogni kg di plancton ne<br />

troviamo 6 di rifiuti!!<br />

Solo adesso si cominciano a prendere iniziative a livello internazionale per affrontare il problema,<br />

ma ciascuno di noi può fare la sua parte, sia cercando di evitare o limitare l'ac<strong>qui</strong>sto di prodotti che<br />

contengano parti in plastica (in particolare dei prodotti usa e getta) sia gestendo i propri rifiuti in<br />

maniera responsabile. D'altra parte, occorre sensibilizzare i proprietari di barche, i gestori delle<br />

piattaforme e chi lavora nel settore della pesca sulle conseguenze ambientali che ha l'abitudine<br />

irresponsabile di gettare oggetti di plastica in mare. E possiamo fare anche dell’altro: è stato calcolato<br />

un consumo medio annuo procapite di circa 300 g di pile nel nostro Paese, 300 g che contengono<br />

almeno 1 g di mercurio, quantità sufficiente a contaminare 1.000 metri cubi di acqua e rendere<br />

immangiabili 200 <strong>qui</strong>ntali di alimenti. Usare batterie ricaricabili e riciclare negli appositi contenitori<br />

le batterie usate aiuta il nostro mare.<br />

20.000 bombe in fondo al mar<br />

Come se tutto quello che abbiamo detto del nostro mare non fosse già abbastanza, si resta<br />

sconcertati nello scoprire che nelle sue profondità si cela anche un vero e proprio arsenale:<br />

bombe a grappolo, bombe a mano, ordigni chimici contenenti agenti letali o altamente tossici,<br />

proiettili all’uranio impoverito; la guerra continua in fondo al mare. Tutto è cominciato durante<br />

la prima guerra mondiale quando alcuni paesi belligeranti iniziarono una grande produzione di<br />

armi chimiche. Nonostante il trattato di Versailles del 1922 e la convenzione di Ginevra del ’25<br />

avessero messo al bando il loro uso, molte nazioni, tra cui l’Italia, continuarono a produrne in<br />

grandi quantità e a lungo. Dove credete che siano finite tutte le bombe di cui gli stati dovettero<br />

poi liberarsi? Ma in fondo al mare naturalmente! In osse<strong>qui</strong>o al caro vecchio concetto del mare<br />

pattumiera che può assorbire e nascondere tutto, dalle bombe chimiche a quelle sganciate dagli<br />

aerei che tornavano carichi dalle missioni di guerra in Kossovo e che non potevano atterrare con<br />

le bombe innescate. Basta chiedere ai pescatori che ogni tanto con le reti ne tirano su qualcuna.<br />

Per non parlare di tutti i rifiuti tossici che sono finiti in fondo al mare con le vecchie carrette, le<br />

famose navi dei veleni che le trasportavano, affondate in base al principio dei due piccioni con<br />

una fava: non solo mi sbarazzo di rifiuti pericolosi che avrei dovuto smaltire con grandi spese,<br />

ma prendo anche i soldi dell’assicurazione!!<br />

Conseguenze dell’in<strong>qui</strong>namento sull’ambiente marino e sull’uomo<br />

Gli effetti degli in<strong>qui</strong>namenti in mare possono essere acuti, ovvero immediatamente percepibili<br />

e generalmente provocano la morte degli organismi animali e/o vegetali. Comportano grandi e visibili<br />

modificazioni immediate all’ecosistema. Un esempio tipico di effetto acuto è quello costituito da una<br />

marea nera di petrolio: in mare il greggio forma una sottile pellicola che impedisce la penetrazione<br />

8<br />

LA PRESSIONE DELL’UOMO<br />

SUGLI ECOSISTEMI MARINI


TEMPI MEDI DI DEGRADO DI RIFIUTI GETTATI IN MARE<br />

Fazzolettino di carta: 3 mesi Fiammifero: 6 mesi Mozzicone di sigaretta: da 1 a 5 anni<br />

Gomma da masticare: 5 anni Busta di plastica: da 10 a 20 anni Cotton-fioc: da 20 a 30 anni<br />

Prodotti di nylon: da 30 a 40 anni Accendino di plastica: da 100 a 1.000 anni<br />

Bottiglia di vetro: 1.000 anni Polistirolo: 1.000 anni<br />

dell’ossigeno atmosferico nell’acqua provocando condizioni di anossia, ovvero mancanza di ossigeno, limita la penetrazione<br />

della luce con ripercussioni sull’attività fotosintetica di alghe, fanerogame marine e fitoplancton, provocando una sensibile<br />

diminuzione della produzione primaria; infine aderisce agli organismi che vivono o interagiscono con la superficie -mammiferi<br />

marini, uccelli, organismi bentonici che vivono nelle aree periodicamente esposte dalla marea (intertidali), alghe, stadi<br />

larvali, gameti- impedendone le normali funzioni vitali.<br />

L’effetto di un in<strong>qui</strong>namento può invece divenire di tipo cronico, assumendo una forma molto più subdola e insidiosa.<br />

Questo avviene quando la tossicità rimane ad un livello tale da non uccidere immediatamente gli organismi, ma le sostanze<br />

in<strong>qui</strong>nanti sono presenti ad un livello di concentrazione tale da provocare alterazioni sostanziali delle condizioni chimicofisiche<br />

dell’ambiente che con tempi più o meno lunghi si ripercuotono sull’ecosistema. Questa forma di in<strong>qui</strong>namento<br />

finisce con il provocare effetti ritardati ma prolungati nel tempo come malattie croniche o tumori, che possono manifestarsi<br />

anche dopo diverso tempo, oppure danneggiare il patrimonio genetico, provocando una diminuzione della capacità di<br />

riprodursi, o di generare prole sana o ancora provocare effetti a livello dell’ecosistema come modificazioni della composizione<br />

in specie delle comunità colpite dall’in<strong>qui</strong>namento o modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-predatore) per cui<br />

spesso si verifica una drastica riduzione della biodiversità.<br />

Il costo dell’in<strong>qui</strong>namento: l’impronta ecologica<br />

L’impronta ecologica è un modo suggestivo per misurare l’impatto della nostra specie sul nostro pianeta ed è costituito<br />

in pratica dalla risposta a questa domanda: quanta Terra una persona richiede per poter sopravvivere? L'impronta ecologica<br />

non è altro che uno strumento statistico che, pur essendo tutt’altro che preciso poiché non è in grado di tenere conto di<br />

tutti gli impatti correlati alla nostra attività e presenza sul pianeta, tuttavia è in grado di dare una buona approssimazione<br />

(sottostimata!) dell’'impatto ambientale dei nostri consumi e del nostro peso sul pianeta. Il concetto di base è che ogni<br />

bene o attività umana comporta dei costi ambientali -cioè prelievi di risorse naturali- quantificabili in termini di metri quadri<br />

o ettari di superficie. A seconda del tipo di consumo si farà riferimento a un tipo di superficie piuttosto che a un altro.<br />

Confrontando l'impronta di un individuo o di uno stato (il discorso può ovviamente essere fatto semplicemente<br />

moltiplicando i valori ottenuti per un singolo cittadino di un determinato paese per il numero di cittadini), con la quantità<br />

di Terra effettivamente disponibile per ciascuno di noi (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può<br />

capire se il livello di consumi preso in esame è più o meno sostenibile. L'intera superficie delle terre emerse è composta<br />

da foreste ed aree boschive, pascoli, terra coltivata o coltivabile, aree costruite, distese di rocce, ghiacciai e deserti non<br />

utilizzabili per il sostentamento o la produzione di energia. Anche gli oceani e la loro capacità produttiva entrano in questa<br />

misurazione. Il risultato di questo calcolo è il peso che ognuno di noi ha sulle risorse del pianeta. Quello che possiamo<br />

scoprire è che l’impronta mondiale è leggermente superiore alla capacità produttiva del nostro pianeta, ovvero che stiamo<br />

consumando più risorse di quanto la Terra è in grado di fornirci e che <strong>qui</strong>ndi stiamo intaccando il capitale naturale. Inoltre,<br />

a fronte di una capacità sostenibile di 1.9 ettari procapite, la media mondiale è di 2.2 ettari e a creare questo s<strong>qui</strong>librio non<br />

contribuiamo tutti allo stesso modo! Si va infatti dai 9.6 ettari che servono per sostentare i consumi di un cittadino USA o<br />

di un cittadino austriaco, all’unico ettaro che deve bastare a un cittadino indiano, o allo 0.7 di un etiope, passando attraverso<br />

i 4.2 dell’Italia, i 5.3 della Francia e gli oltre 6 della Svezia. E sono dati del 1995 che vedono per esempio la Cina pesare<br />

per soli 1.4 ettari a testa, mentre sappiamo come in questi anni i consumi e lo stile di vita cinesi così come quelli indiani,<br />

si siano molto avvicinati ai nostri. Quindi vuol dire che il nostro peso è ancora aumentato e che il nostro pianeta non potrà<br />

mai sostenere una popolazione mondiale che abbia tutta lo stesso stile di vita e di consumi. L'Impronta ecologica di uno<br />

statunitense medio è quasi il doppio di quella richiesta da un europeo occidentale, e circa 5 volte più grande di quella di<br />

un abitante di un paese in via di sviluppo. Se attualmente ogni essere umano consumasse tante risorse naturali ed emettesse<br />

tanta CO2 quanto un americano, avremmo bisogno di una superficie complessiva pari ad altri due pianeti come la Terra!<br />

.<br />

la pesca incontrollata e la pesca abusiva<br />

Quando parliamo di pesca parliamo di un mondo molto variegato e complesso in cui il 90% dei pescatori mondiali è<br />

coinvolto nella piccola pesca artigianale costiera, ma in cui il restante 10% è responsabile di oltre il 50% del prelievo. Più<br />

di 3.5 miliardi di persone dipendono dall'oceano per la loro fonte primaria di alimento, ed è un numero che si prevede possa<br />

raddoppiare nei prossimi 20 anni.<br />

Il 95% del pescato mondiale proviene dalle acque costiere (80 milioni di tonnellate) che sono quelle soggette ai<br />

maggiori rischi derivanti dall’in<strong>qui</strong>namento e dal disturbo costituito dalle attività umane.<br />

Molti stock di specie ittiche d'importanza commerciale, come il merluzzo e il nasello, hanno raggiunto livelli critici; la<br />

maggior parte delle specie oggetto di pesca è sfruttata ben oltre i limiti della sostenibilità. Secondo la FAO più del 70%<br />

39


40<br />

delle specie marine pescate sono sfruttate fino o addirittura oltre il loro limite sostenibile e la<br />

consistenza delle popolazioni di grandi pesci commercialmente importanti, quali il tonno, il merluzzo,<br />

i pesci spada ed il marlin, è diminuita sino al 90% rispetto al secolo passato. Il 52% delle zone di<br />

pesca devono essere considerate come sfruttate al massimo della loro possibilità mentre il 25% è<br />

sovrasfruttato, con la conseguenza di rendere queste zone impoverite e vicine al collasso. Oltre 100<br />

milioni di squali sono uccisi ogni anno per la loro carne e per le pinne usate per la famosa zuppa<br />

considerata una vera prelibatezza in tutta l’Asia. Spesso i pescatori, per stivare una maggiore quantità<br />

del carico più prezioso, si limitano a tagliare le pinne all’animale ancora vivo rigettandolo in mare<br />

dove poi morirà. Ci si domanda per quale motivo continuiamo ad avere paura degli squali,<br />

responsabili di poche decine di attacchi all’anno nei mari di tutto il mondo, di cui fortunatamente<br />

pochi mortali, a fronte della strage che viene provocata dalla nostra specie, l’unico vero spietato<br />

predatore degli oceani.<br />

La pesca eccessivamente intensa causa gravi danni anche a specie ittiche non commerciali e ad<br />

altre specie animali, come i cetacei, le foche, gli uccelli e le tartarughe, si tratta del cosiddetto<br />

bycatch ovvero la cattura non voluta di specie che non interessano ai fini della pesca commerciale,<br />

causata dall'uso di attrezzature di pesca non selettiva, quali reti a circuizione, palamiti e derivanti<br />

ed ammonta alla spaventosa cifra di 20 milioni di tonnellate l'anno, con una cattura annuale di<br />

oltre 300.000 cetacei tra delfini, focene e altre specie.<br />

La pesca del gambero con il 2% del pescato globale, da sola provoca un terzo della cattura<br />

secondaria totale. Con un rapporto tra pescato e cattura accidentale che va da 5:1 nelle zone<br />

temperate al 10:1 e più nei tropici.<br />

Oltre all'impatto diretto sulle specie, la pesca commerciale condotta senza rispettare le leggi è<br />

responsabile dei danni ad alcuni tipi di habitat sensibili, come le praterie di posidonia e le scogliere<br />

coralline d’alto mare, mentre la pesca di specie situate sempre più in basso nella catena alimentare<br />

provoca alterazioni della struttura e del funzionamento dell'ecosistema marino.<br />

I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile hanno sottoscritto<br />

l’impegno di cercare di ristabilire urgentemente e possibilmente entro il 2015 la consistenza degli<br />

stock ittici nell’ottica di uno sfruttamento sostenibile delle specie maggiormente importanti dal punto<br />

di vista commerciale ma questo programma cozza contro l’azione di uno dei più gravi problemi<br />

connessi al mondo della pesca: la pratica della pesca illegale.<br />

Le comunità di pesca artigianale, che raccolgono la metà del pescato mondiale, stanno<br />

vedendo le loro vite sempre più minacciate dalle flotte commerciali illegali che utilizzando<br />

bandiere di comodo (perché è ai governi che spetta far rispettare le leggi ai propri pescatori,<br />

anche in acque internazionali) e, utilizzando le scappatoie purtroppo presenti nelle norme<br />

internazionali, sfuggono ai regolamenti per la gestione e la conservazione del patrimonio ittico<br />

e alle norme sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori che sono trattati spesso come autentici<br />

schiavi. La pesca pirata devasta gli ecosistemi marini e danneggia comunità costiere che fanno<br />

affidamento sulla pesca locale per il proprio sostentamento. Ogni anno, la pesca illegale mediante<br />

palamiti lunghi fino a 80 miglia, con migliaia di ami innescati provoca l’uccisione di oltre 300.000<br />

uccelli marini tra cui 100.000 albatros.<br />

I governi che aderiscono al programma mondiale di sviluppo sostenibile si sono impegnati a<br />

perseguire l’eliminazione delle pratiche della pesca globale e a diminuire le sovvenzioni alla pesca<br />

che non siano mirate a garantirne la sostenibilità. Le sovvenzioni di governo -valutate da 15 a 20<br />

miliardi di dollari all’anno- rappresentano quasi il 20% complessivo dei redditi all'industria della<br />

pesca in tutto il mondo e finiscono con il promuovere la pesca eccessiva e accelerare l’esaurimento<br />

delle risorse ittiche<br />

il bycatch minaccia<br />

tartarughe, cetacei,<br />

uccelli e altri<br />

animali non<br />

commerciabili<br />

8<br />

LA PRESSIONE DELL’UOMO<br />

SUGLI ECOSISTEMI MARINI


Il turismo selvaggio<br />

L’urbanizzazione eccessiva -spesso dovuta a fenomeni di abusivismo edilizio- e l’eccessivo carico antropico localizzato<br />

in periodi ristretti dell’anno possono mettere a dura prova gli ecosistemi marini delle località turistiche. Oltre 175 milioni<br />

sono i turisti che nell’arco dei pochi mesi estivi ed in particolare ad agosto, mese in cui chiudono la maggior parte delle<br />

aziende, si concentrano nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo, in particolare lungo le coste; secondo le stime dell’UNEP<br />

a questa enorme massa di presenze sono destinati ad aggiungersi da <strong>qui</strong> al 2025 altri 137 milioni di turisti.<br />

Il turismo di per sé è un fenomeno positivo, sia per chi lo pratica che ne trae indubbi vantaggi dal punto di vista<br />

dell’accrescimento culturale, dello scambio di vedute e di esperienza o anche semplicemente in termini di riposo, sia per i<br />

Paesi che dal turismo traggono importanti fette della propria ricchezza nazionale. Basti pensare che nella sola Italia il<br />

fatturato turistico nel 1997 ha rappresentato circa il 12% del PIL, una percentuale notevole di cui il 56% è stato generato<br />

direttamente dai consumi dei turisti. Un turismo sostenibile può <strong>qui</strong>ndi essere un importante volano di sviluppo ed una<br />

valida alternativa ad uno scriteriato sviluppo industriale in zone ancora poco industrializzate del mondo e del nostro stesso<br />

Paese. Ma in questo caso la sostenibilità della risorsa è ancora più importante perché un turismo dissennato fatto di<br />

cementificazione delle coste e di una pressione eccessiva e troppo concentrata della presenza umana, finisce con il<br />

distruggere la fonte stessa di attrattiva nei confronti del turista, sempre più alla ricerca di naturalità, di ambienti integri, di<br />

riscoperta di tradizioni e abitudini differenti, di gastronomia basata su prodotti locali, di paesi caratterizzati da una propria<br />

identità e non solo di divertimentifici tutti uguali, che finiscono con il ricreare in piccolo tutte le condizioni urbane da cui<br />

si cerca di fuggire. Un’importante battaglia da condurre è <strong>qui</strong>ndi quella dell’allungamento della stagione turistica delle<br />

località di mare sia per diluire nel tempo gli impatti che per rendere più fruibili questi luoghi per i turisti e per i residenti.<br />

Gran parte di questi flussi si concentrano infatti nella stagione estiva, con un’affluenza che registra nel mese di agosto picchi<br />

vicini al 55% creando problemi di sostenibilità sia a livello ambientale in senso stretto che di funzionalità di servizi come<br />

la disponibilità d’acqua, la gestione dei rifiuti, la depurazione dei reflui, la gestione del territorio, i trasporti e le emissioni<br />

in atmosfera.<br />

In questo panorama, un’attività come il turismo subacqueo, una forma di turismo inizialmente considerata di nicchia,<br />

ma che sta nel tempo assumendo una dimensione sempre più di massa, può costituire non solo un utile stimolo alla<br />

crescita dell’offerta turistica e di tutto l’indotto susseguente, ma anche un importante contributo alla delocalizzazione<br />

stagionale dei flussi turistici. Secondo dati presenti in uno studio commissionato dall’Assosub, l’associazione che<br />

riunisce gli operatori del settore subacqueo, industrie, importatori, diving, tour operator, didattiche e imprese editoriali,<br />

in Italia tra praticanti dello snorkeling e subacquei che adoperano l’erogatore si possono contare circa 2.500.000<br />

persone, ed in questo quadro le aree marine protette possono rivestire un ruolo importante contribuendo a sviluppare<br />

forme sempre più evolute di turismo sostenibile, sia per quello che riguarda la subacquea o il diporto nautico, che per<br />

tutte le altre forme di fruizione del mare.<br />

La pressione sulle coste<br />

Sulle sponde del nostro mare vivono quasi 400 milioni di abitanti, dei quali circa 130 milioni, pari al 35%, vive nelle<br />

aree costiere.<br />

I dati forniti dal Piano di Azione Mediterranea delle Nazioni Unite sono impressionanti: lungo le coste del nostro mare<br />

troviamo 584 città, 750 porti turistici e 286 commerciali, 13 impianti di produzione di gas: 55 raffinerie, 180 centrali<br />

termoelettriche, 112 aeroporti e 238 impianti per la dissalazione delle acque. Oltre 200.000 navi solcano ogni anno le acque<br />

del Mediterraneo, tra cui molte petroliere: le acque mediterranee sono tra le più in<strong>qui</strong>nate al mondo da residui catramosi.<br />

Pur rappresentando solo lo 0,7% del totale della superficie delle acque del pianeta, nel Mediterraneo transita il 23% del<br />

traffico mondiale marittimo di prodotti petroliferi. Secondo molte stime, proseguendo con il trend attuale, altri 20 milioni<br />

di persone andranno ad aggiungersi alla popolazione residente entro il 2025, così come ulteriori 137 milioni di turisti si<br />

uniranno ai 175 milioni che già oggi frequentano i paesi mediterranei nei mesi estivi. Questo territorio costiero così sotto<br />

pressione, diventa via via sempre più ridotto perché il fenomeno erosivo delle coste rosicchia ogni anno nuove fette di<br />

territorio. La cementificazione del letto di fiumi e torrenti assieme alla costruzione di dighe e la deviazione artificiale dei<br />

corsi d’acqua ha, infatti, negli ultimi 50 anni diminuito del 90% la quantità di sedimento che raggiunge il mare. Questo<br />

impedisce l’apporto di sabbia e detrito necessario a mantenere vitali le nostre spiagge, il risultato è che ogni anno spariscono<br />

dai 30 centimetri ai 10 metri di litorale sabbioso, e che si spendono milioni di euro per cercare di contrastare il fenomeno.<br />

Italia, Spagna e Grecia hanno il poco piacevole primato Mediterraneo per l’erosione costiera: le loro spiagge si sono ridotte<br />

del 40% nell’ultimo mezzo secolo.<br />

41


9I<br />

CAMBIAMENTI CLIMATICI


La terra è un sistema in continua evoluzione: milioni di specie sono apparse sul nostro pianeta e si sono estinte; la sua<br />

superficie è in continuo movimento a causa dei continenti che, nel corso di milioni di anni, se ne sono andati a spasso sul<br />

globo. Anche il clima da questo punto di vista non fa eccezione; basti pensare che, qualche decina di migliaia di anni fa,<br />

mammut e rinoceronti lanosi percorrevano in lungo e largo la nostra penisola durante le ere glaciali, per essere<br />

temporaneamente sostituiti da leoni e giraffe. Lo stesso livello del Mediterraneo ha subito continui cambiamenti e in un<br />

periodo della sua esistenza il nostro mare è stato addirittura completamente in secca, ridotto a una sterminata distesa di<br />

sale. Anche il clima dunque è tutt’altro che stabile ed immutabile, subendo nel corso delle ere cambiamenti notevoli, dovuti<br />

a oscillazioni dell’asse terrestre, al cambiamento della composizione dell’atmosfera, a mutamenti dell’intensità della<br />

radiazione solare, a eruzioni vulcaniche che hanno avvolto la terra con nuvole di polvere impalpabile in grado di riflettere<br />

il calore del sole verso lo spazio.<br />

Ma allora perché da un po’ di tempo a questa parte si fa un gran parlare di clima, di cambiamenti climatici e di<br />

riscaldamento del nostro pianeta?<br />

Perché non solo ci siamo accorti che qualcosa sta cambiando intorno a noi, ma soprattutto ci siamo accorti che sta<br />

avvenendo molto velocemente, troppo velocemente per consentirci di adattarci al mutamento. Negli ultimi cento anni<br />

la temperatura media superficiale dell’aria è aumentata di 0,6 gradi centigradi a livello mondiale e di quasi un grado<br />

nel nostro continente. Secondo molti scienziati, il XX secolo è stato il secolo più caldo da quando si registrano i dati<br />

climatici, mentre gli anni ’90 hanno il poco piacevole record di essere stati il decennio più caldo degli ultimi 1.000 anni.<br />

Un record, però, che rischia di durare molto poco visto che secondo la NASA quattro dei cinque anni più caldi mai<br />

registrati sono nell’ordine il 2005, il 2002, il 2003 e il 2004. L’anno più caldo dal 1861 -momento in cui si è iniziato a<br />

registrare le misurazioni- è stato il 1998!<br />

Le Nazioni Unite per cercare di comprendere il fenomeno hanno costituito nel 1998 L'Intergovernmental Panel on Climate<br />

Change (IPPC) che riunisce migliaia di esperti del clima di ogni parte del mondo. Tra questi scienziati è andata via via<br />

crescendo la consapevolezza che stiamo attraversando una fase di surriscaldamento del nostro pianeta, attribuibile all’azione<br />

umana. Nel loro ultimo rapporto hanno stimato che la temperatura media globale se non si interviene aumenterà entro il<br />

2100 tra 1,4 e 5,8°C. Può sembrare una cifra insignificante, ma per comprenderla fino in fondo può essere utile sapere che<br />

la temperatura media globale durante l’ultima glaciazione di 11.500 anni fa, quando l’Europa era sepolta sotto uno spesso<br />

manto di ghiaccio, era solo 5°C in meno di quella attuale.<br />

La stragrande maggioranza degli scienziati concorda nell’individuare la causa principale di tutto ciò, nel famoso ed<br />

ormai famigerato effetto serra. Questo è dovuto alla concentrazione sempre maggiore nell’atmosfera dei cosiddetti gas<br />

serra, come il biossido di carbonio (CO2) o il metano, che vengono generati dalle attività umane, in primo luogo dall’utilizzo<br />

dei combustibili fossili e dalla distruzione delle foreste per far posto all’allevamento intensivo o alle colture a sommersione<br />

(per esempio il riso) che rilasciano grandi quantità di metano.<br />

L’effetto serra si chiama così perché è il medesimo fenomeno che si verifica all’interno delle serre utilizzate per la<br />

coltivazione di ortaggi e primizie, che mediante l’impiego di coperture trasparenti ottengono senza altre forme di<br />

riscaldamento un calore decisamente superiore a quello dell’ambiente circostante. La radiazione solare che permette la vita<br />

sul nostro pianeta bombardandone durante il giorno la superficie, viene in parte trattenuta riscaldando la terra ed in parte<br />

irraggiata nuovamente verso lo spazio sotto forma di raggi infrarossi. I gas serra nell’atmosfera svolgono in questo caso la<br />

stessa funzione delle pareti trasparenti delle serre, lasciando passare la luce visibile che entra nell’atmosfera e trattenendo<br />

i raggi infrarossi, provocando un aumento della temperatura al suolo. L’effetto serra non è di per sé un fenomeno negativo,<br />

anzi è alla base dell’esistenza della vita sulla terra così come la conosciamo; senza di esso, la temperatura media globale<br />

sarebbe infatti di circa -18°C, mentre attualmente è di +15°C.<br />

Il problema è che le attività umane stanno aggiungendo all’atmosfera grandi quantità di quei gas che contribuiscono a<br />

generare l’effetto serra: la deforestazione procede a ritmi impressionanti, foreste antichissime che hanno intrappolato nei<br />

tronchi milioni di tonnellate di CO2 vengono bruciate per fare spazio a pascoli o a coltivazioni intensive; quantità ancora<br />

più grandi di CO2 racchiuse sotto terra nei giacimenti di combustibili fossili, come il carbone e il petrolio, vengono liberate<br />

e immesse nell’atmosfera dai motori a combustione, come quelli delle nostre auto.<br />

43


44<br />

Tutto ciò accentua il processo naturale e contribuisce al surriscaldamento del pianeta, generando<br />

quello che gli scienziati definiscono un effetto serra accelerato. La concentrazione della CO2<br />

nell’atmosfera è aumentata da 290 p.p.m.v (parti per milione in volume) nel 1880 a circa 380 p.p.m.v<br />

nel 2006, e continua ad aumentare ad un ritmo pari a 1,4 p.p.m.v.!<br />

Un primo timido tentativo di porre un freno a questa situazione è stato il protocollo di Kyoto<br />

realizzato in seno alla Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico (UNFCCC). Si tratta di un<br />

accordo internazionale, sottoscritto nel 1997 da 84 Paesi, che indica gli obiettivi per la riduzione dei<br />

gas ad effetto serra, entrato in vigore nel gennaio 2005.<br />

Con il Protocollo di Kyoto i paesi industrializzati si impegnano a ridurre, durante il primo periodo<br />

di applicazione del Protocollo (2008-2012) il totale delle emissioni di sei gas ad effetto serra (CO2,<br />

Metano, Ossido di azoto, Idrofluorocarburi, Perfluorocarburi, Esafluoro di zolfo) almeno del 5%<br />

rispetto ai livelli del 1990.<br />

Il cambiamento climatico e il mare<br />

Il cambiamento climatico ha gravi conseguenze sull’ecosistema mare: le variazioni possono<br />

interessare la forza e la capacità di trasporto delle correnti oceaniche, la velocità di formazione della<br />

massa d'acqua, il livello del mare, l'intensità e la frequenza dei fenomeni meteorologici, le<br />

precipitazioni e la portata dei corsi d'acqua, con ripercussioni a valle sugli ecosistemi e sulla pesca.<br />

Le attività umane che comportano la perdita di habitat naturali o la loro alterazione, possono<br />

accentuare e moltiplicare gli effetti dei fenomeni naturali, resi già più estremi dal cambiamento<br />

climatico. Basti pensare alle cementificazioni degli alvei dei fiumi, al dissesto idrogeologico in cui<br />

versano per abusivismo ed errato utilizzo del territorio molte zone del nostro Paese e alle devastanti<br />

alluvioni cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi anni o alla più grande di tutte le devastazioni<br />

naturali degli ultimi tempi, la tragedia dello tsunami che ha distrutto le coste asiatiche nel dicembre<br />

del 2004. La perdita di ecosistemi naturali, ad esempio le mangrovie, a causa di sfruttamento<br />

intensivo delle coste, come l’acquacoltura per la produzione di gamberi, si è rivelata in questo caso<br />

altamente impattante. Questa forma di acquacoltura così importante commercialmente è però<br />

estremamente distruttiva per l’ambiente: oltre a causare eutrofizzazione e in<strong>qui</strong>namento per la<br />

grande quantità di mangimi e medicine che viene dispersa in acqua, è stata la principale responsabile<br />

della distruzione di circa un quarto delle mangrovie del mondo, privando le coste di una importante<br />

barriera naturale di difesa in grado di intercettare e attenuare la tremenda forza delle onde generate<br />

dallo tsunami. Lo tsunami è infatti un fenomeno totalmente naturale, ma la sua azione è stata<br />

amplificata dalle alterazioni all’ambiente apportate dall’uomo, con effetti disastrosi sugli ecosistemi<br />

maggiormente intaccati o degradati, che per questo motivo risultavano decisamente più fragili. Nei<br />

luoghi in cui la mangrovia era ancora presente, le devastazioni sono state molto minori; dove erano<br />

state distrutte, l’onda dello tsunami è giunta direttamente sulla costa. Le mangrovie costituiscono<br />

un ambiente importantissimo per la salute del nostro pianeta per molti altri motivi, ad esempio<br />

costituiscono il luogo dove trovano rifugio uova, larve e piccoli per l’ 85% delle specie di pesci<br />

commercialmente importanti dei tropici. Stesso discorso può essere fatto per le barriere coralline,<br />

che negli ultimi anni hanno mostrato una significativa degradazione in ben 93 dei 109 paesi nelle<br />

cui acque sono presenti. Anche se le barriere ricoprono meno dello 0,5% dei fondali, oltre il 90%<br />

delle specie marine dipende direttamente o indirettamente da loro, per non parlare del fatto che circa<br />

4.000 specie vivono nelle barriere, ovvero circa un quarto di tutte le specie ittiche esistenti. La<br />

grande barriera corallina, nell’Australia orientale, lunga oltre 2.000 km è la più grande struttura<br />

vivente sul nostro pianeta, visibile persino dalla luna. Ma il fenomeno dello sbiancamento dei coralli,<br />

dovuto all’espulsione delle alghe simbionti a causa delI’innalzamento della temperatura dell’acqua,<br />

costituisce una seria minaccia alla sopravvivenza di queste straordinarie strutture viventi. Nel 1998<br />

oltre il 75% delle barriere coralline del globo è stato soggetto al fenomeno dello sbiancamento e di<br />

queste il 16% sono morte. Anche il Mediterraneo sta iniziando a mostrare segni di cambiamento,<br />

che si iniziano a percepire anche dalla presenza di specie nuove che popolano il nostro mare<br />

provenienti da acque più calde, dando luogo a due nuovi fenomeni che interessano il mare nostrum:<br />

la meridionalizzazione e la tropicalizzazione.<br />

La meridionalizzazione del Mediterraneo<br />

La meridionalizzazione, pur essendo direttamente legata ai mutamenti climatici, non è un<br />

fenomeno dovuto a specie provenienti da altri mari, ma piuttosto a specie termofile (che preferiscono<br />

cioè acque più calde) già presenti nel Mediterraneo, la cui distribuzione era limitata alle acque più<br />

calde del bacino, situate nella porzione meridionale del mare nostrum.<br />

Con il progressivo innalzarsi della temperatura queste specie hanno iniziato ad ampliare i loro<br />

areali con<strong>qui</strong>stando nuovi territori sempre più a nord e ad aumentare la propria presenza e quantità<br />

dove erano già presenti, come nel caso del barracuda nel Mediterraneo. Ecco allora la possibilità di<br />

il pesce scorpione<br />

è una delle specie<br />

che potremo un<br />

giorno incontrare<br />

a causa della<br />

tropicalizzazione<br />

delle nostre acque<br />

la caulerpa è<br />

un pericolo per<br />

la prateria di<br />

posidonia<br />

9<br />

I CAMBIAMENTI CLIMATICI


osservare alcune specie in luoghi decisamente insoliti. È il caso del pesce balestra, del pesce pappagallo, o della<br />

coloratissima donzella pavonina, che fino a dieci, <strong>qui</strong>ndici anni fa era presente solo a sud della Sardegna e della Campania<br />

e che ora si può osservare facilmente anche in Liguria. Questi fenomeni si sono accentuati negli ultimi anni, proprio in<br />

conseguenza dell’innalzamento della temperatura del Mediterraneo, cosa che rende la penetrazione di queste specie più<br />

agevole e la loro sopravvivenza e riproduzione più probabile, consentendo alle forme giovanili di superare l’inverno e di<br />

influenzare, di conseguenza, la composizione della fauna e della flora, con risultati al momento non ancora prevedibili.<br />

La tropicalizzazione del Mediterraneo<br />

Poiché il Mediterraneo è un mare chiuso e con una profondità media non elevatissima, è molto sensibile al fenomeno<br />

del surriscaldamento globale, che negli ultimi 20 anni ha fatto registrare un aumento della temperatura media delle acque<br />

superficiali di oltre 1,5°C. Nella terribile estate del 2003 però, in molte nostre località la temperatura dell’acqua superficiale<br />

ha sfiorato i 30°C, come in Polinesia! Abbiamo poi assistito ad un innalzamento delle temperature medie invernali, che in<br />

porzioni sempre più ampie del bacino rimangono per tutto l’anno al di sopra dei 14°C consentendo così la sopravvivenza<br />

e la riproduzione di specie non presenti di norma nel Mediterraneo, che provengono da mari più caldi del nostro. Quando<br />

si parla di tropicalizzazione del Mediterraneo ci si riferisce proprio al processo di colonizzazione di questo bacino da parte<br />

di specie provenienti da mari caldi, tropicali o sub tropicali. Le specie giungono nel Mediterraneo o tramite l’azione dell’uomo<br />

o attraverso vie naturali di comunicazione come il Canale di Suez (queste specie vengono chiamate specie lessepsiane, dal<br />

nome dell'ingegnere francese Ferdinand-Marie de Lesseps, fondatore della società che aprì il Canale di Suez) provenendo<br />

dalle ricchissime acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, o attraverso lo stretto di Gibilterra, giungendo dall’Atlantico<br />

orientale dopo aver risalito le coste atlantiche del continente africano.<br />

Questo fenomeno può avere anche origine naturale e si è sempre verificato in natura e nei mari di tutto il mondo dove<br />

bacini con faune diverse entrano in contatto. La stessa fauna del Mediterraneo, pur avendo una importante componente<br />

endemica, proviene in gran parte dai bacini vicini. Quello che appare ora preoccupante è la rapidità e l’intensità con cui il<br />

fenomeno si è verificato negli ultimi anni. Addirittura, secondo l’ICRAM le specie marine aliene penetrate in Mediterraneo<br />

sino ad oggi sono oltre 700, quasi tutte di origine sub tropicale e tropicale fra le quali alcune specie di barracuda, pesci<br />

palla e pesci scorpione ed altri pesci meno noti ma decisamente affascinanti come ad esempio la fistularia o pesce flauto,<br />

oramai avvistato anche nei mari siciliani. Naturalmente il fenomeno delle specie aliene non riguarda solo i pesci ma tutte<br />

le creature marine, dagli invertebrati alle numerose alghe di origine indopacifica che hanno ormai con<strong>qui</strong>stato il nostro<br />

bacino, in alcuni casi espandendosi con una velocità impressionante e minacciando la stabilità degli ecosistemi autoctoni:<br />

è il caso della Caulerpa taxifolia.<br />

45


46<br />

l’invasione delle specie aliene<br />

Quando si parla di specie aliene, con buona pace dei patiti degli UFO, naturalmente non stiamo<br />

parlando di esseri provenienti da lontane galassie ma più semplicemente di specie, sottospecie o<br />

raggruppamenti tassonomici (taxon) che occupano aree al di fuori del loro normale areale conosciuto,<br />

aree che non potrebbero naturalmente raggiungere attraverso la propria capacità di dispersione, o<br />

nelle quali penetrano a seguito dei mutamenti climatici. Insomma sono specie la cui presenza nel<br />

nostro mare è dovuta indirettamente o direttamente all’azione dell’uomo. Per definire queste specie<br />

si usano anche espressioni come specie non native, non indigene, alloctone o esotiche.<br />

Nel momento in cui le specie hanno una grande facilità di insediare popolazioni stabili in nuovi<br />

territori, colonizzandoli rapidamente ed irreversibilmente e diffondendosi velocemente, vengono<br />

dette specie invasive.<br />

Quando una nuova specie si è stabilizzata su un territorio dando vita ad una popolazione in<br />

grado di mantenersi e riprodursi autonomamente senza il supporto dell’uomo, si definisce specie<br />

insediata. Questo avviene più spesso di quanto comunemente si creda e numerose specie che<br />

sembrano ormai far parte stabilmente dei nostri ecosistemi sono state introdotte in epoca storica:<br />

è il caso del daino e dell’istrice introdotti all’epoca dei romani nella macchia mediterranea e della<br />

Caulerpa prolifera, un’alga verde di origine indopacifica, ormai acclimatata e stabilizzatasi nel nostro<br />

bacino.<br />

L’arrivo di specie invasive a rapido accrescimento è sempre problematico, perché una nuova<br />

specie introdotta in un nuovo ambiente, dove magari non incontra predatori o competitori attrezzati,<br />

finisce con l’alterare profondamente un ecosistema provocando veri e propri sconvolgimenti che<br />

possono portare all’estinzione di alcune specie autoctone, determinando dise<strong>qui</strong>libri e perdita di<br />

biodiversità.<br />

Vettori di diffusione<br />

Ma come arrivano le nuove specie? Oltre a giungere direttamente sulle proprie pinne, possono<br />

arrivare attraverso il trasporto passivo, che può avvenire in molti modi diversi: per esempio aderendo<br />

ad un pezzo di plastica galleggiante, oppure alle zampe di uccelli acquatici, o nello stomaco di<br />

predatori, se si tratta di uova o di forme resistenti. Gli organismi che costituiscono il fouling, ovvero<br />

quegli organismi che incrostano qualunque tipo di substrato duro, possono giungere sugli scafi<br />

delle navi, altri ancora possono arrivare con la melma raccolta in porto dalle ancore. Contribuiscono<br />

al fenomeno della tropicalizzazione anche l’importazione di specie ittiche tropicali per gli acquari,<br />

la ricerca di nuove specie per lo sviluppo dell'acquacoltura e le specie importate come esche vive<br />

per la pesca.<br />

Uno dei vettori principali di diffusione degli organismi alieni è sicuramente costituito dalle acque<br />

di zavorra delle navi. Queste, per potere navigare in sicurezza, debbono avere un assetto stabile sia<br />

quando sono cariche sia quando sono vuote; se proviamo a far galleggiare una bacinella vuota ed<br />

una in cui avremo posto un peso al centro, ci renderemo conto come quella con il peso sia assai<br />

più stabile, anche se muovendo l’acqua simuliamo delle onde. Il principio della zavorra è proprio<br />

questo: quando le navi sono prive del loro carico devono avere comunque a bordo un peso che le<br />

stabilizzi e che permetta di affrontare anche il cattivo tempo in condizioni di sicurezza. Fino a qualche<br />

anno fa questo problema veniva risolto con dei pesi, generalmente pani di piombo, posti nella stiva<br />

della nave lungo l’asse della chiglia. È stata una soluzione adottata per migliaia di anni, molto<br />

adatta per le navi a vela; ancora oggi quelle di altura hanno il bulbo zavorrato sulla deriva, per<br />

bilanciare la spinta del vento sull’albero e sulle vele. Ma una zavorra fissa limita in realtà il carico<br />

utile che può portare un mercantile e così si è escogitato il sistema delle casse di zavorra, che<br />

imbarcano acqua quando la nave è scarica e la rigettano a mare quando hanno un carico pagante.<br />

Il carico e lo scarico delle acque di zavorra avvengono in porto e le pompe movimentano enormi<br />

quantità di acqua: una grossa nave cisterna può imbarcare decine di migliaia di tonnellate di acqua<br />

di zavorra e con esse un bel campione assai rappresentativo della fauna e della flora presente, che<br />

poi scaricherà in un altro porto quando dovrà imbarcare un altro carico.<br />

In questo modo, organismi anche potenzialmente nocivi o pericolosi per la salute oltre che per<br />

l’ambiente, dal porto di Rio de Janeiro potranno giungere nelle calde e buie cisterne di un mercantile<br />

sino al porto di Genova e <strong>qui</strong> una volta scaricati, nel caso trovassero un ambiente favorevole,<br />

insediarsi e moltiplicarsi. Quando questo fenomeno avviene con specie invasive, le conseguenze per<br />

la biodiversità e anche quelle economiche possono essere catastrofiche, come è accaduto già diverse<br />

volte nel mondo.<br />

La comunità internazionale ha cercato di porvi rimedio con la Ballast Water Convention che<br />

quando sarà a regime imporrà che tutta l’acqua di zavorra dovrà essere trattata prima di venire<br />

scaricata in mare. Passeranno probabilmente parecchi anni prima che tutte le navi si adeguino e nel<br />

frattempo le specie continueranno a trasferirsi da una parte all’altra del mondo, causando<br />

9<br />

I CAMBIAMENTI CLIMATICI


sconvolgimenti negli ecosistemi e nelle economie locali, favoriti dall’innalzamento della temperatura che consente la<br />

sopravvivenza anche a specie provenienti da porti tropicali o sub tropicali.<br />

I flagelli alieni<br />

Come abbiamo visto la penetrazione di specie aliene in un ecosistema può costituire un grosso problema, anche di natura<br />

economica! È abbastanza illuminante a questo proposito ricordare quanto è avvenuto in Mediterraneo con Mnemiopsis Leydi,<br />

un piccolo ctenoforo del sud est asiatico, giunto nel Mar Nero trasportato nell’acqua di zavorra delle navi, e che privo di<br />

predatori si è moltiplicato a dismisura, divenendo uno dei principali responsabili della distruzione degli stock ittici dell’area<br />

con una riduzione di oltre il 75% del pescato annuale. Sempre attraverso l’acqua di zavorra delle navi questo autentico<br />

flagello è penetrato nel Mar Caspio, collegato da canali navigabili al Mar Nero, dove ha avuto la stessa crescita tumultuosa,<br />

con una fortissima pressione predatrice sullo zooplancton, che ha prodotto il cambiamento della composizione qualitativa<br />

e della abbondanza di questo anello fondamentale della catena trofica marina: da quando è stato individuato nel Mar<br />

Caspio la disponibilità di plancton è scesa del 50-80%!<br />

In numerosi Paesi la diffusione del mitilo zebrato Dreissena polymorpha ha prodotto danni molto ingenti perché si<br />

riproduceva a ritmi mostruosi, coprendo banchine portuali, frangiflutti, prese d’acqua di impianti costieri o di centrali<br />

elettriche, costringendo gli stati colpiti (Australia, USA, Canada) a spese rilevanti per controllarne lo sviluppo e per ripulire<br />

porti e impianti.<br />

Altro invasore alieno è la Caulerpa taxifolia cui è stato attribuito il nome di alga killer per la presenza di tossine che la<br />

rendono poco appetibile. Questa specie appartiene al gruppo delle alghe verdi di cui è una delle specie più evolute, insieme<br />

alle altre due caulerpe, la racemosa e la prolifera, anch’esse ormai introdottesi in Mediterraneo attraverso il canale di Suez<br />

o mediante l’acqua di zavorra delle navi. La C. taxifolia, originaria della regione tropicale indopacifica, probabilmente si è<br />

insediata in Mediterraneo grazie ad alcuni frammenti sfuggiti ai filtri degli impianti di ricircolo dell’acqua dell’acquario di<br />

Monaco, dove l’alga era presente in alcune vasche. Fu proprio nelle acque antistanti l’acquario che venne avvistata per la<br />

prima volta nel 1984, con una superficie occupata di circa 1 mq. A distanza di meno di venti anni la sua diffusione ha<br />

raggiunto le acque di numerosi siti in Francia, Spagna e Italia. Di portamento molto gradevole, a dispetto del nome di alga<br />

killer regalatole dai mass media, è caratterizzata da fronde lunghe da 5 a circa 65 cm, di un bel verde brillante, molto simili<br />

alle foglie del tasso, caratteristica questa all’origine della denominazione scientifica (Caulerpa taxifolia significa infatti<br />

caulerpa dalle foglie di tasso). Questa alga si è dimostrata una specie ben adattabile e cresce da zero a oltre 50 metri di<br />

profondità su fondali molli di varia conformazione (sabbia, fango, detriti, ghiaie), entrando in competizione con gli organismi<br />

propri di questi ambienti. Il suo successo riproduttivo è dovuto alla mancanza o allo scarso numero di specie che la predano,<br />

alla grande velocità di crescita e alla fortissima capacità di riprodursi anche per frammentazione, processo in cui da ogni<br />

minuscolo frammento delle sue fronde, può generarsi un intero nuovo individuo. La competizione più importante è proprio<br />

quella nata con le praterie di posidonia: quando questi due appartenenti al mondo vegetale entrano in contatto, si<br />

contendono duramente spazio, luce e ossigeno. Secondo molti studi recenti, nei bordi delle praterie e in condizioni di<br />

indebolimento delle piante di posidonia (come accade per esempio nelle zone soggette a processi erosivi per ancoraggi e<br />

strascico illegale) molto spesso è la caulerpa ad avere la meglio, grazie alla capacità dei talli di raggiungere dimensioni<br />

eccezionali (65 cm di lunghezza) che le consentono di sfruttare al massimo la luce, lasciando all’ombra la sua antagonista,<br />

molto meno flessibile nella capacità di predisporre strategie di risposta.<br />

Infine tra i visitors tristemente assunti agli onori della cronaca possiamo sicuramente annoverare il dinoflagellato<br />

Ostreopsis ovata, la cui presenza ha destato allarme in molte località marine italiane perché associata ad alcuni fenomeni<br />

di intossicazione avvenuti senza contatto diretto con l’acqua. Le fioriture algali marine, in particolare quelle attribuibili ai<br />

dinoflagellati quale l’alga Ostreopsis ovata, sono fenomeni ben noti per la loro pericolosità, perché in grado di rilasciare<br />

nell’ambiente massicce quantità di tossine che possono causare estese morie di organismi marini e, attraverso la catena<br />

alimentare, arrivare ad interessare anche l’uomo. Alcuni dinoflagellati epibentici (che vivono cioè aderenti ad un substrato),<br />

sono in grado di produrre le tossine del gruppo della ciguatera che possono provocare gravi intossicazioni alimentari,<br />

persino mortali: attraverso il fenomeno del bioaccumulo possono concentrarsi in grosse quantità anche nelle carni di pesci<br />

utilizzati per il consumo umano. L’Ostreopsis ovata, che si moltiplica in acque piuttosto stagnanti e ricche di nutrienti, è di<br />

norma ritenuta tossica solo per gli animali marini, ma ha dato luogo a casi di intossicazione in bagnanti che non sono entrati<br />

direttamente in contatto con l’alga o con le tossine, ma che hanno inalato queste ultime attraverso l’aerosol marino generato<br />

dal moto ondoso, anche solo passeggiando in riva al mare. Fenomeni simili sono accaduti negli ultimi anni in diverse<br />

località lungo le coste del nostro Paese, al punto da far ritenere che quest’alga si sia ormai insediata stabilmente in più<br />

punti della nostra costa.<br />

La diffusione di questa come di altre specie aliene nel nostro Paese è con ogni probabilità da attribuirsi al trasporto<br />

attraverso le acque di zavorra o il fouling delle navi, visto che secondo alcuni studi il corredo genetico degli esemplari trovati<br />

lungo le nostre coste sembra sia molto simile alla varietà che vive lungo le coste del Brasile.<br />

47


10<br />

IL FUTURO CHE CI ASPETTA


Parlando di possibili scenari futuri, dobbiamo sempre avere in mente che il clima è governato da una serie di<br />

complesse interrelazioni, per cui è estremamente difficile comprendere come la situazione si evolverà realmente.<br />

Questo naturalmente rende molto difficile riuscire a dare risposte adeguate a ridosso degli eventi e rende <strong>qui</strong>ndi<br />

necessario predisporre, invece, degli interventi pianificati. Secondo le proiezioni contenute nei rapporti dell'IPCC, il<br />

cambiamento climatico avrebbe tra gli effetti anche l’innalzamento del livello del mare che, a seconda della variazione<br />

di CO2, potrebbe salire tra gli 8 e gli 88 centimetri! Nel caso si avverasse la peggiore di questa previsione intere<br />

aree del nostro bacino e del nostro Paese sarebbero a rischio di sommersione e dovrebbero essere protette con dighe<br />

come avviene in Olanda. Una città come Venezia poi sarebbe a rischio insieme a tutta la laguna al punto che, se<br />

queste previsioni si rivelassero fondate, il tanto contestato MOSE -il sistema di paratie che dovrebbe salvaguardare<br />

il gioiello della laguna dall’acqua alta- diverrebbe già obsoleto ed inutile ancora prima della sua nascita: è stato infatti<br />

progettato per un livello del mare inferiore a quello che potrebbe raggiungere l’Adriatico.<br />

Altra terribile conseguenza che potrebbe purtroppo verificarsi è la desertificazione di vaste zone della porzione<br />

meridionale del bacino, con una diminuzione della media annuale delle precipitazioni e conseguentemente della<br />

disponibilità d’acqua. Paradossalmente, le precipitazioni potrebbero contemporaneamente crescere di intensità, a<br />

causa del surriscaldamento dell’atmosfera e del mare, dando luogo alla cosiddetta estremizzazione del clima: le<br />

piogge si concentrano in periodi più brevi, ma sono molto più violente; è un fenomeno che abbiamo potuto<br />

constatare noi stessi negli ultimi anni.<br />

Tornando alle specie aliene provenienti da aree tropicali o sub tropicali, la loro facilità di penetrazione aumenterà<br />

con l’aumento delle temperature; apporteranno profonde modificazioni agli ecosistemi marini, già stressati<br />

dall’in<strong>qui</strong>namento e dal sovrasfruttamento di alcune specie dovuto alla pesca, che potrebbero avere anche<br />

conseguenze assai gravi, fino ad arrivare alla scomparsa di molte specie.<br />

Un’ulteriore grave conseguenza potrebbe essere l’aumento della produzione di mucillagini, un fenomeno di<br />

eutrofizzazione relativamente frequente, specie nell'Adriatico, e che potrebbe aumentare in frequenza e intensità in<br />

presenza di un riscaldamento generalizzato della massa d’acqua, che impedirebbe il rimescolamento invernale.<br />

È necessario agire subito, perché le emissioni dei gas serra più persistenti (biossido di carbonio, protossido di<br />

azoto, perfluorocarburi) hanno purtroppo un effetto assai duraturo sul clima e questa loro caratteristica è aggravata<br />

ulteriormente dalla naturale inerzia termica che ha un enorme sistema come quello costituito dal nostro pianeta e<br />

dai suoi oceani.<br />

Come diminuire le emissioni di CO 2<br />

Nell’ultimo rapporto dell’IPCC destinato ai politici e ai decisori, gli scienziati sostengono che i prossimi 20 o 30<br />

anni saranno fondamentali per la lotta contro il surriscaldamento del pianeta e che sarà necessario diminuire le<br />

emissioni mondiali di gas a partire dal 2015, se si vuole sperare di contenere l’aumento della temperatura media<br />

del pianeta fra i 2 e i 2,4°C. Si tratta di un passo avanti rispetto al Protocollo di Kyoto che, se pur giudicato troppo<br />

penalizzante da molti paesi, a poco più di due anni dalla sua entrata in vigore si rivela già largamente insufficiente.<br />

I mezzi da usare sarebbero a portata di mano se solo ci fosse la volontà di agire da parte di tutti i governi: sono<br />

il risparmio energetico, l’uso di energia proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico, geotermico,<br />

biomasse) che non liberino <strong>qui</strong>ndi la CO2 intrappolata nel carbone o negli idrocarburi da milioni di anni; preferire,<br />

fra i combustibili fossili, il gas naturale al petrolio o al carbone (perché la combustione di metano genera meno<br />

biossido di carbonio a parità di energia prodotta); eliminare i clorofluorocarburi (gas che generano anche il buco<br />

dell’ozono); fermare la deforestazione, perché le foreste sono delle enormi pompe di CO2 che viene fissata attraverso<br />

la fotosintesi e trasformata in sostanza vivente. Un grande albero nel corso del tempo ha immagazzinato tonnellate<br />

di anidride carbonica e se venisse bruciato la rilascerebbe di nuovo in atmosfera.<br />

Ma anche ogni singolo cittadino può fare qualcosa e contare; basti pensare che le abitazioni private utilizzano<br />

un terzo dell'energia consumata nell’Unione Europea e che il 70% di questa energia è destinato al riscaldamento<br />

domestico, il 14% alla fornitura di acqua calda e il 12% all'illuminazione e al funzionamento degli apparecchi elettrici.<br />

49


50<br />

Sempre le abitazioni private sono responsabili di circa il 20% delle emissioni di gas ad effetto<br />

serra, mentre le automobili private pesano per un altro 10% sulle emissioni dell’UE. In più, i<br />

consumatori privati ac<strong>qui</strong>stano prodotti fabbricati utilizzando energia, viaggiano in aereo,<br />

producono rifiuti, mangiano carne, tutte attività che indirettamente provocano l'emissione di<br />

gas serra.<br />

stando alle<br />

proiezioni dell'IPCC<br />

sui mutamenti<br />

climatici,<br />

se l'innalzamento<br />

del mare superasse<br />

gli 80 cm, molte aree<br />

del nostro Paese<br />

andrebbero protette<br />

con dighe, come<br />

avviene in Olanda<br />

10<br />

IL FUTURO CHE CI ASPETTA


OGNUNO DI NOI PU ò IMPEGNARSI IN QUATTRO AZIONI<br />

SPEGNI<br />

tutte le apparecchiature e le luci non indispensabili,<br />

contribuirai al risparmio energetico e a bruciare meno combustibili<br />

CAMMINA<br />

i muscoli non producono CO2: cammina o vai in bicicletta il più possibile,<br />

ne guadagnerà la tua salute e contribuirai a immettere meno gas e sostanze<br />

nocive in atmosfera<br />

ABBASSA<br />

nella nostra civiltà del consumo troppo spesso siamo abituati ad esagerare,<br />

a tenere riscaldamenti troppo alti, luci troppo forti…<br />

impariamo ad abbassare, ne guadagnerà il nostro pianeta ma anche le nostre tasche<br />

RICICLA<br />

riciclare è importante, non solo per diminuire la montagna di rifiuti che ci sta soffocando,<br />

ma anche per ridurre processi industriali ed estrattivi che contribuiscono ad immettere<br />

gas serra in atmosfera<br />

51


GLI ABITANTI DEL MARE


54<br />

FITOPLANCTON<br />

È alla base della vita, costituito da miliardi di piccolissime cellule vegetali. Alcuni<br />

organismi sono in grado di utilizzare l’azoto disciolto nell’acqua, rendendolo<br />

disponibile all’interno della catena alimentare. Per contrastare la gravità, che li farebbe<br />

precipitare nelle profondità prive di luce, hanno sviluppato strutture e accorgimenti<br />

per facilitare il galleggiamento, producendo guaine gelatinose o accumulando acqua,<br />

gas o goccioline di grasso all’interno della cellula. Nel fitoplancton troviamo le<br />

diatomee, alghe verdi unicellulari racchiuse in una sorta di scatolina con coperchio<br />

di silicio; i dinoflagellati, dotati di una minima capacità di movimento e responsabili<br />

delle fioriture algali che formano le maree rosse; le cloroficee, alghe unicellulari o<br />

coloniali, con pigmenti verdi simili a quelli delle piante superiori. Il fitoplancton è<br />

abbondante nelle zone ricche di nutrienti, in quelle con forti correnti di risalita e negli<br />

strati più luminosi della zona fotica.<br />

OMBRELLINO DI MARE (Acetabularia acetabulum)<br />

La sua delicata struttura è simile a quella di un ombrellino cinese. La si può scorgere<br />

nella frangia di vegetazione algale, che orna moli e scogliere. Appartiene al gruppo<br />

delle alghe verdi ed ha un colore verde pallido. Cresce su fondali rocciosi anche a più<br />

di 30 m di profondità; misura fino a 5 o 6 cm ed ha un cappello di oltre 1 cm di<br />

diametro. All’inizio della stagione riproduttiva, in primavera, la lunga cellula allungata<br />

si espande verso un’estremità a formare il caratteristico cappello che, con il tempo,<br />

si ricoprirà di incrostazioni calcaree. Il cappello è caratterizzato da solchi profondi su<br />

cui si sviluppano le spore, simili alle lamelle della parte inferiore di alcuni funghi.<br />

Essendo di origine tropicale, preferisce le acque calme e ben illuminate dove forma<br />

popolazioni numerose.<br />

LATTUGA DI MARE (Ulva rigida)<br />

Il nome lattuga di mare già fornisce un’idea molto precisa del suo aspetto. Si tratta,<br />

infatti, di un’alga verde tra le più comuni, diffusa sia nei fondali rocciosi in cui aderisce<br />

al substrato e sia in quelli sabbiosi e nelle lagune dove può crescere anche senza<br />

ancorarsi con il tallo al fondale. Può raggiungere i 30 cm in altezza, mentre la<br />

larghezza oscilla tra i 10 e i 40 cm. La foglia, di un verde brillante, è larga e dentellata;<br />

il tallo alla base è quasi cartilagineo ed ha una notevole consistenza. È presente in<br />

mare tutto l’anno anche se raggiunge il massimo sviluppo nei mesi più caldi. In<br />

condizioni di forte eutrofizzazione può dare luogo a gigantesche fioriture, sviluppando<br />

una enorme quantità di biomassa, che si accumula su spiagge e fondali o galleggia<br />

in superficie, dando luogo a processi di decomposizione che oltre a produrre odori<br />

sgradevoli, possono anche avere gravi conseguenze per l’ambiente, sottraendo<br />

ossigeno alle biocenosi e alterando la composizione degli ecosistemi marini.<br />

ZOOPLANCTON<br />

Lo zooplancton è costituito da organismi animali che, incapaci di compiere movimenti<br />

consistenti, si lasciano trasportare dalle correnti e dal moto ondoso. Sono organismi<br />

che riducono il loro peso specifico grazie alla presenza di gas o di goccioline di grasso<br />

all’interno della cellula e anche grazie alla presenza di appendici o protuberanze che<br />

ne favoriscono il galleggiamento. Molti di questi organismi sono unicellulari, come i<br />

batteri e rotiferi, di piccole dimensioni, come crostacei quali i copepodi, le dafnie o<br />

il krill. Alcuni possono raggiungere dimensioni notevoli, come la fisalia o caravella<br />

portoghese, specie di medusa con tentacoli filamentosi lunghi anche parecchi metri<br />

o il cesto di Venere, ctenoforo che può superare 1,5 m. Tra lo zooplancton troviamo<br />

la maggior parte dei consumatori primari marini che si nutrono del fitoplancton e<br />

larve di numerose specie che adulte divengono organismi bentonici o nectonici.


LITTORINA (Littorina neritoides)<br />

Dopo una mareggiata la scogliera sembra cosparsa da una miriade di bollicine;<br />

guardando più attentamente ci si accorge che sono delle chioccioline scure, le littorine.<br />

Questo straordinario piccolo mollusco gasteropode dall’aspetto poco appariscente è<br />

in grado, grazie all’opercolo di cui è fornita la sua conchiglia, di resistere all’asciutto,<br />

rinserrato all’interno, anche per alcune settimane. Nelle pareti rocciose molto esposte<br />

si può trovare sino a 10 m sul livello del mare. Le littorine che si radunano in gran<br />

numero nelle umide fessure scavate dalle onde, si nutrono delle alghe che vivono in<br />

questa area, rifugiandosi tra i licheni, organismi frutto della simbiosi tra un fungo e<br />

un’alga, in grado di trovare nutrimento praticamente ovunque. Le littorine si cibano<br />

grattando le alghe dalla roccia con la loro radula, una sorta di lingua coperta da<br />

centinaia di minuscoli denti, una specie di raspa tipica dei molluschi gasteropodi.<br />

CIPREA O PORCELLANA (Luria lurida o Cypraea lurida)<br />

La ciprea lunga da 3 a 6 cm circa, di giorno si nasconde sotto le pietre del fondo,<br />

negli anfratti o all’ingresso delle grotte o sotto spugne e piccoli sassi. Va a caccia di<br />

spugne, coralli e piccoli crostacei su fondali rocciosi e sabbiosi, da pochi metri sino<br />

a 30-40 m di profondità. Il bel colore bruno-rosato della sua conchiglia, con le due<br />

estremità arancione, rendono questo mollusco troppo spesso appetibile ai<br />

collezionisti.<br />

DENTE DI CANE (Chtamalus stellatus)<br />

Questo curioso animaletto è un crostaceo, parente stretto di granchi, gamberi e<br />

aragoste. La larva è libera, ha una vita inizialmente planctonica e si lascia trasportare<br />

dalla corrente per colonizzare nuove scogliere. Quando arriva in un posto adatto, si<br />

fissa al substrato ed emette una sorta di segnale che consente ad altre larve di<br />

raggiungerla, in modo che parecchi individui si trovino molto vicini su una superficie<br />

ristretta. Ha una corazza formata da 6 piastre calcaree, che possono serrarsi quasi<br />

ermeticamente. Si nutre di piccole particelle che intrappola con arti e antenne<br />

dall’aspetto piumoso. In assenza di vento può tran<strong>qui</strong>llamente resistere parecchi<br />

giorni esposto ai raggi del sole. Alcune specie simili si fissano sul carapace delle<br />

tartarughe marine o sulla pelle di grandi cetacei, unendo in questo modo il vantaggio<br />

della vita sedentaria a quello del movimento.<br />

LEPRE DI MARE, ASINO MARINO (Aplysia depilans)<br />

È un mollusco nudibranco di grandi dimensioni, che raggiunge anche i 30 cm di<br />

lunghezza ed è presente, soprattutto in primavera, nelle praterie vicino alla costa. Si<br />

trova fino a 15 o 20 m di profondità. Il suo nome comune è dovuto ai lunghi tentacoli<br />

avvolti a cucchiaio, che ricordano gli orecchi della lepre. Assolutamente innocua,<br />

nonostante le molte credenze sbagliate, è bello osservarla ondeggiare fra le foglie<br />

della zostera.<br />

55


56<br />

MERLETTO DI MARE (Sertella beaniana)<br />

Il merletto di mare appartiene alla classe dei briozoi, animali abbastanza simili ai<br />

coralli. Questa specie preferisce l’oscurità e per questo la si può osservare, a partire<br />

dai 2 m di profondità, nelle zone ombrose dei litorali rocciosi e nelle pareti interne<br />

delle grotte. Vive in colonie che sono delle fragili trine di un bel colore rosa salmone.<br />

FALSO CORALLO (Myriapora truncata)<br />

Molto simile al vero corallo, la miriapora è un briozoo le cui colonie, che hanno un<br />

bel colore rosso corallo, possono raggiungere i 12 cm di altezza e il diametro di una<br />

matita. Proprio come il corallo rosso, è una specie che possiamo trovare sulle pareti<br />

rocciose in penombra e all’ingresso di grotte sottomarine. È un animale molto delicato<br />

e tende facilmente a spezzarsi.<br />

PINNA, NACCHERA (Pinna nobilis, P. squamosa)<br />

È il più grande bivalve del Mediterraneo, caratterizzato da una enorme conchiglia<br />

cuneiforme che può superare gli 80 cm di lunghezza. All’esterno è di colore bruno,<br />

con scaglie più chiare a forma di canali, mentre all’interno è rossiccia. Produce il<br />

bisso, una sostanza filamentosa. Un tempo era diffusa nei fondali sabbiosi e<br />

profondi dai 3 metri in giù, soprattutto in prossimità delle praterie di posidonia.<br />

Oggi è divenuta una specie molto rara e l’Unione Europea ne richiede una<br />

protezione rigorosa.<br />

SPIROGRAFO (Spirographis spallanzani)<br />

Anche se il suo aspetto ricorda un fiore sommerso, la rapida scomparsa della sua<br />

corona al minimo movimento sospetto, ci fa comprendere subito di avere a che<br />

fare con un rappresentante del mondo animale. Lo spirografo è infatti un parente<br />

stretto dell’umile lombrico e trascorre la sua vita in un tubo membranoso, che lui<br />

stesso fabbrica e da cui lascia sporgere i colorati ciuffi branchiali, dalle delicate<br />

forme a spirale, con cui respira e intrappola il cibo. Lo spirografo può misurare sino<br />

a 35 cm di lunghezza ed avere un ciuffo branchiale largo anche 10 o 12 cm. Vive<br />

sia sui fondali rocciosi che su quelli sabbiosi, ma si trova a suo agio anche nelle<br />

praterie di posidonia, ricche di particelle organiche e microrganismi in sospensione<br />

che costituiscono il suo cibo. Molti suoi parenti stretti, che differiscono per le<br />

dimensioni del tubo e per il colore dei ciuffi branchiali, come la protula, la serpula,<br />

il verme pavone, sono osservabili anche a bassissima profondità.


SEPPIA (Sepia officinalis)<br />

Abili cacciatrici, hanno un corpo piuttosto tozzo ed appiattito con due bordi laterali<br />

espansi a formare una sorta di pinna. Possono raggiungere i 35 cm di lunghezza e i<br />

2 kg di peso; sono dotate di 10 braccia che circondano la bocca, munita di un becco<br />

corneo. Due delle braccia sono molto più lunghe e retrattili, con le estremità allargate<br />

e coperte di ventose. Sono in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle<br />

situazioni, grazie a particolari cellule della pelle, i cromatofori. Nel periodo degli<br />

accoppiamenti, il maschio presenta una vivace livrea zebrata e non abbandona la<br />

compagna prescelta neanche un istante, esibendosi in sgargianti variazioni di colore.<br />

A primavera le femmine si portano vicino alla riva per deporre le uova, fissandole alle<br />

foglie di posidonia o ad altre superfici. Appena nate, le piccole seppie sono in grado<br />

di cacciare autonomamente<br />

POMODORO DI MARE (Actinia e<strong>qui</strong>na)<br />

Osservando con attenzione la fascia di marea può capitare di osservare,<br />

immediatamente sopra il pelo dell’acqua, qualcosa di decisamente simile ad un<br />

pomodoro dal brillante colore rosso, fissato alla roccia. Basta attendere che il<br />

livello dell’acqua salga un poco, sommergendolo, per vedere aprirsi una famelica<br />

corona composta da oltre 200 tentacoli disposti in file concentriche. Si tratta del<br />

pomodoro di mare, dalla larga base adesiva, che si fissa alle rocce e si difende<br />

dal disseccamento durante la fase di bassa marea, trasformandosi in una sorta di<br />

palla compatta e intrappolando al suo interno l’acqua necessaria alla respirazione.<br />

Fino a 7 cm di diametro, il pomodoro di mare si nutre di piccole creature che<br />

intrappola tra i suoi tentacoli irti di cellule urticanti che si richiudono fino alla<br />

completa digestione della preda.<br />

GAMBERETTO DI SCOGLIERA (Palaemon serratus)<br />

È un piccolo gambero dal lungo rostro ornato di dentelli, striato di marroncino. È<br />

provvisto di appendici per il nuoto lungo l’addome che in trasparenza consente di<br />

vedere gli organi interni. Vive da 2 m di profondità sino a oltre 10 m; è frequente nelle<br />

praterie di posidonia e nei fondali rocciosi. Si incontra abbastanza frequentemente<br />

nelle pozze di marea su scogliere e frangiflutti. È un animale onnivoro, dalla dieta ricca<br />

e variata, che comprende vegetali, animali, creature morte; svolge un fondamentale<br />

ruolo tenendo pulita la scogliera ed evitando fenomeni di putrefazione che potrebbero<br />

dar luogo a infezioni. Alcune specie di gamberetti assai simili, i cosiddetti pulitori, si<br />

sono addirittura specializzati nel fare toeletta ad altre creature marine, mangiando i<br />

residui di cibo e gli eventuali parassiti che si portano addosso.<br />

GRANCHIO DI SCOGLIERA (Paghygrapsus marmoratus)<br />

È in grado di portare con sé nelle sue rapide escursioni sull’asciutto, delle piccole<br />

riserve d’acqua per tenere umide le branchie e respirare anche all’aria. È importante<br />

<strong>qui</strong>ndi, se preso per osservarlo, non tenerlo troppo tempo al sole prima di liberarlo<br />

nuovamente. Ha una corazza appiattita quadrangolare, dal colore bruno verdastro. Il<br />

maschio si differenzia dalla femmina per avere l’addome più stretto. La femmina in<br />

estate porta sull’addome la massa delle uova, piccole e di colore giallastro. A volte<br />

il granchio corridore è preda di un crostaceo parassita, la sacculina, dall’aspetto<br />

stranamente simile alle uova. Il granchio di scogliera si nutre di detriti e di piccoli<br />

animali; praticamente onnivoro, è un utile spazzino. È dotato di una eccellente vista<br />

e avverte la presenza dell’uomo a grande distanza.<br />

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58<br />

CEFALO (Mugil cephalus)<br />

Ne esistono diverse specie che differiscono per la forma della bocca; hanno tutte un<br />

corpo slanciato ed affusolato con due brevi pinne dorsali, ricoperto sui fianchi di<br />

grandi scaglie che diventano più piccole sul capo; ha bocca piccola, pinne pettorali<br />

inserite molto in alto, dorso bluastro e fianchi argentei. Può raggiungere i 50-70 cm,<br />

raramente anche 120, e può pesare sino a 8 kg. È una specie gregaria, che forma<br />

branchi anche di grandi dimensioni e che predilige le acque temperate, migrando a<br />

primavera nelle acque salmastre delle lagune e degli estuari. Si nutre di organismi<br />

planctonici, molluschi e di materiale vegetale, incluso il detrito. La riproduzione<br />

avviene in mare tra luglio e ottobre; le uova sono piccole (0.75 mm) e molto<br />

numerose, munite di una goccia oleosa che impedisce loro di affondare.<br />

MURENA (Muraena helena)<br />

L’aspetto serpentiforme, il colore brunastro screziato da macchie e variegature biancogiallastre,<br />

la bocca sempre spalancata che mette in mostra denti sottili e acuminati<br />

come aghi, hanno regalato a questo grosso anguilliforme (può superare i 150 cm di<br />

lunghezza) una fama di feroce assassino che sicuramente non merita. Nei confronti<br />

della nostra specie, in realtà, la murena è piuttosto timida e inoffensiva, anche se in<br />

grado di dare morsi dolorosi se disturbata; è un efficace e aggressivo predatore,<br />

principalmente di pesci e cefalopodi (il polpo è una delle sue prede favorite). La sua<br />

attività di caccia si svolge soprattutto di notte, mentre trascorre il giorno nelle fessure<br />

della roccia, facendo fuoriuscire la testa con la bocca spalancata per la respirazione.<br />

BAVOSA PAVONE (Blennius pavo)<br />

Trascorre gran parte della sua esistenza a stretto contatto con il fondo del mare, su<br />

cui spesso avanza appoggiandosi sulle pinne ventrali. Generalmente non compie<br />

grandi spostamenti rimanendo sempre nei pressi di tane che utilizza come<br />

nascondiglio dai predatori o per la riproduzione, dove entra sempre infilando la coda<br />

per prima. Non ha scaglie e deve il suo nome alla pelle protetta da un viscido strato<br />

di muco. Esistono parecchie specie di bavose; alcune sono ornate di livree<br />

appariscenti e colorate, come la b. pavone o la b. ruggine. A primavera, le femmine<br />

depongono le uova nelle fenditure utilizzate come tane, ed è il maschio ad<br />

occuparsene con grande efficienza, ossigenandole con la corrente provocata dal<br />

movimento continuo delle pinne. Lunga fino a 12 cm è un predatore, ma può nutrirsi<br />

anche delle alghe che strappa dalle rocce.<br />

TONNO ROSSO (Thunnus thynnus)<br />

Può raggiungere i 3 m di lunghezza e gli oltre 500 kg di peso; è un formidabile<br />

predatore, tra i più grandi del Mediterraneo. La parte dorsale è di un blu scurissimo<br />

mentre fianchi e ventre sono biancoargentei. Molto vorace, si nutre di pesci pelagici<br />

e calamari, cessando di assumere cibo durante il periodo riproduttivo. Compie<br />

lunghissime migrazioni per riprodursi o per cercare cibo, arrivando a percorrere 250<br />

km in un solo giorno. La passata dei grandi tonni maturi sessualmente avviene a<br />

primavera, attraverso lo stretto di Gibilterra. Gli adulti, dopo la riproduzione, tornano<br />

in Atlantico, mentre i giovani restano in Mediterraneo sino a 6-7 anni di vita. Il tonno<br />

è una specie a rischio sia per lo sfruttamento eccessivo dovuto alla pesca sia per la<br />

sua vulnerabilità a in<strong>qui</strong>nanti come il mercurio e il piombo.


SQUALO BIANCO (Carcharodon carcharias)<br />

È il più grande tra gli squali non planctofagi e può superare i 7 m di lunghezza.<br />

A dispetto del nome, il suo colore è grigio bruno, con il solo ventre bianco e la<br />

punta delle pinne pettorali scura. Nelle nostre coste è presente nelle acque<br />

profonde del mar Ligure, del Tirreno e dello Ionio; recenti avvistamenti si sono<br />

avuti anche in Adriatico. Predilige le acque costiere in prossimità di colonie di<br />

foche o leoni marini, le sue prede favorite; può spingersi a grande profondità.<br />

L’uomo considera gli squali come dei killer, ma in realtà è lui che ne uccide milioni<br />

ogni anno. La maggior parte degli attacchi all’uomo sembrerebbe dovuta ad un<br />

errore di identificazione dell’animale che scambia il nuotatore o il surfista sdraiato<br />

sulla tavola per una delle sue prede abituali.<br />

TARTARUGA MARINA (Caretta caretta)<br />

Questi rettili antichissimi sono perfettamente adattati al mare e tornano a terra solo<br />

per deporre le uova, sino a 200 per volta, in spiagge al riparo da predatori e<br />

dall’uomo. Particolarmente longevi, si nutrono principalmente di meduse, salpe e<br />

cefalopodi, che afferrano con il loro becco corneo dai bordi taglienti. Possono<br />

raggiungere 1 m di lunghezza e sono in grado di compiere lunghe apnee. In acqua<br />

possono raggiungere velocità superiori ai 35 km/h, nuotando agilmente con il<br />

caratteristico movimento sincrono degli arti anteriori. La Caretta caretta si riconosce<br />

dalla Chaelonya midas, per la presenza di cinque placche costali e due paia prefrontali<br />

sul carapace. L’altra tartaruga del Mediterraneo, la gigantesca Dermochelys coriacea,<br />

ha invece un rivestimento cuoioso privo di placche. La cattura accidentale durante la<br />

pesca professionale e la mancanza di spiagge per la riproduzione ne hanno<br />

gravemente minacciato la sopravvivenza; l’ingerimento di sacchetti di plastica provoca<br />

la morte per ostruzione del tubo digerente.<br />

BALENOTTERA COMUNE (Balaenoptera physalus)<br />

Dopo la balenottera azzurra, è la più grande creatura che sia mai vissuta sulla terra.<br />

Le femmine, più grandi dei maschi, possono superare i 24 m di lunghezza e le 50<br />

tonnellate di peso. Vive normalmente in mare aperto, anche se per la ricerca del cibo<br />

può avvicinarsi alla costa. È presente nei mari di tutto il mondo, anche se è meno<br />

presente in quelli tropicali. Molto frequente in estate nel mar Ligure, nel mar di Corsica<br />

e nel mar di Sardegna; meno nel Tirreno e Ionio, è raro vederla nel mar Adriatico.<br />

Nuota solitaria o in piccoli gruppi, ma può formare aggregazioni più grandi nelle aree<br />

dove si alimenta. Si nutre di plancton e piccoli crostacei, in prevalenza di piccolissimi<br />

gamberi come i krill.<br />

CAPODOGLIO (Physeter macrocephalus)<br />

Il capodoglio è capace di immergersi ad oltre 2.500 m di profondità e di cacciare<br />

anche i calamari giganti. Nella testa, lunga quasi un terzo dell’intero corpo, possiede<br />

una particolare struttura, l’organo dello spermaceti, una sorta di massa spugnosa le<br />

cui cavità sono riempite da un olio ceroso e la cui funzione è ancora oggetto di<br />

discussione; potrebbe servire da rilevatore di segnali acustici o da organo di<br />

bilanciamento idrostatico per facilitare il galleggiamento. Può raggiungere e superare<br />

i 18 m di lunghezza e le 50 t di peso. Ha un unico sfiatatoio asimmetrico posto sulla<br />

sinistra del capo, che rende il suo soffio inconfondibile: basso e denso, inclinato in<br />

avanti verso sinistra. I maschi sono molto più grossi delle femmine. È presente in tutti<br />

i mari del mondo. In Mediterraneo, dove si avvista solo ad una discreta distanza<br />

dalla costa, è presente ovunque ma prevalentemente nel Mediterraneo centrale e<br />

occidentale. Vive normalmente in branchi, composti da gruppi familiari o da gruppi<br />

di maschi, che in Mediterraneo non superano generalmente la decina di individui.<br />

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GLOBICEFALO (Globicephala melas)<br />

È chiamato balena o delfino pilota per la sua abitudine di formare gruppi che seguono<br />

fedelmente un individuo più anziano. Trascorre molto tempo nuotando pigramente<br />

in superficie, formando branchi anche piuttosto grandi, ma è in grado di trasformarsi<br />

rapidamente in un nuotatore veloce capace di immergersi oltre i 600 m di profondità.<br />

Insieme alla pseudorca è la specie più soggetta a spiaggiamenti, forse per la forte<br />

coesione gregaria del branco. È lungo fino a 5 o 6 m e può raggiungere un peso di<br />

quasi 2 t. Il corpo è allungato e muscoloso, di colore nero brillante o grigio, con un<br />

caratteristico capo tondeggiante e una pinna dorsale che ricorda un berretto frigio.<br />

Frequenta le acque dalla profondità superiore ai 2.000 m delle zone temperato fredde<br />

e lo si può osservare ad una distanza media dalla costa superiore ai 40 km. Nel<br />

Mediterraneo è abbastanza comune, più diffuso nella porzione occidentale del bacino<br />

e facilmente osservabile nel mar Ligure e nelle acque a ovest della Sardegna.<br />

TURSIOPE (Tursiops truncatus)<br />

Di colore grigio uniforme, più chiaro sul ventre, misura sino 4 m. Nuotatore abilissimo,<br />

ama esibirsi in salti ed esercizi acrobatici che esegue per puro piacere o per<br />

comunicare con gli altri membri della sua specie. Può superare i 30 km/h<br />

immergendosi sino a 600 m e rimanendo sott’acqua anche 8 minuti. Ha un<br />

comportamento molto complesso e tra i diversi individui si formano complicati rapporti<br />

sociali. Vive in piccoli gruppi di 8-10 esemplari, di norma formati da femmine con i<br />

piccoli non ancora svezzati. I maschi adulti a volte formano coppie che si riuniscono<br />

alle femmine solo nella fase della riproduzione, mentre i giovani svezzati possono<br />

formare vere e proprie bande. La femmina partorisce generalmente un solo piccolo<br />

ogni tre o quattro anni. Si nutre soprattutto di pesci, ma non disprezza calamari e<br />

seppie. È una specie molto sensibile all’in<strong>qui</strong>namento; i forti rumori delle imbarcazioni<br />

possono disturbare il loro sensibilissimo apparato uditivo (biosonar) fino a spingerli<br />

ad abbandonare l’area.<br />

SQUALO ELEFANTE O CETORINO (Cetorinhus maximus)<br />

È il più grande pesce del Mediterraneo visto che può superare i 12 m di lunghezza;<br />

è dotato di cinque enormi fessure branchiali; il muso è lungo e conico. Ha due pinne<br />

dorsali e una coda grande, falcata e simmetrica. I denti, invece, sono numerosi,<br />

piccoli e ad uncino. Vive nella fascia temperata fredda di Atlantico, Pacifico ed<br />

Indiano; nel Mediterraneo è presente quasi ovunque ad eccezione delle coste sud<br />

orientali e, principalmente, tra il mar Ligure e l’Isola d’Elba e nel medio basso<br />

Adriatico. È presente sia lungo le coste che in mare aperto, prediligendo le zone<br />

ricche di plancton; si spinge a volte molto vicino alla riva o all’interno di baie.<br />

Generalmente solitari o in coppia, possono formare anche gruppi numerosi.<br />

Nonostante l’aspetto minaccioso, questo gigante è in realtà un innocuo filtratore che<br />

si nutre di plancton, uova, larve e stadi giovanili di pesci e crostacei, filtrando grandi<br />

quantità d’acqua attraverso le fessure branchiali. Durante la stagione calda compie<br />

lunghe migrazioni in cerca di acque più fresche.


CERNIA BRUNA (Ephinephelus marginatus, E. guaza)<br />

Grosso pesce dal corpo massiccio e dalla mandibola inferiore prominente, può<br />

superare anche 1,5 m di lunghezza ed i 50 kg di peso. Il suo colore è generalmente<br />

scuro, verde oliva, bruno o rossiccio, con il dorso bruno a chiazze più chiare, fianchi<br />

chiari e ventre giallastro. È la regina delle tane e degli anfratti e vive in fondali rocciosi,<br />

da pochi metri di profondità ad oltre 200 m. È ormai raro avvistarla a profondità<br />

inferiori ai 40 m. Trascorre l’intera esistenza nei pressi della sua tana, allontanandosi<br />

solo per cacciare prede, in preferenza molluschi cefalopodi come polpi e seppie, ma<br />

anche crostacei e, in età adulta, pesci. La cernia bruna nasce femmina, raggiunge la<br />

maturità sessuale verso i 4 – 5 kg di peso (5 – 6 anni di età) e al raggiungimento dei<br />

circa 10 kg inizia a trasformarsi in maschio. La cernia può vivere sino ai 25 anni, ma<br />

ci sono casi documentati di esemplari più longevi.<br />

DATTERO (Litophaga litophaga )<br />

Mollusco bivalve dalla conchiglia ovale e allungata, e di colorazione lucida bruno<br />

dorata, può raggiungere i 10 cm di lunghezza. Una colonia di datteri conta<br />

normalmente circa 150 individui per metro quadro, ma può arrivare sino ad una<br />

densità doppia, dando alle rocce un caratteristico aspetto di crivello. Il dattero cresce<br />

con estrema lentezza, impiegando più di vent’anni per raggiungere 5 cm di lunghezza;<br />

vive sulle rocce calcaree sino a 35 m di profondità, in cui scava cunicoli fusiformi,<br />

raggiungendo una densità massima di popolazione nei primi 10 m di profondità. Si<br />

incontrano individui sino a 100 m, ma preferisce fondali a forte inclinazione. Il dattero<br />

penetra nelle rocce, praticando fori profondi, e si pensa che ciò avvenga per la<br />

secrezione, da parte di ghiandole del mantello, di sostanze in grado di sciogliere il<br />

calcare. La sua pesca, l’importazione e la commercializzazione è vietata dal 1998. La<br />

specie è protetta dalle Convenzioni internazionali di Barcellona e di Berna.<br />

CAVALLUCCIO MARINO (Hippocampus antiquorum, H.<br />

brevirostris, H. hippocampus, H. guttulatus)<br />

I cavallucci marini sono pesci di piccole dimensioni, raggiungono al massimo i 15 cm<br />

di lunghezza. Si nutrono di piccoli crostacei e di altri organismi che aspirano con la<br />

bocca a forma di tubo. Frequentano fondali sabbiosi o detritici e si possono osservare<br />

sino ai 30 m di profondità, su ciuffi di alghe o gorgonie cui si attaccano con la coda<br />

prensile. Il cavalluccio si può incontrare a basse profondità tra le praterie di<br />

fanerogame marine, dove scivola fra le piante che offrono loro rifugio, ancorandosi<br />

con la coda che funge anche da timone. Le uova sono trasportate per quattro<br />

settimane dal maschio in una tasca incubatrice, posta sulla parte inferiore del tronco,<br />

in cui la femmina spruzza le uova, sino a 200, al momento dell’accoppiamento. La<br />

nascita di tutti i piccoli avviene nel corso di molte ore, espulsi singolarmente o a<br />

gruppi più o meno numerosi con movimenti a sbalzi del maschio, che proietta in<br />

avanti la coda. Il cavalluccio è una specie a rischio di prelievo ed è protetto dalla<br />

Convenzione internazionale di Berna.<br />

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IL MARE D’INVERNO<br />

Il mare può offrire straordinarie opportunità di osservazione<br />

anche senza dover entrare necessariamente in acqua,<br />

vantaggio assai apprezzabile in inverno. Basta fare una<br />

passeggiata sulla spiaggia dopo una mareggiata per scoprire<br />

tantissime informazioni sul mare e sui suoi abitanti.<br />

SFERE DAL MARE<br />

Alzi la mano chi non si è mai imbattuto in quelle palle fibrose, di colore giallino o<br />

bruno chiaro di varie dimensioni che abbondano in molte spiagge e non le abbia<br />

magari prese a calci, domandandosi in cuor suo cosa fossero. Le misteriose palle<br />

fibrose, tanto leggere quanto tenaci, difficili da spezzare o tagliare, altro non sono<br />

che ammassi di foglie di posidonia (Posidonia oceanica) che si staccano dalle<br />

piante durante il ciclo annuale della pianta e che si formano per l’azione delle onde<br />

e delle correnti, che le spingono infinite volte tra la riva e il mare, tritandole e<br />

sminuzzandole fino a ricompattarle nelle palle di fibra che troviamo sulla spiaggia.<br />

Con il sopraggiungere della stagione autunnale e delle prime grandi mareggiate<br />

infatti, le foglie adulte della posidonia, ormai brunastre e coperte di incrostazioni,<br />

si staccano dalle piante per finire sulle spiagge dove formano grandi ammassi detti<br />

banquettes. Se invece passeggiando sulla spiaggia, vi capita di imbattervi in bizzarre<br />

sfere cave, dal colore verde deciso e dall’aspetto gommoso, allora si tratta di specie<br />

appartenenti al genere Codium, un’alga verde che cresce su fondali sabbiosi, dal<br />

diametro variabile fino a una decina di cm, caratterizzata dalla forma sferica<br />

all’origine del nome palla di mare con cui è comunemente conosciuta.<br />

OGGETTI MISTERIOSI<br />

Sulla battigia si possono trovare anche strani oggetti, simili a sacchetti<br />

semitrasparenti di colore giallo rossastro, oppure quasi neri, con lunghi filamenti<br />

a volte ancora attaccati a rametti di gorgonie o a ciuffi di posidonia o di alghe.<br />

Questi oggetti misteriosi altro non sono che uova di piccoli squali, come il<br />

gattuccio (Scyliorhinus canicola), il gattopardo o il gattuccio maggiore (Scyliorhinus<br />

stellaris) oppure di razze (Raja alba, R. asterias, R. clavata). I gattucci sono gli<br />

squali più diffusi del Mediterraneo: lunghi circa 80 cm, sono caratterizzati dal<br />

colore rossiccio o brunastro con piccoli punti e macchie scure sulle pinne e sul<br />

corpo, mentre il ventre è chiaro. I gattopardi o gattucci maggiori sono meno<br />

comuni; grandi fino a 120 cm, hanno una livrea con macchie tondeggianti e<br />

striature brunastre piuttosto grandi. Tutti vivono su fondali fangosi o sabbiosi, tra<br />

i 20 e i 400 m di profondità e frequentano gli scogli sommersi nutrendosi di<br />

molluschi, crostacei e piccoli pesci.<br />

La caratteristica particolare delle loro uova, deposte in un sacchetto oblungo, consiste<br />

nell’essere dotate di lunghi filamenti, i cosiddetti cirri, alle quattro estremità. Al<br />

momento della deposizione i cirri possono essere lunghi sino ad oltre 1 m, per poi<br />

ritrarsi e contrarsi fino a raggiungere una <strong>qui</strong>ndicina di cm di lunghezza, arricciandosi<br />

a molla per potersi impigliare a oggetti sommersi o a rami di gorgonia, ancorando<br />

l’uovo e impedendo alle correnti di trasportarli col rischio di finire in pasto a qualche<br />

predatore. Il periodo riproduttivo del gattuccio, nelle nostre acque, va da novembre<br />

ad aprile ed è in questo periodo <strong>qui</strong>ndi che è possibile trovare le uova spiaggiate,<br />

specialmente dopo mareggiate particolarmente violente.<br />

Il gattopardo invece, preferisce deporre in primavera e in estate.<br />

Queste uova sono semitrasparenti, <strong>qui</strong>ndi in controluce è possibile vedere<br />

l’embrione e il sacco del tuorlo. Le uova di razza sono, per forma e colore,<br />

abbastanza diverse: generalmente nerastre, ma giallastre nella R. batis, hanno


una forma più quadrangolare, rigonfia al centro con i quattro lunghi filamenti che<br />

partono dagli angoli. Le razze sono parenti degli squali caratterizzate dal corpo<br />

piatto dalla forma romboidale, dalla bocca posta in posizione ventrale e dalla lunga<br />

coda con aculei, che in alcune specie possono essere velenosi. Durante l’estate le<br />

razze si avvicinano alla costa per accoppiarsi e per deporre le loro uova sui fondali<br />

tra le gorgonie o i ciuffi di posidonia. La razza chiodata (R. clavata), molto comune<br />

nel Mediterraneo, può superare i 110 cm di lunghezza ed è dotata di grosse spine<br />

impiantate su placche poste sul dorso, da cui l’origine del suo nome comune.<br />

Frequenta fondali sabbiosi e fangosi da 0 a 700 m di profondità, e genera da 140<br />

a 170 uova (dette anche capsule ovigere) l’anno, che giungono a maturazione in<br />

circa 5 mesi. La stagione riproduttiva varia molto a seconda della regione<br />

geografica, ma in estate si avvicina molto alla costa, ed è possibile scorgerla anche<br />

in acque bassissime.<br />

CIBO PER CANARINI<br />

Uno dei ritrovamenti più comuni sulla spiaggia è una sorta di pantofolina candida,<br />

leggera leggera, un po’ ruvida al tatto ma talmente fragile e delicata da sembrare<br />

fatta di schiuma di mare o più prosaicamente di polistirolo. Si tratta del cosiddetto<br />

osso di seppia (Sepia officinalis). L’ osso di seppia, spesso utilizzato per arricchire<br />

di calcio la dieta dei canarini in gabbia, è in realtà la conchiglia dell’animale, che i<br />

molluschi cefalopodi conservano internamente. Le mareggiate sono spesso causa<br />

anche del ritrovamento dell’uva di mare, in realtà uova di seppia che per forma e<br />

colore ricordano acini d’uva nera, originariamente deposti tra gorgonie e posidonie.<br />

Le seppie vivono vicino a fondali sabbiosi o detritici, tra le alghe e le praterie marine.<br />

Sono animali in grado di mutare colore a seconda dell’umore o delle situazioni,<br />

riuscendo a mimetizzarsi su fondali anche molto diversi tra loro. Il segreto di questa<br />

loro abilità risiede in particolari cellule della pelle contenenti pigmenti colorati, dette<br />

cromatofori, che ricoprono gli strati superficiali della pelle e che contraendosi o<br />

espandendosi possono far variare il colore della seppia.<br />

UOVA AL POLISTIROLO<br />

Sulla sabbia si trovano a volte degli ammassi leggerissimi di piccole cellette, dal<br />

colore biancastro o giallastro, che sembrano molto fragili al tatto. Si tratta di uova<br />

schiuse di molluschi gasteropodi come i buccini o i murici. Il buccino o tritone<br />

(Tritonium nodiferum, Charonia nodiferum), è un grande mollusco gasteropode<br />

dalla enorme conchiglia alta e robusta, lunga sino a 40 cm. E’ un predatore molto<br />

efficiente in grado di inghiottire prede intere, grazie all’azione della secrezione<br />

acida delle ghiandole salivari che gli permette di predigerire la vittima dissolvendo<br />

il tegumento esterno o l’eventuale guscio calcareo. All’inizio della primavera le<br />

femmine depongono le capsule ovigere, dalla forma a giara, che possono<br />

contenere centinaia di uova, al sicuro nelle spaccature e nei crepacci degli scogli<br />

dove rimangono per circa quattro mesi prima della schiusa. A volte, le femmine si<br />

radunano in gruppi per deporre le uova in una unica grande massa all’interno<br />

della quale le larve si svilupperanno tutte insieme. I murici (Murex brandaris, M.<br />

erinaceus, M. trunculus) sono molluschi gasteropodi con guscio dotato di spuntoni<br />

(che nel murice spinoso assumono la forma di vere e proprie spine), con un<br />

opercolo corneo e un piede ampio e robusto, che depongono uova simili a quelle<br />

del buccino, in una forma più o meno gelatinosa dal colore biancastro e<br />

dall’aspetto simile ad una spugna. Anche le uova di murice, dopo la schiusa, si<br />

possono facilmente rinvenire spiaggiate, umide e mollicce se galleggiano in acqua<br />

o disseccate al sole sulla spiaggia. La riproduzione dei murici avviene tra maggio<br />

e luglio, e in questo periodo, nei fondali sabbiosi e fangosi che costituiscono il<br />

loro habitat, si possono trovare in gruppi anche molto numerosi. Le carni dei<br />

murici, conosciuti anche come sconcigli o con altri nomi dialettali, sono molto<br />

apprezzate, ma questi molluschi sono famosi anche perché nell’antichità venivano<br />

catturati per la produzione della porpora, sostanza scoperta dai fenici, che veniva<br />

estratta dalla cavità di una ghiandola del mantello e utilizzata per colorare le vesti<br />

dei potenti di varie epoche e dei senatori dell’antica Roma.<br />

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64<br />

TESORI DAL MARE<br />

Sulla spiaggia meglio avere gli occhi bene aperti: sulle rive infatti possiamo trovare<br />

veri e propri tesori. Non parliamo di monete o gioielli nascosti dai pirati e neppure<br />

di perle, che si trovano solo ben nascoste nelle ostriche perlifere dei mari lontani,<br />

ma dell’occhio di Santa Lucia (Astrea rugosa), un frammento calcareo (opercolo)<br />

che serve all’animale per chiudere l’apertura della conchiglia, facile da trovare, se<br />

si hanno buoni occhi e pazienza, sulle spiagge sabbiose situate davanti a praterie<br />

di posidonia o a zone ricche di alghe. L’astrea vive su fondali rocciosi e fangosi,<br />

nel coralligeno e sulla posidonia dai 10 sino ai 100 m di profondità, nutrendosi<br />

delle parti più tenere delle alghe. La conchiglia ha un diametro di 6 - 7 cm circa,<br />

è di forma conica con aspetto tozzo e ruvido dal colore poco appariscente, spesso<br />

con sfumature violacee o verdastre su fondo grigio o bruno chiaro con superficie<br />

ornata di crestine ondulate. L’astrea è molto comune nel Mediterraneo e l’opercolo,<br />

che è di un colore rosso arancio screziato di giallo e bianco molto appariscente,<br />

appiattito da un lato e convesso dall’altro, è conosciuto da tempo immemorabile<br />

col nome di occhio di Santa Lucia o occhio di gatto. Da sempre apprezzato per la<br />

sua bellezza, viene considerato dai pescatori un buon portafortuna e usato in<br />

gioielleria, non solo per la sua bellezza, ma anche per il suo potere scaramantico.<br />

La riproduzione avviene tra marzo e luglio.<br />

LEGNI SPIAGGIATI<br />

Vecchi legni sbiancati dal mare e dal sole e crivellati di fori possono darci<br />

l’occasione per conoscere uno dei più straordinari tra gli abitanti del mare, la<br />

teredine (Teredo navalis). Le teredini sono molluschi lamellibranchi molto<br />

particolari che si sono adattati ad un ambiente decisamente insolito per un<br />

mollusco marino: il legno. Per questo si possono trovare sulle assi dei relitti<br />

spiaggiati o sui tronchi trasportati dalle correnti. La teredine è infatti un mollusco<br />

bivalve, come una tellina o una vongola, modificato per colonizzare un ambiente<br />

del tutto nuovo. La conchiglia della teredine ha <strong>qui</strong>ndi perso l’originale scopo per<br />

cui si era evoluta, ovvero quello di proteggere l’animale, divenendo qualcosa di<br />

completamente diverso: un vero e proprio alieno, lungo dai 15 ai 40 cm, dal corpo<br />

nudo e vermiforme, in cui il mantello a forma di tubo e che termina con due sifoni,<br />

si diparte da una conchiglia molto piccola e tozza, più alta che larga, con le valve<br />

a forma di calice e dai bordi seghettati, simile per effetto e per funzione ad una<br />

vera e propria fresa posta in cima ad un tubo spesso e carnoso. Con questa<br />

formidabile attrezzatura scava profondi fori, lunghi sino a 30 cm, dal diametro di<br />

circa 1 cm e mezzo, nel legno dei pali e degli scafi delle imbarcazioni, nutrendosi<br />

dei frammenti che si liberano nel procedere. La teredine riveste queste gallerie di<br />

uno strato calcareo, al quale rimane collegato dal piede. Quando navi e moli erano<br />

fatti esclusivamente di legno, le teredini erano assai temute per la loro capacità<br />

di provocare falle o il crollo dei pali di sostegno di moli e banchine. Le teredini<br />

vivono in tutti i mari del mondo ed essendo molto resistenti agli sbalzi di salinità,<br />

popolano anche le lagune salmastre. Gli esemplari giovani sono molto diversi<br />

dall’adulto perché il mantello non ha ancora iniziato a crescere e a fuoriuscire<br />

dalla conchiglia e sono molto più simili a normali bivalvi dalla conchiglia piuttosto<br />

tondeggiante.<br />

STRANE SPIRALI<br />

A volte possiamo imbatterci in spirali e tubetti biancastri, generalmente vuoti.<br />

Sono le case di alcuni vermi marini, i policheti tubificidi (Serpula vermicularis,<br />

Protula tubularia) che producono i tubicini che possiamo vedere attaccati a<br />

conchiglie, sassi, tronchi e relitti spiaggiati. I policheti tubificidi, come i lombrichi<br />

terrestri, sono anellidi, vermi sedentari che trascorrono la loro esistenza<br />

interamente all’interno di tubi o gallerie, cementati a conchiglie, alghe piante o<br />

rocce. I tubi calcarei possono essere chiusi da un opercolo rigido che l’animale<br />

aziona come una botola, al primo cenno di pericolo o di situazione insolita. Questi<br />

policheti sedentari sono adattati ad una vita fatta di avanti e indietro fulminei<br />

all’interno del proprio tubo, in cui possono muoversi indisturbati, alternati a<br />

momenti in cui con le splendide branchie espanse catturano e filtrano particelle<br />

di cibo dall’acqua.<br />

I serpulidi che vivono in zone di marea, grazie all’opercolo sono in grado di<br />

sopravvivere all’asciutto. Gli insediamenti massivi possono contribuire


significativamente a compattare i fondali molli. La Protula tubularia è il più grande<br />

serpulide del Mediterraneo e raggiunge i 10 cm di lunghezza con un tubo che si erge<br />

per più di ? della propria lunghezza dal substrato, ornato da una grande corona di<br />

branchie colorate di un rosso splendente.<br />

CONCHIGLIE PERFORATE<br />

Raccogliendo le conchiglie di bivalvi sulla spiaggia, è facile imbattersi in qualche<br />

conchiglia che presenta su una delle valve un foro tondo, molto regolare di pochi<br />

mm di diametro. Si tratta della testimonianza di un vero e proprio dramma<br />

sottomarino, la scena di un delitto in cui l’assassino è una piccola conchiglia tonda<br />

dall’aspetto innocente che in realtà è un efficiente e spietato predatore: la natica<br />

o maruzza (Naticarius hebraeus), un mollusco gasteropode lungo sino a 4 – 4,5<br />

cm con una conchiglia liscia e globosa di colore chiaro con grandi macchie e<br />

screziature marroni e color ruggine. La natica vive sui fondi sabbiosi ed è un vero<br />

e proprio killer di vongole e telline che avvolge con i lembi del piede per praticare<br />

sul guscio una apertura grazie alla radula, un organo dei molluschi gasteropodi,<br />

costituito da una struttura muscolare rivestita da dentelli curvi posizionata vicino<br />

all’apparato boccale, alla base di una specie di proboscide. In circa sei ore di<br />

paziente ed instancabile lavoro, grazie alla secrezione acida in grado di sciogliere<br />

il carbonato di calcio di cui sono costituite le conchiglie, la natica riesce a formare<br />

un foro perfettamente circolare di 1 o 2 mm. di diametro in cui poi inserisce la<br />

proboscide per divorare la vittima.<br />

Le uova delle maruzze o natiche, chiamate dai pescatori collari di mare, vengono<br />

deposte in nastri ricurvi lunghi una decina di cm e larghi circa 4, e in aprile dopo<br />

le mareggiate, possono trovarsi in grande quantità nelle zone di risacca dei litorali<br />

sabbiosi. Anche il Murex brandaris, il M. erinaceus e il M. trunculus hanno un<br />

modo di predare molto simile a quello della natica, anche se si nutrono molto<br />

volentieri anche di pesci o molluschi morti. Tra le altre creature in grado di produrre<br />

fori sulle conchiglie che troviamo sulla battigia, troviamo le spugne perforanti<br />

(Cliona celata). La cliona è in grado di sciogliere il calcare delle rocce e delle<br />

conchiglie mediante secrezioni acide, ma a differenza della natica o del murice<br />

non provoca questi fori per nutrirsi dell’animale che vive all’interno, ma solo per<br />

prepararsi un substrato adatto su cui insediarsi. La piccola spugna infatti ha<br />

bisogno di insediarsi su substrati calcarei, rocce o conchiglie o anche alghe<br />

calcaree, e a seconda dei casi può crescere e svilupparsi all’interno della roccia o<br />

fuoriuscire parzialmente. La sua colorazione è generalmente gialla ma può essere<br />

anche rossastra o rosa.<br />

65


ATTIVITà PER I RAGAZZI


Le attività che proponiamo sono rivolte ai ragazzi per approfondire le tematiche trattate,<br />

per consentire una comprensione più profonda delle complesse dinamiche dell’ambiente<br />

marino e costiero, per stimolare, attraverso la sperimentazione e la metodologia dell’inchiesta,<br />

l’interesse e l’attenzione sulla difesa del mare e sui corretti comportamenti per<br />

la sua salvaguardia.<br />

Conoscere i suoi abitanti, le relazioni fra il mare e le attività umane, dalle più semplici<br />

alle più complesse, capire i meccanismi di scambio fra questi mondi è forse il modo più<br />

idoneo per imparare ad amare il mare e fare in modo chei ragazzi lo sentano e lo vivano<br />

come un loro patrimonio da preservare.<br />

Le attività si potranno svolgere in classe e a casa.<br />

67


68<br />

MISURAZIONE DELLA IMPRONTA ECOLOGICA<br />

Prova a calcolare la tua impronta ecologica e quella della tua famiglia: se è molto grande forse è il caso di cominciare<br />

ad adottare comportamenti diversi per diminuirla!<br />

Per farlo, rispondi alle domande che seguono e, alla fine, somma i punteggi ottenuti.<br />

Alcune domande, anche se poste in maniera diretta, fanno riferimento al contesto familiare (per es. gli ac<strong>qui</strong>sti).<br />

CASA<br />

1 Quante persone vivono con te?<br />

● 1 (+30 punti)<br />

● 2 (+25 punti)<br />

● 3 (+20 punti)<br />

● 4 (+15 punti)<br />

● 5 o più (+10 punti)<br />

2 In che modo è riscaldata la casa?<br />

● Gas naturale (+30 punti)<br />

● Elettricità (+40 punti)<br />

● Olio combustibile (+50 punti)<br />

● Energia rinnovabile (+0 punti)<br />

3 Quanti punti di acqua (bagno, cucina, lavanderia, balcone) ci sono?<br />

● Meno di 3 (+5 punti)<br />

● 3-5 (+10 punti)<br />

● 6-8 (+15 punti)<br />

● 8-10 (+20 punti)<br />

● Più di 10 (+25 punti)<br />

4 In che tipo di casa abiti?<br />

● Appartamento/condominio (+20 punti)<br />

● Villetta (+40 punti)di individui.<br />

ALIMENTAZIONE<br />

5 Quante volte alla settimana mangi carne o pesce?<br />

● 0 (+0 punti)<br />

● 1-3 (+10 punti)<br />

● 4-6 (+20 punti)<br />

● 7-10 (+35 punti)<br />

● Più di 10 (+50 punti)<br />

6 Quanti pasti cucinati in casa consumi (compresi quelli portati a scuola)?<br />

● Meno di 10 (+25 punti)<br />

● 10-14 (+20 punti)<br />

● 14-18 (+15 punti)<br />

● Più di 18 (+10 punti)<br />

7 Quando ac<strong>qui</strong>sti alimenti preferisci prodotti locali?<br />

● Si (+5 punti)<br />

● No (+10 punti)<br />

● Qualche volta (+15 punti)<br />

● Raramente (+20 punti)<br />

● Non lo so (+25 punti)


ACQUISTI<br />

8 Quanti ac<strong>qui</strong>sti importanti (stereo, televisore, computer, automobile,<br />

mobili, elettrodomestici) sono stati fatti nel corso degli ultimi 12 mesi?<br />

● 0 (+0 punti)<br />

● 1-3 (+15 punti)<br />

● 4-6 (+30 punti)<br />

● Più di 6 (+45 punti)<br />

9 Sono stati ac<strong>qui</strong>stati articoli a risparmio energetico negli ultimi 12 mesi?<br />

● Si (+0 punti)<br />

● No (+25 punti)<br />

TRASPORTI<br />

10 Quale mezzo usi per gli spostamenti?<br />

● Bicicletta (+15 punti)<br />

● Utilitaria (+35 punti)<br />

● Vettura intermedia (+60 punti)<br />

● Berlina (+75 punti)<br />

● Macchina sportiva, monovolume o familiare (+100 punti)<br />

● Van, utility vehicle o fuoristrada (+130 punti)<br />

11 Come vai a scuola?<br />

● In automobile (+50 punti)<br />

● Con i mezzi pubblici (+25 punti)<br />

● Con uno scuolabus (+20 punti)<br />

● A piedi (+0 punti)<br />

● In bicicletta o pattini a rotelle (+0 punti)<br />

12 Dove hai passato le vacanze nel corso dell'ultimo anno?<br />

● Niente vacanze (+0 punti)<br />

● Nella mia regione (+10 punti)<br />

● In Italia (+30 punti)<br />

● In Europa (+40 punti)<br />

● In un altro continente (+70 punti)<br />

13 Quante volte nell’anno utilizzi l'automobile per il fine settimana?<br />

● 0 (+0 punti)<br />

● 1-3 (+10 punti)<br />

● 4-6 (+20 punti)<br />

● 7-9 (+30 punti)<br />

● Più di 9 (+40 punti)<br />

69


70<br />

RIFIUTI<br />

14 Fai la riduzione dei rifiuti (per esempio: preferisci imballaggi ridotti, rifiuti l'invio<br />

di posta pubblicitaria, preferisci contenitori riutilizzabili)?<br />

● Sempre (+0 punti)<br />

● Qualche volta (+10 punti)<br />

● Raramente (+15 punti)<br />

● Mai (+20 punti)<br />

15 Quanti sacchi della spazzatura produci ogni settimana?<br />

● 0 (0 punti)<br />

● Mezzo sacco (+5 punti)<br />

● 1 sacco (+10 punti)<br />

● 2 sacchi (+20 punti)<br />

● Più di 2 sacchi (+30 punti)<br />

16 Ricicli i giornali, le bottiglie di vetro e quelle di plastica?<br />

● Sempre (+5 punti)<br />

● Qualche volta (+10 punti)<br />

● Raramente (+15 punti)<br />

● Mai (+20 punti)<br />

17 Prepari il compost con i rifiuti della frutta e della verdura?<br />

● Sempre (+5 punti)<br />

● Qualche volta (+10 punti)<br />

● Raramente (+15 punti)<br />

● Mai (+20 punti)<br />

RISULTATI<br />

MENO DI 150 PUNTI<br />

impronta ecologica inferiore a 2 ettari<br />

150 - 350<br />

tra 2 e 4 ettari (la maggior parte degli italiani)<br />

350 - 550<br />

tra 4 e 6 ettari<br />

550 - 750<br />

tra 6 e 10 ettari<br />

L'impronta media mondiale richiesta dagli scienziati è di 1,9 ettari a persona.<br />

Ottenere un punteggio inferiore a 2 è indice di un comportamento eco-sostenibile<br />

test tratto da www.worldsocialagenda.org


Costruzione del ciclo degli in<strong>qui</strong>nanti e del ciclo dei rifiuti<br />

Costruisci degli esempi di come le sostanze in<strong>qui</strong>nanti arrivano in mare e il ciclo che poi compiono<br />

nell’ecosistema marino.<br />

Per esempio per i POP potresti illustrare le vie con cui essi arrivano in mare (fiumi, dispersione in atmosfera)<br />

e poi le varie fasi di evaporazione e ricaduta tramite la pioggia, fino al loro confinamento nelle zone fredde<br />

del nostro pianeta, in cui l’evaporazione non è così forte da farli tornare nell’atmosfera.<br />

Oppure potresti rappresentare come una sostanza in<strong>qui</strong>nante penetra nella catena alimentare, con le fasi<br />

di bioaccumulo e di magnificazione biologica.<br />

O ancora, realizza un manifesto per mostrare le varie vie con cui i diversi tipi di rifiuti e di in<strong>qui</strong>nanti<br />

pervengono al mare (da terra, dalle navi, dalle fabbriche, dai campi coltivati, dai fiumi….) magari adattandolo<br />

alla situazione della tua città o della tua regione, dopo aver fatto una inchiesta su quali sono le fonti di<br />

in<strong>qui</strong>namento presenti nella zona.<br />

Individuazione dei comportamenti corretti<br />

Nell’affrontare i problemi che minacciano il nostro pianeta, abbiamo suggerito comportamenti che<br />

possono contribuire a diminuire gli impatti sull’ecosistema. Comincia con l’individuare tutti quelli che trovi<br />

nel testo e poi insieme alla tua classe, divisi in gruppi, scopri e segnala in una scheda gli altri modi di agire<br />

che possono aiutarci a difendere il nostro mare.<br />

71


72<br />

Il nostro mondo e il clima cui siamo abituati cambiano e questo cambiamento sembra<br />

avvenire sempre più velocemente; si tratta di un fenomeno che possiamo provare a<br />

verificare con una serie di attività da realizzare con la classe. I risultati potranno essere<br />

raccolti in una mostra o in un video montato sul modello delle inchieste giornalistiche,<br />

per sensibilizzare genitori e altri studenti su quanto sta accadendo.<br />

LA SCHEDA DEL TEMPO<br />

NON CI SONO PIù LE STAGIONI DI UNA VOLTA<br />

Questa frase, insieme all’altra forse ancora più abusata “non ci sono più le mezze<br />

stagioni” imperversa nelle conversazioni, fino ad essere diventata il luogo comune<br />

per eccellenza…..ma è davvero solo questo o c’è un fondo di verità?<br />

Proviamo a scoprirlo insieme e per farlo rivolgiamoci a chi conserva nello scrigno<br />

della propria memoria le informazioni che possono aiutarci.<br />

La proposta è quella di intervistare i nonni e le persone più anziane, per capire<br />

se e come il tempo e le stagioni siano cambiati rispetto alla loro giovinezza.<br />

È importante scegliere delle domande che possano aiutarci a costruire un racconto<br />

in grado di restituirci la sensazione di quello che sta accadendo.<br />

Nei sussidiari che si usavano nelle scuole elementari di 40 anni fa, il tempo e le<br />

stagioni erano molto ben rappresentate, con l’autunno, l’inverno, la primavera e<br />

l’estate identificate non solo da date, ma anche da avvenimenti e da condizioni<br />

climatiche ben precise, che ora appaiono molto più confuse.<br />

Prova <strong>qui</strong>ndi a chiedere cosa per i nostri nonni segnava il passaggio dall’estate<br />

all’autunno, per esempio, o quando si faceva il cambio di stagione, quanti giorni<br />

nevicava (se nevicava) durante l’inverno, o se si usavano (e quali erano) gli abiti<br />

di mezza stagione.<br />

Con un lavoro da veri e propri giornalisti di inchiesta, metti insieme i dati che<br />

ricaverai per costruire il quadro delle condizioni climatiche di 50 o 60 anni fa, da<br />

mettere a confronto con quelle di oggi, costruendo una specie di macchina del<br />

tempo che viaggia nella memoria dei nostri anziani.


LE SCHEDE DEL MARE<br />

Uno dei segni più visibili dei mutamenti climatici è costituito, come abbiamo visto,<br />

da variazioni nella fauna e nella flora dei nostri mari.<br />

Come fare per capire quanto e in che modo il mare sta cambiando?<br />

Poiché non ci sarà possibile esplorare direttamente i fondali (anche se un po’ di<br />

snorkeling con maschera e pinne può mostrarci tante cose) dobbiamo rivolgerci a<br />

quei soggetti che con il mare hanno a che fare di continuo e che potranno fornirci<br />

indicazioni molto utili su quello che sta realmente accadendo: pescatori e subacquei.<br />

AL MERCATO DEL PESCE<br />

Molte delle specie che stanno penetrando in Mediterraneo o che stanno ampliando la<br />

loro distribuzione nel nostro bacino sono specie commerciabili, in alcuni casi di ottimo<br />

sapore; inevitabile che prima o poi finiscano sui banchi del mercato del pesce.<br />

Molte informazioni potranno <strong>qui</strong>ndi essere ac<strong>qui</strong>site intervistando gli operatori,<br />

riferendosi naturalmente ai prodotti della piccola pesca ed al pescato locale, per<br />

scoprire se e come sono cambiati i prodotti di questa attività; per ac<strong>qui</strong>sire notizie in<br />

merito alla commercializzazione di specie che magari prima venivano pescate<br />

occasionalmente e che adesso si trovano molto più di frequente sui banchi del mercato;<br />

oppure che prima venivano importate dall’estero o da porti molto più a sud.<br />

MONITORAGGIO DELLE SPECIE ALIENE<br />

Pescatori e subacquei escono tutto l’anno e possono essere considerati delle vere<br />

e proprie sentinelle dei nostri mari; potremo intervistare cooperative di pesca,<br />

singoli pescatori, diving, scuole e circoli subacquei, mostrando la scheda che<br />

segue, chiedendo se hanno mai incontrato le specie riportate.<br />

Potremo così costruire una vera e propria mappa delle specie aliene presenti.<br />

Molti sub praticano fotografia subacquea e sono eccellenti fotografi: chiediamo i<br />

loro scatti sia per illustrare la mappa, sia per inviarli a <strong>Legambiente</strong>, assieme a<br />

data e luogo di incontro, che li farà pervenire all’ICRAM, l’istituto di ricerca che<br />

sta raccogliendo dati su questo argomento.<br />

<strong>Legambiente</strong> Mare - Via Salaria, 403 - 00199 Roma<br />

73


74<br />

LE SPECIE ALIENE<br />

Fistularia commersonii<br />

Pesce penetrato dal Mar Rosso, è molto lungo tanto da essere chiamato pesce<br />

flauto, fa parte della famiglia dei pesci ago, corpo cilindrico e coda con filamento<br />

centrale. Vive in ambiente pelagico costiero. Il colore normalmente è grigioverdastro<br />

sul dorso ed argentato sui fianchi. Negli adulti sono presenti righe e<br />

macchie blu. Generalmente è lungo da 20 a 100 cm ma può raggiungere 1,5 m.<br />

Siganus luridus e Siganus rivulatus<br />

Proveniente dal Mar Rosso. Il corpo è alto e compresso ai fianchi, ellissoidale. La<br />

bocca è piccola con labbra distinte. La coda è triangolare a volte forcuta e la pinna<br />

dorsale è lunga con grossi aculei terminanti con raggi sottili. La differenza<br />

macroscopica tra le due specie è data dal colore che per la prima specie varia tra il<br />

marrone scuro ed il verde, mentre per S. rivulatus è grigio-verde, con sfumature<br />

marroni nella parte posteriore e superiore, marrone chiaro-giallo sul ventre con bande<br />

giallo-oro, spesso sbiadite sulla metà inferiore del corpo; entrambe le specie non<br />

superano i 25 centimetri. Sono specie erbivore <strong>qui</strong>ndi si ritrovano prevalentemente<br />

in acque superficiali entro i 20 metri, su fondi ricchi di vegetazione.<br />

Sparisoma cretense<br />

È una specie mediterranea termofila presente sino a pochi anni fa solamente nelle<br />

isole Pelagie; è conosciuta come pesce pappagallo. Vive normalmente in harem<br />

costituiti da un maschio più grande colore grigio e verdastro e 4 o 5 femmine più<br />

piccole di colore rosso bruno e giallo. Ha comportamento territoriale e vive in<br />

ambiente costiero su fondali ricchi di vegetazione, di cui si nutre.<br />

Percnon gibbesi<br />

È un granchio proveniente dal Mar Rosso caratterizzato da un carapace piatto e<br />

circolare, con il margine anteriore tridentato; sui giunti degli arti ambulanti sono<br />

visibili anelli giallo dorato. La dimensione comune del carapace è di tre centimetri.<br />

Vive in pochi metri d’acqua in anfratti nelle rocce, si rinviene anche in ambito<br />

portuale e in barriere frangiflutti; vale la pena cercarlo in fase di decompressione<br />

o in sosta cautelativa con buone possibilità di trovarlo giacché si sta diffondendo<br />

ovunque molto rapidamente.


Seriola fasciata<br />

È una specie di pesce proveniente dall’Oceano Atlantico congenere della ricciola<br />

mediterranea con la quale può essere scambiata nelle fasi giovanili e dalla quale<br />

si distingue per avere le bande scure e un corpo meno affusolato. È grigia con<br />

bande scure quasi nere sul corpo, visibili anche negli individui adulti che non<br />

superano i 4 kg. È spesso catturata insieme alla ricciola mediterranea di taglia<br />

omogenea e si osserva spesso associata a corpi galleggianti come i cannizzati<br />

che i pescatori usano per la pesca alla lampuga, boe o oggetti alla deriva sotto i<br />

quali vive da giovane insieme alla ricciola mediterranea. Segnalata per la prima<br />

volta in Mediterraneo nel 1995 è oggi presente quasi ovunque.<br />

Balistes carolinensis<br />

Conosciuto come pesce balestra o pesce grilletto è una specie mediterranea<br />

termofila, presente nei mari meridionali ed oggi in rapida espansione verso nord.<br />

Caratteri distintivi sono la bocca piccola a forma di becco con labbra carnose e la<br />

forma del corpo appiattita lateralmente. Colorazione da verde brunastro a grigio;<br />

raggiunge una lunghezza massima di 40 cm. Nel periodo riproduttivo scava un<br />

nido nella sabbia dove la femmina depone le uova che vengono sorvegliate a<br />

turno con il maschio; i giovani sono spesso osservati associati a corpi galleggianti.<br />

Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa<br />

Sono tristemente note per avere rapidamente invaso il mare. Sono alghe tropicali<br />

indopacifiche probabilmente sfuggite dagli acquari, dove vengono usate per il loro<br />

aspetto grazioso. La loro capacità invasiva è dovuta al fatto che il tallo spezzato<br />

è in grado di rigenerare un nuovo individuo. La Caulerpa taxifolia è così chiamata<br />

per la somiglianza delle sue fronde alle foglie dell’albero del tasso, lunghe circa<br />

5 cm o poco più, di un bel colore smeraldo. La Caulerpa racemosa si riconosce<br />

per le fronde color verde brillante a forma di acini d’uva.<br />

75


76<br />

Scheda di segnalazione specie aliene<br />

Nome e cognome____________________________________________________<br />

Indirizzo____________________________________________________________<br />

E-mail______________________________________________________________<br />

Telefono____________________________________________________________<br />

Scuola-Circolo-Diving center____________________________________________<br />

___________________________________________________________________<br />

Cooperativa di pesca_________________________________________________<br />

Punto di immersione o pesca__________________________________________<br />

___________________________________________________________________<br />

Profondità massima raggiunta__________________________Data____________<br />

AMBIENTE DOVE È STATO AVVISTATO L’ESEMPLARE<br />

SABBIOS0 ROCCIOSO POSIDONIA ALTR0<br />

FAI UN SEGNO SULLA SCHEDA DANDO UNA STIMA DEL NUMERO AVVISTATO<br />

Fistularia commersonii<br />

Siganus luridus e Siganus rivulatus<br />

Sparisoma cretense<br />

Percnon gibbesi<br />

Seriola fasciata<br />

Balistes carolinensis<br />

Caulerpa taxifolia e Caulerpa racemosa<br />

Unico Raro Frequente Abbondante


LA SCOGLIERA<br />

Costruire una scogliera in classe con le varie specie (granchi, mitili, patelle, pesci, alghe) osservate sul campo, indicando le<br />

loro relazioni trofiche e spaziali. L’attività proposta viene condotta direttamente sul campo e riguarda lo studio di un<br />

ambiente particolare. Con una serie di uscite condotte durante l’arco dell’anno scolastico i ragazzi dovranno identificare e<br />

classificare, con l’aiuto anche di manuali, tutte le differenti specie appartenenti ai vari taxa (le diverse categorie della<br />

classificazione tassonomica: specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno) che riescono ad osservare nella scogliera<br />

e nelle acque sottostanti (piccoli pesci come bavose, tordi, saraghi, castagnole, occhiate, piccoli cefali, donzelle, possono<br />

essere individuate osservandole dalla superficie anche senza immergersi). Durante l’attività di esplorazione e rilevamento<br />

è importante riportare sulle schede la posizione esatta sulla scogliera (in una pozza, fuori dalla superficie, in acqua) in cui<br />

l’animale o il vegetale (alghe come Padina pavonia, Ulva lactuca, acetabularia sono comuni in questi ambienti) sono stati<br />

trovati. Il prodotto finale sarà uno spaccato della scogliera con l’indicazione di tutte le specie trovate, il loro numero totale<br />

(un elevato numero di specie è indice di un buono stato ambientale), la loro posizione spaziale (sopralitorale, infralitorale...)<br />

e il loro posto nella catena trofica; potrà essere utile aiutarsi con dei simboli e delle frecce che ne contraddistinguano i<br />

rispettivi ruoli e rapporti, in modo da ricostruire le biocenosi della scogliera.<br />

Scheda di rilevamento per la scogliera<br />

compilare una scheda per ogni specie<br />

Nome del raccoglitore________________________________ Data____________<br />

Condizioni atmosferiche (sole, cielo coperto, molto nuvoloso, vento)_____________________<br />

Marea (alta/bassa)___________________ Vegetale o animale___________________<br />

Nome comune della specie____________________________________________<br />

Nome scientifico_____________________________________________________<br />

Descrizione_________________________________________________________<br />

Indicazione del luogo dove si è trovata<br />

(libera in acqua, aderente al fondo o alla scogliera, fuori dall’acqua sulla scogliera, in una pozza di marea .....)<br />

___________________________________________________________________<br />

Quantità di individui osservati_________________________________________<br />

Descrizione delle attività compiute (nel caso sia una specie animale)<br />

___________________________________________________________________<br />

Descrizione delle sue abitudini_________________________________________<br />

Posizione nella catena alimentare (produttore, consumatore primario)<br />

___________________________________________________________________<br />

Schizzo o fotografia<br />

77


<strong>Legambiente</strong><br />

Nata nel 1980, è oggi l’associazione ambientalista italiana più diffusa sul territorio: oltre<br />

mille gruppi locali, venti comitati regionali, più di 115 mila tra soci e sostenitori. Obiettivo<br />

di <strong>Legambiente</strong> è fare della cultura ambientalista, delle sue ragioni e dei suoi princìpi, uno<br />

dei criteri fondanti di uno sviluppo e di un benessere di tipo nuovo, dimostrare che il<br />

miglioramento della qualità ambientale, la lotta contro ogni forma d’in<strong>qui</strong>namento, un uso<br />

parsimonioso delle risorse naturali, la costruzione di un rapporto più e<strong>qui</strong>librato dell’uomo con gli altri esseri viventi<br />

sono sì un valore in sé, ma anche una via efficace per rispondere alle grandi sfide del nostro tempo: quelle della<br />

modernizzazione dell’economia, dell’impegno per battere la disoccupazione, della lotta per la pace e contro ogni forma<br />

di terrorismo, dello sforzo perché la globalizzazione sia non solo merci ma soprattutto migliore qualità della vita e più<br />

diritti per quei miliardi di uomini e donne costretti a vivere nella miseria.<br />

<strong>Legambiente</strong> è un’associazione apartitica, aperta ai cittadini di tutte le convinzioni politiche e religiose; è riconosciuta<br />

dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come associazione d’interesse ambientale; fa parte<br />

del Bureau européen de l’environnement, l’organismo che raccoglie tutte le principali associazioni ambientaliste europee,<br />

e della Iucn (The International Union for Conservation of Nature).<br />

Campagne, iniziative, proposte<br />

Queste le iniziative più popolari di <strong>Legambiente</strong>: le campagne nazionali di analisi e informazione sull’in<strong>qui</strong>namento<br />

(Goletta Verde, Treno Verde, Fiuminforma, Salvalarte), che ogni anno fotografano lo stato di salute dei mari, delle città,<br />

dei fiumi, dei monumenti; Mal’aria, la campagna delle lenzuola contro lo smog; Cambio di clima, programma di azioni<br />

per ottenere l’applicazione in Italia del Protocollo di Kyoto contro i mutamenti climatici e per favorire il risparmio<br />

energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili; Piccola grande Italia, iniziativa per la difesa e la valorizzazione dei<br />

piccoli comuni; i grandi appuntamenti di volontariato, gioco e turismo ambientale per il recupero e la valorizzazione<br />

di spiagge, parchi e giardini pubblici, piazze, boschi (Spiagge pulite, Puliamo il mondo/Clean-up the world, Festa<br />

dell’albero, Cento strade per giocare, Nontiscordardimé/Operazione scuole pulite, campi estivi); le iniziative e proposte<br />

per promuovere la modernizzazione e la riconversione ecologica dell’economia e per realizzare una grande alleanza tra<br />

interessi dell’ambiente e del lavoro; l’attività di ricerca dell’Osservatorio su ambiente e legalità, che raccoglie e diffonde<br />

dati ed informazioni sui fenomeni d’illegalità che danneggiano l’ambiente e sulle ecomafie; l’impegno per una piena<br />

valorizzazione delle aree protette e delle economie territoriali basate sulla qualità; <strong>Legambiente</strong> per un’agricoltura<br />

italiana di qualità, campagna per promuovere le produzioni agroalimentari tipiche e pulite; le campagne e le iniziative<br />

per promuovere un nuovo modello di globalizzazione (Clima e povertà, progetti di cooperazione allo sviluppo); i<br />

Rapporti annuali sullo stato dell’ambiente: Ambiente Italia, Ecosistema urbano, Guida blu al turismo balneare,<br />

Ecosistema scuola.<br />

<strong>Legambiente</strong> per la scuola<br />

<strong>Legambiente</strong> Scuola e Formazione rivolge al mondo della scuola numerose proposte di lavoro il cui punto di forza<br />

è la connessione tra apprendimenti disciplinari, costruzione di competenze trasversali e formazione alla cittadinanza<br />

attiva. Numerosi i percorsi educativi: Un libro per l’ambiente, Rifiuti, Energia, TeatrAmbiente, Tesori d’Italia. Offre ai suoi<br />

soci occasioni di dibattito politico e culturale, consulenza per la realizzazione di progetti educativi nazionali e<br />

internazionali, materiali didattici e informativi. Oltre ai progetti educativi e alle iniziative rivolte ai ragazzi e agli adulti,<br />

l’associazione propone, attraverso la rete dei Centri di Educazione Ambientale, gemellaggi con le scuole dei piccoli<br />

Comuni italiani con il progetto La scuola adotta un Comune e proposte di turismo educativo, opportunità di incontro<br />

per confrontarsi con i coetanei e con realtà diverse.<br />

<strong>Legambiente</strong> Scuola e Formazione è ente qualificato a svolgere formazione per il personale scolastico.<br />

scuola.formazione@legambiente.eu<br />

Gli strumenti di lavoro<br />

<strong>Legambiente</strong> si avvale nella sua azione di diversi strumenti: un Comitato scientifico composto da scienziati e tecnici;<br />

i Centri di azione giuridica, impegnati in iniziative giudiziarie per la tutela dell’ambiente e in attività di studio, formazione,<br />

proposta; l’Istituto di ricerche Ambiente Italia, che opera nel settore della ricerca applicata e cura ogni anno il rapporto<br />

Ambiente Italia, edito a partire dal 1995 dalle Edizioni Ambiente di Milano; il mensile La Nuova Ecologia, inviato in<br />

abbonamento ai soci dell’associazione.<br />

<strong>Legambiente</strong> - Via Salaria, 403 - 00199 Roma<br />

tel. +39.06862681 - fax +39.0686218474<br />

www.legambiente.eu - legambiente@legambiente.eu

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