La valigia in viaggio: biografia culturale di un oggetto 'quasi ...

La valigia in viaggio: biografia culturale di un oggetto 'quasi' quotidiano 1
di Lucia Ruggerone
1. Una premessa teorica
L'interesse per i significati sociali degli oggetti materiali e quindi per il ruolo che essi svolgono
nella vita quotidiana degli individui è una caratteristica recente della sociologia della cultura. Per
anni infatti lo studio sociologico della cultura sia in Europa sia in America si è sviluppato sulla base
di una vaga definizione antropologica secondo cui il termine "cultura" indica in genere tutto
l'insieme di valori, norme, credenze, abitudini, stili di vita e principi di convivenza che
caratterizzano (e sono espressione de) i diversi tipi di strutture sociali. Naturalmente
all'affermazione di tale definizione di cultura ha contribuito il successo di quelle tradizioni
sociologiche, come il funzionalismo e il marxismo, che di fatto interpretano la cultura come «il
parente povero della struttura» (Archer 1988:1) e che pertanto trascurano di porre l'accento
sull'importanza del significato quale elemento distintivo di qualsiasi espressione culturale.
Naturalmente questa tendenza non si trova diffusa uniformemente in tutti gli autori classici; per
esempio, Weber, introducendo in Economia e società (1968, 1974) la sua tipologia dell'azione
sociale, assegna centralità al significato restituendo agli attori sociali la facoltà di attribuire senso
alle proprie azioni. Qualche anno più tardi, sempre in ambito tedesco, Simmel interpreta il
mutamento nello stile di vita caratteristico della modernità alla luce del cambiamento dei modi in
cui gli individui si appropriano della cultura materiale, e nello stesso tempo sottolinea l'importanza
degli oggetti nella definizione delle relazioni sociali moderne 2 . Contemporaneamente, al di là
dell'oceano, Veblen (1948) elabora la teoria del consumo vistoso, anticipando per certi versi le
riflessioni di Bourdieu (1984) sul capitale culturale, mentre, a Chicago (con G.H.Mead 1966) e poi
a Berkley (con Blumer 1969) gli interazionisti simbolici aprono la strada ad una composita corrente
di sociologie anti-funzionaliste che negli anni Sessanta e Settanta porranno le basi per una radicale
riconsiderazione del concetto di cultura. In questo quadro risultano particolarmente significativi i
contributi provenienti dalle sociologie di ispirazione fenomenologica (Schutz, Goffman, Berger e
Luckmann e gli etnometodologi) che, interpretando la realtà sociale come il risultato delle
attribuzioni di senso negoziate nelle interazioni tra soggetti, chiudono definitivamente quel gap tra
struttura e cultura che per anni aveva relegato la sociologia della cultura ai margini della disciplina.
Senza la pretesa di dilungarsi in questa sede in un'analisi più dettagliata di queste correnti di
pensiero, è opportuno sottolineare come tutte queste prospettive teoriche abbiano imposto alla teoria
sociologica una riconsiderazione della definizione di cultura e del suo impatto sociale, e abbiano
portato in primo piano la necessità di elaborare approcci innovativi per lo studio degli aspetti
culturali del vivere, ormai difficilmente distinguibili da quelli meramente 'sociali'.
Tuttavia, il genere di studio che più ci riguarda in questo contesto, cioè l'estendersi dell'interesse
sociologico alla considerazione dei significati sociali incorporati negli oggetti materiali, non si apre
1 Questo articolo prende spunto da un lavoro di ricerca condotto da un équipe di tre ricercatori del Centro per lo studio
della moda e della produzione culturale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e cofinanziato dai fondi
MURST negli anni 1998-2000. Il programma di cofinanziamento del MURST, inaugurato nel 1997, finanzia progetti di
ricerca interuniversitari a cui partecipano diversi atenei (le unità locali) coordinate da una delle unità che funge anche da
responsabile nazionale. In questo caso il progetto locale e quello nazionale (intitolati rispettivamente "La moda tra
produzione e consumo. Studio di tre casi esemplari" e "Le industrie culturali tra produzione e consumo") sono stati
entrambi coordinati da Laura Bovone che ricopriva il ruolo di responsabile locale e nazionale. La ricerca qui descritta,
svolta da me e da altri due ricercatori, ha studiato la biografia culturale di tre oggetti scelti tra i prodotti del settore
dell'abbigliamento e degli accessori, ovvero ha seguito il percorso di ciascun oggetto dal momento della sua
progettazione fino al momento del consumo finale, attraverso una serie di interviste motivazionali realizzate con i
soggetti considerati rilevanti: le diverse figure professionali venute a contatto con il prodotto e un numero limitato di
consumatori reperiti a volte dal database dell'azienda, in altri casi direttamente contattati dal ricercatore nei puntivendita.
In particolare, questo articolo descrive la biografia culturale di uno di questi oggetti: un modello di valigia
rigida denominato Oyster (in italiano "conchiglia") prodotto da un'azienda multinazionale, la Samsonite.
2 Per approfondimenti si veda Simmel (1984 e 1985) e Dant (1999).
1

automaticamente con l'affermarsi di queste nuove prospettive, ma prende piede in un tempo ancora
più recente (soprattutto negli ultimi dieci anni in alcuni Paesi europei, mentre solo attualmente sta
facendo la sua comparsa in Italia) anche per effetto di contributi provenienti da altre discipline. In
particolare l'antropologia, la semiotica e i cultural studies di origine britannica hanno fortemente
influenzato lo sviluppo degli studi sulla cultura materiale, che infatti danno vita ad un genere
difficilmente inseribile in un unico settore disciplinare, ma piuttosto per eccellenza trasversale a
tutte queste discipline 3 .
Tra i sociologi contemporanei, due studiose americane, Diana Crane e Wendy Griswold, sono
recentemente intervenute nel dibattito in merito alla definizione di material culture e
all'individuazione degli oggetti da considerare appunto 'culturali'. La definizione proposta da Crane
(1994) tende a porre l'accento, più che sulla cultura materiale, su ciò che può essere considerato un
particolare sotto-sistema di questa: la «recorded culture», cioè la «cultura registrata»,
un'espressione con cui Crane si riferisce all'insieme dei vari significati culturali veicolati attraverso
l'utilizzo di supporti dotati di fisicità; per esempio i dischi, i cd, la carta stampata, ma anche, da un
punto di vista più ampio, le opere d'arte 4 . La definizione data da Griswold (1997:26) è più estesa e
arriva ad includere sotto l'etichetta di 'oggetto culturale' qualsiasi 'cosa' in cui siano incorporati dei
significati sociali condivisi. Se si adotta quest'ultima definizione si possono allora considerare
culturali non soltanto gli oggetti che si presentano come veicolo o supporto per il passaggio di
contenuti che hanno a che fare con attività ritenute tradizionalmente culturali, ma anche altri oggetti
inseriti in pratiche più quotidiane, ma ugualmente capaci di farsi portatori, a livello connotativo 5 , di
valenze simboliche socialmente significative; in una parola tutti gli oggetti capaci di 'comunicare'
qualcosa all'interno perlomeno di determinate comunità sociali.
Questa concezione si rifà ad un concetto antropologico di cultura più innovativo rispetto a quello
riferito più sopra, che si riallaccia alla definizione di Geertz secondo cui la cultura è «una struttura
di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate
espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la
loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita» (1997: 141). In base a questa definizione il
termine "cultura" intende fare riferimento non soltanto alle manifestazioni di cultura alta, dotate di
elevato contenuto creativo ed estetico e prodotte da individui o gruppi 'speciali' operanti in sfere
separate dalla quotidianità, ma a tutte le forme implicite ed esplicite, materiali ed immateriali, entro
cui si possono leggere dei significati ulteriori rispetto al mero livello denotativo. Gli oggetti presi in
considerazione nello studio della cultura materiale sono pertanto tutti quegli oggetti di uso comune,
che partecipano della vita quotidiana di gran parte delle persone, assumendo per queste ultime non
solo un significato funzionale, ma anche un significato simbolico condiviso.
2. Come si può studiare la cultura materiale
La disciplina dell'antropologia ha senza dubbio giocato un ruolo determinante nella diffusione
anche in campo sociologico dell'interesse per la cultura materiale. A differenza dei sociologi, infatti,
gli antropologi hanno da tempo intuito l'importanza degli oggetti di uso comune per
l'interpretazione della cultura e dello stile di vita di una società. Tradizionalmente però anche gli
antropologi tendevano a limitare questo approccio allo studio di società antiche oppure molto
distanti dalla nostra, senza pensare che questa stessa linea di indagine poteva essere applicata
utilmente anche alle società moderne. È soltanto nella seconda metà del XX secolo, quando cioè
3
Per una sia pur sintetica considerazione nel merito dei contributi apportati dalle singole discipline si veda Semprini
1999.
4
Sebbene questo elenco rispecchi la concezione di oggetto culturale adottata da Crane (1997), nell'antologia da lei
curata nel 1994, viene proposta una concezione più ampia che comprende nell'insieme degli oggetti culturali anche gli
strumenti usati dagli scienziati nello svolgimento del loro lavoro quotidiano, nonché i prodotti dell'attività scientifica e
tecnica. Su questo punto si veda però principalmente Latour1996 e Mukerji 1994.
5
Per una considerazione del significato connotativo contrapposto a quello denotativo degli oggetti culturali, si veda
Barnard, 1996.
2

l'antropologia comincia ad interessarsi delle pratiche di consumo contemporanee, che si comincia a
porre l'attenzione sul fatto che buona parte della vita sociale degli esseri umani, (i modi in cui essi
vengono in contatto e comunicano tra di loro) passa proprio attraverso l'acquisizione, l'uso e lo
scambio di oggetti materiali. Un primo approccio antropologico allo studio della cultura materiale
consiste dunque nel cercare di decifrare di quali messaggi gli oggetti si fanno portatori in diverse
situazioni sociali.
Un antropologo contemporaneo, Marshall Sahlins, ha affermato (1976) che gli artefatti
industriali svolgono per i membri delle società moderne la stessa funzione che avevano i totem nelle
società tradizionali e che i diversi gruppi di consumatori rappresentano le tribù dell'età
contemporanea. Prendendo in considerazione soprattutto l'abbigliamento e le abitudini alimentari,
Sahlins fa notare come, per esempio, i vestiti che indossiamo funzionino come dei totem, nel senso
che veicolano dei messaggi relativi alle varie identità sociali e identificano diverse 'tribù' di
consumo. In questa prospettiva, il sistema dell'abbigliamento non è semplicemente un insieme di
oggetti materiali finalizzati a riparare dal freddo, ma diventa un codice simbolico attraverso cui le
persone comunicano la loro appartenenza ai vari gruppi sociali. Per Sahlins, dunque, «la cultura
materiale è basata sullo scambio entro un sistema di significati simbolici le cui distinzioni hanno
delle corrispondenze nell'ordine sociale nelle categorie quali l'età, il genere, il tempo, il lavoro e il
tempo libero» (Dant, 1999: 22).
In un altro importante contributo antropologico allo studio della cultura materiale, Mary Douglas
e Baron Isherwood (1984) sostengono la tesi secondo cui le scelte di consumo dipendono anche dai
costumi e dalle pratiche sociali, oltre che da decisioni strettamente economiche. I beni materiali
infatti sono acquisiti in diverse condizioni e per diverse finalità che hanno spesso a che fare con le
pratiche comuni di una società: per esempio si può acquistare per fare regali, per dimostrarsi fedeli
ad un'usanza, per sottolineare certi legami e così via. In questo senso i beni materiali partecipano
dell'ambiente sociale in cui sono inseriti e scambiati e insieme esprimono qualcosa relativamente a
questo ambiente. I due autori sottolineano inoltre come le scelte di consumo, soprattutto nel caso di
beni quali il cibo, lo spazio abitativo, l'abbigliamento, il mezzo di trasporto, i prodotti sanitari,
abbiano un effetto importante sull'ordine sociale in quanto, in certi casi, possono riprodurre (e
quindi rinforzare) le divisioni e le discriminazioni sociali, in altri, possono invece risultare in
contro-tendenza rispetto all'ordine sociale dominante.
I due approcci antropologici fin qui ricordati sono stati, insieme ad altri (per esempio, Campbell
1989 e Willis 1982) determinanti nel mettere in evidenza l'importanza degli oggetti materiali
nell'analisi della cultura, dimostrando che è riduttivo considerare il valore dei beni esclusivamente
come una funzione della loro utilità, sulla base di un modello di consumatore concepito come
individuo razionale volto a massimizzare la propria utilità attraverso la scelta dei beni. Gli
antropologi per primi fanno infatti notare come quella economica sia una concezione
eccessivamente astratta, che trascura l'influenza della storia e dei contesti sociali in cui i beni
vengono scambiati. Al contrario, essi sostengono che il valore di un bene è sempre relativo anche al
sistema sociale in cui circola e dipende dal tipo di scambio di cui il bene stesso è oggetto; in altre
parole essi sostengono che il concetto di utilità non è in grado da solo di dare ragione del valore di
un oggetto, per stabilire il quale occorre fare ricorso anche a fattori di tipo simbolico.
Invece di limitarsi a sottolineare l'importanza degli oggetti nelle quotidiane pratiche sociali
caratteristiche della società contemporanea (soprattutto le pratiche del consumo) un'altra scuola
antropologica di origine statunitense ha proposto in anni ancora più recenti una nuova prospettiva in
base alla quale gli oggetti stessi possiedono una vera e propria vita sociale. Mettendo in discussione
l'assunto marxiano secondo cui nelle società capitaliste tutti gli oggetti non sono altro che merci
scambiabili con altre attraverso il tramite della moneta, Igor Kopytoff e Arjun Appadurai (1986)
sostengono che in tutti i tipi di società, compresa quindi anche la nostra, gli oggetti possono entrare
ed uscire dal ruolo di merci a seconda del loro utilizzo e della loro funzione nella società in
generale, oppure all'interno di gruppi più limitati. Pertanto, per comprendere i significati degli
oggetti occorre ripercorrere la loro biografia e seguire le varie tappe attraverso cui essi passano nel
3

corso della loro esistenza. Una tale operazione può avere due esiti analiticamente, ma non
realmente, distinguibili: la ricostruzione della "biografia culturale" dell'oggetto, attraverso i
passaggi tra un contesto sociale e l'altro, oppure la ricostruzione di "storia sociale" dell'oggetto i cui
significati cambiano nel passaggio tra diverse epoche storiche o tra ambiti socio-culturali molto
lontani ed eterogenei 6 .
I vantaggi di questo tipo di approccio sono, a nostro parere, molteplici. In primo luogo
l'attenzione del ricercatore non privilegia nessun momento particolare nella vita sociale dell'oggetto
rischiando di mettere a fuoco soltanto uno dei molteplici significati sociali di cui esso si è fatto
portatore e trascurando in modo arbitrario tutti gli altri. In secondo luogo, questo tipo di approccio
consente di utilizzare gli oggetti in modo praticamente uguale a quanto si fa con gli esseri umani,
quando si adotta il metodo delle storie di vita: come gli episodi della vita di una persona fanno luce
sugli ambienti sociali in cui quella ha vissuto e sui diversi ruoli e significati che ha incarnato per gli
"altri significativi", così la ricostruzione dell'itinerario di vita degli oggetti porta il ricercatore a
venire in contatto con i vari significati che quell'oggetto ha incorporato per gli individui che l'hanno
utilizzato nelle diverse circostanze della realtà sociale. Questa più ampia prospettiva possiede (ed è
questo il terzo vantaggio) un grado di flessibilità più elevato in quanto si presta a ricomprendere la
complessa struttura di significati che possono convivere in corrispondenza di ogni passaggio di un
oggetto da una nicchia all'altra del tessuto sociale: quelli connessi al valore economico e quelli
collegati in vari modi a fattori culturali (la tradizione, i rituali della vita quotidiana, lo stile di vita,
eccetera). Infine, come fa notare Dant (1999: 24), l'approccio proposto da Appadurai «scinde il
valore dall'oggetto intrinseco e dai mezzi utilizzati per la sua produzione. È la storia
dell'associazione di un oggetto con gli esseri umani a determinare il suo valore di merce in qualsiasi
momento. In questa prospettiva l'oggetto è un veicolo attraverso cui il valore sociale è espresso
come una traccia delle persone, delle occasioni e dei contesti culturali che hanno inscritto valore
dentro all'oggetto».
3. Opzioni teoriche e metodologiche per una ricerca sugli oggetti
La prospettiva a partire dalla quale abbiamo condotto la ricerca di cui qui di seguito intendo
trattare (cfr. nota 1) è frutto di una combinazione tra spunti derivabili da tale più recente letteratura
antropologica e da alcune idee elaborate nell'ambito dei cultural studies. Più precisamente, l'idea di
analizzare la storia di vita di tre oggetti di moda si rifà, da un lato, all'approccio della biografia
culturale degli oggetti proposto dall'antropologo, Igor Kopytoff, dall'altro tiene conto
dell'esperienza già realizzata da alcuni studiosi di cultural studies, che nella seconda metà degli anni
Novanta dedicano un intero volume al Sony Walkman, presentato come uno degli oggetti culturali
più significativi del nostro tempo. Naturalmente come équipe di ricerca siamo stati fin dall'inizio
consapevoli del fatto che si tratta di due ottiche solo in parte accomunabili in quanto sviluppate a
partire da interessi piuttosto eterogenei. Mentre infatti la riflessione di Kopytoff prende le mosse dal
concetto marxiano di mercificazione per metterlo in discussione e quindi contestare l'idea secondo
cui gli oggetti hanno in sé quale caratteristica intrinseca lo status di merci, lo studio di Stuart Hall et
al.(1997) mira soprattutto ad esemplificare attraverso la storia del Sony Walkman la tesi, cara agli
studiosi di questa corrente, secondo cui i consumatori, lungi dall'essere soggetti massificati e
passivi, mostrerebbero di avere un ruolo attivo nel processo di attribuzione di significato agli
oggetti e ai messaggi che ricevono 7 . Le due prospettive sono però accomunate dalla critica ad alcuni
6 Un esempio di studio di questo tipo è costituito dal lavoro di Hebdige (1988) sulla storia dello scooter italiano. Come
fa notare Appadurai (1986) è in pratica molto difficile tenere distinti i due piani che tendono continuamente a
richiamarsi e a sovrapporsi nella concreta realizzazione degli studi che hanno come protagonisti gli oggetti. Tale
osservazione trova conferma anche nell'esperienza della ricerca da noi eseguita.
7 Secondo questi autori, gli oggetti dell'industria culturale sarebbero infatti caricati, durante il processo di produzione, di
una serie di significati che mirano a stabilire un'identificazione tra l'oggetto e un particolare gruppo di consumatori
Questo processo viene da loro chiamato «encoding». Quando i consumatori acquisiscono l'oggetto e incominciano ad
4

dei principi fondamentali della corrente marxista e tendono entrambe a rivalutare la capacità degli
oggetti di farsi portatori di un insieme di significati ulteriori rispetto a quello del loro valore di
scambio, significati che possono essere recuperati seguendo un oggetto attraverso le fasi della sua
esistenza e quindi analizzando le relazioni tra l'oggetto stesso e le comunità (culture professionali e
pubblici) con cui viene a contatto. Mettendo in evidenza la pluralità di tali significati, si smentisce
di fatto anche la concezione, proposta dalla scuola di Francoforte, secondo cui i prodotti industriali
sarebbero per definizione non-culturali.
Una volta deciso di adottare l'approccio della biografia culturale degli oggetti, nella fase
successiva del lavoro di ricerca si è reso necessario operazionalizzare tale approccio delineando un
idealtipo empirico dell'itinerario generalmente seguito - pur nella varietà dei singoli casi - dai
prodotti dell'industria culturale moderna. A questo fine il riferimento teorico è stato fornito dal
citatissimo schema proposto da Hirsch nel 1972 e relativo proprio al percorso-tipo dei prodotti
dell'industria culturale. Qui di seguito ne riporto una rappresentazione grafica [fig.1] adattata da
Griswold (1997).
Sottosistema tecnico ⇒ Sottosistema manageriale ⇒ Sottosistema istituzionale ⇒ Consumatori
(ideazione, progettaz.) (Produzione) (Comunicazione) (Consumo)
⇑ ⇓ ⇓
↑___________________________ feed back ___________ ↵
Fig.1
L'utilizzo di questo schema consente di identificare agevolmente i quattro principali nodi
tematici intorno ai quali si è svolto il nostro lavoro di ricerca: il momento dell'ideazione, della
produzione, della comunicazione e infine del consumo finale di ciascuno dei tre oggetti che
abbiamo studiato. Se immaginiamo ciascuno di questi momenti come un contenitore, il nostro
studio (svolto con il metodo delle interviste motivazionali a testimoni privilegiati e a figure ritenute
rilevanti in ciascuna delle fasi dell'itinerario, oltre che con l'impiego di interviste di gruppo
realizzate con i consumatori) si è orientato, da un lato, ad analizzare i processi comunicativi interni
a ciascuna fase, dall'altro, ad identificare anche i processi di confine attraverso i quali si realizza il
passaggio dell'oggetto da una fase a quella successiva. Poiché ciascuno di questi passaggi può
essere visto come l'incontro tra due o più culture professionali differenti, l'analisi ha messo in
evidenza le modalità formali e informali con cui viene di volta in volta raggiunto l'accordo
comunicativo che rende possibile il procedere dell'oggetto verso la sua destinazione finale: il
mercato del consumo. Come la nostra analisi mette in evidenza, tale accordo viene realizzato
talvolta grazie all'adozione di particolari procedure di lavoro che contengono in sé delle risorse
finalizzate al raggiungimento di tale accordo, altre volte grazie all'azione di particolari figure di
mediatori che, collocandosi tra una fase e l'altra, sono in grado appunto di mediare tra i diversi
linguaggi tecnici in quel punto rilevanti. Si tratta spesso di tipi i professionalità non-tradizionali e
relativamente recenti in corrispondenza dei quali si registra una domanda in costante crescita nel
mercato del lavoro 8 .
Le nostre analisi hanno inoltre prodotto risultati interessanti anche per quanto riguarda delle
possibili revisioni dello schema di Hirsch che pure aveva fornito un valido punto di partenza per
l'impostazione del lavoro: in particolare, i meccanismi di feed-back messi in evidenza da Hirsch
utilizzarlo mettono in atto un processo di decodifica («decoding») di tali significati che non necessariamente si
sovrappone alle intenzioni dei produttori.
8 Si tratta di figure professionali che possono rientrare nella definizione di Bourdieu (1984) di «intermediari di cultura».
Sul tema si veda anche Bovone 1994.
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appaiono, in base alle osservazioni empiriche, eccessivamente limitati e di fatto non in grado di
rendere conto della circolarità esistente tra l'inizio e la fine del processo dell'industria culturale, che
costituiva, tra l'altro, una delle ipotesi di partenza del nostro lavoro. Si tratta, come detto, della
circolarità già intuita e messa in evidenza da alcuni studiosi anglosassoni di cultural studies (Hall et
al. 1997) che mostra come molto spesso le modalità di interpretazione e di utilizzo di un oggetto in
fasi diverse dalla produzione abbiano importanti ricadute sulle scelte di designer e produttori.
Oltre a confermare questa interpretazione, il nostro lavoro ha ulteriormente complicato il
modello della circolarità; infatti, puntando l'attenzione sulle zone di confine tra una fase e l'altra
dell'itinerario, è stato possibile rilevare anche l'esistenza di quelle che potremmo chiamare delle
«micro-circolarità» che si instaurano continuamente tra le fasi e sotto-fasi intermedie dell'itinerario
sopra schematizzato. Sembra pertanto riduttivo ipotizzare, come fa Hirsch, solo due grandi flussi di
feed-back (dai consumatori ai produttori e dai media ai produttori): i processi comunicativi in atto
in tutti i punti del percorso realizzano infatti una incessante serie di rimandi tali per cui tutti i
momenti dell'itinerario risultano essere sempre contemporaneamente presenti in ogni suo punto
sotto forma di variabili di cui tenere conto in tutti i processi decisionali.
Per illustrare quanto detto fin qui sembra a questo punto opportuno presentare analiticamente
uno dei tre casi analizzati nella ricerca: il caso della valigia rigida Oyster di Samsonite.
4. La scelta dell'oggetto
Partendo dal background teorico e dalle ipotesi che ho fin qui presentato, la ricerca realizzata
dall'équipe di cui facevo parte, si proponeva di realizzare la biografia culturale di tre oggetti
particolarmente significativi prodotti nel settore dell'abbigliamento e degli accessori. La scelta di
Samsonite quale azienda produttrice di uno degli oggetti da studiare è motivata da diversi fattori:
innanzitutto l'azienda si è subito dimostrata interessata al progetto e disposta ad aprire le porte al
ricercatore; in secondo luogo, dal nostro punto di vista, Samsonite poteva senza dubbio
rappresentare un caso interessante, dal momento che non solo è azienda leader nel settore del
bagaglio, ma il suo nome è particolarmente legato ad una specifica tipologia di valigia: appunto la
valigia rigida.
Una volta stabilita la collaborazione con Samsonite, la scelta dell'oggetto da studiare si è definita
nei colloqui preliminari tra ricercatori e il management dell'azienda: da questi ultimi è partito il
suggerimento di concentrarsi sulla linea Oyster. Pur essendo un modello oramai datato, (è stata
presentata sul mercato nel 1986) la Oyster (in italiano «conchiglia») viene considerata dal
management una sorta di oggetto-simbolo dell'azienda sia per il suo straordinario successo di
mercato, sia perché è stata la prima valigia Samsonite totalmente disegnata e prodotta in Europa
utilizzando fra l'altro un progetto e delle tecniche di produzione del tutto innovative.
Dal nostro punto di vista, la scelta di Oyster era particolarmente interessante perché ci consentiva di
studiare un oggetto che, pur essendo tuttora commercializzato con successo, rappresenta
nell'immaginario collettivo una sorta di stereotipo della valigia rigida, un oggetto quasi cult che
incarna le caratteristiche essenziali di un'intera tipologia di artefatti dell'industria culturale della
moda.
FOTO
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4. 1. La Oyster come oggetto di design: designed for manufacturing
Quale merce di consumo, la valigia si presenta immediatamente come un oggetto dalla "doppia
personalità": da un lato, poiché ha a che fare con il look di una persona, può essere considerato a
pieno titolo un oggetto di moda, inseribile nella categoria degli accessori; dall'altro, vista la sua
destinazione d'uso, la valigia incarna senza dubbio un importante ruolo funzionale che infatti
rappresenta una variabile cruciale in tutte le fasi della sua 'biografia'. Non a caso, quindi, la
necessità di abbinare proprietà estetiche e funzionali in una medesima forma viene citato dal
progettista di Oyster come un primo fondamentale fattore di influenza sul suo lavoro: nell'oggettovaligia
infatti è a disposizione un'unica struttura materiale per soddisfare due esigenze di segno
diverso 9 .
Infatti, il designer che ha realizzato con la sua équipe il progetto per Oyster sottolinea
nell'intervista alcune caratteristiche peculiari connesse al disegno di una valigia:
Con gli articoli di bagaglio, non c'è un 'dentro' e un 'fuori', ma sta tutto insieme….voglio dire, se
prendiamo per esempio un'automobile, c'è una forma esterna e un interno… la parte esterna è tutto
ciò che importa esteticamente, si sa che ciò che sta sotto la carrozzeria è solo un guazzabuglio di
parti meccaniche e la sua estetica non interessa a nessuno. Nel caso della valigia, invece, si vedono
sempre tutte e due le parti; è veramente un caso di industrial design perché occorre tenere conto di
tutto, altrimenti si rischia di dare agli ingegneri un compito impossibile.
Per questo, fin dalle fasi iniziali dell'ideazione, il lavoro su Oyster è caratterizzato da una intensa
collaborazione tra l'équipe dei designer e i responsabili della produzione che, lavorando in stretto
contatto, realizzano un'impostazione del lavoro in linea con la nuova strategia dell'azienda il cui
obiettivo consiste, in quel periodo (la seconda metà degli anni Ottanta) nell'immettere sul mercato
in tempi brevissimi un prodotto innovativo nella forma e competitivo nel prezzo. Da ciò deriva la
necessità di concentrare il più possibile le fasi della lavorazione per non rischiare di dover fare e
rifare, nel passaggio tra una fase della lavorazione a quella successiva. Come ci racconta un
membro del top management di Samsonite Europe, che partecipò attivamente a tutte le fasi della
produzione della valigia e che è infatti scherzosamente indicato come "il padre della Oyster":
9 Per inciso è interessante ricordare che il design industriale nasce proprio, all'inizio del Novecento, come un settore di
attività dove la creatività degli autori viene applicata alla progettazione di oggetti destinati alla produzione in serie:
«siamo nel delicato momento storico in cui si verifica il passaggio dal consumatore-committente, e dunque da un 'fare
dell'individuo per l'individuo' tipico dell'artigianato, a una 'produzione collettiva per la collettività', ad un pubblico di
consumatori vasto e indefinito» (Cutolo, 1989:24). In questo quadro, il ruolo del progettista si configura come quello di
mediatore non solo tra consumatore e industria, ma tra domanda di esteticità dell'oggetto e sua rispondenza ad un
preciso ruolo funzionale.
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Abbiamo scelto, per il design, uno studio inglese con cui avevamo già collaborato, e gli abbiamo
fornito un brief…Dopo un mese erano già qui con parecchie idee interessanti…In più avevo deciso
che l'engineering del prodotto sarebbe stato fatto non solo dall'ingegnere del prodotto, ma anche da
un altro ingegnere che studiasse la produzione, che tenesse conto della produzione fin
dall'origine….era un procedimento nuovo, perché di solito all'inizio c'era il design, poi si studiava il
prodotto in funzione del design, poi si andava dal manufacturing engineer e si diceva: 'adesso
producete'. Spesso però a questo punto sorgeva la necessità di fare delle correzioni, in modo da
rendere più agevole la produzione e certe cose si potevano ancora cambiare, altre no…
Per lavorare in questo modo, potremmo dire, a competenze sovrapposte, è indispensabile
garantire che vi sia un continuo contatto tra designer e ingegneri addetti alla produzione; come ci
spiega il manager intervistato, tale necessità, insieme al desiderio di realizzare un prodotto di
elevata qualità formale, rappresentano i fattori determinanti nella scelta dello studio di design cui
affidare il progetto di Oyster. Viene infatti prescelto uno studio già conosciuto in azienda e
dimostratosi aperto alla collaborazione con gli "uomini di produzione", una flessibilità che non
sempre è diffusa tra i designer. Per esempio, i designer italiani, pur essendo anche al tempo molto
ammirati in Samsonite, vengono considerati, in quest'occasione, troppo attenti alla forma estetica,
ma tradizionalmente poco preoccupati di facilitare il compito degli ingegneri addetti alla
realizzazione del prodotto.
Parlando di questo aspetto della vicenda, sempre lo stesso manager ci racconta:
avevamo provato già molte persone, tra cui un designer di Torino e un altro designer belga, ma
questi designer inglesi facevano proprio al caso nostro…. i designer italiani hanno una grande
sensibilità per l'estetica e per il colore, ma quando si cerca di realizzare il prodotto meccanicamente
ci si accorge che è impossibile da fare. Una volta mi successe, glielo feci notare e loro mi risposero
che questo era un problema di noi ingegneri…I designer inglesi invece di solito hanno un ottimo
background ingegneristico, ci sono molti bravi designer in Gran Bretagna….
Dalle interviste realizzate durante la nostra ricerca sia con gli addetti al design sia con gli
ingegneri di produzione viene dunque confermata l'immagine diffusa e prevalente del design
italiano come uno stile di design che punta molto [a volte troppo, e da qui l'accusa di "ipertrofia
estetica" che si trova in qualche brano della letteratura (De Fusco,1985)] sulle caratteristiche
formali degli oggetti a scapito delle loro qualità funzionali. Tale opinione sembra essere condivisa
anche dalla comunità internazionale dei designer, come si deduce anche dalle parole del progettista
di Oyster intervistato nella sede del suo studio:
Suppongo che se stesse parlando con un designer italiano, l'aspetto emotivo e soggettivo sarebbe
messo molto più in risalto, mentre mi accorgo che io sto parlando soprattutto di particolari tecnici
più che degli aspetti visuali del progetto..questo non significa che non ci teniamo all'estetica, ma
non si può progettare un oggetto senza pensare al suo funzionamento. Potremmo dire, come
designer, "ok, lo vogliamo così, deve avere questo aspetto, voi, uomini della produzione, pensate a
realizzarlo", ma noi non lavoriamo così, noi diciamo "se funziona così, allora può avere soltanto
questa forma". Perciò con Oyster abbiamo lavorato molto sulla forma, ma tenendo sempre conto
delle modalità di costruzione dell'oggetto, poi siamo passati dal modello al prototipo funzionale e a
questo punto gli ingegneri di produzione potevano veramente valutare tutte le implicazioni del
progetto e fare tutti i cambiamenti per renderlo completamente efficiente dal punto di vista
produttivo e del costo.
Del resto, guardando la Oyster, è difficile dire se abbia veramente prevalso l'orientamento
funzionale sull'orientamento estetico; in realtà, l'eccezionale successo ottenuto dal prodotto, che
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continua, a quasi quindici anni dalla sua prima comparsa, ad essere leader sul mercato, è forse
proprio un segnale del fatto che è stato raggiunto un felice equilibrio tra queste due esigenze.
4.1.1. Un sistema alternativo di produzione
A quanto pare la decisione da parte di Samsonite di lanciare un prodotto nuovo e completamente
europeo derivava principalmente dalla necessità di contrastare la concorrenza che, all'inizio degli
anni Ottanta, cominciava a insidiare più pericolosamente che in passato la leadership di Samsonite
nel mercato del bagaglio hard-side. In quegli anni si era quindi delineata l'esigenza di modificare
l'intero sistema produttivo per renderlo più efficiente (attraverso la riduzione dei 'tempi morti' della
lavorazione) e più flessibile e quindi in grado di adattarsi alle fluttuazioni del mercato senza creare
scorte eccessive nel magazzino e provocare perdite per l'azienda. A questo fine un'équipe di
ingegneri stava da alcuni anni studiando la messa a punto di un nuovo sistema di lavorazione capace
di soddisfare il più possibile gli obiettivi proposti dal management.
Inizialmente l'idea era quella di introdurre i cambiamenti sulla lavorazione di Saturn, la linea
precedente alla Oyster, che, pur essendo la prima valigia in polipropilene disegnata negli Stati Uniti,
già da anni era in produzione nello stabilimento belga di Oudenaarde 10 ; successivamente però
questa idea venne abbandonata in quanto il design di Saturn non si prestava agli aggiustamenti
previsti dalle modifiche del sistema produttivo se non a costi elevatissimi per l'azienda. Il capo
dell'équipe degli ingegneri incaricati in quegli anni di studiare la realizzabilità di questi
cambiamenti sul sistema produttivo ci racconta:
andai dal mio General Manager e gli dissi "non mi sembra una buona idea, non ha senso….I nostri
studi ci dicono che è possibile razionalizzare il sistema di produzione, ma solo con un grandissimo
investimento di (cita la cifra)", e aggiunsi "se tu con quell'investimento riesci a creare un nuovo
prodotto con le caratteristiche che dico io, allora è meglio spendere i soldi così, invece che tentare
di adattare la produzione di Saturn al nuovo sistema". Qualche tempo dopo vide sul mercato un
prodotto della concorrenza e decise che era ora che Samsonite uscisse con qualcosa di nuovo. Trovò
i designer, li portò qui e io spiegai loro tutta la storia esponendo le nuove idee che avevamo per la
produzione, anche se, al punto in cui eravamo arrivati, restavano aperti dei problemi che ancora non
sapevamo come risolvere. Il mio obiettivo era di arrivare ad un sistema per cui un individuo
produceva tutta una valigia, dall'inizio alla fine, lì infatti stavano tutti i vantaggi. Quando si decise
di fare Oyster pensai che quella doveva essere l'occasione per raggiungere quell'obiettivo.
Dunque fin dall'inizio la realizzazione di Oyster rappresenta un processo di apprendimento per
varie categorie professionali: lo è per i designer, che si trovano per la prima volta a dover progettare
una valigia e per di più a realizzarla secondo determinate esigenze (Oyster è sotto questo aspetto un
tipico esempio di prodotto designed for manufacturing, cioè progettato con caratteristiche
funzionali alla sua realizzazione ingegneristica); lo è per gli ingegneri di produzione che,
collaborando con i designer alla ideazione del prodotto, intendono in questa occasione rivoluzionare
l'intero sistema di lavorazione per renderlo più efficiente; lo è infine per tutto il management di
Samsonite Europe, che con Oyster si lancia in un'operazione in fondo piuttosto rischiosa, ancora
costellata da molte incertezze e in cui si procede certo sulla base di conoscenze tecniche
consolidate, ma anche di tentativi finalizzati alla ricerca di un'innovazione che in questo caso deve
essere realizzata in fretta.
Di solito per realizzare un nuovo prodotto - ci spiega il padre della Oyster - ci volevano almeno due
anni e mezzo o tre; per Oyster, siccome c'era una grande fretta, io mi ero impegnato con il
10 Si tratta della cittadina belga dove ha sede Samsonite Europe.
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Presidente ad uscire in un anno e mezzo, almeno con la prima fase della linea per poi completarla
entro sei mesi.
Forse proprio a causa delle particolari circostanze che diedero origine al progetto di Oyster, il
processo di realizzazione di questo prodotto viene raccontato da tutti coloro che vi si dedicarono in
prima persona come una sorta di 'avventura', un'esperienza che nei ricordi emerge come
entusiasmante e affascinante sicuramente per il successo che l'ha coronata, ma anche per l'atmosfera
di 'sperimentazione' su vari fronti, che ha caratterizzato le fasi di progettazione e di realizzazione
dell'oggetto e che ha costretto gli operatori a trovare soluzioni creative, e a volte rischiose, per i
problemi che inevitabilmente sorgono ogni volta che si lavora ad un progetto innovativo.
Lo scopo principale dal punto di vista degli ingegneri della produzione consisteva
nell'abbandonare il sistema di lavorazione a catena di montaggio per introdurre invece
un'organizzazione più flessibile, costituita da isole autosufficienti di lavoro in cui ciascun addetto
avesse a disposizione tutti gli attrezzi che gli occorrevano per assemblare la valigia almeno nelle
sue parti fondamentali. Questo tipo di procedimento, oltre a ridurre al massimo i rallentamenti che
facilmente si verificavano nella catena di montaggio, aveva anche il vantaggio di rendere il lavoro
di ciascun addetto meno ripetitivo e meno alienante.
Uno degli ideali-guida che intendevamo realizzare - ci racconta l'ingegnere di produzione - era
anche quello di creare un'atmosfera di lavoro con minimi livelli di stress per incentivare la
produttività, ma anche perché gli operai potessero lavorare meglio ed essere più soddisfatti del loro
operato. Nel sistema a isole di lavoro, ognuno può andare al suo ritmo (naturalmente abbiamo
fissato dei limiti inferiori e superiori di produttività) e in più ciascuno si sente responsabile in prima
persona del proprio lavoro, perché di fatto crea l'intera valigia; inoltre la produttività così migliora
perché i problemi e i rallentamenti che uno può avere in un certo punto non si ripercuotono sugli
altri.
Il brief consegnato al designer tiene ovviamente conto delle caratteristiche del nuovo sistema
produttivo e pertanto pone dei vincoli sul progetto per quanto riguarda soprattutto i dettagli tecnici
della valigia (per esempio si impone a volte l'uso di certi materiali anziché di altri), senza però
pesare eccessivamente sulla libertà espressiva dei progettisti per quanto riguarda le qualità estetiche
dell'oggetto.
Un altro aspetto interessante del processo di realizzazione di Oyster è dato dal fatto che il
designer viene coinvolto pesantemente in quasi tutta la fase produttiva: per esempio, in momenti
quali la scelta dei fornitori delle serrature e successivamente nella messa a punto degli stampi
fabbricati presso un artigiano italiano. In questo periodo il top management dell'azienda e il gruppo
dei designer si incontrano regolarmente (almeno una volta al mese) per discutere del progetto e per
mettere a punto i vari dettagli sia formali sia tecnici del nuovo prodotto. Si tratta di un modo di
lavorare molto flessibile e, pare, poco diffuso almeno in quei tempi; con tale impostazione delle
operazioni si tende infatti a non considerare rigidamente la divisione delle competenze, che anzi
viene spesso scavalcata a favore di un modo di lavorare che si sviluppa tenendo come centro
d'attenzione il prodotto. Questo aspetto è molto interessante dal nostro punto di vista di sociologi
della cultura, in quanto ci permette di esaminare una situazione in cui diverse 'culture professionali'
non solo vengono in contatto, ma, dovendo collaborare intensamente, sono costrette a trovare delle
forme di comunicazione efficienti al fine di risolvere problemi comuni. Come ai livelli operativi
della lavorazione è considerata di primaria importanza la versatilità degli operatori, nel senso della
loro capacità di svolgere diverse funzioni, così anche a livello di top management la filosofia di
Samsonite sembra privilegiare un atteggiamento flessibile e l'abilità di dialogare anche con i
rappresentanti di culture professionali diverse dalla propria. In queste circostanze può avvenire (ed è
avvenuto durante la realizzazione di Oyster) che gli uomini di produzione trovino la soluzione
10

giusta ad un problema di design e, viceversa, che il progettista presieda alla costruzione degli
stampi oppure dia idee per abbreviare i tempi di testaggio di un nuovo prodotto.
4.1.2. Oyster come oggetto-simbolo
Nella descrizione fatta dal progettista, il design di Oyster sarebbe fortemente caratterizzato da
due aspetti-chiave:
uno è la connessione tra il coperchio e la base con questo angolo particolare che è stato studiato così
per rendere la base più capiente…ed è anche un vantaggio dal punto di vista estetico perché quando
la si apre la valigia è un po' più bassa nella parte di fronte e questa forma rende l'accesso più
naturale; il secondo è senza dubbio il sistema di ganci di chiusura che era all'epoca completamente
nuovo perché tutti i modelli erano basati sullo standard Samsonite in cui c'era un complicato
meccanismo con una parte in metallo montata sul coperchio che si deve incastrare con quella
montata sull'altro guscio…invece qui il punto di fissaggio del gancio è già predisposto nella
struttura del guscio, non c'è montaggio, non ci sono parti aggiuntive..
A parte, comunque, il suo elevato livello di innovatività tecnica, che probabilmente solo una
piccola parte del pubblico è in grado di apprezzare appieno, le ragioni del grande successo di Oyster
vanno forse ricercate anche altrove. Poiché infatti a tutt'oggi Oyster costituisce il prodotto più
rappresentativo di Samsonite, e poiché si può dire che è diventata uno degli oggetti cult del design
industriale di fine XX secolo (affiancabile probabilmente ad oggetti, come per esempio, la
caffettiera Alessi) si può ipotizzare che i motivi del suo successo vadano al di là del solo aspetto
tecnico-funzionale. Quando un oggetto diventa cult significa, in genere, che esso è riuscito meglio
di altri a incarnare un certo 'spirito dei tempi', cioè un misto di gusto, stile di vita, bisogni, ma anche
i desideri e i sogni di un grande fascia di utilizzatori.
In primo luogo vale la pena sottolineare che nel periodo in cui Oyster arriva sul mercato è in atto
un processo di 'sdrammatizzazione' del viaggio, che da attività straordinaria e riservata ad un élite,
diventa una pratica diffusa e frequente per grandi fasce di popolazione. La scelta della forma, meno
razionale e meno squadrata del solito, e soprattutto i colori vivaci con cui viene presentata
contrastano con l'idea di valigia come oggetto grigio e severo che aveva dominato il mercato fino ad
allora.
Non era più la solita valigia, era qualcosa di più, qualcosa di più vicino dal punto di vista
emozionale, che è molto importante perché la valigia ha senza dubbio un contenuto
emozionalmente forte. Nella valigia si mettono i propri averi, le proprie cose, gli si affida quello che
abbiamo di più caro…quindi la valigia deve dare rassicurazione…nel caso di Oyster la
rassicurazione diventa addirittura simpatica…è come la casa dove si vive, la casa dove fa piacere
stare
Se poi la si considera dal punto di vista più tecnico, osservandola sullo sfondo dell'evoluzione
della moda nel design, si comprende come, anche da questo punto di vista, Oyster incarni il gusto
del tempo che tende in quel periodo (e ancora oggi) a privilegiare le forme essenziali, pulite e senza
fronzoli. A questo proposito è significativo il fatto che, alcuni anni prima del lancio della Oyster,
alcuni architetti milanesi avessero studiato, per Samsonite Italia, un modello mai realizzato di
valigia che aveva molte caratteristiche in comune con Oyster. Ci racconta uno degli autori di questo
progetto:
Potrei sovrapporre al ricordo della Oyster il ricordo di un progetto di massima, poi mai portato
avanti, di una valigia in polipropilene, come la Oyster, che prevedeva proprio per la prima volta,
11

almeno in Samsonite, la divisione tra coperchio e contenitore…Il nostro progetto si è fermato lì,
perché non c'era interesse a portarlo a buon fine, però con grande soddisfazione si constatò che
anche a Londra, lo studio che aveva in mano la Oyster portò avanti questo discorso….
L'aspetto interessante di questa vicenda sta nel fatto che non ci furono mai contatti diretti tra lo
studio milanese e quello inglese in cui venne disegnata la Oyster, anche se il prototipo italiano era
stato effettivamente inviato in Belgio. Ce lo conferma la designer italiana che aveva lavorato al
progetto:
In realtà noi non abbiamo collaborato, il nostro discorso non aveva un fine, era solo l'inseguire
un'idea, dire questa cosa ci sembra interessante e divertente…è stato mandato in Belgio, non
sappiamo quanto poi il Belgio abbia elaborato su questa indicazione o, come succede spessissimo in
fasi progettuali, poi ritrovarsi con dei punti di partenza o dei punti di arrivo che sono molto
simili….in realtà il designer risente delle tendenze della società che ci circonda e quindi può essere
un puro caso che si sia arrivati a definire delle cose che si somigliassero non tanto nel finale quanto
nelle scelte fatte in partenza
Questo intervento è molto interessante dal nostro punto di vista poiché sembra alludere al fatto
che le mode, nel design, così come nell'abbigliamento, non siano dei flussi arbitrari, ma che al
contrario siano ispirati da qualcosa che esiste nella società e che viene colto da certe persone prima
che dalle altre. Ma che cosa sia questo 'qualcosa', dove e come si manifestino questi sentori nella
società, di cui l'architetto ci parla e che poi sfociano in nuove forme di moda, continua a rimanere
un mistero. Si tratta naturalmente in buona parte di tendenze del gusto a cui però il tessuto sociale e
gli stili di vita di una comunità contribuiscono in modo notevole.
Questo discorso viene fuori molto spesso - continua la designer, quando le chiediamo chiarimenti su
questo punto -; molto spesso anche noi stessi che lavoriamo intorno a qualcosa ci chiediamo il
perché, improvvisamente, da tutti i lati nascano forma, colori, profondità delle materie che sono
diverse, estremamente contrastanti col passato, oppure che delimitano un percorso di variazione di
cose già esistenti…potrei dire che è un mistero, in realtà è un insieme di infinite cose…..che vanno
dall'andamento di una società in tutti i sensi, politico, economico, sociale, che condiziona
moltissimo…..ma questo già la storia lo insegna: andiamo da epoche estremamente ricche, decorate
ad epoche estremamente povere, minimaliste…..sono percorsi……anche dal punto di vista del
gusto, Oyster ben interpreta le tendenze del proprio tempo che è un periodo in cui si va a fare una
certa pulizia di tutto quello che circonda, pulizia nel senso di rifiuto della decorazione per arrivare a
qualcosa di più sobrio, lineare e che suggerisce un'immediatezza d'uso.
Da questo punto di vista il successo di Oyster può essere interpretato come un evento che
conferma quella che alcuni studiosi di cultural studies hanno individuato come la tendenza
all'estetizzazione della vita quotidiana, in base alla quale anche gli oggetti che hanno un valore
eminentemente funzionale devono incarnare elevati livelli di qualità estetica. In altre parole, anche
quando acquistano oggetti funzionali, come la valigia, i consumatori non si concentrano
esclusivamente sui loro requisiti tecnici; al contrario in misura maggiore anche solo di cinquant'anni
fa, essi sono molto sensibili all'estetica e tendono a privilegiare prodotti che siano, oltre che
funzionali, anche gradevoli per la forma 11 .
11 Tale tendenza all'estetizzazione, che pare proprio costituire una caratteristica evidente delle pratiche di consumo
contemporanee, ha suscitato l'interesse di molti studiosi e interpreti della società contemporanea tra cui uno dei più
importanti è sicuramente Mike Featherstone. Occupandosi espressamente di questo tema egli suggerisce in un suo
recente testo che tale estetizzazione è una conseguenza «del desiderio di continuare ad imparare e di arricchire se stessi,
di perseguire nuovi valori e nuovi vocabolari…..» (1991: 48).
12

Infatti una delle caratteristiche per cui Oyster viene spesso riconosciuta e apprezzata dal pubblico
è data dalla vasta gamma di colori con cui è presente sul mercato. A differenza dei prodotti che
l'hanno preceduta, tutti progettati e realizzati negli Stati Uniti in pochi colori tradizionali (nero,
grigio, marrone), Oyster viene fin dall'inizio prodotta in molte varianti cromatiche. Tale tendenza
del mercato americano a non sperimentare con colori innovativi era dovuta, secondo il designer di
Oyster, al fatto che il disegno industriale americano è molto più dipendente dalle ricerche di
mercato di quanto lo sia quello europeo:
era tradizione americana fare parecchia ricerca di mercato che poi veniva usata nella progettazione
e questo portava il design su una strada piuttosto convenzionale e a risultati piuttosto convenzionali.
E una cosa strana era che, per far dimenticare alla gente il colore o per eliminare la variabile colore
dal modo in cui la gente percepiva il design, a quei tempi il loro approccio era di fare ricerca
soltanto su valigie nere. Poi usavano molto il cromo per le finiture e ovviamente il cromo stava bene
con il nero, però aveva un look proprio americano….noi invece, come europei, pensavamo che il
cromo stesse passando di moda, cominciava in quel periodo a scomparire nei prodotti di consumo.
Con il modello Oyster vengono infatti introdotti, accanto ai classici nero e grigio anche delle
colorazioni del tutto nuove come lo 'space blue' e poi, su esplicita richiesta della clientela italiana,
un fiammante 'rosso Ferrari' 12 .
Secondo la designer italiana, che a sua volta accenna all'elemento colore come ad una delle
caratteristiche vincenti di Oyster, la componente cromatica distingue questo modello di valigia dagli
altri, mentre la possibilità di scegliere tra una gamma molto vasta rende Oyster adatta a molti tipi
diversi di consumatore;
Il colore nella Oyster, forse più che in altre valigie è stato ed è tuttora una carta da giocare. Quando
si vuole rinnovare la Oyster si parte con i colori, si decide come mischiarli o come renderli tutti
uguali, come contrastarli con colori diversi per modificarla…viene utilizzato il colore per dare alla
Oyster un'immagine totalmente diversa e quindi anche un fruitore diverso, un consumatore con età
o con stile di vita diverso dall'una all'altra, quando poi in realtà la valigia è sempre la stessa..
4.2. Comunicare la Oyster
Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Oyster è lanciata sul mercato europeo, essa
rappresenta per molti versi l'avanguardia nel mercato delle valigie. Innanzitutto compare in un
periodo in cui si stanno realizzando radicali mutamenti nel modo di viaggiare: il viaggio aereo, per
lungo tempo riservato soltanto ad una élite di classi abbienti, diventa accessibile a tutti (o quasi);
cambia anche lo stile di vacanza e i tour operator propongono sempre più spesso viaggi in località
esotiche; parallelamente le prime avvisaglie del processo di globalizzazione economica fanno
aumentare anche il volume dei viaggi di lavoro e d'affari. In breve il viaggio e soprattutto il viaggio
in aereo per cui la valigia rigida è appositamente studiata, cessa di essere, almeno per la
maggioranza delle persone, un evento eccezionale, trasformandosi, per alcuni, quasi nel suo
contrario e cioè un evento pressoché quotidiano o settimanale.
Il forte legame tra Oyster e la rinnovata concezione del viaggio fornisce l'idea guida per i
professionisti che, all'interno di Samsonite, hanno il compito di elaborare le strategie di
comunicazione per il nuovo prodotto. Il tema del parallelismo tra il nuovo modo di viaggiare e il
nuovo prodotto, da un lato, e l'esigenza, dall'altro, di ribadire gli standard di qualità già associati al
12 Un particolare interessante riguarda il contrasto cromatico, presente in molti modelli, tra il sigillo di gomma tra i due
gusci e i gusci stessi. Si tratta di un altro particolare estetico che fu in origine determinato da una ragione tecnica; infatti
nel periodo iniziale, il tipo di gomma che occorreva per il sigillo veniva prodotto soltanto in nero che contrastava così
con il colore della valigia. In seguito il sigillo di gomma venne prodotto anche in altri colori.
13

marchio Samsonite con il successo dei prodotti precedenti forniscono le coordinate di base cui si è
ispirata l'elaborazione della campagna di comunicazione su Oyster realizzata al momento della sua
prima comparsa sul mercato. I due temi emergono infatti chiaramente nell'interessante intervista
con l'allora direttrice della comunicazione di Samsonite Europe:
Prima di allora la gente usava viaggiare con valigie tradizionali, morbide, valigie artigianali, fatte di
cuoio o di vinile…Solo la gente ricca poteva permettersi di viaggiare e loro compravano valigie
molto care…ma nel momento in cui viaggiare incomincia a diventare parte della vita…Come scrissi
allora nel profilo, noi siamo oggi i nuovi nomadi. Il bagaglio è parte della vita quotidiana. Quindi si
prospettava per Samsonite un compito difficile: dire ai consumatori che le abitudini di viaggio erano
cambiate, gli aerei erano diventati così importanti e dunque sia l'aspetto sia i criteri delle valigie
avevano dovuto essere adattati ai nuovi modi di viaggiare, soprattutto alla necessità di maneggiarle
in aeroporto.
Se da un lato occorreva dunque sottolineare l'innovatività del prodotto, dall'altro era necessario
ribadire che Oyster possedeva caratteristiche di continuità con il resto della produzione Samsonite:
in particolare che possedeva quelle caratteristiche che avevano già determinato il successo
internazionale di Samsonite: l'affidabilità e la resistenza.
Nelle campagne pubblicitarie abbiamo sempre messo in primo piano la resistenza del prodotto e
abbiamo anche cercato di dimostrarla negli spot evitando però di mostrare la valigia in scene reali,
di vita quotidiana, ma sempre associandola a situazioni di vacanza, esotiche, piacevoli…soprattutto
perché nella vita reale tutto ciò che è associato alle valigie è negativo: la gente odia fare le valigie,
trasportarle, abbandonarle al check-in sperando di rivederle dall'altra parte del mondo, quell'oggetto
che in quel momento contiene tutta la loro vita, tutte le loro cose… per questo è importante
sottolineare la protezione e la resistenza…
Il brief consegnato dall'azienda a partire da idee chiave fu poi tradotto creativamente all'esterno
di Samsonite in una serie di campagne giornalistiche e televisive che fecero il giro d'Europa.
Soltanto in Italia, a distanza di circa un anno dalla comparsa della prima pubblicità studiata sulla
Oyster 13 , il management chiede ed ottiene di gestire in proprio la comunicazione del prodotto in
Italia. Anche in questo caso il brief studiato in azienda è affidato per la realizzazione artistica a
creativi incardinati in un'agenzia esterna. La prima campagna realizzata specificamente per il
pubblico italiano risale al 1988/89 e viene diffusa su tutti i maggiori quotidiani e periodici
d'opinione con messaggi a tutta pagina. Si tratta di una campagna piuttosto «sofisticata» (almeno
così la definisce il suo creatore che ho intervistato) che, analogamente alla pubblicità europea,
sottolineava soprattutto la resistenza della valigia attraverso il paradosso di mostrare due Oyster
assolutamente identiche, una usata e l'altra nuova, senza che visivamente si riuscisse a percepire
alcuna differenza. Il testo posto in calce all'immagine delle valigie recitava: "La Samsonite a destra
è nuova, anzi no, è quella di sinistra la nuova. O forse no. Allora, quella di sinistra è nuova, quella
di destra è usata. Però forse è quella di destra ad essere nuova. Sì, sì, sì, sì quella di destra è nuova e
quindi quella di sinistra è usata. O….oppure…oddio! Come si fa a distinguere una Samsonite usata
da una nuova?". Il creativo commenta così questa pubblicità:
Era una pubblicità rivolta ad un viaggiatore colto, in grado di percepire lo humour, in grado di
percepire il messaggio celato dietro una comunicazione fredda ed elegante. Era una barzelletta, un
13 È interessante notare che Samsonite non realizza mai campagne specifiche per ogni prodotto o linea di prodotto; al
contrario l'azienda pubblicizza l'intera gamma dei suoi prodotti utilizzando in ogni periodo il modello che è considerato
più significativo e perciò più adatto a rappresentare le qualità positive di tutti i prodotti Samsonite. Oyster è stata scelta
come oggetto simbolo in diverse annate consecutive tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio del decennio successivo.
14

nonsense, una caricatura della pubblicità che diceva "il mio lava più bianco"…..è una delle mie
campagne preferite in quanto bilanciava bene tutto ciò che poteva essere veicolato.
Il creativo ritiene infatti che questa pubblicità risultò determinante nel creare il posizionamento
elevato che il prodotto acquisì nel mercato italiano e contribuì a trasformare la Oyster in un vero e
proprio simbolo di status e questo obiettivo sarebbe stato raggiunto anche grazie allo stile sobrio e
un po' distaccato della campagna pubblicitaria.
Questo prodotto è stato lanciato negli anni Ottanta, nel pieno degli anni di plastica, nel boom della
ricerca degli status….quindi doveva assolvere sia a funzioni pratiche (in questi anni gli italiani
stanno diventando i più grandi viaggiatori d'Europa), sia costruire al marchio un'aura di status
symbol che era estremamente importante.
Dopo circa un anno e mezzo di questa campagna il management decide di inserire delle
modifiche nella comunicazione di Oyster sia dal punto di vista dei media strategici, sia per quanto
riguarda il tono del messaggio. Viene dunque richiesto, sempre agli stessi copy writer, di realizzare
una campagna più calda, che allargasse le possibilità di assimilazione del messaggio. Da qui nasce
la seconda serie di pubblicità comparse anche in televisione, che mostrano una Oyster (di solito
rossa) e un bambino piccolo intento a scalarla con la voce narrativa di sfondo che dice: "tra qualche
anno lui sarà molto diverso, ma la valigia sarà sempre la stessa….Samsonite, le belle valigie che
durano".
Durante il colloquio il creativo ribadisce più volte che la seconda campagna fu creata in uno
spirito di continuità con la prima, sia pur rinunciando ad un po' di ricercatezza e di humour, ma di
fatto mantenendosi coerenti con lo spirito iniziale:
il bambino introdotto nella pubblicità è un simbolo, un gancio; infatti è mostrato asetticamente non
nella sua cameretta, ma su uno sfondo neutro da laboratorio e soprattutto non inserito nella solita
storiella finta della réclame, dove nove volte su dieci si vede una storia falsa con protagonisti falsi
in contesti che non esistono. Cioè il target che ci eravamo conquistati con la prima pubblicità
doveva restare lo stesso, dovevamo solo allargarlo senza perderlo…
Tuttavia risulta anche chiaro dalle sue parole come egli giudichi negativamente l'esplicito
richiamo al fattore estetico contenuto nello slogan "le belle valigie che durano", peraltro già
presente nella prima sotto forma di minuta base-line e nella campagna successiva messo in
maggiore evidenza da un corpo più grande e soprattutto dalla voce fuori campo dello spot
televisivo.
Con quel "belle" si voleva proprio sottolineare l'aspetto estetico…io però non avrei mai usato quel
termine, fu il cliente a metterci lo zampino, siamo stati obbligati a farlo, ma alla fine, si sa, la
comunicazione è piena di compromessi…
Così adesso Oyster non è più lo status symbol, ma invece il prodotto che fa i volumi, mentre è
Epsylon l'apice della piramide.
La presenza di microcircolarità caratterizza quindi anche la fase comunicativa della traiettoria
seguita dall'oggetto valigia nel suo procedere sul continuum schematizzato da Hirsch. Dall'analisi
dell'interfaccia tra la produzione/distribuzione e la comunicazione di Oyster è infatti emersa
l'esistenza di reciproche influenze tra produttori e comunicatori; nelle reti operative da loro
costituite, i diversi significati attribuiti all'oggetto da rappresentanti di diverse culture professionali
vengono mediati e incorporati nel prodotto concorrendo a formare il suo valore finale.
4.3. La Oyster come oggetto di consumo
15

L'ultima fase della ricerca è stata poi dedicata a considerare l'ultimo stadio dello schema di
Hirsch, cioè quello coincidente con il consumo del prodotto Oyster. Anche in questa fase il nostro
approccio si qualifica come specificamente culturale: raccogliendo le testimonianze di alcuni
consumatori intervistati in due gruppi (il primo composto da studenti universitari di età compresa
tra i 18 e i 24 anni, il secondo da adulti tra i 25 e i 55) abbiamo infatti cercato di mostrare come un
particolare artefatto materiale (in questo caso la Oyster) possa essere utilizzato dalle persone per
creare dei significati all'interno del normale svolgimento della loro vita quotidiana. In altre parole,
analizzare il consumo di Oyster era importante dal nostro punto di vista, non per fornire dei dati di
scenario sul consumo di questo oggetto in una determinata area, bensì per capire e per mettere in
evidenza come i significati degli oggetti della cultura materiale non siano semplicemente creati dai
produttori (magari con la collaborazione dei pubblicitari) e ricevuti e subiti dai consumatori, ma
come al contrario alcuni di questi significati siano sempre creati anche durante l'uso. È proprio a
partire da questi ultimi che si genera quel flusso di feed back rappresentato nello schema di Hirsch
come una freccia che dai consumatori risale prima verso i comunicatori e infine torna ai produttori e
che quindi produce la circolarità di cui parlavamo nello spiegare le ipotesi del nostro lavoro.
Infatti uno dei risultati più interessanti dei focus group è costituito dalla discrepanza tra il
significato che i giovani assegnano all'oggetto valigia-rigida (compresa Oyster) e le strategie di
marketing che l'azienda sta da alcuni anni mettendo in atto sul prodotto Oyster. Dalle interviste
realizzate con il personale di marketing era infatti apparso ben chiaro il tipo di posizionamento che
essi ritengono attuale per Oyster:
Anche se vende ancora molto - ci dice la responsabile del marketing di Samsonite Europe - Oyster è
ormai un prodotto vecchio, superato dagli altri modelli più recenti…siccome però ha un prezzo
relativamente basso va ancora molto tra i giovani e infatti tutta la nostra strategia di vendita, le
promozioni che facciamo ogni anno su Oyster hanno chiaramente un target giovanile..
E con lei concorda anche il responsabile della comunicazione in Italia, che afferma:
il target di Oyster è cambiato negli ultimi anni. Oggi la Oyster, per come la stiamo posizionando
noi, dovrebbe avere un target giovane. questo dipende da tutta una serie di fattori, non ultimo il
prezzo. Perché la Oyster ormai nella mostra architettura di prodotto è collocata nella fascia più
bassa, perché sono entrati altri prodotti più complicati, con più funzioni, più belli, che chiaramente
costano di più. Quindi sicuramente Oyster nei nostri programmi oggi dovrebbe essere la prima
valigia rigida che un giovane si compra, con cui fa il primo viaggio di vacanza in aereo. Questo è
oggi. All'epoca (quando fu lanciata) no, sicuramente allora il target di Oyster era più adulto, era la
valigia "status symbol", la prima in polipropilene, con un disegno assolutamente nuovo per i
tempi…
Invece i giovani che ho intervistato, pur dimostrando di avere poca consapevolezza della
distinzione tra Oyster e gli altri modelli, dichiarano comunque di avere poca sintonia con la
categoria 'valigia rigida', un articolo che considerano poco adatto non tanto ai loro gusti, ma
piuttosto al loro stile di vita e al loro modo di viaggiare. Quasi tutti dichiarano di preferire, per
qualsiasi viaggio, l'uso di borsoni più economici e più facili da maneggiare:
mi è capitato una volta di fare un viaggio con tanti cambi e avevo la valigia rigida dei miei…anche
a portarla per due minuti impazzisci, ti vengono i calli alle mani….e poi per la valigia rigida devi
sempre trovare un posto, la sacca invece la puoi cacciare dove vuoi…
16

Dagli interventi di alcuni di loro si percepisce addirittura che, al di là della scarsa praticità, la
valigia rigida viene considerata anche un oggetto per loro 'fuori età' cioè studiato per persone più
grandi, con altre esigenze e con altri look:
la valigia rigida, costosa fa pensare ad una persona ricca, più su…io penso che le persone più grandi
sono e più tendono ad usare la valigia rigida, mentre più giovani sono e più tendono ad usare le
sacche…in aeroporto io vedo che la maggior parte delle persone anziane hanno la valigia rigida,
mentre per i giovani è raro…
Anche nel gruppo degli adulti c'è una certa difficoltà a mantenere il discorso sul modello Oyster,
mentre tutti tendono a riferirsi più che altro alla valigia rigida in genere. A differenza dei giovani,
però, gli intervistati vedono nella valigia rigida un oggetto importante e, in certe circostanze per
esempio quando si viaggia per lavoro, addirittura indispensabile:
è solo grazie alla valigia rigida che uno che è in giro per lavoro riesce a conservare gli abiti in
maniera decente….la scelta della rigida è proprio dovuta alla possibilità di conservare bene gli abiti
piegati dentro…è ovvio che questo crea un obbligo di dimensioni…per me infatti la valigia rigida
piccola non ha senso, deve essere grossa….
per me la valigia vuol dire libertà, incontro, andare….quindi deve essere veloce, graziosa, carina,
maneggevole…i borsoni vanno bene per un abbigliamento sportivo, ma se uno deve andare anche
una sola sera a teatro, con il borsone è finita….arrivo lì come una povera….allora ci vuole la valigia
rigida.
Inoltre nel gruppo degli adulti l'oggetto in questione viene spesso citato come materiale di regalo,
di solito riservato a circostanze importanti, donato oppure ricevuto:
per il mio matrimonio mi avevano regalato tutto un set di Samsonite rigide rosse, tutto il set più il
beauty case….le tenevamo lì sempre in vista, pronte per partire…allora avevo una casa grande non
avevo problemi di spazio. Mio marito usava spesso per lavoro quella proprio formato-giacca, poi
c'era la grande per noi due…Quando aprivo l'armadio, le vedevo lì e già sognavo…
mentre sembra esserci una differenza di genere nella valutazione dell'importanza del fattore
estetico: le signore si dimostrano piuttosto attente alla bellezza dell'oggetto o del set di bagaglio,
invece gli uomini spesso stentano a ricordarsi perfino il colore delle valigie rigide possedute nel
passato:
nella valigia non ho mai cercato l'estetica, non mi interessa, mi piacerebbe che spiccasse in mezzo
alle altre perché è più facile reperirla, quello sì….
5. Conclusioni
Alla fine di questo viaggio, pare opportuno, vista l'ispirazione di tutto il lavoro, chiudere il
cerchio ritornando ancora una volta allo schema di Hirsch, utilizzandolo questa volta come una
griglia interpretativa da sovrapporre ai risultati dell'indagine. Tale operazione consente di fare una
serie di osservazioni che da un lato assegnano concretezza a tutte le fasi comprese nel percorso
idealtipico, dall'altro ci permettono di individuare la molteplicità dei significati che caratterizzano le
diverse fasi e che corrispondono alle diverse comunità (o nicchie) culturali che gli artefatti
industriali incontrano nel loro cammino verso il mercato del consumo.
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Ho già sottolineato in precedenza come l'analisi di tutti e tre i casi studiati nella ricerca abbia
evidenziato l'esistenza di meccanismi di feed back molto più numerosi e complessi di quelli
ipotizzati da Hirsch (v. supra p.5); pertanto in queste conclusioni desidero soprattutto concentrarmi
su una rilettura della traiettoria principale dello schema (quella, per intenderci contenente i vari
sottosistemi) attraverso il filtro dei dati empirici raccolti nello studio su Oyster.
Una prima sostanziale divergenza tra gli assunti di Hirsch e le osservazioni ispirate dal caso della
valigia hanno direttamente a che fare con la diversa definizione di industria culturale che
contraddistingue le due prospettive. Infatti l'itinerario idealtipico disegnato da Hirsch chiaramente
utilizza come punto di riferimento una definizione ancora classica di industria culturale in base alla
quale questa espressione descrive l'insieme di organizzazioni che producono articoli culturali legati
alla comunicazione e dell'intrattenimento di massa, come dischi, libri di facile lettura e film di
cassetta. Per questo, trattando del primo anello della catena, il cosiddetto sottosistema tecnico,
Hirsch sottolinea come esso tenda ad essere caratterizzato da una eccedenza di creatori che
spingono sulle porte del sotto sistema manageriale per portare le loro opere all'attenzione delle
organizzazioni che possono produrle su larga scala.
Nel caso qui descritto, e più in generale nel settore dell'industria dell'abbigliamento e degli
accessori, il confine tra il sottosistema tecnico e quello manageriale è molto più sfumato; o meglio
si potrebbe forse dire che non esiste un vero e proprio sottosistema tecnico, se con questo si intende
un'area che racchiude in sé espressioni relativamente libere dell'impulso creativo. Nel nostro caso,
infatti, l'attività creativa iniziale si situa nell'area del design industriale e perciò non può essere
considerata, nemmeno all'origine, come una funzione completamente distaccata dal sottosistema
produttivo; al contrario il contributo del designer è richiesto e attivato dagli stessi produttori che,
avendo deciso di lanciare nuovi modelli, cercano all'esterno il professionista più adatto a progettare
tali oggetti sulla base di un brief, più o meno preciso, fornito dall'azienda stessa.
Se da un lato è vero che nell'attuale sistema economico la creatività pura e svincolata dal mercato
è sempre più ridotta anche nell'area della produzione artistica e di certo è prossima all'estinzione nei
settori dell'industria culturale intesa in senso classico, dall'altro la figura del designer industriale
rappresenta senza dubbio la tipologia di creativo tradizionalmente più compromessa con l'industria.
La nascita stessa del design come oggi lo conosciamo coincide infatti con il «delicato momento
storico in cui si verifica il passaggio dal consumatore-committente, e dunque da un 'fare
dell'individuo per l'individuo' tipico dell'artigianato, a una 'produzione collettiva per la collettività',
ad un pubblico di consumatori vasto e indefinito» (Cutolo, 1989:24). In questo quadro, il ruolo del
progettista si configura come quello di mediatore non solo tra consumatore e industria, ma tra
domanda di esteticità dell'oggetto e sua rispondenza ad un preciso ruolo funzionale 14 . Il concetto
stesso di design contiene in sé l'idea di commistione tra esigenze estetiche (obiettivo precipuo delle
opere d'arte) e esigenze funzionali; inoltre, poiché l'oggetto di design è per definizione (a meno che
sia un prototipo mai realizzato) prodotto in serie, «la figura del designer, che spesso, soprattutto agli
inizi, presenta una biografia molto compromessa con l'artigianato, si lega sempre di più all'industria,
legittimando e istituzionalizzando le specificità del proprio ruolo di mediatore tra memoria artigiana
e invenzione tecnologica, tra artigiano-bricoleur e ingegnere-inventore» (Cutolo 1989:25). Pertanto
si potrebbe dire che l'essenza del lavoro del designer è un atto creativo vincolato da criteri di
efficienza funzionale e di realizzabilità meccanica, oltre che naturalmente da vincoli di tipo
economico. Nel caso di Oyster tutte queste caratteristiche sono rispecchiate in modo evidente: la
valigia rappresenta infatti un tipico prodotto "designed for manufacturing", dove le necessità e le
esigenze della realizzazione meccanica influiscono in modo notevole sulle potenzialità espressive
del progetto.
Nella cultura della produzione (sottosistema manageriale) Oyster diventa l'oggetto inaugurale e
perciò il simbolo di una evoluzione importante nell'organizzazione del lavoro. La produzione di
Oyster segna infatti, in Samsonite, l'evoluzione tra un sistema di lavoro di stampo ancora
tayloristico fondato sulla logica della catena di montaggio, ad un sistema organizzato invece in isole
14 Per ulteriori approfondimenti si può vedere D'Auria, 1988 e De Fusco, 1985).
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di lavoro. Operando in uno spazio attrezzato con tutti i pezzi occorrenti, ciascun operatore è in tal
modo in grado di assemblare interamente il prodotto che esce dall'isola di lavoro privo soltanto di
alcuni accessori interni, ma per il resto è pronto per lo stockaggio in magazzino. Per gli ingegneri di
produzione, l'oggetto Oyster sembra assumere prevalentemente significato in quanto
materializzazione di una nuova filosofia organizzativa e veicolo per testare le possibilità di modalità
di lavoro meno alienanti 15 . Sempre all'interno del sottosistema tecnico, ma in una posizione quasi di
interfaccia con il pubblico, le culture del marketing e della direzione vendite appaiono come quelle
per cui l'oggetto si avvicina di più all'idea marxiana di merce. Poiché l'obiettivo fondamentale è
costituito dalla massimizzazione delle vendite il prodotto, qualsiasi prodotto, è considerato,
all'interno e tra gli addetti ai lavori, semplicemente per il suo valore di scambio, mentre all'esterno
(cioè di fronte al pubblico) esso viene caricato, attraverso le iniziative promozionali, i corner e gli
eventi speciali, di significati del tutto fittizi che fanno tanto pensare alla teoria del feticismo delle
merci. In altre parole sembra che agli addetti al marketing e vendite non interessi per nulla capire
come un prodotto è, quali caratteristiche ha, eccetera, ma soltanto intuire con quali associazioni
positive, non importa se del tutto artificiose, può essere presentato per venderlo il più possibile.
Insomma, per dirla con Kopytoff, in questa fase Oyster riprende, o forse acquisisce per la prima
volta lo status di pura merce, per uscirne subito dopo, quando proseguendo nell'itinerario, entra nel
sottosistema della comunicazione.
Insieme alla fase progettuale, quella della creazione e realizzazione delle campagne di
comunicazione si profilano come i momenti a più elevato contenuto di creatività. L'idea base della
comunicazione consiste infatti nel tentativo di afferrare le caratteristiche essenziali e distintive del
prodotto per farle conoscere, sia pur in modo ludico o humoristico, anche alla massa dei
consumatori. In questa fase dunque l'oggetto si fa veicolo per la trasmissione di un messaggio, il cui
contenuto è costituito da idee, ideali, valori, scelte estetiche e funzionali, in una parola, da tutto
quell'ineffabile a cui il prodotto ha dato forma tangibile 16 .
Per quanto riguarda le pratiche di consumo, il nostro lavoro ha confermato che i consumatori non
sono affatto dei soggetti passivi sui quali il sistema produttivo può imporre gusti e criteri di scelta.
Al contrario, i processi di decodifica dei significati messi in atto dal pubblico sui prodotti di
consumo possono attribuire agli oggetti significati anche lontani o imprevisti rispetto alle strategie
di marketing delle aziende produttrici. Per questo le aziende, che negli ultimi anni sono diventate
molto più sensibili ai feed back provenienti dal consumo, investono risorse sempre più cospicue in
attività volte a facilitare il contatto diretto con il pubblico ormai considerato come fonte di
suggerimenti e di creatività per l'adeguamento dei prodotti e l'individuazione di nuovi possibili
utilizzi degli stessi.
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15 Sarebbe stato interessante ascoltare su questo punto le opinioni degli operatori dello stabilimento di Oudenaarde;
purtroppo questo non è stato possibile sia per mancanza di tempo, sia per la difficoltà a comunicare con persone di
madrelingua fiamminga.
16 Naturalmente non possiamo presumere che l'attività di comunicazione sia sempre svolta secondo questi criteri; nel
caso esaminato di Oyster, comunque, questo è il quadro che ne abbiamo tratto.
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