Il corpo simulato: immagini femminili nella ... - Centri di Ricerca
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IL CORPO SIMULATO:<br />
IMMAGINI FEMMINILI NELLA FOTOGRAFIA DI MODA<br />
La nostra società è invasa dalle <strong>immagini</strong>. In un famoso saggio degli anni<br />
Ottanta Simulacri e simulazioni Baudrillard riflette sulla proliferazione delle<br />
<strong>immagini</strong> nel capitalismo avanzato, sull’espansione delle merci e sul costante progre<strong>di</strong>re<br />
delle tecnologie <strong>di</strong> visualizzazione e simulazione. Egli offre una descrizione<br />
più precisa del nostro modo <strong>di</strong> valutare, sul piano culturale, la relazione tra<br />
immagine e realtà e, in proposito, cita il racconto <strong>di</strong> Borges in cui i cartografi <strong>di</strong><br />
un potente impero tracciano una mappa così dettagliata da riprodurre esattamente<br />
il territorio dell’impero, una mappa che poi si consuma e si <strong>di</strong>sintegra, anticipando<br />
simbolicamente il declino dell’impero che rappresenta in modo perfetto.<br />
Oggi, afferma Baudrillard, il racconto potrebbe essere capovolto: non è più il territorio<br />
a fornire il modello per la mappa, ma è la mappa a definire il territorio ed è<br />
proprio il territorio «a <strong>di</strong>sintegrarsi e a marcire lentamente sulla mappa». Più<br />
avanti afferma che ciò che oggi è andato perduto è precisamente la <strong>di</strong>stinzione tra<br />
il territorio e la sua mappa, tra realtà ed apparenza che continuamente si mescolano<br />
in una specie <strong>di</strong> melma che Baudrillard chiama «iperrealtà». Si tratta <strong>di</strong> una<br />
sfera in cui le simulazioni, cioè delle visualizzazioni senza un preciso riferimento<br />
alla realtà, si mischiano alla vita reale in modo tale che gli in<strong>di</strong>vidui rinunciano a<br />
<strong>di</strong>stinguere tra i vari livelli e così facendo contribuiscono alla loro confusione.<br />
Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questa visione un po’ apocalittica <strong>di</strong> Baudrillard, che però mette a<br />
fuoco alcuni tratti caratteristici della postmodernità, è ancora ovviamente possibile<br />
ricostruire la genesi delle <strong>immagini</strong> trattandole come nulla più che oggetti culturali<br />
che esistono solo in virtù dell’azione creatrice <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui. Come ci insegna<br />
molto bene la semiotica, le <strong>immagini</strong> sono in definitiva dei testi, cioè dei portatori<br />
<strong>di</strong> messaggi che viaggiano nel tessuto sociale, emergendo da qualche parte per<br />
<strong>di</strong>ffondersi poi in una pluralità <strong>di</strong> mo<strong>di</strong> e per raggiungere <strong>di</strong>versi obiettivi.<br />
I - IMMAGINI DI MODA E IDENTITÀ<br />
Come molta della comunicazione prodotta <strong>nella</strong> società <strong>di</strong> massa, e certo<br />
come la maggioranza dei comunicati pubblicitari, anche le <strong>immagini</strong>/testi della
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LUCIA RUGGERONE<br />
pubblicità <strong>di</strong> moda, su cui questo contributo intende concentrarsi, quando ci si<br />
presentano <strong>nella</strong> loro imme<strong>di</strong>atezza, sono messaggi «in cerca d’autore»; quando ci<br />
guardano attraenti dalle pagine delle riviste o dai cartelloni sparsi per le città,<br />
mostrano inequivocabilmente la loro appartenenza ad un proprietario (il cui<br />
nome e logo aziendale <strong>di</strong> solito campeggia ai margini dell’immagine), ma poco o<br />
nulla ci <strong>di</strong>cono sul loro autore, su colui o colei che quell’immagine l’ha avuta<br />
almeno parzialmente in testa prima del trasferimento su carta patinata, che ha<br />
concepito «l’idea» <strong>di</strong> quel messaggio, dando poi inizio anche al proce<strong>di</strong>mento per<br />
realizzarla.<br />
Naturalmente la nostra ingenuità non arriva a concepire la produzione delle<br />
pubblicità come un processo simile alla produzione <strong>di</strong> un’opera d’arte, ad esempio,<br />
un quadro. Siamo infatti ben consapevoli che si tratta <strong>di</strong> un’operazione commerciale<br />
in cui collaborano e si intersecano varie competenze e sensibilità, accomunate<br />
però dall’esigenza <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare un cliente, in questo caso l’azienda titolare<br />
del marchio. In altre parole chi lavora <strong>nella</strong> pubblicità <strong>di</strong> qualsiasi tipo, anche<br />
quelli che ricoprono i ruoli più «creativi» non si trovano mai a inventare da zero, a<br />
comporre <strong>immagini</strong> libere da qualsiasi vincolo e slegate da qualsiasi imperativo <strong>di</strong><br />
contestualizzazione. In più, le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda costituiscono da un certo punto<br />
<strong>di</strong> vista degli ipertesti, in quanto oggetti culturali che hanno per tema altri oggetti<br />
culturali: a volte un prodotto-moda specifico, a volte un brand, più spesso entrambi.<br />
<strong>Il</strong> fatto <strong>di</strong> «contenere» in<strong>corpo</strong>rati altri oggetti culturali portatori a loro volta<br />
<strong>di</strong> significato costituisce una caratteristica saliente delle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda, un<br />
tratto che può essere limite o risorsa, ma che, certo, rappresenta un punto <strong>di</strong> riferimento<br />
del processo creativo della campagna. Come in settori contigui, ad esempio<br />
il design e l’auto, le nuove <strong>immagini</strong> vanno create tenendo conto della storia e<br />
delle caratteristiche dell’azienda o del brand; a <strong>di</strong>fferenza dei prodotti <strong>di</strong> quei settori<br />
però le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda sembrano essere ancora più «delicate» perché,<br />
come è stato ampiamente <strong>di</strong>mostrato da stu<strong>di</strong> svolti soprattutto in ambito psicologico,<br />
esse <strong>di</strong>vengono, perlomeno per il pubblico femminile, un importante punto<br />
<strong>di</strong> riferimento per la costruzione della propria immagine e <strong>di</strong> un’importante parte<br />
del proprio self.<br />
Si può ipotizzare che questo accada per il carattere peculiare dell’oggetto<br />
vestito che, rispetto all’auto o agli oggetti d’arredo, occupa sia spazialmente che<br />
idealmente una posizione molto più vicina all’in<strong>di</strong>viduo, costituendo un vero e<br />
proprio filtro tra la persona e il mondo sociale circostante. Ai vestiti, molto più<br />
che ad altri oggetti, è delegato il compito <strong>di</strong> rappresentarci, <strong>di</strong> esprimere (si<br />
potrebbe <strong>di</strong>re «rivestire») le modalità con cui ogni in<strong>di</strong>viduo si affaccia e partecipa<br />
ai contesti sociali, <strong>di</strong> esternare per gli altri la nostra personalità e il nostro<br />
approccio al mondo. La pubblicità ha naturalmente recepito la forza del legame<br />
tra vestito e identità personale: infatti nelle <strong>immagini</strong> i vestiti compaiono (quasi)<br />
sempre indossati e spesso inseriti in vere e proprie scenografie più o meno realistiche.<br />
Come spesso viene sottolineato dagli addetti ai lavori, il ruolo <strong>di</strong> modelle e<br />
modelli <strong>di</strong>venta dunque quello <strong>di</strong> interpretare il vestito e <strong>di</strong> comunicare una serie<br />
<strong>di</strong> messaggi che suggeriscono <strong>di</strong> solito l’adesione a certi stili <strong>di</strong> vita e la creazione
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<strong>di</strong> particolari atmosfere. <strong>Il</strong> loro ruolo è quin<strong>di</strong> paragonabile a quello <strong>di</strong> attori e<br />
attrici <strong>di</strong> cinema e televisione con la <strong>di</strong>fferenza che essi forniscono un materiale<br />
identificatorio probabilmente maggiore. Mentre è infatti facile percepire la <strong>di</strong>stanza<br />
tra noi e i personaggi dello schermo, protagonisti <strong>di</strong> situazioni spesso estremizzate<br />
e con pochi riscontri <strong>nella</strong> vita quoti<strong>di</strong>ana, non è altrettanto semplice <strong>di</strong>stinguere<br />
tra noi e quelle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> donne che indossano i vestiti che abbiamo deciso<br />
<strong>di</strong> regalarci per la nuova stagione. È facile dunque comprendere come le ragazze<br />
che ci sorridono dai cartelloni possano almeno potenzialmente <strong>di</strong>ventare incarnazione<br />
dell’ideale <strong>corpo</strong>reo <strong>di</strong> una società in un certo momento storico.<br />
A supporto <strong>di</strong> questa tesi, recenti stu<strong>di</strong> (Hermes 1995, Tseelon 1995, Van<br />
Zoonen 1994) sono giunti alla conclusione che l’immagine visiva si situa proprio<br />
al centro dell’idea che le donne hanno <strong>di</strong> sé e che tale idea viene formata soprattutto<br />
ricavando materiali dalle fotografie e rappresentazioni visuali proposte dalle<br />
riviste <strong>femminili</strong> <strong>di</strong> vario genere, tra cui quelle <strong>di</strong> moda occupano un posto importante.<br />
In altre parole, pare che le donne tendano a considerare le <strong>immagini</strong> delle<br />
riviste come una sorta <strong>di</strong> standard in riferimento al quale esse giu<strong>di</strong>cano la loro<br />
apparenza e spesso fanno progetti per mo<strong>di</strong>ficarla. A questo proposito, è interessante<br />
notare che, se da un lato le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda offrono alle lettrici un ampio<br />
raggio <strong>di</strong> opzioni e alternative <strong>di</strong> autoespressione, proponendo <strong>di</strong>verse soluzioni<br />
<strong>di</strong> abbigliamento, trucco, pettinature e accessori, dall’altro sembrano invece molto<br />
categoriche rispetto alle <strong>di</strong>mensioni del <strong>corpo</strong>: tanto quanto sono ammesse svariate<br />
combinazioni <strong>di</strong> stili <strong>di</strong> abbigliamento, al contrario non si deroga rispetto alla<br />
forma <strong>corpo</strong>rea e alla taglia. La snellezza del <strong>corpo</strong> viene proposta come uno standard<br />
inderogabile, implicitamente negando quelle svariate possibilità <strong>di</strong> espressione<br />
alle donne che non si allineano allo standard 1 .<br />
II - LA FOTOGRAFIA DI MODA TRA ARTE E INDUSTRIA<br />
La fotografia <strong>di</strong> moda è stata tra<strong>di</strong>zionalmente considerata come la parte leggera<br />
e «frivola» della pratica fotografica. <strong>Il</strong> suo stretto rapporto con un’industria<br />
che si identifica con il cambiamento incessante porta a qualificare la fotografia <strong>di</strong><br />
moda come immagine transitoria per eccellenza. Per alcuni critici (ad es. Radner<br />
1995) la fotografia utilizzata a fini commerciali rappresenta infatti uno svilimento,<br />
una decisiva caduta <strong>di</strong> tono:<br />
a <strong>di</strong>fferenza dell’arte, la fotografia <strong>di</strong> moda agisce in un mercato che serve a vendere i vestiti.<br />
Solo ultimamente la fotografia <strong>di</strong> moda si vende come arte, quasi in seguito ad un ripensamento<br />
(Rander 1995:131)<br />
1 Alcune ricerche <strong>di</strong> ambito psicologico (cfr., ad es., Grogan 1997) sostengono che lo standard<br />
irrealistico <strong>di</strong> snellezza proposto dalle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda abbia l’effetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>minuire l’autostima delle<br />
lettrici che si confrontano con le modelle e che questo contribuisca a innescare nei soggetti pre<strong>di</strong>sposti<br />
patologie del comportamento alimentare.
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Tuttavia le foto pubblicitarie <strong>di</strong> moda, con la loro capacità <strong>di</strong> comunicare ideali,<br />
standards e taboo, da un lato, invogliano i consumatori ad acquistare prodotti,<br />
dall’altro producono in loro anche l’illusione <strong>di</strong> poter aderire ad un certo stile <strong>di</strong><br />
vita o <strong>di</strong> poter mo<strong>di</strong>ficare la loro identità attraverso il possesso <strong>di</strong> certi prodotti.<br />
Le riviste <strong>di</strong> moda sono le principali fonti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione <strong>di</strong> tali <strong>immagini</strong>.<br />
Attraverso le foto <strong>di</strong> moda, queste pubblicazioni mostrano e me<strong>di</strong>ano gli ideali<br />
estetici (e non solo) <strong>di</strong> un’epoca. D’altra parte è stato spesso sottolineato come il<br />
loro ruolo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione e soprattutto l’influenza che esercitano sul grande pubblico<br />
possano <strong>di</strong>ventare problematici e produrre effetti negativi a vari livelli.<br />
Finkelstein (1998) descrive alcune <strong>di</strong> queste funzioni «insi<strong>di</strong>ose» in<strong>di</strong>viduandole<br />
soprattutto nel carattere <strong>di</strong>dattico delle riviste. Molte <strong>di</strong> queste acquisiscono una<br />
grande popolarità proprio perché adempiono un ruolo solo apparentemente innocuo:<br />
quello <strong>di</strong> descrivere le nuove tendenze e i mo<strong>di</strong> per seguirle. In realtà le riviste<br />
non si limitano a presentare le nuove mode, ma istruiscono le loro lettrici <strong>nella</strong><br />
creazione della propria immagine e rappresentazione del self. Pertanto sono spesso<br />
percepite dal pubblico, soprattutto femminile, come strumenti e vali<strong>di</strong> aiuti per<br />
immaginare e poi per costruire concretamente le «migliori» e le «più desiderabili»<br />
versioni <strong>di</strong> sé: «rendere il proprio <strong>corpo</strong> <strong>di</strong> moda equivale a rendere <strong>di</strong> moda il<br />
proprio self» (Finkelstein 1998: 50). Attraverso l’abbigliamento vengono forgiate<br />
identità a tutto tondo: la percezione sociale <strong>di</strong> ricchezza, appartenenza <strong>di</strong> classe,<br />
gusto e personalità sono tutte convogliate <strong>nella</strong>, e me<strong>di</strong>ate dalla, presentazione del<br />
<strong>corpo</strong>; l’abbigliamento costruisce il self e l’in<strong>di</strong>viduo ritratto <strong>nella</strong> fotografia in<strong>corpo</strong>ra<br />
questo self e lo rende permanente.<br />
La pubblicità <strong>di</strong> moda ha avuto una parte rilevante <strong>nella</strong> <strong>di</strong>ffusione e nel consolidamento<br />
<strong>di</strong> standard <strong>corpo</strong>rei e <strong>di</strong> stili molto <strong>di</strong>fficilmente raggiungibili dal<br />
grande pubblico. Gli annunci pubblicitari danno in<strong>di</strong>cazioni su come perseguire e<br />
godere <strong>di</strong> certi piaceri e offrono uno sguardo su stili <strong>di</strong> vita fantastici per suscitare<br />
nel consumatore tutta una serie <strong>di</strong> desideri: la pubblicità dunque, «destabilizza le<br />
pratiche quoti<strong>di</strong>ane per reinventarle» (ibid.: 46). In altre parole le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong><br />
questi ambienti desiderabili ha l’effetto <strong>di</strong> turbare la piatta routine attraverso proposte<br />
<strong>di</strong> nuovi stili. Rispetto però alle fantasie che possono essere suggerite dalla<br />
lettura <strong>di</strong> un romanzo, nel caso delle <strong>immagini</strong> commerciali la novità è presentata<br />
come imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong>sponibile in quanto qualcosa che si può comprare, vendere<br />
e trovare negli oggetti e nei comportamenti, anche i più comuni.<br />
Ovviamente la pubblicità deve la sua efficacia al piacere visivo del guardare e<br />
fornisce al recettore l’attraente possibilità <strong>di</strong> venire in contatto (sempre visivo) con<br />
cose nuove, <strong>di</strong> moda, rischiose o sexy che in ogni caso suscitano curiosità, meraviglia,<br />
invi<strong>di</strong>a, <strong>di</strong>sgusto o combinazioni <strong>di</strong> tutti questi fattori. D’altra parte, poiché<br />
ha come scopo la ven<strong>di</strong>ta dei prodotti, la pubblicità lavora attivamente per ridurre<br />
la percezione (da parte del recettore) della <strong>di</strong>stanza tra i mon<strong>di</strong> ideali che propone<br />
e la vita reale. Quando il sottile equilibrio tra seduzione e accessibilità viene raggiunto,<br />
le <strong>immagini</strong> pubblicitarie hanno come effetto collaterale l’«indottrinamento» dei<br />
lettori. Nel caso della pubblicità <strong>di</strong> moda questo avviene quando le <strong>immagini</strong><br />
impiantano <strong>nella</strong> mente dei lettori: concezioni <strong>di</strong> bellezza e standard <strong>di</strong> presenta-
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zione del self che sono spesso irrealizzabili per gli in<strong>di</strong>vidui comuni. Pubblicità <strong>di</strong><br />
questo tipo si trovano ovunque e possono assumere due forme principali <strong>nella</strong><br />
presentazione commerciale.<br />
Da un lato ci sono le pubblicità dei marchi della moda, dall’altro i redazionali<br />
<strong>di</strong> moda.<br />
<strong>Il</strong> redazionale è un servizio fotografico che viene elaborato dalla redazione <strong>di</strong><br />
un giornale <strong>di</strong> moda. Viene realizzato a partire da un «concetto» ideato dal team<br />
<strong>di</strong> creativi secondo i temi della stagione e sviluppato in modo da mostrare al lettore<br />
le linee moda e le nuove tendenze. Di solito suggerisce anche un’interpretazione<br />
<strong>di</strong> quanto viene proposto dalle gran<strong>di</strong> case <strong>di</strong> moda. Elemento caratteristico<br />
del redazionale è la costruzione <strong>di</strong> una storia, una narrazione per <strong>immagini</strong>, in cui<br />
contestualizzare gli abiti realizzati da <strong>di</strong>versi stilisti e selezionati dai creativi. Le<br />
sequenze del redazionale tendono a creare un mondo intero, un ambiente con una<br />
trama che desta l’interesse del fruitore delle <strong>immagini</strong>.<br />
Invece, nelle pubblicità ufficiali <strong>di</strong> un marchio, si punta <strong>di</strong> solito a far vedere i<br />
capi <strong>di</strong> abbigliamento in modo più chiaro, per esempio per mostrarne la foggia,<br />
oppure qualche dettaglio particolarmente interessante. Di solito la campagna pubblicitaria<br />
si presenta con <strong>immagini</strong> più imme<strong>di</strong>ate, con una forte visibilità e pertanto<br />
in grado <strong>di</strong> colpire il consumatore, anche se recentemente alcuni marchi<br />
hanno prodotto campagne realizzate con caratteristiche più simili ai redazionali.<br />
Infatti si sta affermando una tendenza ad adottare anche in pubblicità lo stile narrativo<br />
tipico dei redazionali, per esempio giustapponendo le <strong>immagini</strong> su <strong>di</strong>verse<br />
pagine consecutive, oppure non mostrando per nulla i capi <strong>di</strong> abbigliamento ma<br />
puntando a creare un’ambientazione su cui campeggia il logo aziendale. In ogni<br />
caso, e al <strong>di</strong> là delle <strong>di</strong>fferenze tra questi due tipi <strong>di</strong> immagine, sia le pubblicità<br />
che i redazionali trovano un obiettivo comune <strong>nella</strong> ven<strong>di</strong>ta dei prodotti, mentre<br />
ad un livello più culturale, entrambi offrono al consumatore me<strong>di</strong>o l’accesso ad<br />
un mondo immaginario e pieno <strong>di</strong> glamour.<br />
L’iconografia della moda rintracciabile soprattutto sulle riviste specializzate,<br />
insieme alle <strong>immagini</strong> prodotte da altri me<strong>di</strong>a (ad es. il cinema e la televisione),<br />
costituiscono delle rappresentazioni molto significative del gusto e dell’estetica <strong>di</strong><br />
una determinata epoca. Pertanto la storia della fotografia <strong>di</strong> moda può essere esaminata<br />
come traccia del cambiamento del gusto estetico corrispondente a vari<br />
perio<strong>di</strong> storici. Limitando lo sguardo alla seconda metà del Novecento, è dunque<br />
possibile in<strong>di</strong>viduare una perio<strong>di</strong>zzazione della storia della fotografia <strong>di</strong> moda che<br />
riflette in certa misura i <strong>di</strong>versi climi culturali che l’Occidente ha attraversato 2 .<br />
Come sostiene un’opinione con<strong>di</strong>visa, nei decenni Ottanta e Novanta e ancora<br />
attualmente, il mondo della moda e le sue convenzioni sono <strong>di</strong>ventate più frammentate<br />
e de-centralizzate 3 ; per contrasto, i decenni Cinquanta, Sessanta e Settanta<br />
2 Per quanto i confini <strong>di</strong> ciascuna «epoca» siano spesso <strong>di</strong>fficili da fissare.<br />
3 Alcuni critici ritengono che, proprio in quegli anni, si sia verificata nel mondo della moda una<br />
crisi <strong>di</strong> innovazione e <strong>di</strong> creatività a cui le aziende hanno tentato <strong>di</strong> riparare puntando su una comunicazione<br />
eccessiva, sfrontata, intesa a «schoccare» e scandalizzare il pubblico.
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sono stati considerati dei perio<strong>di</strong> cruciali e importanti <strong>nella</strong> storia della fotografia<br />
<strong>di</strong> moda, ma anche, più in generale, per tutto il settore.<br />
Ciascun decennio sembra infatti aver prodotto un proprio ideale <strong>di</strong> bellezza<br />
femminile <strong>di</strong>ffuso attraverso la comunicazione presso il grande pubblico: se <strong>nella</strong><br />
prima metà degli anni Cinquanta la donna della pubblicità è decisamente un<br />
«angelo del focolare», <strong>nella</strong> seconda metà del decennio viene <strong>di</strong> nuovo ritratta al<br />
<strong>di</strong> fuori delle mura domestiche, in comportamenti meno passivi e in ambientazioni<br />
più varie. La nuova figura femminile <strong>di</strong> moda negli anni Sessanta rappresenta<br />
poi una donna in<strong>di</strong>pendente, attiva e <strong>di</strong>namica, dotata <strong>di</strong> una identità più decisa e<br />
sicura <strong>di</strong> sé. Negli anni Settanta l’ideale femminile è meno definito, anche se, in<br />
genere, le donne mostrate nelle pubblicità ostentano <strong>di</strong>stacco, freddezza e, a volte,<br />
assumono atteggiamenti apertamente seduttivi.<br />
Nel suo recente testo de<strong>di</strong>cato alla moda, Diana Crane ([2002] 2004) <strong>di</strong>stingue<br />
<strong>di</strong>versi perio<strong>di</strong> <strong>nella</strong> fotografia <strong>di</strong> moda. Per esempio, nota come <strong>nella</strong> seconda<br />
metà degli anni Cinquanta, le modelle vengano spesso ritratte mentre fissano<br />
<strong>di</strong>rettamente l’obiettivo in atteggiamenti che in<strong>di</strong>cano vulnerabilità e uno stato <strong>di</strong><br />
inferiorità (cfr. anche Goffman 1976). In questo periodo, afferma Crane, il fuoco<br />
principale delle foto <strong>di</strong> moda è dato ancora dai capi <strong>di</strong> abbigliamento. Un decennio<br />
dopo, la stessa rivista analizzata da Crane, l’e<strong>di</strong>zione americana <strong>di</strong> «Vogue»,<br />
mostra primi piani <strong>di</strong> modelle in costume da bagno in cui viene enfatizzata soprattutto<br />
la loro giovinezza; è in questo periodo che la foto <strong>di</strong> moda comincia a ritrarre<br />
donne molto <strong>di</strong>verse da quelle comuni e nasce quin<strong>di</strong> la figura della supermodel<br />
o top model.<br />
Dopo la metà degli anni Settanta sia le pubblicità che i redazionali appaiono<br />
orientati ad uno sguardo maschile, mentre sempre più frequentemente figure<br />
maschili vengono incluse <strong>di</strong>rettamente nelle <strong>immagini</strong> insieme a gruppi <strong>di</strong> donne.<br />
Le modelle guardano <strong>di</strong>rettamente l’obiettivo, spesso in atteggiamenti infantili<br />
(ibid.). Secondo Crane ([2002] 2004:234) «la maggioranza delle <strong>immagini</strong> non<br />
sono contestualizzate» e l’obiettivo della macchina fotografica <strong>di</strong> solito è posto o<br />
più in alto o più in basso rispetto all’oggetto da ritrarre. La <strong>di</strong>fferenza tra uno stile<br />
e l’altro è quin<strong>di</strong> molto spesso determinata dalla prospettiva da cui la fotografia<br />
viene scattata, cioè dal punto <strong>di</strong> vista della macchina fotografica. Al <strong>di</strong> là comunque<br />
delle <strong>di</strong>fferenze negli stili <strong>di</strong> ciascun periodo, lo sguardo della macchina fotografica<br />
o della macchina da presa continua, anche secondo Crane, a rinforzare<br />
ruoli e aspettative tra<strong>di</strong>zionali riguardo al sesso <strong>di</strong> appartenenza.<br />
<strong>Il</strong> concetto <strong>di</strong> sguardo è un tema molto <strong>di</strong>battuto nell’ambito degli stu<strong>di</strong> culturali,<br />
specialmente quelli relativi all’arte. L’atto del guardare, la relazione tra<br />
oggetto e spettatore nel contesto dell’immagine, è involontaria e inevitabile: qualcuno<br />
è in mostra, mentre qualcun altro osserva. Lo spettatore può attribuire a ciò<br />
che vede i suoi propri significati, mentre il soggetto ritratto è passivo e vulnerabile.<br />
La fotografia <strong>di</strong> moda è un ambito in cui lo sguardo è <strong>di</strong> primaria importanza<br />
per comprendere la costruzione, contestualizzazione e presentazione dei soggetti<br />
fotografati. Ancora attualmente sembra possibile affermare che le <strong>immagini</strong> dei
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corpi <strong>nella</strong> foto <strong>di</strong> moda, siano essi maschili, <strong>femminili</strong>, presuppongono uno<br />
sguardo maschile e sono ad esso orientate. Quin<strong>di</strong> anche <strong>nella</strong> fotografia <strong>di</strong> moda,<br />
dove le spettatrici sono quasi sempre donne e le <strong>immagini</strong> pubblicitarie sono create<br />
per un au<strong>di</strong>ence femminile, il loro processo <strong>di</strong> costruzione è tale da indurre le<br />
donne ad assumere un occhio maschile nel guardarle. Questa osservazione è suggerita<br />
già da Berger che, nel suo classico stu<strong>di</strong>o degli anni Settanta, afferma:<br />
Gli uomini agiscono le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne si guardano<br />
mentre vengono guardate. Questo fatto è determinante non solo nelle relazioni tra<br />
uomini e donne ma anche nel rapporto delle donne con se stesse. Lo sguardo <strong>di</strong> una donna<br />
su se stessa è maschile: l’oggetto dello sguardo è femminile. Perciò la donna trasforma se<br />
stessa in oggetto, in particolare l’oggetto <strong>di</strong> una visione, uno spettacolo 4 .<br />
Per quanto tale tesi non sia univocamente accettata e con<strong>di</strong>visa (per es., esprimono<br />
pareri <strong>di</strong>versi Byars 1991, Fuss 1992,Williams 1984 e, più recentemente,<br />
Bruzzi - Gibson 2002;), e pur ammettendo che «lo sguardo» attivato da consumatori/consumatrici<br />
<strong>di</strong> <strong>immagini</strong> può essere pensato anche come «non-maschile» e<br />
ad<strong>di</strong>rittura non connotato dal genere 5 , rimane comunque il fatto che, <strong>nella</strong> contemporanea<br />
iconografia <strong>di</strong> moda, si rileva una decisa enfatizzazione del <strong>corpo</strong> che<br />
assume una centralità anche maggiore dei capi <strong>di</strong> abbigliamento che lo rivestono.<br />
Se si guarda alla storia della fotografia <strong>di</strong> moda, ci si accorge che non è stato sempre<br />
così. Agli inizi, negli anni Trenta, era il vestito l’elemento su cui concentrarsi,<br />
mentre il <strong>corpo</strong> era piuttosto nascosto, marginalizzato. Le modelle ritratte non<br />
riven<strong>di</strong>cavano alcuna in<strong>di</strong>pendenza, lo loro <strong>corpo</strong>reità era resa astratta o del tutto<br />
negata. Questa situazione prosegue fino alla seconda metà degli anni Sessanta,<br />
quando invece si afferma l’importanza del <strong>corpo</strong> che, da allora in avanti, <strong>di</strong>venta<br />
l’oggetto cruciale da esibire.<br />
Come notano alcuni autori (cfr., per es., Joblin 1999), durante gli anni Settanta<br />
il <strong>corpo</strong> femminile incomincia ad essere a volte rappresentato ad<strong>di</strong>rittura come<br />
oggetto <strong>di</strong> desiderio feticistico nell’opera <strong>di</strong> alcuni famosi fotografi, come, per esempio,<br />
Helmut Newton. Parallelamente (cfr. anche Crane 2004) aumenta anche l’esposizione<br />
della nu<strong>di</strong>tà mostrata spesso in situazioni a sfondo erotico anche <strong>di</strong> tipo<br />
omosessuale. Sempre secondo Joblin, questa tendenza si accentua negli anni<br />
Ottanta e <strong>nella</strong> prima metà degli anni Novanta, un periodo in cui si riafferma in<br />
modo ancora più esplicito il fatto che la fotografia <strong>di</strong> moda è sottesa da un profondo<br />
interesse e orientamento per le questioni che riguardano il <strong>corpo</strong> e innegabilmente<br />
anche il sesso, sia <strong>nella</strong> sua forma eterosessuale che <strong>nella</strong> sua forma omossessuale.<br />
4 Traduzione mia dall’e<strong>di</strong>zione originale inglese (Ways of seeing, BBC - Penguin Books, London<br />
1972, p. 47) La traduzione italiana dell’opera è: Del guardare; Sestante, Ascoli Piceno 1995.<br />
5 Occorre a questo proposito <strong>di</strong>stinguere tra lo sguardo nel senso semiotico del termine, che si<br />
riferisce allo sguardo immaginato o presunto da chi produce l’immagine e lo sguardo o meglio la<br />
gamma <strong>di</strong> sguar<strong>di</strong> che possono essere effettivamente attivati dal pubblico. Per quanto riguarda le<br />
pubblicità <strong>di</strong> moda, mi pare che tuttora la tesi del male gaze in senso semiotico possa essere utilmente<br />
chiamata in causa.
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LUCIA RUGGERONE<br />
In altre parole, e per riassumere, quando, verso la fine degli anni Settanta, la<br />
centralità si sposta dai vestiti ai corpi che li indossano, contemporaneamente si<br />
innesca la tendenza a caricare le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda <strong>di</strong> significati e connotazioni <strong>di</strong><br />
tipo sessuale. In questo quadro le <strong>immagini</strong> <strong>femminili</strong> <strong>di</strong>ventano sempre più spesso<br />
simboli <strong>di</strong> bellezza sessualmente provocanti in linea con l’osservazione secondo<br />
cui (Lakoff - Scherr 1984: 106) «la bellezza moderna è profondamente improntata<br />
da politiche sessuali, in cui la donna recita fantasie maschili, impegnata in una<br />
provocazione intenzionale»: veramente questa mi sembra una descrizione adeguata<br />
<strong>di</strong> molte delle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda attualmente circolanti.<br />
In questo quadro sembra <strong>di</strong>fficile essere d’accordo con le posizioni <strong>di</strong> alcune<br />
autrici postfemministe secondo cui le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> donne sessualmente provocanti,<br />
lungi dall’essere create in sud<strong>di</strong>tanza al male gaze, sarebbero al contrario simboli<br />
<strong>di</strong> empowerment, segni che le donne hanno raggiunto il controllo della loro<br />
sessualità (Myers 1987), Skeggs 1993) 6 . Tra l’altro, se questo fosse vero, si tratterebbe<br />
dell’acquisizione <strong>di</strong> una forma <strong>di</strong> potere del tutto simile alle pratiche messe<br />
in atto per secoli dagli uomini, cioè un potere che <strong>di</strong>scrimina e che esclude porzioni<br />
molto vaste <strong>di</strong> persone, a partire da tutte quelle donne (sicuramente la maggioranza)<br />
che non si conformano ai canoni estetici proposti dalle <strong>immagini</strong>.<br />
III - IMMAGINI DI MODA E RESPONSABILITÀ SOCIALE<br />
Le considerazioni fatte fino a questo punto sembrano delineare lo scenario<br />
della società occidentale contemporanea come un contesto in cui le <strong>immagini</strong><br />
hanno sempre maggiore <strong>di</strong>ffusione e potere e dove i me<strong>di</strong>a rappresentano i più<br />
pervasivi comunicatori <strong>di</strong> cultura, nonché <strong>di</strong>ffusori <strong>di</strong> stereotipi e ideali. In questo<br />
ambito la pubblicità (che costituisce una voce importantissima del patrimonio iconografico<br />
circolante), e in particolare la pubblicità <strong>di</strong> moda, ci presenta figure<br />
<strong>femminili</strong> seguendo modalità a rischio <strong>di</strong> ricadute sociali negative soprattutto per<br />
due or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> motivi.<br />
In primo luogo, negli ultimi anni, si registra la tendenza ad utilizzare modelle<br />
la cui figura è molto <strong>di</strong>stante dalle misure <strong>femminili</strong> standard. Dalle riviste <strong>di</strong><br />
moda emerge un ideale <strong>corpo</strong>reo in cui la snellezza esasperata si impone come<br />
una con<strong>di</strong>tio sine qua non dell’attrattiva fisica. Parecchi stu<strong>di</strong> (Bordo 1997,<br />
Tseelon 1995, Gemov - Williams 1996) testimoniano che una buona parte del<br />
pubblico delle lettrici non mette in <strong>di</strong>scussione questo assunto e accetta dunque la<br />
magrezza come un ideale da perseguire a costo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> sacrifici. Tale ideale è<br />
interiorizzato a tal punto che, molto spesso, sono le donne stesse a stigmatizzare le<br />
altre donne che non corrispondono a questa immagine standard. Usando il con-<br />
6 Questa posizione è con<strong>di</strong>visa da quel filone <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> che vede <strong>nella</strong> cantante Madonna un<br />
emblema del controllo femminile sulla propria sessualità.
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IL CORPO SIMULATO 285<br />
cetto foucaultiano <strong>di</strong> relazioni <strong>di</strong> micro-potere, Gemov e Williams scrivono nel<br />
loro stu<strong>di</strong>o sulle donne a <strong>di</strong>eta:<br />
è l’interiorizzazione delle norme patriarcali, più che una coercizione esterna, la forma<br />
dominante delle relazioni <strong>di</strong> potere. Questo risulta <strong>nella</strong> auto-regolazione e auto-<strong>di</strong>sciplina<br />
del <strong>corpo</strong> femminile nel perseguimento dell’ideale <strong>di</strong> magrezza. La <strong>di</strong>spersione e l’anonimità<br />
del potere patriarcale ottenute attraverso l’interiorizzazione, rende <strong>di</strong>fficilissimo sra<strong>di</strong>care<br />
l’ideale <strong>di</strong> magrezza: i demoni sono all’interno e il potere si esercita attraverso e da<br />
parte <strong>di</strong> quegli stessi in<strong>di</strong>vidui che ne sono le vittime (Gemov - Williams 1996: 642).<br />
La seconda questione, forse ancora più fondamentale, sollevata dallo scenario<br />
delineato riguarda il fatto che le pubblicità <strong>di</strong> moda mostrino il <strong>corpo</strong> femminile<br />
ritratto come <strong>corpo</strong>-oggetto sottoposto ad uno sguardo maschile e dunque presentato<br />
o come oggetto <strong>di</strong> desiderio sessuale, o in atteggiamenti <strong>di</strong> vulnerabilità e<br />
inferiorità, oppure a volte mortificato e degradato, quasi a presumere uno sguardo<br />
misogino. Quello che ci sembra preoccupante non è comunque tanto il modo in<br />
cui questo <strong>corpo</strong>-oggetto compare, bensì la continua reiterazione dell’equivalenza<br />
tra <strong>femminili</strong>tà e <strong>corpo</strong>reità, del legame tra la donna e il suo aspetto fisico, come<br />
se, dopo decenni <strong>di</strong> lotte e <strong>di</strong> <strong>di</strong>battiti, ciò che veramente conta per le donne fosse<br />
sempre, soltanto e ancora una volta, la piacevolezza fisica.<br />
Per quanto il rapporto tra gli stereotipi <strong>di</strong> <strong>femminili</strong>tà <strong>di</strong>ffusi dai me<strong>di</strong>a e lo<br />
sviluppo <strong>di</strong> alcuni <strong>di</strong>sturbi del comportamento alimentare e altri segnali <strong>di</strong> <strong>di</strong>sagio<br />
psichico sia stato molto analizzato nell’ambito sociologico e dei cultural stu<strong>di</strong>es,<br />
più raramente si è cercato <strong>di</strong> indagare quale sia il livello <strong>di</strong> consapevolezza che gli<br />
operatori della comunicazione, coloro che creano le <strong>immagini</strong> me<strong>di</strong>atiche <strong>di</strong>mostrano<br />
su questo tema. In altre parole, chi produce le <strong>immagini</strong> tiene conto delle<br />
reazioni potenzialmente pericolose che esse possono avere soprattutto sulle parti<br />
più deboli del pubblico? E, in secondo luogo, come si concilia il rispetto per il<br />
mondo femminile <strong>di</strong>chiarato da gran parte <strong>di</strong> questi professionisti della moda e<br />
della comunicazione con le rappresentazioni spesso «degradate» o perlomeno<br />
oggettificate che essi/e ne danno con i risultati del loro lavoro? Su questo aspetto<br />
la riflessione accademica si è rivelata più lenta dell’opinione pubblica. Soprattutto<br />
negli Stati Uniti infatti, la consapevolezza <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>namiche, almeno presso le<br />
fasce più sensibili del pubblico femminile, è già piuttosto elevata, traducendosi<br />
anche <strong>nella</strong> formazione <strong>di</strong> network <strong>di</strong> opposizione e <strong>di</strong> denuncia del fenomeno 7 .<br />
Nelle ricerche che ho effettuato non ho trovato realtà analoghe in Italia. La consapevolezza<br />
riguardo alle conseguenze potenzialmente negative <strong>di</strong> un’iconografia<br />
così lontana dalla realtà e così poco rispettosa nei confronti delle donne non sembra<br />
essere stata per nulla messa a fuoco dal pubblico femminile; al contrario dai<br />
me<strong>di</strong>a ci arriva sempre più spesso la proposta <strong>di</strong> modelli <strong>femminili</strong> del tutto giocati<br />
7 A questo proposito è molto interessante la consultazione del sito <strong>di</strong> About face (www.Aboutface.org)<br />
che si autodefinisce così: «A San Francisco based non-profit group, About face combats<br />
negative and <strong>di</strong>storted images of women in the me<strong>di</strong>a».
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286<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
(e, mi si permetta, appiattiti) sulla avvenenza fisica. L’esempio più lampante è rappresentato<br />
in questo periodo dalle «veline» televisive che da semplici figure ancillari<br />
sono ormai <strong>di</strong>ventate protagoniste <strong>di</strong> programmi a loro interamente de<strong>di</strong>cati.<br />
In Italia dunque non solo c’è scarsa consapevolezza <strong>di</strong> queste problematiche, ma<br />
ad<strong>di</strong>rittura sembra esistere una tolleranza se non un incoraggiamento da parte<br />
dell’authority alla mercificazione del <strong>corpo</strong> femminile che evidentemente viene<br />
ritenuto a tutt’oggi un veicolo <strong>di</strong> incremento dell’au<strong>di</strong>ence.<br />
IV - REALTÀ E SIMULAZIONE NELLA CREAZIONE DELLE IMMAGINI DI MODA:<br />
UNO STUDIO EMPIRICO<br />
Per quanto riguarda più specificamente la pubblicità <strong>di</strong> moda, la situazione<br />
italiana si allinea ai trends generali: anche qui si pre<strong>di</strong>ligono modelle molto esili,<br />
mentre le figure <strong>femminili</strong> in genere vengono presentate come oggetti, ritratte in<br />
pose eccentriche e in situazioni assolutamente straor<strong>di</strong>narie.<br />
A partire da questo scenario emergono quasi spontaneamente alcuni interrogativi<br />
riguardanti da un lato la <strong>di</strong>stanza tra le <strong>immagini</strong> presentate dalla pubblicità<br />
e l’esperienza quoti<strong>di</strong>ana dei loro pubblici maschile e femminile, dall’altro le<br />
ragioni che inducono i creatori della comunicazione a produrre un tipo <strong>di</strong> iconografia<br />
tutto sommato «aliena» e a volte «alienante» per la maggior parte della loro<br />
au<strong>di</strong>ence.<br />
Su questi aspetti la letteratura sociologica italiana è molto limitata 8 . Negli<br />
ultimi anni un’équipe <strong>di</strong> ricerca del Centro per lo stu<strong>di</strong>o della moda e della produzione<br />
culturale dell’Università Cattolica <strong>di</strong> Milano ha condotto due stu<strong>di</strong> consecutivi<br />
che si concentrano appunto su questa questione a partire da due punti <strong>di</strong> vista<br />
<strong>di</strong>versi. <strong>Il</strong> primo stu<strong>di</strong>o, realizzato negli anni 2000-2001, prendeva in considerazione<br />
soprattutto le modalità <strong>di</strong> ricezione delle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda da parte delle consumatrici,<br />
mentre il secondo stu<strong>di</strong>o, appena concluso, si concentra sui processi <strong>di</strong><br />
produzione delle <strong>immagini</strong> pubblicitarie al fine in primo luogo <strong>di</strong> comprendere<br />
attraverso quali meccanismi esse assumono l’importante ruolo sociale che le contrad<strong>di</strong>stingue<br />
e quanto questo sia l’effetto non voluto <strong>di</strong> una combinazione <strong>di</strong> contingenze<br />
oppure l’obiettivo più o meno esplicito degli operatori che contribuiscono<br />
alla loro creazione.<br />
La prima ricerca aveva messo bene in evidenza la <strong>di</strong>stanza tra le <strong>immagini</strong>, le<br />
persone e le situazioni della pubblicità e le donne reali, mostrando, tra l’altro,<br />
come questa situazione potesse causare conseguenze negative in termini <strong>di</strong> frustrazione<br />
e <strong>di</strong> caduta <strong>di</strong> autostima nelle parti più fragili del pubblico femminile.<br />
Inoltre essa aveva anche rilevato come le interpretazioni delle <strong>immagini</strong> da parte<br />
degli addetti ai lavori (PR, giornalisti/e specializzati, professionisti dell’immagine,<br />
eccetera) fossero estremamente più articolate <strong>di</strong> quelle messe in atto dal grande<br />
8 Cfr. però il saggio <strong>di</strong> Cremonesini - Izzi (2003)
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pubblico, da cui deriva che l’impatto delle fotografie sui consumatori finali risulta<br />
molto <strong>di</strong>verso dai criteri, dalle motivazioni e dalle scelte che portano alla costruzione<br />
<strong>di</strong> alcune <strong>immagini</strong> piuttosto che <strong>di</strong> altre.<br />
In particolare la costruzione delle <strong>immagini</strong> sembra contrad<strong>di</strong>stinguersi come<br />
il risultato <strong>di</strong> un lavoro <strong>di</strong> équipe molto frammentato che se, da un lato, migliora la<br />
qualità estetica (e spesso il contenuto <strong>di</strong> creatività) e il potenziale <strong>di</strong> impatto delle<br />
fotografie, dall’altro determina l’impossibilità <strong>di</strong> risalire ad una authorship definita<br />
per l’immagine stessa. Si rileva infatti come, nel processo <strong>di</strong> produzione <strong>di</strong> pubblicità<br />
<strong>di</strong> moda, la presenza <strong>di</strong> molte figure professionali e dei molteplici significati<br />
culturali <strong>di</strong> cui esse sono portatrici finisca per frammentare nei creativi la consapevolezza<br />
<strong>di</strong> essere produttori responsabili <strong>di</strong> tali <strong>immagini</strong>.<br />
Partendo dunque dalla constatazione, solo incidentale <strong>nella</strong> ricerca precedente,<br />
che il co<strong>di</strong>ce simbolico del testo pubblicitario <strong>di</strong> moda è il prodotto <strong>di</strong> logiche<br />
<strong>di</strong>fferenti (preferenze culturali, esigenze economiche, osservanza <strong>di</strong> canoni estetici<br />
e potenziale tecnico), il lavoro appena concluso è penetrato più a fondo nell’indagine<br />
del processo <strong>di</strong> produzione delle campagne pubblicitarie. Attraverso lo stu<strong>di</strong>o<br />
in profon<strong>di</strong>tà delle campagne primavera-estate 2004 realizzate da tre aziende,<br />
la ricerca ha inteso precisare tutte le tappe <strong>di</strong> realizzazione <strong>di</strong> tali campagne, a partire<br />
dal concetto iniziale all’immagine pubblicata e <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare le varie culture<br />
professionali e i vari co<strong>di</strong>ci simbolici che intervengono nelle fasi <strong>di</strong> lavorazione per<br />
vedere in quali mo<strong>di</strong> essi si sintetizzano nel risultato finale. In altre parole il lavoro<br />
si propone <strong>di</strong> descrivere il meglio possibile in che cosa consiste e come si svolge il<br />
«lavoro <strong>di</strong> squadra» che produce le <strong>immagini</strong> pubblicitarie e <strong>di</strong> capire quanto sia<br />
<strong>di</strong>ffusa negli addetti ai lavori la consapevolezza del forte impatto sociale determinato<br />
dalle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda.<br />
4.1. Osservazioni e narrazioni: il metodo della ricerca<br />
IL CORPO SIMULATO 287<br />
Indagare il processo <strong>di</strong> costruzione delle campagne pubblicitarie equivale a<br />
indagarne il significato/i attraverso le tappe del suo farsi ad opera <strong>di</strong> tutti quegli<br />
operatori che in qualche modo intervengono nell’itinerario <strong>di</strong> produzione. La<br />
ricerca si qualifica quin<strong>di</strong> come un’indagine tipicamente culturale che si propone<br />
<strong>di</strong> esaminare e, se possibile, <strong>di</strong>stinguere, almeno analiticamente, le componenti<br />
che danno vita a quel famoso «lavoro <strong>di</strong> squadra» da cui <strong>di</strong>pendono i risultati<br />
finali nonché <strong>di</strong> identificare il tipo <strong>di</strong> contributo fornito da ciascuna <strong>di</strong> tali componenti.<br />
Per realizzare tale obiettivo, abbiamo ritenuto che le interviste in<strong>di</strong>viduali con<br />
le varie figure professionali non fossero sufficienti: pensiamo infatti che, prima <strong>di</strong><br />
sondare le varie interpretazioni degli attori coinvolti, sia necessario osservare<br />
<strong>di</strong>rettamente le pratiche attraverso cui il lavoro viene svolto nelle sue varie fasi.<br />
Solo attraverso un field work <strong>di</strong>retto è infatti possibile andare oltre alle singole<br />
interpretazioni dei fenomeni forniti dalle figure coinvolte, acquisendo una compe-
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288<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
tenza <strong>di</strong> prima mano delle tappe <strong>di</strong> svolgimento del lavoro. In altre parole non ci<br />
bastava «farci raccontare» come si costruisce una campagna pubblicitaria, ma<br />
abbiamo voluto esserne testimoni, partecipando nel ruolo <strong>di</strong> osservatori al lavoro<br />
dell’équipe tutte le volte che ciò era ritenuto possibile dalle aziende. Per il field<br />
work abbiamo scelto come metodo principale quello dell’osservazione etnografica.<br />
Si tratta <strong>di</strong> un metodo qualitativo <strong>di</strong> origine antropologica (cfr. Gobo 2001)<br />
che consiste nell’immergersi <strong>di</strong>rettamente nelle situazioni in cui le attività che<br />
caratterizzano le culture sotto indagine vengono concretamente svolte. Spesso<br />
viene anche designata come osservazione partecipante e prevede che il ricercatore<br />
vada sul campo e assista <strong>di</strong> persona allo svolgimento delle pratiche per raccogliere<br />
le informazioni necessarie. <strong>Il</strong> ricercatore deve mantenere un atteggiamento aperto<br />
per riuscire a scoprire gli elementi che danno vita ai segnali e agli strumenti che le<br />
persone utilizzano nelle loro interazioni con gli altri e con l’ambiente. Per segnali<br />
inten<strong>di</strong>amo le rappresentazioni del mondo, o le aspettative normative, ma anche<br />
le risorse linguistiche e paralinguistiche a cui viene fatto ricorso nel contatto con<br />
l’ambiente.<br />
Nell’ambito degli stu<strong>di</strong> etnografici occorre <strong>di</strong>stinguere tra quelli in cui si<br />
mantiene un’apertura ai nuovi dati e quelli in cui le attività in<strong>di</strong>viduali sono stu<strong>di</strong>ate<br />
tenendo conto <strong>di</strong> rigide tracce compilate dal ricercatore prima del lavoro sul<br />
campo. Per quanto in teoria il primo tipo <strong>di</strong> metodo sia preferibile, poiché mette<br />
al centro dell’attenzione i fenomeni concreti nel loro farsi e non prende decisioni<br />
a priori sull’importanza relativa <strong>di</strong> alcuni elementi rispetto ad altri, questo metodo<br />
ha lo «svantaggio» <strong>di</strong> richiedere tempi molto lunghi e l’impiego <strong>di</strong> notevoli risorse.<br />
Per questo l’approccio che abbiamo adottato nel lavoro <strong>di</strong> ricerca si avvicina <strong>di</strong> più al<br />
secondo tipo descritto: i ricercatori si sono recati sul campo con le idee già abbastanza<br />
chiare riguardo ai fenomeni e agli aspetti della situazione che più interessava rilevare,<br />
cioè il contributo specifico che le varie figure professionali impegnate <strong>nella</strong><br />
situazione fornivano nel lavoro <strong>di</strong> produzione dell’immagine pubblicitaria.<br />
Successivamente al lavoro etnografico, sono state condotte alcune interviste<br />
in profon<strong>di</strong>tà con quelle che erano emerse come figure chiave nel processo <strong>di</strong><br />
costruzione delle <strong>immagini</strong>.<br />
Questa tecnica <strong>di</strong> intervista 9 permette non solo <strong>di</strong> sondare le opinioni degli<br />
intervistati riducendo al minimo le interferenze dovute a domande <strong>di</strong>rette, che<br />
possono influenzarlo ed orientarne le risposte, ma anche <strong>di</strong> osservare tutta una<br />
serie <strong>di</strong> comportamenti non verbali, quali le esitazioni, le espressioni facciali e gli<br />
imbarazzi; inoltre permette <strong>di</strong> ricostruire la logica dei ragionamenti, i significati<br />
con<strong>di</strong>visi, gli aspetti «dati per scontati» che <strong>di</strong>fficilmente emergono con tecniche<br />
<strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong> altro tipo (ad es. con questionari strutturati, dove le informazioni che<br />
si mira ad ottenere sono costruite a priori dai ricercatori, e quin<strong>di</strong> non prevedono<br />
la raccolta <strong>di</strong> notizie ulteriori o <strong>di</strong>verse).<br />
9 L’intervista viene <strong>di</strong> solito registrata e successivamente «sbobinata», cioè trascritta per intero,<br />
in modo da poter essere riletta dai ricercatori.
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IL CORPO SIMULATO 289<br />
In questo modo le interviste permettono <strong>di</strong> raccogliere una serie <strong>di</strong> informazioni<br />
che spesso vanno al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> quelle preventivate nelle ipotesi <strong>di</strong> ricerca, che<br />
devono quin<strong>di</strong> essere continuamente verificate e rimodellate tramite il confronto<br />
con i dati empirici; questo proce<strong>di</strong>mento viene definito circolare o riflessivo (cfr.<br />
Mora 1997), in quanto i presupposti teorici e scientifici vengono continuamente<br />
rivisitati per adattarsi alle rilevazioni sul campo, così da valorizzare la produzione<br />
quoti<strong>di</strong>ana <strong>di</strong> senso che emerge dai <strong>di</strong>scorsi degli intervistati.<br />
Per quanto la traccia pre<strong>di</strong>sposta fosse piuttosto dettagliata, la pratica del<br />
lavoro empirico ci ha ancora una volta <strong>di</strong>mostrato che ogni intervista rappresenta<br />
un caso a sé: da un lato, la sua riuscita <strong>di</strong>pende da numerosi fattori, solo alcuni dei<br />
quali risultano controllabili dall’intervistatore; dall’altro, spesso il <strong>di</strong>alogo imbocca<br />
<strong>di</strong>rezioni impreviste rispetto alla traccia, ma comunque interessanti, mentre lascia<br />
magari scoperte altre tematiche che invece la traccia prevedeva. Non sempre è<br />
possibile, né consigliabile «forzare» l’intervista in <strong>di</strong>rezioni non spontanee solo<br />
per «riempire» i punti della traccia. Una tale operazione infatti rischia <strong>di</strong> compromettere<br />
il clima della conversazione rendendo lo strumento <strong>di</strong> indagine per certi<br />
versi più simile ad un questionario <strong>di</strong> tipo standard (ma meno maneggevole), mentre<br />
rischia <strong>di</strong> far perdere informazioni preziose e spesso innovative per le interpretazioni<br />
del fenomeno.<br />
Nel finale del lavoro sono stati anche realizzati dei focus group con le potenziali<br />
consumatrici <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse fasce <strong>di</strong> età; sono stati realizzati sulla base della constatazione<br />
che la ricezione dei testi pubblicitari costituisce un momento importante<br />
<strong>nella</strong> costruzione dei loro significati. Come sottolineano molto bene alcune correnti<br />
della semiotica e gli autori dei cultural stu<strong>di</strong>es (per es. Fiske 1989, Hall<br />
1981), il significato <strong>di</strong> un testo è dato anche dalle modalità della/e sua/e ricezione/i,<br />
il significato non è stabilito a priori da chi produce il messaggio (o l’oggetto<br />
culturale), ma è tema <strong>di</strong> negoziazione con i fruitori del messaggio stesso. Per questo,<br />
dopo aver analizzato come avviene la costruzione <strong>di</strong> un certo testo pubblicitario,<br />
ci è parso utile e interessante vedere come questo viene recepito da parte <strong>di</strong><br />
coloro a cui il messaggio (almeno in teoria) è in<strong>di</strong>rizzato.<br />
4.2. Ideale femminile e mercato in tre campagne pubblicitarie<br />
Tenendo sullo sfondo lo scenario concettuale fin qui delineato e gli interrogativi<br />
emersi dalle riflessioni sulla letteratura <strong>di</strong> riferimento, la nostra indagine si è<br />
svolta sulle campagne pubblicitarie <strong>di</strong> tre aziende <strong>di</strong> moda italiane: Piazza<br />
Sempione, Gattinoni e Iceberg.<br />
4.2.1. Piazza Sempione<br />
Da alcuni anni Piazza Sempione segue una strategia <strong>di</strong> comunicazione che<br />
potremmo <strong>di</strong>re non-standard rispetto alle altre case <strong>di</strong> moda nel senso che ormai
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LUCIA RUGGERONE<br />
da alcune stagioni affida le campagne ad artisti e non a fotografi <strong>di</strong> moda. Questo<br />
trend è iniziato nel 1996-1997, con la campagna realizzata da Sharon Lockard,<br />
un’artista californiana che si esprime con fotografie e video, che con Piazza<br />
Sempione fa la sua prima esperienza in un progetto commerciale. Dopo il successo<br />
<strong>di</strong> questa campagna, anche per quelle successive vengono scelti altri artisti e<br />
soprattutto artiste.<br />
Descrivendo questo percorso, la responsabile della comunicazione <strong>di</strong>ce:<br />
all’inizio non è un caso, devo <strong>di</strong>re all’inizio cercavamo <strong>di</strong> lavorare con artiste donne, però<br />
<strong>di</strong>venta sempre più <strong>di</strong>fficile trovare le persone giuste...<br />
Così nelle campagne seguenti vengono utilizzati anche artisti uomini scelti in<br />
base al criterio fondamentale che le loro <strong>immagini</strong> mostrino una sensibilità «adatta<br />
alla moda», cioè «una sensibilità, una capacità <strong>di</strong> espressione, un’estetica [...]<br />
molto forte, molto incisiva, che è capace [...] veramente [...] <strong>di</strong> colpirti». Una tale<br />
scelta produce indubbiamente risultati <strong>di</strong>versi da quelli che potrebbe dare il lavoro<br />
con un fotografo <strong>di</strong> moda. Soprattutto l’immagine femminile protagonista della<br />
campagna acquisisce uno stile <strong>di</strong>verso; su questo aspetto la responsabile <strong>di</strong>ce:<br />
ritraggono queste donne in maniera più dura, perché non hanno tutte quelle sottigliezze<br />
che il mestiere <strong>di</strong> fotografo ti insegna, però in effetti sono delle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> grande impatto.<br />
Un particolare interessante da sottolineare è che, perlomeno <strong>nella</strong> campagna<br />
che abbiamo seguito, le fotografie non vengono sottoposte a rielaborazione elettronica.<br />
Certo esse vengono mo<strong>di</strong>ficate dall’intervento dell’artista, ma sempre solo<br />
con tecniche manuali, tramite il <strong>di</strong>segno o il transfer con il pirografo 10 . Come<br />
molte ricerche mettono in evidenza, è invece pratica comune mo<strong>di</strong>ficare al computer,<br />
anche sostanzialmente, l’immagine della modella per eliminare i <strong>di</strong>fetti, le stonature,<br />
il dettaglio imperfetto, al fine <strong>di</strong> ottenere sulla pagina il ritratto <strong>di</strong> una<br />
donna perfetta, ma <strong>di</strong> fatto irreale 11 .<br />
La scelta <strong>di</strong> lavorare con degli artisti risponde ad una strategia comunicativa<br />
che tiene conto, sia pure da un punto <strong>di</strong> vista soprattutto estetico, dell’influenza<br />
che le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda esercitano sul grande pubblico. Si tratta infatti <strong>di</strong> una<br />
scelta dettata non tanto dal desiderio <strong>di</strong> avvicinare la moda all’arte per nobilitare<br />
la prima, quanto dalla necessità <strong>di</strong> ricercare un «segno» <strong>di</strong> natura <strong>di</strong>versa e <strong>di</strong> fare<br />
10 Si tratta <strong>di</strong> una tecnica artigianale <strong>di</strong> transfer fotografico in cui l’artista fotocopia le fotografie<br />
e poi ricalca una parte dell’immagine (che decide lui anche seguendo suggerimenti degli altri) su carta<br />
tramite un attrezzo chiamato pirografo.<br />
11 Naturalmente anche in questo caso si è cercato <strong>di</strong> eliminare i <strong>di</strong>fetti; per esempio in alcune<br />
foto, poiché la modella era veramente magrissima, risultavano troppo evidenti le ossa del collo e allora<br />
si decideva che l’artista, ricalcando la foto, tralasciasse quel particolare. L’elaborazione elettronica<br />
può essere infatti un’operazione molto invasiva perché potenzialmente ricostruttiva; essa non si limita<br />
a togliere, ma attivamente corregge i tratti della modella ritratta costruendo un’immagine ideale che<br />
rinuncia, in nome della perfezione estetica, al suo aggancio con la realtà.
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IL CORPO SIMULATO 291<br />
comunicazione utilizzando un linguaggio simbolico che si <strong>di</strong>scosta dal cliché del<br />
«far apparire il prodotto su una donna bellissima».<br />
Si tratta, spiega la manager, <strong>di</strong>:<br />
cercare, richiedere al mondo dell’arte un simbolismo, un’estetica [...] forse più [...] più<br />
civile, universale, meno commerciale [rispetto ad un panorama <strong>di</strong> <strong>immagini</strong> pubblicitarie]<br />
un po’ inflazionate, con queste fotografie, queste <strong>immagini</strong> tutte uguali e poi, alla fine,<br />
senza sostanza.<br />
Per quanto riguarda l’effetto sul pubblico, i ricettori finali dell’immagine, l’obiettivo<br />
<strong>di</strong> Piazza Sempione è <strong>di</strong> cercare <strong>di</strong> incuriosire, <strong>di</strong> spingere il lettore a indagare<br />
quell’immagine che si presenta un po’ strana per cercare <strong>di</strong> capire che cosa<br />
c’è sotto; dunque è un tipo <strong>di</strong> comunicazione che richiede un intervento attivo da<br />
parte delle consumatrici, che le spinge ad interrogarsi sulla natura <strong>di</strong> ciò che vedono<br />
e che si esprime con un simbolismo a cui forse non sono abituate dalle altre<br />
<strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda. Si intravede anche in questa filosofia <strong>di</strong> comunicazione, forse<br />
nel suo co<strong>di</strong>ce meno esplicitato, un tentativo <strong>di</strong> contribuire all’educazione del<br />
gusto del grande pubblico, rivestendo così il ruolo che Bour<strong>di</strong>eu (1983) aveva<br />
in<strong>di</strong>viduato come tipico degli interme<strong>di</strong>ari <strong>di</strong> cultura (cfr. Bovone 1994).<br />
Nel caso <strong>di</strong> Piazza Sempione, sembra dunque <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re che esiste tra gli<br />
strateghi della comunicazione, perlomeno <strong>nella</strong> responsabile, una spiccata consapevolezza<br />
del proprio potenziale <strong>di</strong> influenza sul grande pubblico a cui si intende<br />
proporre messaggi composti in un vocabolario simbolico elaborato al <strong>di</strong> fuori dei<br />
soliti circuiti della moda. C’è insomma chiara l’idea che, come le <strong>immagini</strong> prodotte<br />
dall’arte, anche (e a volte in misura maggiore) le <strong>immagini</strong> commerciali<br />
<strong>di</strong>ano un contributo determinante <strong>nella</strong> formazione <strong>di</strong> un immaginario collettivo<br />
che la curatrice della campagna connota però essenzialmente come immaginario<br />
estetico. Nella strategia comunicativa <strong>di</strong> Piazza Sempione è chiaramente implicita<br />
la consapevolezza che <strong>nella</strong> società contemporanea non ha senso cercare <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere<br />
in modo netto ciò che è arte dalle <strong>immagini</strong> prodotte ed usate per fini commerciali:<br />
tra i due mon<strong>di</strong> ci sono (ed è inevitabile) continue interferenze, riman<strong>di</strong><br />
e collegamenti. Frequentemente le stesse <strong>immagini</strong> vengono utilizzate in entrambi<br />
i circuiti, con l’arte che spesso prende spunto dalle merci per elaborare <strong>di</strong>scorsi<br />
propri, e viceversa il mercato che attinge ispirazioni dall’arte per comunicare<br />
meglio i propri prodotti, oppure anche per cercare nuove ispirazioni creative. Tra<br />
i creatori della campagna <strong>di</strong> Piazza Sempione l’idea della commistione tra arte e<br />
mercato sembra <strong>di</strong>ffusa tra tutti i professionisti coinvolti e viene da loro percepita<br />
non come un problema, ma come una crescita delle possibilità espressive <strong>di</strong><br />
entrambi i settori.<br />
La campagna primavera-estate 2004 oggetto del nostro stu<strong>di</strong>o è affidata ad<br />
un artista milanese, definito come «un artista concettuale» cioè che lavora a partire<br />
da tematiche ed idee astratte e cercando <strong>di</strong> esprimerle nelle proprie opere. In<br />
particolare, per questo artista l’idea <strong>di</strong> «varietà» riveste una grande importanza in<br />
quanto rappresenta per lui una delle caratteristiche dominanti del mondo e della
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LUCIA RUGGERONE<br />
nostra società. Per questo la creazione <strong>di</strong> <strong>immagini</strong> in modo mirato gli sembra<br />
un’attività del tutto superflua, mentre considera interessante raccogliere <strong>immagini</strong><br />
già esistenti oppure prodotte per caso:<br />
io faccio tutte e due le cose: produco sia la varietà <strong>di</strong> partenza che mi interessa – o me la<br />
trovo già pronta, mi vanno bene tutte e due le strade – e quando produco questa varietà<br />
spesso mi metto <strong>nella</strong> con<strong>di</strong>zione in cui queste cose avvengano spontaneamente [...] E sia<br />
lavoro sul <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> selezionare cosa mi interessa all’interno <strong>di</strong> questa grande variabilità<br />
che si è prodotta accidentalmente. Sicuramente l’accidente, il contingente mi interessa<br />
molto...[...] il caso creatore, il caso variatore, il caso proliferatore mi interessa moltissimo...<br />
Nel lavoro fatto con Piazza Sempione il caso creatore e proliferatore ha assunto<br />
le sembianze dell’artista stesso che ha scattato personalmente tutte le foto per la<br />
campagna, assumendo durante lo shooting il ruolo <strong>di</strong> fotografo, ma impersonandolo<br />
in modo assolutamente alternativo rispetto al fotografo <strong>di</strong> moda tra<strong>di</strong>zionale.<br />
Innanzitutto il suo rapporto con la modella mi è imme<strong>di</strong>atamente parso inusuale.<br />
Nonostante il gran numero <strong>di</strong> foto scattate, sia in pellicola che in <strong>di</strong>gitale, l’artista<br />
non ha mai dato input alla modella sulla posizione da prendere o sul modo <strong>di</strong><br />
atteggiarsi. <strong>Il</strong> suo obiettivo non era infatti quello <strong>di</strong> ottenere un determinato tipo<br />
<strong>di</strong> immagine, <strong>di</strong> convogliare un messaggio preciso, bensì <strong>di</strong> produrre il più ampio<br />
spettro possibile <strong>di</strong> <strong>immagini</strong> <strong>di</strong>verse. In un certo senso questo atteggiamento<br />
assunto è l’opposto <strong>di</strong> quello tipico del fotografo professionista che lavora cercando<br />
<strong>di</strong> produrre un’immagine conforme ad un’idea, ad un concetto, ad un’immagine<br />
ancora virtuale che ha in testa.<br />
Per quanto riguarda in generale la filosofia comunicativa <strong>di</strong> Piazza Sempione,<br />
la responsabile la definisce come ispirata ad una certa sobrietà ed eleganza, per<br />
colpire un pubblico fatto <strong>di</strong> donne che «non si vestono per gli altri, ma soprattutto<br />
per se stesse». Non sembra esserci quin<strong>di</strong> il tentativo <strong>di</strong> imporre un particolare<br />
ideale <strong>di</strong> donna, ma <strong>di</strong> offrire dei prodotti che vanno bene per qualsiasi donna che<br />
con<strong>di</strong>vida il gusto estetico e la filosofia dell’azienda. L’idea <strong>di</strong> creare una moda<br />
adattabile a molti tipi fisici <strong>di</strong>versi pare un po’ insita nel DNA dell’azienda che,<br />
infatti, nelle prime campagne pubblicitarie, decide <strong>di</strong> non utilizzare delle modelle,<br />
ma donne normali fotografate mentre si trovano al bar per un caffé o camminano<br />
per strada. Successivamente anche Piazza Sempione inizia a lavorare con professioniste<br />
(mai però molto conosciute) sulla base della considerazione che le modelle<br />
hanno un impatto visivo più forte rispetto alle altre donne. Non pare però ci sia il<br />
tentativo <strong>di</strong> imporre un solo ideale <strong>di</strong> bellezza, né tantomeno <strong>di</strong> proporre il <strong>corpo</strong><br />
<strong>di</strong> questo donne in forma oggettificata. Anzi le modelle <strong>di</strong> Piazza Sempione sono<br />
spesso ritratte in situazioni o indefinibili e astratte, oppure in posizioni naturali e<br />
quoti<strong>di</strong>ane.<br />
Nella campagna che abbiamo stu<strong>di</strong>ato, la modella prescelta risponde sicuramente<br />
ai canoni estetici attuali: è molto alta ed esilissima, a tal punto che spesso<br />
occorre puntare i vestiti che indossa con grosse spille da balia per renderli un po’<br />
più aderenti al suo <strong>corpo</strong>. La scelta della modella è stata fatta in collaborazione tra
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la responsabile comunicazione, l’artista e la stylist, una professionista spagnola freelance<br />
che collabora con varie riviste e parecchie aziende milanesi e <strong>di</strong>ce in proposito:<br />
io ho dato dei nomi <strong>di</strong> donne che stavano uscendo, nuove facce [...] in base alle ultime sfilate<br />
che visto [...] io e la responsabile della comunciazione abbiamo deciso quello che<br />
poteva essere meglio in base al prodotto, in base all’azienda 12<br />
Sicuramente la figura della modella è molto elegante, in un certo senso, se<br />
paragonata alle figure ritratte da altre aziende (p. es. Iceberg, un altro «nostro»<br />
caso), una figura anti-glam. D’altra parte queste caratteristiche sono ulteriormente<br />
enfatizzate dal trucco («mi hanno chiesto <strong>di</strong> enfatizzare la carnagione bianca» <strong>di</strong>ce<br />
il truccatore) e dalla pettinatura.<br />
Le fotografie che ne escono sono <strong>immagini</strong> che potremmo definire «molto<br />
tranquille», non <strong>di</strong>ssimili da quelle che tutti potremmo produrre da <strong>di</strong>lettanti,<br />
fotografando i nostri parenti o amici. Infatti, dai focus group realizzati con consumatrici<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>verse fasce <strong>di</strong> età, le pubblicità <strong>di</strong> Piazza Sempione sono molto apprezzate<br />
soprattutto per la loro <strong>di</strong>sponibilità a farsi perni <strong>di</strong> un processo identificatorio.<br />
Sicuramente, al <strong>di</strong> là del maggiore o minore apprezzamento estetico, sembra<br />
esserci accordo tra le consumatrici nel ritenere che l’immagine femminile presentata<br />
<strong>nella</strong> campagna <strong>di</strong> Piazza Sempione sia rispettosa del ruolo della donna e proponga<br />
un modello molto più vicino alla loro realtà rispetto allo standard delle<br />
pubblicità <strong>di</strong> moda:<br />
questa ritrae una persona che potremmo essere tutte noi [...] è una persona normale<br />
qui, <strong>di</strong>etro questa immagine [<strong>nella</strong> pubblicità <strong>di</strong> Piazza Sempione] c’è più considerazione<br />
della donna<br />
lo stile <strong>di</strong> Piazza Sempione si rivolge ad una donna <strong>di</strong> tutti i giorni, che va a lavorare, che<br />
ha del tempo libero [...] comunque una cosa possibile anche per noi.<br />
4.2.2. Gattinoni<br />
IL CORPO SIMULATO 293<br />
Nel caso <strong>di</strong> Gattinoni siamo <strong>di</strong> fronte ad un’azienda che presenta una storia<br />
ed una attuale organizzazione che risultano illuminanti per comprendere meglio la<br />
strategia comunicativa.<br />
12 Interrogata <strong>di</strong>rettamente sul motivo della scelta <strong>di</strong> una modella così magra, la stylist <strong>di</strong>venta<br />
decisamente reticente. Afferma brevemente e senza convinzione che la magrezza non ha pesato sulla<br />
scelta, dovuta invece ad altre caratteristiche. Inoltre sostiene che la ragazza non è assolutamente anoressica,<br />
ma «proprio così <strong>di</strong> natura», un’affermazione che pare smentita dal comportamento della<br />
ragazza a tavola, durante il pranzo a cui noi ricercatrici siamo state invitate. La responsabile della<br />
comunicazione invece è anche lei perplessa <strong>di</strong> fronte alla magrezza della modella: la scelta, riba<strong>di</strong>sce è<br />
stata fatta su suggerimento della stylist tra alternative equivalenti. Nell’immagine finale, tra l’altro, la<br />
figura della modella risulterà solo accennata.
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294<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
Gattinoni nasce infatti come maison <strong>di</strong> alta moda negli anni Quaranta ad<br />
opera della fondatrice Fernanda e si afferma negli anni successivi anche grazie alle<br />
creazioni realizzate per il cinema. <strong>Il</strong> pret-à-porter viene affiancato alla produzione<br />
sartoriale soltanto negli anni Ottanta, quando Raniero Gattinoni (il figlio <strong>di</strong><br />
Fernanda) incomincia a imprimere un nuovo stile creativo ai prodotti trasformando<br />
<strong>di</strong> fatto la maison in un’azienda moderna. Alla scomparsa <strong>di</strong> Raniero, la <strong>di</strong>rezione<br />
artistica della griffe viene affidata ad un giovane creativo venezuelano,<br />
Guillermo Mariotto, che dal 1994 si occupa della creazione <strong>di</strong> tutte le linee<br />
Gattinoni, sia nell’ambito della couture sia nel pret-à-porter, supportato da un efficiente<br />
ufficio stile. Dal punto <strong>di</strong> vista produttivo, l’azienda produce all’interno<br />
solo l’alta moda, mentre le linee del pret-à-porter sono affidate a licenziatari che si<br />
occupano della produzione e della <strong>di</strong>stribuzione dei capi che mantengono il marchio<br />
Gattinoni. Questa struttura organizzativa produce delle conseguenze sull’impostazione<br />
della campagna pubblicitaria, che deve innanzitutto tener conto delle<br />
<strong>di</strong>verse esigenze espresse dalle aziende licenziatarie che <strong>di</strong>fferiscono per modalità<br />
<strong>di</strong>stributive e target <strong>di</strong> pubblico.<br />
<strong>Il</strong> piano <strong>di</strong> massima, come spiega l’art <strong>di</strong>rector responsabile della comunicazione,<br />
è quello <strong>di</strong> arrivare ad avere <strong>di</strong>eci scatti finiti, uno per ogni azienda licenziataria,<br />
e poi <strong>di</strong> organizzare la <strong>di</strong>ffusione delle <strong>immagini</strong> su <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> testate, a<br />
partire dalle riviste specializzate più patinate come «Vogue», «Elle», «Marie<br />
Claire», ai settimanali <strong>di</strong> più larga <strong>di</strong>ffusione come gli allegati del «Corriere della<br />
sera» e «Repubblica», fino a quelli con un target più popolare come «Oggi»,<br />
«Gente», «Chi». La presenza <strong>di</strong> <strong>immagini</strong> delle varie linee sulle riviste è sempre<br />
ragionata in riferimento al target. Naturalmente in sede <strong>di</strong> shooting fotografico, le<br />
foto scattate sono moltissime e l’onere della scelta spetta al <strong>di</strong>rettore artistico che<br />
provvede da solo a questa funzione redazionale:<br />
Oramai dopo tanti anni che faccio questo lavoro, chiaramente, non so come scatta una<br />
molla, per cui [...] <strong>nella</strong> scelta ti colpiscono cinque-sei scatti, che tu metti da parte e [...]<br />
alla fine scegli definitivamente quello che ti sembra il più comunicativo, cioè quello dove<br />
c’è un compromesso tra ciò che tu vuoi [...] mettere [...] e quello che è tutto l’allure della<br />
donna che lo sta indossando [...] <strong>di</strong>ciamo alla fine è un processo quasi magico che, dalle<br />
<strong>di</strong>fficoltà iniziali [...] è quasi un <strong>di</strong>vertimento. Riesci quasi a scegliere una sola immagine e<br />
sei sicuro che comunque è quella l’immagine che volevi.<br />
La scelta dell’immagine da pubblicare viene fatta anche pensando alla consumatrice<br />
finale soprattutto nel senso che la strategia comunicativa, perlomeno per<br />
le linee <strong>di</strong> pret-à-porter, punta a mostrare chiaramente il prodotto. <strong>Il</strong> concetto <strong>di</strong><br />
base è che le <strong>immagini</strong> pubblicitarie possano anche essere usate dalle consumatrici<br />
come idee per abbinamenti e nuovi look, quin<strong>di</strong> quasi con quella funzione<br />
<strong>di</strong>dattica che si trova sottolineata anche in letteratura.<br />
L’immagine pubblicitaria deve comunque scaturire e legarsi a un’idea, a un<br />
tipo <strong>di</strong> ispirazione che, lo ripetono tutti, deve mostrarsi coerente con lo stile e la<br />
filosofia del marchio, oltre che con la creatività dello stilista. In questo caso,
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IL CORPO SIMULATO 295<br />
abbiamo già detto, lo stile <strong>di</strong> Gattinoni sembra a tutt’oggi meglio espresso nell’alta<br />
moda, il settore che autenticamente si lega alla storia dell’azienda. Comunque<br />
anche le linee pret-à-porter si ispirano ad alcuni temi specifici che però <strong>di</strong> solito<br />
tendono ad essere circostanziati e riferiti ad una sola stagione piuttosto che<br />
costanti <strong>di</strong> uno stile che è giunto a maturazione solo nell’alta moda.<br />
Descrivendo l’ispirazione per la campagna da noi stu<strong>di</strong>ata l’art <strong>di</strong>rector <strong>di</strong>ce:<br />
Le campagne nascono da una sinergia, da [...] appunto da un brain storming che [...] solitamente<br />
facciamo insieme [...] chiaramente lui è lo stilista, io mi occupo dell’immagine [...]<br />
il tema <strong>di</strong> quella campagna era un omaggio all’Africa [...] Mariotto si riferisce sempre a dei<br />
temi sociali, quando vuole lanciare un messaggio [...] in questo periodo era molto viva<br />
questa polemica, sulla con<strong>di</strong>zione sociale in Africa e specialmente quella della donna.<br />
Questa tematica segna tutta quanta la collezione 2004, a partire già dalle sfilate,<br />
fino poi alle <strong>immagini</strong> pubblicitarie. Già infatti in sede <strong>di</strong> sfilata, alcuni mesi<br />
prima della realizzazione della campagna, l’Africa aveva costituito il leitmotiv<br />
della comunicazione aziendale, poi recepito e <strong>di</strong>ffuso dalla stampa specializzata.<br />
In quest’ottica si giustifica anche la scelta della modella protagonista della campagna<br />
pubblicitaria: una top model afro-americana (Debra Shaw) <strong>di</strong> cui il <strong>di</strong>rettore<br />
artistico <strong>di</strong>ce:<br />
Fisicamente Debra Shaw ricorda la silhouette degli sketch <strong>di</strong> moda, cioè degli schizzi che<br />
gli stilisti fanno quando iniziano a proporre le collezioni, per cui sono sempre dei <strong>di</strong>segni<br />
un po’ deformati, nel senso che la proporzione è [...] viene un po’ esagerata, [...] queste<br />
figure sono estremamente slanciate e questa donna, <strong>di</strong>ciamo, naturalmente, riprende quei<br />
canoni che sono del <strong>di</strong>segno <strong>di</strong> moda.<br />
Nella campagna da noi stu<strong>di</strong>ata, la figura della modella emerge come un elemento<br />
centrale e caratterizzante nel processo <strong>di</strong> costruzione del messaggio pubblicitario.<br />
Già riflettendo sulle impressioni ricavate sul campo, nelle note prese «a<br />
caldo», avevamo rilevato il ruolo cruciale che la modella assume <strong>nella</strong> realizzazione<br />
degli scatti fotografici. Anche qui, come nel caso <strong>di</strong> Piazza Sempione, il fotografo<br />
fornisce pochissimi input, non impone affatto posizioni o atteggiamenti nel<br />
tentativo <strong>di</strong> ottenere un certo tipo <strong>di</strong> immagine. A <strong>di</strong>fferenza che nel caso <strong>di</strong><br />
Piazza Sempione, però, qui la modella lavora in un modo molto <strong>di</strong>verso, sicuramente<br />
più attivo; per certi versi ricorda ad<strong>di</strong>rittura un’attrice, che posa davanti<br />
alla macchina interpretando a ruota libera dei ruoli che lei stessa si sceglie, assumendo<br />
gli atteggiamenti più vari, quasi stesse recitando a soggetto. Così si ottiene<br />
un «effetto <strong>di</strong>va-figurino» <strong>di</strong> fronte a cui al fotografo è richiesto <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare un<br />
cronista che si limita a riprendere quello che accade, naturalmente cercando <strong>di</strong><br />
valorizzare quel particolare gesto o movimento che ritiene più interessante.<br />
Nella strategia comunicativa <strong>di</strong> Gattinoni si fa riferimento più o meno esplicitamente<br />
ad un certo ideale <strong>di</strong> donna che forse muta, da una campagna all’altra,<br />
ma si esprime sempre entro un quadro <strong>di</strong> coerenza rimasto stabile fin dai tempi
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296<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
della fondazione della maison ad opera <strong>di</strong> Fernanda Gattinoni. La donna<br />
Gattinoni non è però concepita sul modello <strong>di</strong> una donna reale, una che si può<br />
incontrare per strada, che fa una vita normale; al contrario, come afferma il <strong>di</strong>rettore<br />
artistico:<br />
la donna Gattinoni è la donna del sogno [...] le persone ci <strong>di</strong>cono «Ah, ho visto le vostre<br />
cose [...] son le cose che uno sogna che, <strong>di</strong>ciamo, vorrei essere vestita così».<br />
In effetti, guardando le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> Gattinoni, anche i modelli presentati<br />
nelle sfilate oltre che quelli della pubblicità, si coglie una certa allure un po’ fiabesca<br />
che, qualche volta, è dovuta all’ambientazione, ma più spesso (e certo nelle<br />
campagne a sfondo bianco) è dovuta essenzialmente al tipo <strong>di</strong> vestiti e all’interpretazione<br />
delle modelle. È un approccio che si coglie anche andando a rivedere<br />
documenti risalenti alle stagioni passate e che quin<strong>di</strong> emerge come una caratteristica<br />
<strong>di</strong>stintiva <strong>di</strong> un’azienda che affonda le sue ra<strong>di</strong>ci in un passato <strong>di</strong> grandeur, in<br />
cui Fernanda Gattinoni confezionava gli abiti <strong>di</strong> alta moda per celebri attrici e<br />
signore del bel mondo. Siamo molto lontani dal riferimento alle donne normali e<br />
alla loro vita <strong>di</strong> tutti giorni; piuttosto qui la donna vagheggiata è una donna dell’élite<br />
che non deve badare molto alla como<strong>di</strong>tà nel vestire, ma può invece <strong>di</strong>lettarsi<br />
a giocare con la sua immagine. Però, a nostro avviso, non è tanto dalle campagne<br />
pubblicitarie che esce questo ideale femminile. Sicuramente la filosofia estetica <strong>di</strong><br />
Gattinoni ha ancora un suo co<strong>di</strong>ce espressivo preferenziale nell’alta moda, mentre<br />
il pret-à-porter, pure ormai più importante dal punto <strong>di</strong> vista economico, sembra<br />
vivere un po’ <strong>di</strong> luce riflessa.<br />
Nonostante la scelta <strong>di</strong> una top model come interprete, infatti, il fuoco delle<br />
<strong>immagini</strong> pubblicitarie non è sulla donna, ma molto più sui capi <strong>di</strong> abbigliamento.<br />
L’immagine femminile volutamente ricorda i figurini <strong>di</strong>segnati dagli stilisti quando<br />
«schizzano» i nuovi modelli e probabilmente contiene lo stesso messaggio: invita a<br />
guardare appunto i vestiti, il loro taglio, la foggia, i dettagli sartoriali e non tanto a<br />
osservare chi li indossa.<br />
Questo messaggio <strong>di</strong> impersonalità viene recepito anche da parecchie delle<br />
consumatrici intervistate nei focus groups. L’immagine proposta viene percepita<br />
come il ritratto <strong>di</strong> una donna molto lontana dalla quoti<strong>di</strong>anità, che ha un’espressione<br />
fredda, <strong>di</strong>staccata e che quin<strong>di</strong> non invita assolutamente all’identificazione.<br />
D’altra parte le consumatrici si rendono molto bene conto che spesso l’obiettivo<br />
perseguito dalle pubblicità <strong>di</strong> moda non è tanto quello <strong>di</strong> favorire l’identificazione,<br />
ma forse all’opposto <strong>di</strong> incuriosire, «schockare», spesso proprio <strong>di</strong> far sognare<br />
proponendo abiti e personaggi lontani dalla quoti<strong>di</strong>anità. In questo intento la<br />
campagna <strong>di</strong> Gattinoni colpisce nel segno, dal momento che non innesca mai nel<br />
pubblico (almeno <strong>nella</strong> parte da noi intervistata) <strong>di</strong>namiche <strong>di</strong> identificazione.
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4.2.3. Iceberg<br />
IL CORPO SIMULATO 297<br />
Nel caso <strong>di</strong> Iceberg il nostro lavoro <strong>di</strong> ricerca si è svolto utilizzando solo delle<br />
interviste in profon<strong>di</strong>tà, senza il lavoro sul campo <strong>nella</strong> sede dello shooting. La<br />
mancanza <strong>di</strong> questo tassello si riflette nel fatto che le informazioni raccolte su<br />
Iceberg si riferiscono alla loro filosofia <strong>di</strong> comunicazione in generale e alle strategie<br />
utilizzate negli anni per realizzarla e non si focalizzano, come gli altri casi, su una<br />
campagna particolare.<br />
Mentre dunque la parte su Piazza Sempione e Gattinoni si propone <strong>di</strong> ricostruire<br />
il processo <strong>di</strong> produzione specifico della campagna P/E 2004, la trattazione<br />
<strong>di</strong> Iceberg si configura più come una ricostruzione della storia delle campagne<br />
dell’azienda dagli anni Ottanta ad oggi fatta attraverso le parole <strong>di</strong> alcuni personaggi<br />
che ne sono stati i protagonisti. <strong>Il</strong> nostro è quin<strong>di</strong> un racconto <strong>di</strong> secondo<br />
or<strong>di</strong>ne relativo all’elaborazione e allo sviluppo <strong>di</strong> una particolare filosofia <strong>di</strong><br />
comunicazione per <strong>immagini</strong> a cui possiamo aggiungere soltanto un <strong>di</strong>verso punto<br />
<strong>di</strong> vista tratto dai feed back sulle pubblicità <strong>di</strong> Iceberg che abbiamo raccolto<br />
durante i focus groups con le consumatrici.<br />
Dalle parole degli intervistati si ha la netta impressione che la storia del prodotto<br />
Iceberg e la storia della sua comunicazione vadano <strong>di</strong> pari passo. Verso la<br />
fine degli anni Settanta Iceberg si affaccia sul mercato del casual wear con l’idea<br />
assolutamente nuova <strong>di</strong> produrre capi con decorazioni tratte dal mondo dei<br />
fumetti. Occorre precisare che Iceberg è il nome della linea <strong>di</strong> maglieria realizzata,<br />
accanto ad altre linee, dall’azienda Gilmar. Negli anni Settanta, appunto, la cofondatrice<br />
<strong>di</strong> Gilmar, in collaborazione con un giovane stilista francese poi <strong>di</strong>venuto<br />
famoso, Jean Charles de Castelbajac, lancia questa linea <strong>di</strong> maglieria che<br />
abbina dei filati pregiatissimi e innovativi con delle grafiche molto forti e colorate<br />
tratte appunto dai cartoni animati.<br />
Per comunicare questo prodotto così innovativo, viene lanciata all’inizio degli<br />
anni Ottanta una campagna pubblicitaria, anch’essa realizzata sulla base <strong>di</strong> un’idea<br />
del tutto ine<strong>di</strong>ta per i tempi, almeno in Italia. Insieme all’allora semisconosciuto<br />
Oliviero Toscani, la famiglia Gerani decide <strong>di</strong> lanciare una campagna che<br />
ritrae su uno sfondo grigio e piuttosto anonimo una serie <strong>di</strong> personaggi famosi italiani<br />
e stranieri in una sorta <strong>di</strong> «galleria» <strong>di</strong> ritratti (I contemporanei) che comprende:<br />
Andy Warhol, Carla Fracci, Franco Moschino, Vivienne Westwood e altri che<br />
indossano questi capi Iceberg <strong>di</strong>vertenti e per i tempi stravaganti. Uno dei leitmotiv<br />
della collezione e <strong>di</strong> riflesso anche della campagna pubblicitaria è il collegamento<br />
con la pop art, soprattutto quella <strong>di</strong> matrice americana rappresentata da Warhol e<br />
Lichtenstein, quest’ultimo notoriamente molto ispirato dal mondo dei fumetti.<br />
Dopo il grande successo <strong>di</strong> una campagna decisamente alternativa, come<br />
quella dei «contemporanei», l’azienda decide <strong>di</strong> cambiare e sceglie per la comunicazione<br />
una strategia meno <strong>di</strong>rompente, più tra<strong>di</strong>zionale, in apparenza sicuramente<br />
meno rischiosa, dal momento che vengono chiamati fotografi <strong>di</strong> moda affermati<br />
e modelle famose. <strong>Il</strong> risultato però è meno positivo: nel complesso, la comunicazione
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298<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
<strong>di</strong>venta meno <strong>di</strong>stintiva, più banale, in parallelo, va detto, ad una «normalizzazione»<br />
anche del prodotto determinata da vari fattori.<br />
In primo luogo senz’altro il clima culturale e le tendenze estetiche minimaliste<br />
<strong>di</strong> metà anni Novanta non sono in sintonia con un prodotto chiassoso e ironico<br />
come le maglie con i fumetti; inoltre, sul versante interno si sta verificando un<br />
cambio generazionale, con le consegne che passano al figlio dei fondatori.<br />
Insomma nel complesso si assiste ad un periodo un po’ <strong>di</strong> silenzio <strong>di</strong> Iceberg che<br />
non significa necessariamente che il prodotto fosse in crisi <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>te, ma semplicemente<br />
che aveva perso la sua <strong>di</strong>stintività e personalità più autentica e originaria.<br />
Tra la fine degli anni Novanta e il 2000 la strategia comunicativa viene rivista<br />
per renderla adatta alla pubblicizzazione <strong>di</strong> un prodotto profondamente segnato<br />
dalla sua storia. Di nuovo l’idea è quella <strong>di</strong> affidarsi a un grande fotografo che sia<br />
in sintonia e quin<strong>di</strong> sappia interpretare la filosofia del marchio. Viene in<strong>di</strong>viduato<br />
un fotografo americano, David La Chapelle, che era stato lanciato da Andy<br />
Warhol qualche anno prima e si stava affermando come uno dei talenti più originali<br />
<strong>di</strong> questi anni.<br />
La collaborazione tra Iceberg e La Chapelle, durata tre anni, segna profondamente<br />
la storia della comunicazione <strong>di</strong> Iceberg, riportando l’azienda all’avanguar<strong>di</strong>a<br />
delle più recenti tendenze <strong>nella</strong> pubblicità <strong>di</strong> moda. Come accennavo più<br />
sopra, nel campo delle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda è attualmente in atto un processo <strong>di</strong> de<strong>di</strong>fferenziazione<br />
tra pubblicità e redazionali che rende ancora più fitta la sovrapposizione<br />
tra le due forme <strong>di</strong> comunicazione. Tra<strong>di</strong>zionalmente, infatti, lo specifico<br />
del redazionale era appunto quello <strong>di</strong> svolgersi come racconto, <strong>di</strong> procedere<br />
per <strong>immagini</strong> legate in successione da una trama narrativa, al contrario della pubblicità<br />
giocata su <strong>immagini</strong> a sé stanti. Con La Chapelle invece Iceberg incomincia<br />
a fare anche le pubblicità presentandole come dei racconti, puntando molto ad<br />
esempio su ambientazioni accuratamente descritte, ricostruendo scenari adatti ai<br />
personaggi, in una parola, raccontando:<br />
Uno stile <strong>di</strong> vita, perché è importante ragionare entro stili <strong>di</strong> vita, dare dei messaggi chiari<br />
al consumatore <strong>di</strong> chi è il marchio, che vibrazioni emana, eccetera.<br />
Naturalmente, rispetto ai redazionali, si tratta <strong>di</strong> «racconti» <strong>di</strong>versi, perché<br />
<strong>di</strong>verse sono le finalità. Nella fase esplorativa della nostra ricerca, in cui si stava<br />
definendo più chiaramente il progetto, abbiamo condotto anche un piccolo stu<strong>di</strong>o<br />
pilota su un redazionale realizzato per «Io Donna» e uscito nel febbraio 2003.<br />
Avendo assistito allo shooting fotografico, qui svolto in tre giornate, siamo state in<br />
grado <strong>di</strong> fare parecchie osservazioni sul processo <strong>di</strong> costruzione del redazionale,<br />
che sono state molto utili per comprendere, a volte per similitu<strong>di</strong>ne, a volte per<br />
contrasto, le <strong>di</strong>namiche <strong>di</strong> lavorazione delle campagne pubblicitarie.<br />
Mentre in queste ultime la figura più determinante sembra essere quella del<br />
responsabile <strong>di</strong> comunicazione che, <strong>di</strong> fatto, rappresenta l’azienda committente e<br />
quin<strong>di</strong> ha forse un maggior potere decisionale rispetto a tutti gli altri professionisti
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coinvolti, nel caso del redazionale le due figure cruciali sono il fotografo e il/la<br />
fashion e<strong>di</strong>tor che hanno, a nostro avviso, margini <strong>di</strong> libertà decisamente più ampi<br />
pur entro i limiti tracciati a priori <strong>di</strong> solito dal <strong>di</strong>rettore della testata. In questo<br />
contesto è assolutamente essenziale che tra modella e fotografo si instauri un’intesa<br />
tale per cui ciascuno riesce a interpretare i desideri e la personalità dell’altro.<br />
Naturalmente anche qui sono importanti i vestiti, ma ancora più importante è riuscire<br />
a dare l’idea del filo rosso del racconto, in modo forse non <strong>di</strong>ssimile da un<br />
film, ma senza l’aiuto dei <strong>di</strong>aloghi. In tale racconto consiste <strong>di</strong> fatto un significato<br />
(forse il principale) della sequenza visuale proposta, anche se è ovviamente importante<br />
mantenere una coerenza con lo stile della testata.<br />
Invece nel caso della pubblicità strutturata come un racconto, occorre infondere<br />
un significato ulteriore che in questo caso è probabilmente il più importante:<br />
le <strong>immagini</strong> devono esprimere la filosofia del marchio <strong>di</strong> appartenenza, devono<br />
suggerire uno stile <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> cui quel marchio intende farsi portavoce, devono<br />
legarsi alla cultura dell’azienda che le propone. Per questo la trama narrativa risulta<br />
sempre un po’ più debole rispetto ai redazionali e nel complesso le campagne<br />
cosiddette «<strong>di</strong> immagine» sono più <strong>di</strong>fficili da realizzare <strong>di</strong> quelle tra<strong>di</strong>zionali e<br />
implicano maggiore <strong>di</strong>spen<strong>di</strong>o <strong>di</strong> risorse umane e finanziarie.<br />
Ma tornando all’ispirazione pop dell’immagine <strong>di</strong> Iceberg, come si traduce<br />
nelle <strong>immagini</strong> <strong>femminili</strong> proposte nelle campagne? Secondo gli intervistati, la<br />
donna <strong>di</strong> riferimento per Iceberg è giovane (non tanto anagraficamente, ma <strong>di</strong> spirito),<br />
ama il colore e desidera sempre essere alla moda. Per definire l’immagine<br />
femminile <strong>di</strong> Iceberg il titolare dell’azienda ricorre alla metafora delle colonne:<br />
quando mi chiedono chi è Iceberg, io uso sempre <strong>di</strong>re che ci sono quattro [...] colonne<br />
intorno alle quali viene costruita la casa, una colonna <strong>di</strong> Iceberg è certamente l’ essere<br />
sportivo, la seconda colonna è essere colorata, la terza colonna è essere [...] sexy, e la quarta<br />
è un riferimento costante e continuo ad un mondo pop, proprio pop nel senso del termine<br />
pittorico, quin<strong>di</strong> [...] della cultura [...] dell’arte popolare americana, degli anni fine<br />
Cinquanta inizio Sessanta, e quin<strong>di</strong> [...] Che poi la pop si coniuga bene con il colore, quin<strong>di</strong><br />
colore e pop [...] <strong>di</strong>ciamo che sono due pilastri ma potrebbe essere anche un pilastro<br />
unico. Io voglio riuscire a comunicare questo stile qua, a chi sfoglia un giornale.<br />
I suoi riferimenti tendono dunque ad essere piuttosto artistici, mentre l’ex<br />
responsabile della comunicazione esprime idee più definite sulla consumatricetipo<br />
<strong>di</strong> Iceberg:<br />
una donna che si mette una roba <strong>di</strong> Iceberg, cioè delle cose colorate, kitschone, anche se,<br />
per certi versi raffinatissime e con una façon eccezionale, non è evidentemente la stessa<br />
consumatrice <strong>di</strong> Trussar<strong>di</strong>, che è una consumatrice bon-ton, borghese, che è una delle cose<br />
che comunichino un uso rassicurante. Beh, Iceberg è la stessa donna <strong>di</strong> Dolce & Gabbana,<br />
<strong>di</strong> Cavalli, etc. etc.<br />
Tra le consumatrici da noi intervistate nei focus group, le campagne <strong>di</strong> Iceberg<br />
(sono state mostrate principalmente quelle realizzate da David La Chapelle) sono
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state le più criticate, ma sicuramente in vari momenti hanno monopolizzato l’attenzione<br />
delle partecipanti. Se si eccettuano gli apprezzamenti <strong>di</strong> alcune delle<br />
intervistate più giovani, in tutti gli altri casi abbiamo rilevato reazioni forti e spesso<br />
scandalizzate Le <strong>immagini</strong> vengono infatti considerate molto trasgressive e, in<br />
alcuni casi, ad<strong>di</strong>rittura offensive, perché mostrano, secondo alcune, scene situate<br />
in ambienti equivoci, al limite della legalità, popolati da gente un po’ depravata.<br />
Le consumatrici <strong>di</strong> mezza età hanno spesso sottolineato il potenziale <strong>di</strong>seducativo<br />
<strong>di</strong> queste foto, altre si sono soffermate sulla <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> questi stili <strong>di</strong> vita dalla<br />
normalità:<br />
queste <strong>immagini</strong> così trasgressive, però, a furia <strong>di</strong> vederle, ti portano poi ad accettare dei<br />
tipi <strong>di</strong> modelli ai quali tu non eri abituata<br />
allora mia figlia cercherei <strong>di</strong> farla approcciare in modo <strong>di</strong>verso<br />
queste foto mi danno la sensazione <strong>di</strong> gente sporca, <strong>di</strong> gente trasandata, <strong>di</strong> gente scialba<br />
in queste figure la più negativa è quella femminile [...] io sfoglierei le pagine senza nemmeno<br />
soffermarmi perché non c’è niente che personalmente mi possa attirare. Quin<strong>di</strong> anche<br />
se il vestito tolto da questo contesto può essere gradevole, la presentazione è sicuramente<br />
<strong>di</strong> rottura e può essere respingente.<br />
In qualche caso invece le consumatrici hanno apprezzato l’impegno <strong>nella</strong><br />
costruzione delle <strong>immagini</strong> e hanno trovato delle giustificazioni al loro aspetto<br />
così trasgressivo:<br />
questo tipo <strong>di</strong> abbigliamento è decisamente molto teatrale e va bene per uno che ha la<br />
capacità <strong>di</strong> sostenere questo tipo <strong>di</strong> vita<br />
secondo me lo scopo <strong>di</strong> questa pubblicità è <strong>di</strong> farsi guardare nel bene e nel male, perché<br />
noi infatti <strong>di</strong> tutte queste cose stiamo parlando esclusivamente <strong>di</strong> questo Iceberg, perché ci<br />
ha colpito, non in senso positivo, ma ci ha molto colpito. Talvolta la pubblicità serve solo a<br />
quello, a far parlare.<br />
Nel gruppo delle consumatrici più giovani si attenua il tono scandalizzato, ma<br />
lo stesso l’immagine <strong>di</strong> Iceberg non ha molto successo:<br />
questa del film [...] è carina come idea, è bella la fotografia, però secondo me è un po’<br />
troppo manierista, molto pesante, io cambierei subito pagina: troppi colori, troppo spreco<br />
è troppo ricca <strong>di</strong> particolari [...] cioè uno si perde dentro questa foto [...] non è chiara<br />
secondo me per quanto riguarda la composizione dei vestiti.<br />
L’immagine femminile che emerge dalle <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> questi film pubblicitari è<br />
percepita quasi sempre come volgare, un modo <strong>di</strong> ritrarre le donne come se fossero
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veramente degli oggetti, un rilievo che peraltro accomuna Iceberg a Gattinoni,<br />
mentre a salvarsi è veramente solo Piazza Sempione.<br />
V - OSSERVAZIONI CONCLUSIVE<br />
L’iconografia <strong>di</strong> moda svolge un ruolo sociale e culturale che va ben al <strong>di</strong> là<br />
della funzione informativa riguardante i nuovi modelli <strong>di</strong> vestiti e accessori. A <strong>di</strong>fferenza<br />
della pubblicità <strong>di</strong> altri prodotti, che spesso tende a riprodurre modelli e<br />
comportamenti tra<strong>di</strong>zionali e con<strong>di</strong>visi, le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda si propongono<br />
all’opposto come delle idealizzazioni, delle rappresentazioni visive <strong>di</strong> un mondo <strong>di</strong><br />
desideri non sod<strong>di</strong>sfatti, una sorta <strong>di</strong> cristallizzazione <strong>di</strong> possibili aspirazioni più o<br />
meno consapevoli e confessabili. Nell’ambito dell’iconografia pubblicitaria, le<br />
<strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda costituiscono un’area dove è più spiccata la tendenza alla sperimentazione<br />
estetica e dove le suggestioni e i richiami provenienti dal mondo dell’arte<br />
vengono ascoltati e recepiti con grande attenzione. Sicuramente anche <strong>nella</strong><br />
moda l’obiettivo finale è la ven<strong>di</strong>ta dei prodotti e il successo del marchio, ma i<br />
percorsi per raggiungerlo aprono un ventaglio <strong>di</strong> opzioni espressive entro il quale<br />
esercitare, da parte dei professionisti coinvolti, la propria creatività.<br />
Si tratta <strong>di</strong> uno dei settori della fotografia commerciale in cui l’aggancio con il<br />
mercato è volutamente trascurato e tenuto il più possibile nascosto, come <strong>di</strong>mostra<br />
anche la progressiva per<strong>di</strong>ta d’importanza del riferimento al prodotto, forse<br />
l’ultimo legame rimasto con la realtà delle merci. Se è vero, come afferma<br />
McRobbie (1999), che la moda vuole sempre più presentarsi come un mondo vicino<br />
all’arte, questo avvicinamento si sta realizzando anche e forse soprattutto nell’ambito<br />
della fotografia <strong>di</strong> moda.<br />
L’analisi dei processi lavorativi dei produttori <strong>di</strong> <strong>immagini</strong> evidenzia infatti il<br />
criterio estetico come assolutamente predominante nel loro operato, al pari se non<br />
più determinante rispetto alla logica commerciale e <strong>di</strong> marketing. Lavorare alla<br />
pubblicità <strong>di</strong> moda significa dunque de<strong>di</strong>carsi alla produzione <strong>di</strong> un insieme <strong>di</strong><br />
valori che non hanno veramente un aggancio (se non estremamente labile) con i<br />
prodotti, ma che assegnano a questi ultimi o al marchio cui fanno capo un plusvalore<br />
che ha a che fare con idee, filosofie, stili <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> cui l’immagine fornisce soltanto<br />
un accenno, delle suggestioni, senza mai specificarli. E lo fa spesso utilizzando<br />
dei co<strong>di</strong>ci che solo apparentemente sono tratti dalla vita reale: presentando<br />
situazioni, ambienti, persone che non ritraggono davvero il mondo in cui è inserita<br />
la maggioranza dei consumatori, ma al contrario in<strong>corpo</strong>rano degli ideali <strong>corpo</strong>rei<br />
molto estremi o mostrano delle situazioni desiderate dal pubblico, o che il<br />
pubblico dovrebbe desiderare una volta conosciute.<br />
Per quanto riguarda la verifica delle responsabilità, cioè il tentativo <strong>di</strong> stabilire<br />
una authorship delle <strong>immagini</strong>, pensiamo <strong>di</strong> poter concludere che né il fotografo,<br />
né i responsabili della comunicazione, né gli art <strong>di</strong>rector si autopercepiscono come<br />
attori che potenzialmente influenzano l’immagine del self delle consumatrici finali.
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LUCIA RUGGERONE<br />
Pare infatti che il consumatore, o meglio in questa sede, le consumatrici finali<br />
non siano oggetto <strong>di</strong> riflessione; in altre parole la realtà delle donne «normali»<br />
non entra nel processo <strong>di</strong> elaborazione delle strategie alla base delle campagne<br />
pubblicitarie. Ciò che fa da motivo ispiratore sono piuttosto delle tipologie ideali<br />
e stereotipiche <strong>di</strong> donna che vengono assunte come modelli astratti e appunto<br />
idealizzati, forse corrispondenti a quelli che lo/la stilista ha in mente quando <strong>di</strong>segna<br />
i propri capi. Chi fa pubblicità <strong>di</strong> moda non ritiene dunque come proprio<br />
compito riprodurre la realtà o una realtà in cui poi inserire i propri prodotti; <strong>di</strong><br />
fatto mi sembra che si faccia il contrario, cioè che si trasfiguri la realtà facendole<br />
«<strong>di</strong>re» comunicare qualcosa che ha a che fare con l’immaginario a cui si ispira il<br />
prodotto o il brand.<br />
<strong>Il</strong> fatto è che, come è stato ampiamente <strong>di</strong>mostrato, le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda<br />
hanno poi effettive ricadute sulla realtà, quella vera:, in misura sicuramente maggiore<br />
<strong>di</strong> quelle espressioni artistiche a cui forse si ispirano. Perché? In primo<br />
luogo perché, in<strong>di</strong>pendentemente dai desideri degli ideatori <strong>di</strong> queste <strong>immagini</strong>, il<br />
vasto pubblico le percepisce come comunicazione commerciale e pertanto, a <strong>di</strong>fferenza<br />
<strong>di</strong> quanto farebbe <strong>di</strong>alogando con un’opera d’arte, si relaziona ad esse su<br />
un piano <strong>di</strong> senso comune e in base ad un’ipotesi implicita <strong>di</strong> continuità tra le<br />
<strong>immagini</strong> stesse e la vita quoti<strong>di</strong>ana. In altre parole, le <strong>immagini</strong> <strong>di</strong> moda non sono<br />
percepite (né per altro intendono veramente proporsi) come un mondo «altro»<br />
rispetto alla vita quoti<strong>di</strong>ana, ma al contrario come prefigurazione <strong>di</strong> obiettivi e<br />
desideri a portata <strong>di</strong> mano e assolutamente realizzabili. Ma allora le strutture <strong>corpo</strong>ree<br />
specialmente <strong>femminili</strong>, che vengono proposte non possono esser considerate<br />
degli «ideali» nel senso estetico del termine, ma piuttosto dei modelli sociali<br />
che si propongono all’imitazione del pubblico. Sarà anche vero, come <strong>di</strong>cono per<br />
<strong>di</strong>fendersi stilisti, stylist e responsabili della comunicazione, che i vestiti stanno<br />
meglio su un <strong>corpo</strong> snello o filiforme (che non è propriamente ideale, ma soltanto<br />
raro nell’attuale società occidentale), ma è altrettanto vero che quel <strong>corpo</strong> «fa<br />
scuola» soprattutto tra le ragazzine che facilmente vedono in esso il passaporto<br />
per ottenere sicurezza in se stesse, successo, o semplicemente per relazionarsi agli<br />
altri contando su un’apparenza normalizzata nel senso <strong>di</strong> socialmente apprezzata.<br />
Naturalmente sarebbe insensato affermare che la comunicazione <strong>di</strong> moda è il fattore<br />
determinante nel <strong>di</strong>ffondersi <strong>di</strong> anoressia e bulimia; tuttavia ritengo che essa<br />
contribuisca a rendere l’humus sociale più fertile per la proliferazione <strong>di</strong> questi<br />
<strong>di</strong>sturbi sia <strong>di</strong>rettamente, nel mondo delle modelle che lavorano nell’industria<br />
della moda, sia al <strong>di</strong> fuori tra le fasce più influenzabili del pubblico femminile.<br />
Del resto il proporsi come universo <strong>di</strong> desideri realizzabili è essenziale per l’esistenza<br />
stessa dell’industria della moda oltre che <strong>di</strong> quella della cosmesi, un settore<br />
con molti tratti in comune con la moda. Infatti le pubblicità delle aziende <strong>di</strong><br />
entrambi i settori sono sempre giocate sulla promessa più o meno implicita che<br />
acquistando quei prodotti o capi <strong>di</strong> abbigliamento, si riuscirà ad assomigliare alla<br />
figura ritratta o ad adottare il suo stile <strong>di</strong> vita. Come nota molto acutamente<br />
Naomi Wolf nel suo libro The Beauty Myth (1991) quanto più il modello è <strong>di</strong>fficil-
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IL CORPO SIMULATO 303<br />
mente imitabile tanto maggiori saranno le energie che le donne devono sottrarre<br />
ad altre sfere della loro vita per riuscire ad avvicinarvisi. Questo scenario si presta<br />
indubbiamente ad una lettura foucaultiana: infatti, se tale meccanismo funziona,<br />
esso <strong>di</strong>venta ovviamente un potente strumento <strong>di</strong> mantenimento dello status quo<br />
per quanto riguarda la <strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> potere tra universo maschile e universo<br />
femminile. Per questo la continua reiterazione dell’equivalenza della donna con il<br />
proprio <strong>corpo</strong>, cui accennavo nell’introduzione <strong>di</strong> questo articolo, appare «pericolosa»:<br />
non tanto dunque perché sia negativa in sé, quanto perché me<strong>di</strong>ante la<br />
proposizione <strong>di</strong> obiettivi quasi irrealizzabili che l’industria della moda contribuisce<br />
a <strong>di</strong>ffondere, si pongono le con<strong>di</strong>zioni per una permanenza delle donne in<br />
posizione subor<strong>di</strong>nata, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sempowerment.<br />
Inoltre resta il fatto che a tutt’oggi e con rare eccezioni illuminate, le <strong>immagini</strong><br />
create per la pubblicità <strong>di</strong> moda contengono molti richiami ad una sessualità<br />
chiaramente connotata nel genere: per questo mi pare che in fondo la tesi del male<br />
gaze non possa ancora essere del tutto accantonata, ma che al contrario risulti una<br />
chiave interpretativa ancora valida per molti dei messaggi a cui siamo sottoposti. <strong>Il</strong><br />
fatto poi che nelle pubblicità e nei redazionali <strong>di</strong> moda venga sempre più inserita<br />
anche la figura maschile presentata secondo le medesime modalità non smentisce<br />
la tesi del male gaze, come <strong>di</strong>mostra il fatto che questa iconografia ha un vasto<br />
seguito <strong>nella</strong> comunità gay (cfr. Van Zoonen 1994; Joblin 1999).<br />
Se fossi un uomo potrei concludere semplicemente qui; essendo io donna, mi<br />
piace invece concludere riportando un monito che ho trovato in un sito americano<br />
che <strong>di</strong>ffonde tra le donne la consapevolezza delle problematiche che ho trattato<br />
in questo articolo:<br />
«Always remember that the main objective of the fashion, cosmetic, <strong>di</strong>et, fitness and<br />
plastic surgery industries is to make money, not to make you the best person you can possibly<br />
be. The ultra thin ideal is working for them. But is it working for you? »<br />
LUCIA RUGGERONE<br />
Dipartimento <strong>di</strong> Sociologia<br />
Università Cattolica <strong>di</strong> Milano
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