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Anni Ottanta
Italiani
in Libano
Sotto, lo sbarco
dei bersaglieri
del battaglione
Governolo a
Beirut, il 26
agosto 1982.
A destra,
cingolati del
battaglione
San Marco
pattugliano la
spiaggia della
città (sopra,
la bandiera
libanese).
8
Quella di quest’anno è la “terza volta” dei soldati italiani in Libano. Ecco come andarono le missioni di 24 anni fa
Caschi bianchi a Beirut
■ Al-Fatah Acronimo
inverso di Movimento per
la liberazione nazionale
palestinese. Gruppo armato
fondato nel 1959 da
Yasser Arafat e poi confluito
nell’Olp. Fatah vuol dire
“vittoria”.
■ Amal Acronimo di Battaglioni
di resistenza libanese.
Gruppo combattente
sciita nato nel 1975.
■ Drusi Setta islamica
nata in Siria verso il Mille,
che oggi sopravvive quasi
solo in Libano.
■ Fedayin In arabo “devoti”.
Combattenti palestinesi
contro Israele.
■ Kataeb Partito della
destra maronita, fondato
da Pierre Gemayel nel
1936. I suoi miliziani era-
no noti come “falangisti”
(kataeb significa falange).
■ Hezbollah Partito sciita
libanese (letteralmente
“Partito di Dio”) nato nel
1982 e organizzato in
un’ala politica e un’ala
militare, sostenuta e finanziata
da Iran e Siria.
■ Maroniti Cristiani cattolici
libanesi di rito orientale.
Prima della guerra erano la
maggioranza dei libanesi.
■ Olp Organizzazione
per la liberazione della
Palestina, fondata a Gerusalemme
nel 1964.
■ Pla Palestinian liberation
army (“Esercito di liberazione
della Palestina”),
posto sotto il controllo di
diversi Paesi arabi.
GLOSSARIO LIBANESE
■ Sciiti Corrente islamica
che raccoglie il 10%
di tutti i musulmani del
mondo. Di orientamento
integralista, gli sciiti hanno
come loro referente politico
l’Iran (dove sono in
maggioranza).
■ Sunniti Corrente maggioritaria
dell’islam (90%
dei musulmani), che si
contrappone agli sciiti.
Non c’è due senza tre: è passato
quasi un quarto di secolo, ma
in Libano i soldati italiani sono
già sbarcati due volte, entrambe
nell’82. Le missioni di allora, note come
“Libano 1” e “Libano 2”, ebbero durata diversa:
18 giorni la prima, 18 mesi la seconda.
Curiosa coincidenza: anche allora l’Italia
aveva appena vinto la Coppa del mondo
di calcio. E anche allora l’antico Paese
dei cedri aveva appena subìto un’invasione
israeliana ed era ridotto al lumicino. Ma se
il Libano dell’82 era conciato peggio di oggi,
lo doveva soprattutto a una guerra civile
che lo dilaniava da sette anni. Due terzi del
Paese erano ormai un protettorato siriano
e nel terzo restante il governo e l’esercito
libanesi erano poco più che realtà virtuali,
sostituiti di fatto da una quindicina di milizie,
bracci armati di partiti e/o confessioni
religiose. In più, il Paese ospitava migliaia
di profughi palestinesi, pure loro con milizie
armate. Infine, da due mesi a Beirut circolavano
anche le truppe israeliane.
Linea verde. La missione “Libano 1”
nacque da una spinosa situazione che si
era creata proprio a Beirut. Allora il centro
della capitale era diviso dalla Linea verde,
una serie di strade minate che separava
i quartieri cristiani (a est) da quelli musulmani
(a ovest). E all’interno del settore
ovest l’esercito israeliano assediava da settimane
alcuni campi profughi, in cui erano
asserragliati 13 mila palestinesi armati
(i fedayin del Pla filo-siriano e dell’Olp di
Yasser Arafat, v. glossario) spalleggiati da
qualche reparto regolare di Damasco.
Per sbloccare la situazione, tre Paesi occidentali
(Usa, Francia e Italia) si offrirono
di scortare i fedayin e i loro equipaggiamenti
fuori dal Libano. Le parti coinvolte
accettarono: Israele si toglieva una
castagna dal fuoco, i fedayin evitavano
l’onta del disarmo. Per l’Italia era la prima
missione militare all’estero dalla fine
della Seconda guerra mondiale; il compito
fu affidato a 519 bersaglieri del battaglione
Governolo e a 4 navi. Il contingente
(in codice “Italcon”), comandato dall’allora
tenente colonnello Bruno Tosetti, salpò
per Beirut il 20 e 21 agosto.
Carrettini per gelati. Nel lugubre scenario
libanese, l’intervento italiano portò
qualche nota sdrammatizzante ancor prima
di iniziare: subito la Grado ebbe un guasto
in mare; poi, nel porto di Beirut, il portellone
della Caorle si inceppò e dovette essere
aperto a martellate. Il tocco finale fu lo
sbarco sui moli dei bersaglieri, che coi loro
9

Una notte, una pattuglia di bersaglieri fece nascere un bimbo: fu chiamato Governolo Hibrain
Così il Libano è diventato un rebus inestricabile
a carta geografica del LMedio Oriente come la
vediamo oggi, salvo lievi
variazioni, fu disegnata durante
la Prima guerra mondiale,
al Cairo, dal baronetto
inglese Mark Sykes, gran
conoscitore di quelle regioni,
e dal diplomatico francese
François George Picot. Inghilterra
e Francia infatti, in
vista della sconfitta dell’impero
ottomano (alleato di
Austria e Germania), intendevano
spartirsi di comune
accordo quei territori.
Protetti. Gli accordi Sykes-
Picot, del 1916, parlavano di
1985 - Le forze
israeliane attuano
un ritiro parziale,
continuando a
occupare il sud del l
Libano, a ridosso so o
del confine.
“sfere di influenza” dei due
Paesi. Ma poi, nei trattati seguiti
alla guerra tra il 1920
e il 1921, queste presero la
forma di mandati e protettorati,
ricevendo nomi e confini
definiti: Libano e Siria alla
Francia, perché aree con forte
presenza cattolica; Iraq,
Transgiordania e Palestina
all’Inghilterra, che così si
garantiva il controllo di una
fascia che collegava l’Egitto
con il golfo Persico e l’India.
Spartita. Nel 1948, dai
resti del mandato inglese
sulla Palestina nacquero per
iniziativa dell’Onu uno Stato
198 1982 - L’e L’eser sercit citoo iisra
sraeli eliano ano in invad vade e iil
lL l Liba
ib no, arrivando
fino alla capitale Beirut, per porre fine e agl ag i atta attacch
cch c i
dei fedayin fe palestinesi con contro on tro l le su
sue e zone z one ne di d di co confi co nfi nf nfi nf f ne. ne ne. e
Mar
Mediterraneo
Naqoura
Comando
Unifil
ebraico e uno palestinese.
Il primo dovette subito confrontarsi
militarmente con
gli eserciti dei Paesi arabi
confinanti, che avevano rifiutato
la spartizione delle Nazioni
Unite convinti di poter
distruggere il nuovo Stato.
Quando, un anno dopo,
furono firmati gli armistizi,
si vide che Israele aveva
conquistato un’area più vasta
di quella iniziale, l’Egitto
aveva occupato la striscia di
Gaza e la Giordania si era
annessa la Cisgiordania.
Della Palestina non rimaneva
più niente. (f. b.)
Milizie cristiane
Controllo siriano
Controllo israeliano
198 1 2 - La Siria S
ra raf ra r forza la sua s
occ oc o upazionne nel n la valle della d
Be Bek B aa, dove ave av a va postaazioni mis m silistichhe gi già g dal 19776. Anc An A he le milizie m
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200 2 5 - Anche la
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nor nor no nor n d d ddi
i Isra I sra sraele ele ele. Dopo 33 gioorni, l’O l’ nu nu nu nu nu imp impone one one one ne la lla
tregua e disspo ne e l’i l’invi nvi nvio o od o d ddi
i una u un
forza multinnazio
nal nale, e gui gu g dat data da Italia e Fraancia.
elmetti piumati e i loro veicoli verniciati di
bianco, in segno di pace, suscitarono sorrisi
(arabi) e sarcastici commenti (inglesi): il
Times parlò di “fanti con penne di gallina”
e il Daily Mail paragonò i nostri blindati a
“carrettini per i gelati”. Acidissimo fu persino
l’abitualmente impassibile Financial Times,
che ironizzò su due containers “carichi
di pasta” che il Governolo avrebbe avuto
con sé. «I containers c’erano, ma non erano
pieni solo di spaghetti» commenta oggi
il generale Giuseppe Lupo, allora maggiore,
che comandava la Sussistenza. «Avevamo
portato 30 mila razioni di vitto complete,
perché non sapevamo quando avremmo
potuto ricevere rifornimenti. Gli inglesi erano
solo invidiosi, perché poche ore dopo lo
sbarco i bersaglieri avevano già pasti caldi
invece che le solite gallette».
Massacri. Nei giorni successivi il Governolo
dimostrò che non era efficiente solo
in cucina: dal 27 al 31 agosto, con quattro
distinti convogli, scortò fino in territorio siriano
6.509 fedayin, riuscendo a evitare incidenti
con i sospettosissimi israeliani.
Intanto francesi e americani avevano fatto
espatriare via mare gli altri assediati.
Dunque la missione era compiuta e la “triplice
armata” cominciò a ritirarsi. La decisione
(presa dai politici, non dai militari)
si rivelò affrettata, perché appena le navi
straniere sparirono in alto mare Beirut
sprofondò in un gorgo di violenze. Il 14 settembre,
cioè solo tre giorni dopo la parten-
Tutori dell’ordine
Una pattuglia di
paracadutisti incursori
tra i vicoli di Beirut.
Il colore della pace
Bersaglieri con gli elmetti
piumati dipinti di bianco,
in segno di pace.
za del contingente italiano, una bomba uccideva
il neopresidente libanese Bechir Gemayel,
leader del partito della falange cristiano-maronita
(Kataeb).
Anni dopo, le indagini ufficiali indicarono
come responsabile dell’attentato un cristiano
dissidente. Ma al momento i maroniti
puntarono il dito contro i palestinesi e la
sera del 16 settembre scattò la vendetta, che
fu atroce: Sabra e Chatila, due ghetti di Beirut
Sud abitati da profughi palestinesi e presidiati
dagli israeliani, furono accerchiati e
rastrellati dai miliziani falangisti, che per 40
ore uccisero chiunque incontrassero, comprese
donne incinte e neonati. Il numero
delle vittime non fu mai accertato: da 2.750
(fonte Croce Rossa) a 3.500 (fonte Olp).
Potenze impotenti
Palestinesi massacrati dai
falangisti cristiani nei campi
profughi di Sabra e Chatila.
Il macello suscitò indignazione in tutto
il mondo, compreso Israele, le cui truppe
avevano assistito impassibili alla strage, pur
senza prendervi parte. Ariel Sharon, allora
ministro della Difesa, fu costretto a dimettersi.
Intanto in Libano veniva eletto presidente
Amin Gemayel, fratello del leader assassinato.
E dalla Tunisia, sua nuova patria,
Arafat lanciava accuse agli Usa, che si erano
impegnati a difendere i profughi palestinesi,
inermi dopo la partenza dei fedayin.
Marcia indietro. In questo clima rovente,
i governi della “triplice”, rendendosi
conto dell’errore fatto, ordinarono il dietrofront.
Il 26 settembre scattò così l’operazione
“Libano 2”, che vide simbolicamente
impegnata anche l’Inghilterra con un
reparto di 100 uomini. Oltre ai bersaglieri
del Governolo, stavolta Roma mandò anche
i fanti di marina (“marò”) del San Marco,
i paracadutisti della Folgore e altri reparti
di appoggio, in tutto circa 1.200 uomini,
al comando dell’allora colonnello Franco
Angioni.
Ufficialmente lo scopo della nuova missione
era proteggere i palestinesi da nuove
stragi. Ma gli americani si piazzarono fuori
città, a presidio dell’aeroporto, dove di
palestinesi non c’era l’ombra. Il compito
più difficile fu affidato a francesi e italiani:
ai primi toccò il centro urbano, a nord, ta-
10 11

La missione “Libano 2” costò 250 miliardi di lire e impegnò in tutto 12 navi, 583 veicoli e 8.345 soldati. E contò un solo caduto
Primo
soccorso
A destra,
un ufficiale
medico del
battaglione San
Marco e una
crocerossina
aiutano un
piccolo ferito
in un campo
profughi. Sotto,
paracadutisti a
un check-point
di Beirut.
12
Gli Usa nel mirino
L’attentato all’ambasciata
Usa, il 18 aprile, fu rivendicato
dalla Jihad islamica.
Il “mosaico Beirut” nel 1983
Linea verde
Aeroporto
Porto
gliato dalla Linea verde; ai secondi la periferia
sud, un dedalo di casermoni e bidonville,
abitato da 300 mila turbolenti sciiti,
che comprendeva due “isole” palestinesi:
Chatila e Borj el-Barajneh.
Forse Angioni stesso aveva dei dubbi
sulla ripartizione dei compiti, ma non lo
disse mai e si attenne sempre alle consegne
ricevute: presidiare gli accessi ai campi
profughi e pattugliare le strade; ma soprattutto
cercare di stabilire buone relazioni
con la popolazione e osservare una
rigorosa neutralità tra le parti in lotta. Il
suo “ufficio p.r.” fu un ospedale da campo
destinato ai soldati, ma subito aperto anche
ai civili: il bilancio a fine missione fu di
614 visite ai militari e 63.067 ai civili.
Il simbolo vivente di questo rapporto
amichevole fra soldati e abitanti fu un ragazzo
sciita, Mustafà Haoui, che imparò
l’italiano, cominciò a fare da interprete e
finì per diventare la mascotte di Italcon,
tanto che fu “adottato” dal presidente della
Repubblica Pertini e venne poi a studia-
Il presidente Pertini col piccolo
Mustafà, mascotte degli italiani.
re in Italia (oggi fa il tecnico di laboratorio
in un ospedale di Roma). Ma questo idillio
senza nubi durò solo sei mesi.
L’agguato. La sera del 15 marzo 1983,
mentre sotto un tendone Walter Chiari,
giunto dall’Italia, divertiva tutti col suo spettacolo
Il gufo e la gattina, sulla via dell’aeroporto
venne attaccata una pattuglia del San
Marco in ricognizione. Un marò, Filippo
Montesi, fu ferito a morte; altri, benché gravi,
se la cavarono. L’agguato fu rivendicato
da Al-Jihad al-Islami (Guerra santa islamica),
sigla di copertura di gruppi sciiti estremisti,
dissidenti dalla fazione maggioritaria
Amal: in pratica lo stesso “brodo di coltura”
che ha generato gli attuali hezbollah.
Non era che l’inizio: il 18 aprile saltò in
aria l’ambasciata americana (69 morti); il
23 ottobre due attentatori kamikaze fecero
strage nella base dei marines (230 morti)
e in quella dei parà francesi (85 morti).
A firmare i massacri era sempre Al-Jihad
al-Islami. Ma la violenza dilagava ormai
ben al di là degli estremisti, perché sciiti
e drusi preparavano il finale di partita
con Amin Gemayel. I primi combattevano
l’armata governativa per le vie; i secondi
cannoneggiavano Beirut dai monti dello
Chouf, loro roccaforte. Fu allora che i soldati,
tutti volontari di leva, compresero la
pericolosità della situazione: «Ma la paura
c’è solo all’inizio» precisa Adriano Basile,
ex-bersagliere radiofonista e ora pilota
a Gallarate (Va). «Ciò che invece non sparisce
è l’orrore di fronte a certe situazioni:
io non sono mai riuscito a diventare indifferente
ai bimbi orfani di Chatila, che vagavano
senza meta tra le macerie».
Un inferno. Incredibilmente gli italiani
passarono quasi indenni attraverso la
“battaglia di Beirut”, che durò fino al febbraio
’84. Ma non riuscirono a evitare qualche
proiettile vagante. A fine agosto ’83, all’interno
della nostra base scoppiarono ben
420 granate druse, dirette contro una vicina
postazione dei governativi. Fu uno dei momenti
di maggior tensione. Però bastò puntare
contro lo Chouf i cannoni del caccia-
torpediniere Ardito, ancorato al largo, per
convincere i drusi a curare meglio la mira.
Nel bel mezzo di quell’inferno, il 4 novembre
dell’83 arrivò in visita a Italcon
Sandro Pertini. Aveva con sé 100 bottiglie
di lambrusco e 100 panettoni: poca cosa per
gli oltre 2 mila soldati (a tanto assommava
ormai il contingente). Ma più dei panettoni
contò l’ottimismo e la proverbiale insofferenza
per il cerimoniale del presidente della
Repubblica. Pertini esordì gridando “Viva
Mustafà!” all’indirizzo della mascotte del
contingente. Poi volle girare per Beirut senza
giubbotto antiproiettile. Infine, richiesto
di una foto-ricordo, finse di ritrarsi: “Non
sono mica Sophia Loren”.
Beirut insorge. L’ultimo periodo, a cavallo
tra l’83 e l’84, fu il peggiore. Italcon
continuò a presidiare gli ingressi di Chatila,
in gergo “postazioni 22, 23 e 28”, ma ormai
la situazione era degenerata: «Spesso
venivano da noi i guerriglieri sciiti di Amal,
pretendendo di avere i nostri giubbetti antiproiettile»
racconta Alfio Coppi, già caporal
maggiore alla postazione 22 e oggi
assicuratore ad Arezzo. «Furono sempre
respinti, ma a volte fu necessario puntare i
fucili». Poi, il 6 febbraio, tutta Beirut Ovest
insorse contro Gemayel. E i governi occidentali
decisero il ritiro dei contingenti.
“Libano 2” si concluse il 25 marzo 1984
con il rientro dell’ultima compagnia di carabinieri
paracadutisti, rimasta a Beirut
dopo la partenza del grosso delle truppe,
avvenuta 5 settimane prima. Per Angioni
e i suoi militari il bilancio della spedizione
fu positivo. Tutti lo riconobbero, persino i
giornali inglesi. Già nel novembre dell’82,
infatti, il Financial Times aveva corretto il
tiro rispetto alle famose battute sugli spaghetti:
“È voce comune che il contingente
italiano sia il migliore”. E verso la fine della
missione, il 18 febbraio 1984 (quando il
presidio inglese aveva già tagliato la corda
alla chetichella da due settimane) persino
il Times ammetteva: “Nella forza multinazionale
in disfacimento solo gli italiani
mantengono le loro posizioni”.
Politicamente, però, l’intervento occidentale
in Libano si rivelò un fallimento. Amin
Gemayel, il cui potere doveva essere indirettamente
rafforzato dalla presenza della forza
multinazionale, fu battuto dalle milizie druse
e sciite e si ridusse a essere di fatto “il sindaco
di Beirut Est” (definizione del leader druso
Walid Jumblatt). La guerra proseguì fino
all’89, spianando la strada proprio alla soluzione
che l’Occidente tanto paventava: tutto
il Libano finì sotto la tutela siriana (chiesta
dalla Lega araba) fino al 2005. ❏
Nino Gorio
13

QUATTRO DOMANDE AI COMANDANTI DI ALLORA / LIBANO 1
Tosetti: “Non potevamo
rimanere oltre in Libano”
Bruno Tosetti
fu comandante
di “Libano 1”, col
grado di tenente
colonnello.
Oggi è generale
di divisione a
riposo.
14
Italia era da quarant’anni che non
L’ mandava militari all’estero. Perché
cambiò linea, senza neppure un
mandato Onu?
«L’assedio israeliano ai fedayin di
Beirut faceva montare la tensione internazionale,
rischiando di coinvolgere
le superpotenze. Era necessario disinnescare
la mina per evitare una guerra
più ampia nel Mediterraneo. E poiché
un veto Urss bloccava l’Onu, fu stipulato
un accordo diretto col Libano, che legittimava
l’intervento».
La vostra spedizione ebbe successo
e non ebbe né morti né feriti. Ma il
vostro rientro non fu prematuro?
«Noi rientrammo dopo aver concluso la missione, che do-
veva limitarsi allo sgombero dei fedayin da Beirut. Terminato
l’esodo, l’8 settembre il presidente libanese Bechir Gemayel
ci ringraziò e ci disse: “La situazione è sotto controllo,
potete partire”. Così il giorno 11 salpammo; gli americani
erano già partiti il giorno prima».
Però dopo il vostro rientro accadde di tutto: prima l’attentato
a Gemayel, poi le stragi di Sabra e Chatila…
«Esatto. Ma nessuno lo poteva prevedere: tanto meno Gemayel,
che saltò in aria solo tre giorni dopo la nostra partenza,
da lui stesso sollecitata. D’altra parte noi eravamo a Beirut
in virtù di un accordo col governo libanese; quindi non
potevamo restarci contro la volontà di Gemayel: sarebbe stata
un’occupazione».
Ma col senno di poi, non pensa che se i bersaglieri fossero
rimasti tutto ciò si poteva evitare?
«Credo che non sarebbe cambiato nulla. Avevamo un posto
di blocco a 2 km da Chatila, ma poteva essere aggirato:
“Libano 1” non aveva l’incarico di presidiare i quartieri palestinesi.
Aggiungo che il massacro fu compiuto in parte con
armi da taglio; forse non avremmo neppure sentito spari: non
più del solito, almeno». ■
Esodo sotto scorta
I fedayin lasciano Beirut, a
fine agosto del 1982. L’esodo
fu protetto anche dagli italiani.
QUATTRO DOMANDE AI COMANDANTI DI ALLORA / LIBANO 2
Angioni: “L’importante
era ottenere il consenso”
Franco Angioni
fu comandante
di “Libano 2”,
col grado di
colonnello. Oggi
è generale di
corpo d’armata
a riposo.
Èpassato quasi un quarto di secolo.
Quali sono le differenze tra le
due missioni degli Anni ’80 e quella
in corso?
«La differenza principale è nello scenario
politico che sta dietro le missioni.
Allora eravamo in piena guerra fredda,
dietro i siriani e certe milizie libanesi
c’era l’Urss; oggi dietro gli hezbollah
c’è l’Iran. Allora l’intervento era basato
su accordi bilaterali col governo libanese;
oggi invece ci si muove nell’ambito di
una forza Onu».
E le differenze militari? Allora i soldati
erano di leva e tutti maschi; ora sono
professionisti e in parte donne...
«Non è del tutto esatto. Anche allora c’erano donne: 250
infermiere volontarie. Una presenza femminile è molto importante
se si opera in un Paese musulmano. Senza le infermiere
non avremmo mai potuto gestire l’ospedale da campo,
aperto ai civili, che fu una carta vincente per ottenere il consenso
della popolazione».
Fra gli italiani di “Libano 2” ci fu un solo caduto, mentre
francesi e americani ne ebbero decine. Solo fortuna?
«Credo di no: noi cercammo di guadagnarci la fiducia della
popolazione e questo creò un clima di consenso che non eliminò
il rischio terrorismo ma lo attenuò. Del resto, al di là di
questo calcolo, credo che se una missione di pace vuole essere
davvero tale, ottenere un “consenso ambientale” sia un
obiettivo prioritario».
La “strategia del consenso” è stata adottata anche in
Iraq. Ma questo non ha evitato la strage di Nassiriya…
«Benché abbia radici nello stesso fondamentalismo religioso,
oggi il terrorismo è molto diverso dagli Anni ’80. Allora
nasceva da situazioni locali di grave disagio sociale, oggi
da logiche internazionali imprevedibili. Allora i terroristi
erano dei disperati, oggi sono professionisti capaci di pilotare
un aereo difficile come il Boeing 767». ■
Rapporti distesi
Un militare italiano e una
giovane di Beirut. Il nostro
contingente era benvisto.