KUNSTHALLE 1 - 23 ottobre 2010 - Fondazione Antonio Ratti

KUNSTHALLE 1 - 23 ottobre 2010
Transcript di Camilla Pietrabissa, Camilla Querin e Giulia Rosso
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Marco de Michelis
Buonasera. Grazie di essere intervenuti alla prima iniziativa del nuovo progetto della Fondazione Ratti che si
chiama “La Kunsthalle più bella del mondo”. Un titolo un po’ buffo, anche un po’ autoironico, ma che
corrisponde al desiderio di affrontare nell’arco di un biennio le questioni complesse che riguardano il fare
mostre di arte contemporanea nel mondo di oggi. Sembra una cosa semplice e soprattutto sembra una cosa
chiara, ma non è né semplice né chiara. Chi frequenta il mondo dell’arte contemporanea, chi ne visita i musei
e chi va nelle gallerie avrà fatto l’esperienza che io ho fatto spesso negli ultimi anni di entrare in un museo
vedendo una mostra che sembra fatta da una galleria o di entrare in una galleria e di vedere una mostra che
sarebbe stata probabilmente meglio negli spazi di un museo. Ci sono molte questioni, io credo, che possiamo
discutere su questi argomenti cercando una risposta a una provocazione-stimolo-invito che sta all’origine di
questo progetto, e che mi è stata rivolta da Paolo de Santis, che è il Presidente della Camera di Commercio di
Como, il giorno in cui ci siamo incontrati la prima volta, il giorno in cui sono stato nominato Direttore di
questa Fondazione. Paolo de Santis mi aveva detto: “si può fare un centro di arte contemporanea a Como?” e
la mia risposta è stata quella di dire: aiutaci a fare una riflessione sistematica approfondita su questi
argomenti e cercheremo di trovare una risposta. Se tutto andrà bene alla fine di questi due anni avremo una
risposta e un progetto vicinale su cos’è un centro d’arte contemporanea per una città come quella di Como.
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Paolo De Santis
Un saluto breve e una sintetica spiegazione del perché la Camera di Commercio ha lanciato questa sfida con
la Fondazione Antonio Ratti. Da tempo considero ineludibile parlare di arte contemporanea e affrontare il
tema anche in chiave non solo individuale ma collettiva. Si fanno delle cose, ma senza un progetto definito,
una meta a cui ambire tutti quanti insieme, allora durante il nostro primo incontro si è lanciata questa
proposta che combina la capacità della Fondazione Ratti di aprire un dibattito di livello internazionale e
consente a noi come territorio, come microcosmo di catturare qualcosa di significativo per fare qualcosa di
concreto. L’idea è quella di arrivare in fondo a questi due anni di lavoro e di incontri con del materiale che
consenta di dire abbiamo un progetto, un’idea forte, percorribile per dotare la città di Como di uno spazio, di
un centro per l’arte contemporanea. Naturalmente non si hanno le ambizioni che possono avere le metropoli
e neanche sono i modelli Bilbao quelli che ci possono oggi influenzare. Sono modelli diversi, vedremo quali
saranno. Qui l’aspetto non è l’architettonico, non è del contenitore, ma dei contenuti, delle modalità, di come
ci si può porre anche non solo da un punto di vista della costruzione, della redazione di un progetto così, ma
come gestirlo nel tempo, come renderlo attuabile nell’evoluzione che anche i tempi impongono…(esempio
città austriaca)
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Filipa Ramos
Abbiamo deciso di iniziare con la riflessione sui rapporti possibili tra gli spazi per l’arte siano fondazioni,
musei, kunsthalle o qualsiasi altro modello di casa della cultura, di uno spazio specificamente dedicato
all’arte contemporanea, e le città, o i luoghi che le ospitano, proprio per iniziare un pensiero partendo dal
territorio e sulle modalità di collaborazione che possono esistere con questo territorio. abbiamo appunto
scelto persone che dirigono delle istituzioni in cui questo rapporto è piuttosto importante.
[Marta Kuzma e Philippe Pirotte non possono essere presenti come da programma]
Una persona che coordina uno spazio d’arte ma la cui formazione è legata all’architettura, ma che da poco ha
sostituito Daniel Birnbaum nella direzione della Staedtschule a Francoforte e dello spazio espositivo ad essa
associato, il Portikus. poi abbiamo invitato la direttrice e curatrice della Kunsthalle di Zurigo, da sempre una
città che ha un grande dinamismo in tutto il sistema dell’arte da quando lei è diventata direttrice, soprattutto

con un interesse particolare per i giovani accanto ai più affermati. Passando da lì i giovani vengono
conosciuti e il lavoro di Beatrix Ruf ha portato anche un pubblico più giovane alla città di Zurigo attivando
un dialogo nuovo anche con musei e altri spazi. E poi ovviamente Angela Vettese, che non ha bisogno di
presentazioni e che in questo caso abbiamo invitato per la sua attività alla Fondazione Bevilacqua La Masa
che ha un ruolo fondamentale nella città di Venezia, ed è molto curioso riflettere soprattutto sul rapporto coi
locali di Venezia, persone che sono molto abituate all’arte e ad un contatto diretto con essa e che, nel
momento in cui non c’è il grande evento della Biennale, spesso si trovano con un grande vuoto e con
un’assenza di uno stile e attività culturale alla quale sono abituati e formati in quanto abitano in una città che
riceve la più famosa e consolidata di tutte le Biennali mondiali. In questo contesto la Bevilacqua ha un ruolo
fondamentale sia con artisti affermati che nell’attività di dialogo con i giovani, tramite residenze, borse e
mostre. Riesce anche ad arrivare a contesti e tipologie di persone molto diversi.
Darei la parola a NH, che farà quindi l’introduzione, e dopo tutte le presentazioni ci sarà tempo per le
domande.
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Nikolaus Hirsch
From what i understood you are discussing in Como what art institutions or centers are to be in the city, but
i’m trying to address a different perspective on what institutions building actually means. I think it is a
process, not just delivering a product and drop it in the city of Como, it’s an ongoing process that actually
involves many different aspects: spatial or architectural aspects, curatorial practice and last but not least
artistic practice. I think also artists have to play a role in such a process. In the title of tonight’s event was
mentioned the relation between the art institutions and the question of the working city and of course here we
are not just talking about a european topic, i think the increasing production of art institution is a global
phenomenon, and what we have witnessed in the past 10 years it’s certainly a globalization of the question of
the art institution and we are seeing art institutions coming up in cities like Istanbul, through the Biennial, the
construction of art centers that became a spot in the international map of the art world. Places like Dehli,
India, create networks of art institutions also commissioning to famous architects. i will try to focus on a
more european context because in order to understand the process of institution building it makes sense to
look into the european context partly also because there has been a long tradition of the typology of the
Kunsthalle. two example tonight are from germany, and the word “Kunsthalle” of course comes from the
german speaking world, and i want to include also the swiss context. these two processes i’ve been involved
into are: the european Kunsthalle in cologne, which was curated by its first director Nicolaus Schafhausen
who’s now in Rotterdam at Witte De Witt, and the second is the Portikus in Frankfurt, an institution that i’m
starting to run this year, since October 1st. these examples raise very much a question of time cause we
should not discuss a fixed form of a Kunsthalle, it is very much a process that we originate actually. cologne
is a particularly interesting example for me cause it used to be a global center of the art world, really one in
the league of art centers like New York, in the 1960s-70s. with the end of the cold war and also a change of
the artistic production and distribution col really lost its power and attraction. The artworld became
multipolar, multicentered, new institutions are being created and discussions held like here in Como, and of
course a very successful example in terms of attraction, Bilbao, was mentioned before; we could see under
artistic perspective maybe it’s debatable but it is an example of an art center used as a strategic tool to
reactivate a whole city, used almost for urban regeneration. Of course there are much less successful
examples: the national center in sheffield built by Nigel Coates, 11 mln pound, a very spectacular building
that had to close 7 months after its inauguration, because there was no more money for program actually. I
think there’s an interesting relationship between the physical shell, something that is quite stable as a
building, and on the other hand the program, the curatorial approach and the artistic practices that actually
change much faster than the building, so i think there are different speeds that we can actually register in the
discussion on art institutions.
Cologne is very interesting cause it had to react to the change in the artworld, to the increasing amount of art
institutions. So they thought that the traditional model for Kunsthalle from the 1950s is not anymore up to
date, they needed a spectacular building, so they destroyed the old kunsthalle and wanted to build a new one.
In the meantime due to local political discussions and the economic engine, it was private money,
unfortunately the developer went bankrupt and they had already destroyed the old one. For a couple of years
an artists initiative was created, one of them mary takle [?], who actually invented a kunsthalle. as a reaction
to the destruction by the politicians of the city and the situation, what they did was everything in an office, a

small rather invisible space and they were running projects. Starting debate of what can be a kunsthalle
actually. Everyday in a different location a discussion on different topics from artistic practices to the
economic side of a kunsthalle, etc. there was a little attempt to link the discussion on art institution directly to
the given space of the city also to create a link with the city. A year later a temporary exhibition was created
in the existing spaces in the city inviting a couple of artists [?] using 22 spaces that had very different modes
of accessibility from the inner spaces to some that were open 24 hrs like tube stations. We created this
parcour through the city, like the parcour inspired by the path in classic museum, a kind of closed serpent of
a 1 km diameter in the center of cologne. this was not site specific there was a choice made by hans on
spaces he was interested: Lawrence Wiener, Vito Acconci, etc.
The idea was that the kunsthalle could be something also very temporary, bound to interventions and an art
practice in the city could also be based on temporary spaces, very unstable, in a way. This is a practice that
we run over 2 years. it is a model i think very interesting for a kunsthalle trying to become more concrete,
which could also travel to other cities to create great connections. the kunsthalle was also intended as a
research project, as applied research. We looked at different model of kunsthalle and at their cycles. A study
of the Tate Modern from 1991 to 2001 i did with students shows how the exhibition area decreases from
80% of the entire volume to something like 30%. Just trying to exemplify that when we’re talking about a
kunsthalle we’re also talking about programs, curatorial approaches that are in constant flux and change. And
they also have very strong impacts on the architecture, a kind of backlash. So in that case a differentiation of
the program so there are more and more programs being added to art institutions like libraries, bookshops,
cafes, auditorium, little cinemas. Maybe one argument is that they want to sell catalogues for economic
reasons, but artistic practice has also changed, there are artists who use electro as an artistic format, or
streaming became important. There is also this strong perception that artistic practice has had this input and
consequence on art institutions since the practice has diversified.
The Frankfurt kunstverein is another possible example. The difference of the kunstverein to the kunsthalle is
that is based on a system of membership, a very bourgeois idea, the whole institution is run by its members.
in a 10 yrs cycle, we looked at the curatorial impact of the three different directors, to the influence by each
director on the way the space is programmed and how interior architecture is actually used: Peter Weiermair,
Nicolaus Schafhausen and Chuz Martinez. Under the first one, there was an extension of the exhibition space
on the ground floor, so exhibitions were meant to become more public, and show to the exterior. the second
turned this into a cafe to create a more social place. this was also related to practices by particular artists who
were involved in this kind of shows like Liam Gillik. The third extended this space to the outdoor, she was
going beyond the boundaries of the building. Another example is this second space on the first floor which
used to be the library of the kustverein and changed its function multiple times.
Another phenomenon nowadays is that some institutions who are more looking for specific, temporary
architectures being created for a show.
What’s interesting of course is that many artists today are interested in infrastructure. This is an almost
arbitrary selection of artists who created libraries, like Anton Vidokle and Julieta Aranda constructed
together with Martha Rosler a library, Rirkrit Tiravanija’s teahouse, etc. these are architectures but actually
artistic productions not made by architects. So the idea that we propose is to understand the building more
like an exhibition, and a sequence, a growing institution, a consequence of what we saw in the example of
Tate Britain, that an institution changes over time and grows more than a process of accommodation.
We thought that this speculation was also a way to change old models, to question them, to question what
curators, artists, and architects do and to mix them to create also situations that are much more experimental.
This was certainly the idea. But it is quite obvious that most directors who are actually involved in building
processes of a kunsthalle have a very strong impact on architecture, they’re acting almost as architects and
on the contrary many architects behave like curators. Also artists do architectural dimensions. this is a
complicated field but also a really interesting one.
[we did a very quick experiments, these renderings done by me and two colleagues for an exhibition in a
shop in london in connection with a seminar at goldsmiths. the design was made by 6 artists and then...the
format in the fax machine changes every time...]
This was just to introduce the method of the process to think about a kunsthalle, without necessarily coming
up with a final product, because the architecture will inevitably change very quickly. And even if you have a
perfect solution, a perfect small very efficient model, there may be political situations or cultural situation
that might have an effect on the solution that you have found. There’s one more interesting example in
frankfurt, the Portikus, which is a very small kunsthalle connected to an art academy, the Staedtschule, and
an instrument that was created by Kasper Konig in 1987, it’s just one space and highly efficient, with very
international relations established few time later. As it was a very unique, very intelligent model of

kunsthalle it worked very well; the politics in the city sometimes change the model, i will explain why.
Here the main character came from the location. this was a time, the late 80s when Frankfurt was forcefully
trying to be part of the map of the artworld. it was a city that created something like seven or eight museums
at the same time: a museum of modern art, an architecture museum, a film museum, a jewish museum, a
historic museum and many others. at that time kasper konig made this smart and small comment also on this
inflation of museum making with a container behind an existing old porticus. this porticus was the remaining
of the former city library that was destroyed in the Second World War and konig certainly being a person
who from examples like coutoure in munster [?], was very smart and precise in looking for a location, he has
put this very large container behind the porticus. this was a place that was functioning almost 15 years its
success coming from the contribution of daniel Birnbaum.
The last show was instrumentalizing the dismantling of it by Elmgreen and Dragset, actually the walls were
taken apart from this container and this was the end. In the meantime, the politics in Germany was quite
conservative, there were ideas by a few construction companies, they wanted to reconstruct the city library.
they actually had any idea of what the content might be but sometimes the architecture comes first then you
can speculate on the content. So later it was the literature museum. this place was reconstructed and the
portikus as an institution became nomad. there was a new plan to use another building that was not planned
as the portikus for its final destination. so there was an int designed by Tobias Rehberger. artists could be
involved into institution building, what function, whatever, i think it’s a crucial question to what extent
artists are involved in the construction of an art institution. a couple of years later in the middle of an island
in the center of Frankfurt with a roof evoking the medieval past of frankfurt, so it’s a very different image of
the original porticus that was just a container. Here there’s an image of very big windows done by Olafur
Eliasson, a very strong image for the city. it could also be used as a white cube. in fact it is quite similar to
the old one, just that this image of has effects on exhibition making. this is where politics wish to reconstruct,
create a dialogue with formerly medieval time as an impact on the exhibition space, on its proportion,
therefore also on the exhibition as such.
I think i would stop here, there will be much more to discuss.
Many institutions also create archives and industry, the Portikus is just one example, but had in its primal
solutions archive of nearly 40 exhibitions. so i think an institution also compels one to practice its own
history and could also initiate the discussion on it. Mirroring the roof doubles the space. institution building
in that sense has a quite unique potential if taken seriously, not reduceable just to a product. since i’m an
architect my experience but also my practice at portikus tells me that there’s of course more than a finished
product or space. a space has to be filled and also misused in a certain way by artists, by curators, and also by
acknowledgment of a certain history.
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Beatrix Ruf
Thanks for inviting me to Italy, it's very interesting that NH showed the image of the portikus being
dismantled by Elmgreen and Dragset, artists who start exhibition spaces. I'm at kunsthalle zurich since late
autumn 2001 and i had planned a show for e&d for the museum i was working for before that was the
kunsthalle [?] but when i knew i was going to work at kunsthalle zurich which is an institution placed in a
former brewery so one of those art insitutions that took over a space and changed the use of the space i
believe in broierhouse [?] functioning as an artspace not only for the kunsthalle zurich but also for a private
museum and many galleries worldwide, active galleries like hauser&wirth etc, at that time also [?] that was
close to an auction house, the philippe de piri, and a little later, another foundation also a private museum.
A great variety of players you can imagine in the field of contemporary art summoned under one roof. While
i started to work with and for kz i thought not [?] (i forgot to mention, it was 1996 when i moved in there)
between then and 2001 i think the artwork changed quite a bit, there was not only a much wider perception, a
broader audience but the market exploded at the time. Nikolaus also mentioned, artists not only did
exhibition as a format of representation, party life of the artworld had really taken its form until then. Almost
six-seven years of exhibition making in there, i had the feeling when i looked at these spaces that it might be
interesting maybe to just change the role of working through that space. Burgi who was the director before
me, had not been excessively and extensively building and re-building the appearance of the spaces but i felt
very strong that the kunsthalle spaces at the time were from my understanding a little bit too close to the
experience you can do like in the exhibition spaces of the commercial galleries and that had to do with
looking at things in the same direction, and having to do the same movement again and again towards the art.

So i asked e&d if they would rethink the exhibition space as the exhibition and they liked it. We planned
another choreography of the space. The exhibition consisted in taking down only two walls, very automatic
cause, as you can see, the walls were originally black so we got that really nice side effect of the Caspar
David Friedrich drama that was taking down the wall really. The exhibition consisted in the remodeling
which took that long because it included a very precise choreography of how materials that had been taken
out can be placed, and materials for the new wall has to be taken in. what instruments the constructing people
are allowed to use. The interest of the audience was especially to go into the office, beacause not only the
construction site was interesting, but also looking behind the curtain and see the so-called xxx.
Let's now leave the choreography to talk about a few other things. Interestingly, this evening falls into a time
when kz does not have a space because this was the beginning of a very long process of not only thinking at
the institution as something which is not a given reality, but also having to deal with the fact that not only the
artworld had become more and more hype and attractive, but also the real estate in this area had become
continuously more and more expensive. This is the former industrial area ten minutes walk from the station
and the prices are now as high as on Banhof Strasse which is the big shopping street in zurich. The
ownership changed many time and finally six years ago to a bigger company, so we were to rethink what we
were doing there and if we could figure a future for kz and all the other institutions and galleries involved in
that building. What it means if the real estate starts to rent out space to people who just can afford to pay a
higher rent, what it means in terms of quality control of the people and institutions and art spaces in that
building, forming that conglomerate which is a very interesting, fragile and ambiguous conglomerate of art
spaces, if someone just puts a gallery in there which just xxx over.
So we went to the city and asked to find another space and the city of course in a way had kind of an interest
to look into other places in zurich which could be possibly gentrified but the center of zurich is not very big
and the location of an art institution has to be in a critical area. There was not a piece of land that we could
find as a good location. So we stopped to think about buying the building which was a process of very
interesting and very annoying negotiations. After six years it finally came to a positive result which means
that we have to move out because te renovation has started and the building process will also start very soon.
I didn't think so much about talking about the building because I wasn't aware that we were actually talking
about a possible institution being discussed for Como, but there's many interesting things that have been
touched already.
The kunsthaus zurich is based into the art society, then turned into a museum. The kunsthalle Basel and Bern
for example are classical invention of what you mentioned before, ideas of the bourgeois in the nineteenth
century creating a place to show contemporary art when the museum did not have the possibility or the
potential to create space for contemporary art. We had diversified in the last 150 years in that system: there's
a clear differentiation really between the market and the institution. All the institution I met doing the
kunsthalle, art societies also were always part of the gallery system, when I started at the kunsthaus Glarus
they were polite about the fact that most of its budget would come from the annual christmas show were all
the artists sold their works. I wanted to show you some things i've done with artists at kz but I wanted also to
point out a few other things. The kunsthalle to my understanding is nothing that is defined by the fact that it
is called kunsthalle. It's a location, and a locator for something that when you look into a space you have to
look for what is missing so I think the kunsthalles and the kunstvereins are an incredible space of the
remodeled institutional space which gives a political, philosophical, and sociological freedom, one of the
most exciting places I know. I was thinking if the kunsthalle model is still appropriate for our time, and if not
if the museums meanwhile have become so flexible that they could easily integrate what kunsthalle are doing
in their spaces. For now, I would say definitely no. there is no possibility that a museum whatever, could act
as a kunsthalle or kunstverein because there's a critical moment of size that matters, a moment of slenderness
of the machinery which enables an incredible freedom and responsibility, and this continuous remodeling
and reconfiguring. This is something that has to be considered not only as a space for art but also as a space
as a political statement to be done.
I started with the argument that I think that artists have thought a lot and most of my information usually
comes from the artists and I take it very seriously when an artist says that we have to look at what's missing.
At that time, in 2001-2002, when we had the impression that maybe the museum could take over that space
and I looked at what the museums are doing and actually there was a lot missing. They were doing shows in
the contemporary art field under the pressure of an hypeness around contemporary art, they didn't do them
with the relationship with the artists that kunsthalle and independent art spaces had. They were doing them
because they expected the audience to be interested in contemporary art and not to make a statement about
what maybe should be thought about or looked at. They were not doing their shops anymore and looking at
artists who needed a survey of their oeuvres who needed essential catalogues and I looked at exhibition

history. All critique comes out of the idea of what the Kunsthalle should do, it is supposed to look at what
contemporary artists are doing but also at international space. Kz is from 1985, there was no space for a kz
before the mid 80s. The person who founded the kunsthalle Schaffhausen.in Zurich there was a space until a
few years ago. So it was very interesting that there was no place in zurich for contemporary art. At the time
when it was founded it was not only about contemporary art but also as a international statement and
dialogue and exchange. At the same time, they also founded firstly, in a school system, the first frieclasse,
the first academy, educational program for artists and the first artists in residency program which exists in
zurich which is the BINZ39.
Kz is not one of the old traditional institutions that had a long time of experience of reorganizing the space.
It might be interesting to take on the chops to do catalogue raisonneés used to be not very appropriate but
possible artists, i'll give you a few names: Isa Genzken, Sarah Lucas, General Idea, Dominique Gonzalez-
Foerster, Liam Gillik, Philippe Parreno. But we also did shows about themes (examples).
This is another unique aspect of kunsthalles that they don't have to plan the shipping one year in advance, but
can be flexible to the last minute and maybe change the shipping list a week or two weeks before the actual
installation starts. We finish with one project, 'Non solo-Non group show'. This project combines something
which i find very interesting for a kunsthalle because again all the kunsthalle can do it. I invited 4 artists to
do a solo show, asking if they were going to invite other artists and we had about ten works shipped to the
exhibition, all the rest that you see in the show has been produced on site in the exhibition space from the
artist with our technical team in a sequence of 9 days. And it turned into a group show which is not a group
show because it contains non-solo shows and i want to stop here because i think it gives a lot of possible
subtleties and directions these institutions can create. This is not the case in which a curator goes along and
says 'this is what we should do now', it's more about the artists and the production that informs and create the
institution, but it's probably difficult to include in machineries that are big, have to take care of an archive
and heritage, have to create space but not necessarily are able to transform the space all the time.
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Angela Vettese
Sono molto fiera di rappresentare qui un’istituzione che esiste dal 1898, quindi un’istituzione antichissima
che è nata per uno strano motivo. La signora Felicita Bevilacqua, ricca, spostata a La Masa, generale
abbastanza importante ma corrotto, aveva il problema di come portare in alto il nome della sua famiglia. A
lei è sembrato a quel tempo, quindi più di 112 anni fa, che l’arte contemporanea fosse un bel modo per ridare
valore al nome Bevilacqua La Masa. In fondo questa operazione, l’operazione prestigio, è ciò che ancora
stanno perseguendo moltissime case di moda, che si chiamino Prada o Trussardi. O città, mi vengono in
mente le sedi di grandi manifestazioni come Olimpiadi o Expo che si dotano di strutture per l’arte
contemporanea, in generale il caso Bilbao o il caso Tate Modern. Ancora oggi, ma sarebbe meglio dire già
allora, l’arte contemporanea era vissuta come qualcosa che poteva dare prestigio a un luogo e a un nome. Lo
sottolineo perché la signora Felicita vedova la Masa non amava l’arte contemporanea in modo particolare,
non la odiava ma non la amava, non aveva una passione tale da giustificare la creazione di una fondazione
simile. Allora non era una fondazione ma si chiamava Opera ed era all’interno di Ca’ Pesaro, cioè il grande
palazzo sul Canal Grande che però è stato un po’ scippato dal Comune di Venezia e che oggi è la sede del
Museo Civico di Arte Moderna di Venezia. Però in questo scippo sono stati co-resposabili gli artisti che
ritenevano che fosse piuttosto periferico e quindi vollero andare al Lido dove si vendeva meglio.
[Le immagini che vedete scorrere sono le immagini del nostro lavorare].
Più che le mostre mi interessa proprio farvi vedere il lavoro perché ancora oggi la Fondazione Bevilacqua La
Masa si dovrebbe chiamare Opera. L’Opera Bevilacqua La Masa non è una kunsthalle, non è un kunstverein,
non è una kunsthaus. E’un’Opera, un polipo, un luogo dove si lavora in maniera tentacolare in molti luoghi
differenti.
Non ha un’architettura forte e del resto io penso che l’architettura sia spesso un tranello perché abbiamo visto
e lo stiamo per vedere al MAXXi, io credo, poi speriamo invece che sia un’avventura a buon fine, che
l’architettura protagonista, grande, importante può essere veramente limitante per l’arte che poi ci entra. E’
importante a mio avviso poter dare tante possibilità di luogo all’artista che va ad intervenire, quindi non
un’architettura impositiva ma al contrario un’architettura elastica e la possibilità di scegliere location
differenti.
Nel tempo questa istituzione è stata un po’ abbandonata, abbandonata da molti dei presidenti che l’hanno
presieduta, così come l’ultimo al quale io sono succeduta e che si è dimesso e che oggi è il direttore del

MACRO: Luca Massimo Barbero, che si è dimesso dopo relativamente poco tempo di presidenza. E questo
perché, in effetti, è una Fondazione che non ha mai avuto un’identità nazionale. Ha sempre avuto un’identità
locale molto legata a Venezia e il grande nodo di questo luogo, il grande vantaggio visto con gli occhi di
oggi, e il grande svantaggio forse, visto dagli gli occhi degli anni ’80 e 90’, è quello proprio di essere calato
in un contesto profondamente locale, quindi profondamente legato alla vita di Venezia. Il fatto è che poi
Venezia è diventata in questi ultimi dieci anni, molto più che un tempo, un posto che si sceglie, più che non
un posto dove si nasce.
Veneziani si diventa, anche solo per tre mesi, però veneziani sono diventati Pinault o pare che Prada apra
comperando parte di Ca’ Corner della Regina o Bulgari e Gucci.
Chiunque arrivi a Venezia diventa in una certa misura protagonista della vita della città e quindi sempre di
più l’essere locale corrisponde anche un po’ all’essere globale perché essendo un po’ una città
extraterritoriale, essendo un’enclave, non un paradiso fiscale purtroppo, ma un altro genere di paradiso non
del tutto italiano, comunque essendo un’isola ha un suo statuto speciale, ancorché non riconosciuto dalla
legge.
Detto tutto questo per spiegare come sono le dinamiche di Venezia, la città del lusso, della cultura, del
transito e non una città che cade, ma una città semmai che è più vivace delle altre e tende ad aumentare la
propria vivacità proprio perché ha queste caratteristiche che sono state anche aiutate dall’epoca telematica.
Un tempo non poter usare l’automobile era veramente un problema oggi non è più un problema così grave.
Una fotografia la si porta via computer, non c’è più bisogno di portarla a mano.
Certi ostacoli che presentava il fatto che Venezia fosse una città d’acqua sono stati superati.
Detto tutto questo mi spiego meglio nel termine che ho usato prima cioè “polipo”: perché la Bevilacqua La
Masa è un polipo più che una Kunsthalle. Perché ha volutamente tanti generi di attività, che si intersecano fra
loro e che sono programmati come filoni.
Sembra che noi facciamo quasi sempre solo confusione, in realtà c’è una struttura abbastanza precisa sotto la
confusione che facciamo.
La prima, la più ordinata e la più antica delle strutture è la mostra collettiva. La mostra collettiva annuale è
una collettiva open call, vale a dire non una collettiva super selezionata, quindi non una collettiva nella quale
dei critici chiamano degli artisti selezionandoli da un curriculum pregresso ma al contrario una mostra dove
chiunque arriva e porta le opere e poi si giudicano le opere. La cosa più grezza che si possa immaginare in
una mondo dell’arte contemporanea che si è andato raffinando. Però io ritengo che ci sia necessità anche di
questo. Che anche l’artista meno dotato di curriculum e quindi anche l’artista più giovane, più di belle
speranze ma di scarso passato debba poter avere una chance. Poi spesso vengono selezionati artisti che
invece hanno già esposto, ma questo perché in realtà sono più esperti e quindi hanno un tipo di produzione
più matura. Comunque la collettiva è arrivata alla sua novantacinquesima edizione. L’istituzione si è fermata
soltanto durante le guerre. Un po’ come la Biannale di Venezia, la Bevilacqua La Masa ha fatto ogni anno in
maniera molto ordinata e strutturata una mostra collettiva. Nell’ambito di questa mostra collettiva sono state
date sempre delle borse di studio. Il che vuol dire qualche soldo, non molto però sempre quello che oggi va
dai 1000 ai 3000 euro, che è qualcosa, serve per produrre un lavoro. In sostanza è la ricompensa per lo
sforzo, per la fiducia e anche la possibilità di produrre un lavoro.
I borsisti, cioè coloro che vincono un premio hanno anche come premio una mostra. Quindi i quattro borsisti
che ogni anno vincono un premio in denaro hanno anche la possibilità, qualche mese dopo, di fare una
mostra più matura con delle opere normalmente site specific. Le sedi fondamentalmente sono due. Una in
Piazza San Marco, sei stanze in Piazza San Marco, e una in zona Accademia.
L’area in Piazza San Marco è molto white cube, per quanto lo possa essere un luogo a Venezia, cioè non
molto connotato storicamente e invece la sede vicino all’Accademia ed è un palazzetto molto molto
veneziano che non a caso viene sempre scelto dagli artisti che vogliono lavorare in un luogo con
un’atmosfera, con un sapore specifico.
Passiamo quindi alla seconda articolazione che è quella delle mostre in generale dei giovani. Perché oltre alla
collettiva annuale vengono fatte delle mostre di giovani che possono e possibilmente dovrebbero essere a
scambio. Abbiamo fatto la mostra dei ragazzi Ratti l’anno scorso, la mostra di fine corso. Per me
naturalmente è molto emozionante essere qui perché sono stata per nove anni, dal ’95 al 2004, coinvolta nel
corso Ratti, quindi è naturalissimo che laddove io vado a lavorare porti il mio ricordo e il mio splendido
bagaglio maturato qui alla Ratti.
La Ratti è stata una delle strutture con le quali abbiamo collaborato, ma poi ci sono state la Spinola Banna,
piuttosto che l’Università di Weimar, piuttosto che altre accademie dell’area sia lombarda sia veneta.
Poi ci sono, e passiamo ad un’altra articolazione ancora nell’ambito dei giovani, 14 atelier.
Quando sono arrivata erano in fase di restauro, quindi sostanzialmente non ce n’era nessuno, o meglio

c’erano ancora dei ragazzi che vivevano lì però dovevano andarsene, erano in fase di sfratto, e comunque
erano 6. Poi pian piano siamo riusciti ad avere 5 posti nell’isola della Giudecca e 7 posti vicino a San Stae,
sostanzialmente nel centro storico.
Quindi possiamo disporre di 12 atelier, che vuol dire studi d’artista, più 2 appartamenti. In questi 2
appartamenti tendiamo ad ospitare artisti non europei. E’ stato avviato un programma con artisti africani che
si chiama Art Enlosures, in collaborazione con la Fondazione Bancaria di Venezia. Ma desideriamo
ardentemente estendere il programma anche all’Asia.
Dall’altra parte poi ci sono questi 12 atelier dove vengono per un anno a lavorare giovani sui 30 anni e
questo cercando di relazionarci sempre di più con luoghi simili, cioè con residenze per artisti. Relazionarci
vuol dire soprattutto che coloro che curano all’estero e in Italia delle residenze per artisti vengono a vedere e
in qualche modo fanno delle studio visit, cioè aiutano i giovani che lavorano di noi ad essere giudicati,
aiutati, consigliati ed eventualmente anche adottati. Per esempio Antonio Cataldo che è uno degli ultimi
assegnatari dei nostri studi è anche contemporaneamente assegnatario di una residenza a Oslo all’Office for
Contemporary Art dove lavora Marta Kuzma. Quindi ci sono queste relazioni virtuose che sono il risultato
più importante che può ottenere un ragazzo che arriva lì. Lavorare in santa pace è un risultato ma anche
avere delle persone che vengono da fuori e che guardano e che eventualmente adottano ciò che lui fa è un
altro risultato importante.
Un altro filone del lavoro sono le mostre degli artisti cosiddetti importanti, le mostre di mid-career che
servono a dare un prestigio e una visibilità al luogo. Tra gli artisti che abbiamo invitato Marlene Dumas,
piuttosto che Richard Hamilton, piuttosto che Rebecca Horn o Yoko Ono.
Mi è capitato di anche essere molto criticata per queste mostre, però io penso che invece sia importante. Il
fatto che 3 mesi dopo che Richard Hamilton ha fatto la mostra da noi ha avuto il Premio Imperiale, e identico
è successo con Rebecca Horn, e lo stesso è successo con Yoko Ono che ha avuto il Leone d’oro alla carriera
dopo avere messo in agenda la mostra da noi sono cose importanti perché in un certo senso aiutano l’intero
organismo. Non si può fare un organismo per giovani fatto solo da giovani. Laddove ci sono i giovani, per
non fare il ghetto della gioventù è importante anche che ci sia un pubblico che viene a vedere delle cose più
classiche. Il fatto di avere una rassegna stampa così sulla mostra di Yoko Ono porta poi un vantaggio ai
ragazzi giovani che lavorano là dentro. Quindi c’è una circolazione tra visibilità e invisibilità. Il ragazzo che
si affaccia alla carriera artistica è per sua natura abbastanza invisibile ed è importante che ci sia qualcosa che
lo renda visibile al luogo, pur non essendo io una fanatica dei numeri, anzi, penso che i numeri tendano a
distruggere i luoghi, laddove ci si comincia ad incapricciare con i numeri.
Io ho lavorato per esempio alla Galleria Civica di Modena e ogni domenica sera mi arriva il numero dei
visitatori. E sono stata anche contenta perché a modo mio l’ho portata a 70.000 visitatori l’anno e non è
poco. Però alle sei del pomeriggio della domenica ero inquieta perché doveva arrivarmi quel numero, il
numero di visitatori a settimana. Non è importante oltre a un certo limite a meno che non ci si voglia fare del
lucro. Quello poi è un altro problema. Se si vuole guadagnare bisogna avere tanto pubblico, ma se si vuole
fare qualità incapricciarsi e mettersi sulla strada del numero di visitatori può veramente portare ad un
abbassamento della qualità quasi inevitabile.
Andiamo avanti nel tipo di operazioni che vengano fatte da noi. E’ molto significativa l’attività di incontri.
Ogni mercoledì ci sono gli artisti che noi chiamiamo della Maria, perché c’è un’artista che si chiama Maria
Morganti, una bravissima artista che da anni mette insieme artisti che girano per la città, che vanno e
vengono. Noi critici per esempio non abbiamo il permesso di partecipare a questi incontri, quindi noi non
andiamo ai mercoledì della Maria, che sono cose solo per artisti, unicamente per artisti, in cui gli artisti
dibattono con gli artisti, e non c’è praticamente documentazione fotografica, non succede niente di visibile,
c’è solo un dibattito.
Poi ci sono invece dei convegni un po’ più strutturati che sono di solito fatti insieme con l’Università.
Recenti i convegni sull’idea di camouflage, o sull’idea di diafona, adesso ce ne sarà uno sull’idea di volto.
Un’altra cosa che non è proprio un convegno ma ha assunto in certi momenti anche l’aspetto del convegno,
più che altro è una serie ricorrente di conferenze sullo stesso tema, è la serie denominata Tomorrow now.
Cioè, dal libro di Sterling, una serie di incontri sull’idea di cultura digitale. Quindi sono venuti Derrick de
Kerckhove, Lev Manovich … Tanti nomi e anche tanti non nomi, perché, ripeto, la visibilità va su e giù. Ci
può essere il super guru della cultura digitale come Lev Manovich o Derrick de Kerckhove e ci può essere
invece l’artista che si sta affacciando a quel settore e che ha meno successo, ma che ha una dose di creatività
e soprattutto di desiderio sperimentale.
Un altro ambito è quello delle relazioni con altri luoghi. Noi abbiamo fatto per esempio con William
Kentridge una mostra presso la sede vicino all’Accademia, quindi Palazzetto Tito, però contemporaneamente
lui ha concepito per il sipario frangi fuoco del Teatro La Fenice un video e contemporaneamente ha portato

al Teatro Malibran la rappresentazione dell’insediamento Verdi. Quindi uno stesso artista è intervenuto in tre
maniere deiverse, in tre luoghi diversi nella città. Sempre presso il Teatro La Fenice sono intervenuti Jana
Sternbak con una scultura e un video, Jim Hodges con un video fatto presso La Fenice che poi veniva
proiettato alla Fenice, Rebecca Horn con un video risistemato, non fatto ex novo, per la Fenice. Quindi
questo schermo bianco che è il sipario frangi fuoco della Fenice, è diventato anche un luogo per l’arte
contemporanea. Questo significa che la maggior parte dei visitatori della Fenice non se ne accorge, perché
chi va a vedere una Traviata piuttosto che un Don Giovanni non riconosce quello che vede, perché non
capisce che è arte contemporanea e comunque non vuole entrare in quella categoria.
Io questa idea l’ho copiata in realtà da quello che ha fatto Hans Ulrich Obrist a Vienna. Loro coprivano, non
so se lo facciano ancora, il sipario frangi fuoco con un’opera permanente, noi invece proiettiamo dei video.
A me non interessa, come credo che non interessi troppo nemmeno a Vienna, se la gente riconosce o non
riconosce il fatto che sta vedendo dell’arte contemporanea. Mi sembra già molto importante dargliela sotto
dosi omeopatiche. Insomma in qualche modo far entrare un linguaggio nella mente di chi è disposto a vedere
un’opera. Si va a vedere un’opera di musica classica e quindi si è tendenzialmente disposti a vedere qualsiasi
genere di arte. Perché spesso succede che se si dice a una persona, guarda che questa è arte contemporanea,
la persona dice: allora non mi piace.
Molto spesso la categoria di arte contemporanea viene rifiutata in quanto tale. Mentre se si mostra la figura,
il video, l’immagine, questo rifiuto non c’è. Quindi si deve a mio avviso, almeno in Italia, dove siamo meno
educati all’arte contemporanea che non altrove, agire anche in questa maniera.
Un ultimo filone che considero molto importante è quello di relazioni con la città in termini di rilettura della
città stessa. Quindi abbiamo chiamato molti artisti a pensare Venezia. Un grande comunicatore, più che
artista, Wolfgagn Scheppe ha creato una massa immensa di immagini, ha raccolto una quantità di dati, ha
fatto due liebekans alti così in volumi in due tomi di circa 1200 pagine su Venezia oggi, quindi Venezia
come Migropolis, come città della migrazione, Venezia come città non della gente che sta, ma della gente
che va, viene, porta una cultura, se ne riporta un pezzo indietro, crede di comprare un souvenir fatto a
Murano, invece sta comprando un souvenir fatto in Cina. La mattina i marciapiedi di Riva degli Schiavoni
sono tutti pieni di etichette con scritto “Made in China“ che attentamente i venditori delle bancarelle tolgono
la notte verso le quattro. Perché tutti i vetri che noi crediamo essere Made in Murano sono in realtà, per avere
quel prezzo così basso, Made in China.
Una cosa da ripensare è proprio cosa sono diventate le nostre città. Venezia è un prototipo, uno stereotipo, è
un tipo eccellente ma al contempo in qualche modo irripetibile di città europea. Cosa sono diventate città
come Venezia, piuttosto che come Siena, piuttosto che come Parigi, come Londra, che si vanno a visitare in
quanto turisti, sono diventate copie di se stesse, e questo di Venezia lo si dice molto spesso. Venezia è stata
molto copiata, ci sono minimo 10 Venezie in giro per il mondo, più o meno fedeli nella scala 1:1. Sono
diventate copie di se stesse ma sono al contempo diventate anche delle se stesse un po’ diverse. Per esempio
oggi Venezia ha dei confini leggermente differenti, è abitata in aree diverse da quanto non accadeva un
tempo, ma ciò non vuol dire che non sia abitata. Esiste il problema della terra ferma, della gemella diversa
che sarebbe Marghera, del sogno industriale che è stato avviato e che si è spompato per tante volte. E questi
sono i temi che appunto vengono affrontati attraverso mostre esplicite come quella di Wolfgang Shepper in
questa grande occasione che è stata Migropolis, con una risposta della stampa internazionale notevole.
Abbiamo chiamato anche Marjeta Potrc che con un gruppo di studenti è andata all’Isola di Sant’Erasmo che
è l’isola dove normalmente si coltivano le verdure, tradizionalmente era uno dei pochi posti a Venezia dove
si coltivavano gli ortaggi, e ha fatto un lavoro laboratoriale con un’azienda di prodotti bio, quindi ha cercato
di vedere fino a che punto Venezia può essere trasformata, eletta come luogo di produzione di cibo. Cosa che
non è vocazionalmente.
Quindi rileggere cos’è Venezia significa rileggere che cos’è il turismo, che cos’è la migrazione, che cos’è il
rapporto con l’altro, che cos’è la produzione di cibo, che cos’è la sostenibilità. Una bizzarra cosa che è
successa da noi è che Lucy e Jorge Orta hanno potabilizzato l’acqua del Canal Grande lì in galleria. In realtà
io l’ho bevuta però non era potabile, me l’hanno detto dopo. Così abbiamo appestato un po’ lo staff, però
solo lo staff. Comunque era desalinizzata e chiara, quindi si può portare l’acqua del Canal Grande ad essere
desalinizzata e chiara, per la potabilizzazione completa ci vuole un po’ di più. Queste sono quindi le piste
fondamentali che noi seguiamo: i giovani, gli atelier, le mostre degli artisti di mid-career e anche di end of a
big carrer, quindi Yoko Ono, Richard Hamilton non sono naturalmente a metà della carriera, il rapporto con
la Fenice e altri luoghi di Venezia e gli incontri, i momenti di dibattito. Ora forse vi risulta più comprensibile
quando parlo non tanto di luogo quanto di opera e non tanto di sede quanto di polipo, di organismo che cerca
di avere delle articolazioni.
Philip-Lorca diCorcia è venuto da noi portando una metà di una mostra che aveva fatto alla White Chapel di

Londra e noi abbiamo completata questa mostra portando un pezzo di produzione. Lo stesso è successo con
Roni Horn, che ha portando una mostra dal Pompidou riaggiustandola, scegliendo di togliere alcuni pezzi e
di metterne degli altri. Recentemente Jim Hodges ha fatto la stessa operazione, ha portato una stessa mostra
che veniva dal Pompidou rifacendo però un pezzo self specific che era un camouflage su un muro, quindi
una pittura mimetica sul muro di una stanza. E questa stessa mostra che ha fatto Pompidou-Bevilacqua è
andata al Camden Art Centre di Londra. Quindi questo è anche un modo per favorire circolazioni e dialoghi
con istituzioni non enormi, perché chiaramente noi non dialoghiamo con il grande Pompidou ma con il
Cabinet des Dessins del Pompidou.
Allora tutto questo serve, non serve, finora alla città a mio avviso è servito. Bisognerà vedere se da ora in poi
servirà perché con l’arrivo di Palazzo Grassi, con l’arrivo di un nuovo modo di comportarsi, quindi più
aperto alla cittadinanza da parte della Guggenheim Collection, con il desiderio espresso e probabilmente
sempre più vero, nei fatti, della Biennale di Venezia di essere presente continuativamente sul territorio, può
essere che una istituzione come la Bevilacqua La Masa dopo 112 di onorato servizio perda la sua necessità di
esistere. Anche se io penso che invece a questo punto sarà il caso di riposizionarci decisamente sui giovani
perché comunque tutte le entità che ho nominato sono fondamentalmente centrate sulla visibilità e quindi
non sui giovani se non la Biennale in alcuni momenti. Quindi probabilmente sarà, e questo sarà molto
confortevole perchè sarà anche molto piacevole, sarà il caso di rivedere dopo 8 anni il tipo di direzione presa
e spostarci decisamente su una generazione molto giovane, forse diradando le relazioni invece con gli artisti
di mid o end of career.
Mi dispiace aver celebrato la Bevilacqua La Masa, d’altra parte questo era solo un modo per esemplificarvi
cosa intendo io per una kunsthalle che funzioni. Una Kunsthalle che funzioni non è un luogo ma un sistema.
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Questions
Filipa Ramos: More than a question is an advice. I think these 3 presentations were interesting because they
touched a very specific aspect of the relation that a Kunsthalle has with its place and the people that inhabit
the city. [summary of the speakers interventions]
What we're doing here is gathering some reflections on how to do a perfect or ideal Kunsthalle so i would
like to ask the 3 speakers if they could give us a specific advice: before it even exists, what can be done so
that it works, and becomes useful, interesting, stimulating, relation with the city and locals?
BR: As you mentioned is about what is missing. There are so many models, not one perfect or ideal model.
In your introduction, you mentioned the emphasis was on architecture in a way: Bilbao, Gehry, important
architects building for a city. I'm at the moment actually involved in a project where the relationship between
architecture and a program to be developed is in a continuous constructive conflict. Cause physical reality
creates something for a city, not only the city marketing in terms of attraction but also identity. Programming
often is to adopt this given space. What is this so-called neutral space? Can we build a space which is
neutral, flexible? Often the artists say we don't care, we have to react to a space, so there is really no neutral
space. Also, artists often like to encounter characteristic spaces.
You can approach this question from so many different angles, in the end it is about the openness of people
which is created from the sociological context.
NH: Definitely to a certain extent
The decision between the creation of a new space and the use of an existing one is something crucial and one
has to make a close statement. But i also think that architecture cannot come first, but has to create a
dialogue between a group of people, otherwise on starts with grief.
AV: You have to have a place. If i had to give an advice, i would like to have the mayor here, and ask him to
be aware of what is happening at the Ratti Foundation to give it the possibility to intervene in different
places, so that the artists can choose wether to do something in the place that they were given or if they
prefer to do something somewhere else, with the help of the municipality and the territory because what
happens too often is that the foundations are obliged to work in a certain place and after a while both the
artist and the curator or director are bored of the same place, even if every artist is a different one and creates
a different atmosphere. The municipality should be cooperating. For me it has always been a struggle.

MDM: Maybe because I'm an architect I'm convinced that the question is never to design an exhibition
space, but how to use it. Probably also how to transform it through the dialectic between the artist and the
given space. How to use a space also depends on the social, cultural, political context. The Portikus for
instance is a peculiar space because it is young, but it is also linked to a school. I don't know of many good
school that have an exhibition space. What does it mean for Portikus to be part of an art school?
For Beatrix, the kunsthalle, which used to be part of a spacial framework where very different aspects of
contempoary art practices happen, the gallery, the auction house, etc now transform their location totally.
How will the move transform the space and the programs?
BR: the difference will be felt both by the artists who are very excited to work in the new space, and teh
audience which will feel a novelty for the city of Zurich.
Many american universities have an exhibition space.
NH: Yes but it is also very different, because Kaper Konig was able to construct something that was also
very autonomous and not just a backroom of the school practice. But the Portikus would not function so well
without the school because clearly a space that is in dialogue with a school has the students as critical Other.
How to actually construct your family is another crucial question. Anyways, there are so many different
models and an art center is not an abstract idea, something that you just throw on earth, or to Como.
Of course gentrification is a main topic, although overused and often blamed. Art institutions are highly
involved in the real estate.If you look for instance in East London it is quite clear, they have now moved to
the West. The art scene moves for necessity, but there's an interesting economy going on.
[exchange between BR and NH on gentrification]
AV: As a matter of fact, like in Brera, artists would have liked to stay in the area but they cannot afford to
pay the rent any more. It is the same for contemporary art museums, they simply can't afford high prices in
the center of the town, so they have to move, apart from certain cases like Bilbao, where the process was
decided from the top.