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ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 1<br />

ARMI IN PUGNO<br />

di PINO CASAMASSIMA


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 2<br />

PINO CASAMASSIMA giornalista e scrittore di lungo corso,<br />

collabora con la trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni<br />

M<strong>in</strong>oli. Autore teatrale, è stato op<strong>in</strong>ionista del network<br />

statunitense CBS e consulente per Rizzoli. Nella sua bibliografia<br />

compare una vent<strong>in</strong>a di titoli, tra cui Il libro nero delle Brigate<br />

Rosse (Newton&Compton), 68, l’anno che ritorna con Franco<br />

Piperno (Rizzoli) e Il sangue dei rossi. Morire di politica negli anni<br />

Settanta (Cairo). Ha <strong>in</strong>oltre curato Il dizionario della musica<br />

leggera (Le Lettere).<br />

© 2010 P<strong>in</strong>o Casamassima<br />

© 2010 <strong>Stampa</strong> Alternativa/Nuovi Equilibri<br />

Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia.<br />

Il testo <strong>in</strong>tegrale della licenza è <strong>disponibile</strong> all’<strong>in</strong>dirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.<br />

L’autore e l’editore <strong>in</strong>oltre riconoscono il pr<strong>in</strong>cipio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o<br />

direttive che, monetizzando tale servizio, limit<strong>in</strong>o l’accesso alla cultura. Dunque l’autore e l’editore r<strong>in</strong>unciano a riscuotere<br />

eventuali <strong>in</strong>troiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Per maggiori <strong>in</strong>formazioni, si consulti<br />

il sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento <strong>in</strong> biblioteca .


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INTRODUZIONE<br />

La fame, la miseria, l’<strong>in</strong>digenza: altro che Nord Est<br />

dei tanti miracoli. Per decenni i veneti hanno<br />

dovuto lasciare le loro terre e raggiungere il Nuovo<br />

Mondo: quell’America che accoglieva anche<br />

lombardi e friulani, calabresi e pugliesi. Fughe di<br />

stomaci, non di cervelli. Nel suo libro Gli ultimi<br />

veneti, Gianfranco Cavall<strong>in</strong> sostiene che, tra le<br />

regioni del Nord, il Veneto ha subito i maggiori<br />

danni dall’unificazione d’Italia, della quale nel<br />

2011 si celebreranno i 150 anni. Cavall<strong>in</strong> può<br />

sostenere questa tesi perché, <strong>in</strong> effetti, prima del<br />

1861 il Regno Lombardo-Veneto era il più ricco e<br />

prosperoso della penisola, dopo quello delle due<br />

Sicilie. Nell’arco di dieci anni la situazione dei<br />

veneti precipitò drammaticamente: dal 1876 al<br />

1976, cento anni di storia italiana hanno registrato<br />

– <strong>in</strong> una regione che non ha mai superato i c<strong>in</strong>que<br />

milioni di abitanti – l’emigrazione di oltre tre<br />

milioni persone. Trevigiani e veronesi, padovani e<br />

vicent<strong>in</strong>i e veneziani scampati alla povertà<br />

provocata dall’Italia sabauda. Una nuova e<br />

drammatica situazione tratteggiata <strong>in</strong> una<br />

filastrocca che recitava: «Co San Marco comandava/<br />

se sisnava e se senava/ Soto Franza brava gente se<br />

disnava solamente/ Soto casa de Lorena non se<br />

disna e no se sena/ Soto casa de Savoia de magnar<br />

te ga voja».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Il dopoguerra era stato caratterizzato da Porto<br />

Marghera, il polo chimico dest<strong>in</strong>ato a diventare uno<br />

dei siti produttivi più importanti d’Europa, ma, a<br />

partire dagli anni Ottanta, la decadenza della<br />

grande <strong>in</strong>dustria fu compensata da un<br />

esponenziale <strong>in</strong>cremento di piccole imprese. Questa<br />

rivoluzione determ<strong>in</strong>ò <strong>in</strong> breve tempo una crescita<br />

economica formidabile della regione, f<strong>in</strong>o ad<br />

assegnarle il primato economico non solo <strong>in</strong> Italia,<br />

ma <strong>in</strong> tutta Europa, tanto da mutare il Veneto da<br />

terra di emigrazione a terra di immigrazione.<br />

Nell’arco di pochi decenni, il Veneto era dunque<br />

passato dalla miseria alla ricchezza. Nuove<br />

generazioni crescevano <strong>in</strong> un’opulenza senza<br />

memoria, mentre esplodevano <strong>in</strong>evitabilmente<br />

contraddizioni dest<strong>in</strong>ate ad avere <strong>in</strong>quietanti<br />

riverberi politici di natura eversiva e sovversiva.<br />

Ecco perché non raccontiamo solo storie di<br />

crim<strong>in</strong>ali, ma anche di brigatisti, neofascisti e<br />

mafiosi: non mafiosi “importati” dalle regioni del<br />

Sud, Sicilia <strong>in</strong> primis, ma autoctoni con tanto di<br />

nome, come “la mafia del Brenta”. Basta pensarci<br />

per non meravigliarsi. Per non stupirsi che sul<br />

territorio di una regione passata dalla miseria al<br />

primato economico poteva solo germogliare<br />

un’associazione a del<strong>in</strong>quere con tutti i connotati<br />

mafiosi al loro posto. Così come non potevano che<br />

trovare “naturale” sviluppo eccentricità politiche<br />

pericolosissime e devastanti, come i terrorismi di<br />

diversa natura e colore. Nella terra politicamente<br />

“bianca” per eccellenza, hanno così trovato acqua<br />

<strong>in</strong> cui nuotare non solo piovre mafiose, ma anche<br />

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pesci rossi delle Brigate Rosse e seppie plumbee dei<br />

vari ord<strong>in</strong>i nuovi e neri. Tutto ciò contestualmente,<br />

contemporaneamente e specularmente a una<br />

crim<strong>in</strong>alità comune f<strong>in</strong>ita sui giornali con episodi<br />

assolutamente <strong>in</strong>editi per ferocia e amoralità.<br />

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I ROSSI<br />

OPERAZIONE TRAMONTO: E IL VENETO SI RITINSE<br />

DI ROSSO BRIGATISTA<br />

Gald<strong>in</strong>o è <strong>in</strong> pensione da quasi c<strong>in</strong>que anni. Da quando<br />

ha smesso di lavorare, si alza con comodo, ma mai troppo<br />

tardi, e dopo aver fatto colazione con la Rita esce di<br />

casa e <strong>in</strong> pochi m<strong>in</strong>uti raggiunge l’edicola di viale delle<br />

Grazie. Lui abita <strong>in</strong> via Friburgo. Due passi. Prende “Il<br />

Matt<strong>in</strong>o”, il suo giornale da sempre, e poi va al bar, dove<br />

lo aspettano D<strong>in</strong>o, Raniero e il Carletto, il suo ex-collega,<br />

anche lui <strong>in</strong> pensione, ma da più anni, almeno una dec<strong>in</strong>a.<br />

Due commenti sulle notizie del giorno e poi, via con<br />

la briscola. Quella matt<strong>in</strong>a però le discussioni erano state<br />

più lunghe del solito. Sì, perché D<strong>in</strong>o aveva <strong>in</strong>iziato a<br />

pontificare sulle differenze fra la vecchia e la nuova 500,<br />

lanciata sul mercato proprio il giorno prima con una mess<strong>in</strong>scena<br />

spettacolare organizzata dalla FIAT sul Po, ma<br />

poi aveva troncato subito quell’argomento mettendone<br />

sul piatto uno ben più serio: gli arresti avvenuti lì, a Padova.<br />

«Brigatisti».<br />

«Padovani».<br />

«Padovani…».<br />

Il 6 luglio 2007 Padova s’era <strong>in</strong>fatti svegliata con un <strong>in</strong>cubo<br />

che arrivava da lontano, da quando «la città del<br />

Santo» s’era trovata al centro di trame eversive e sovversive.<br />

Un <strong>in</strong>cubo che sembrava non dover più tornare.<br />

E <strong>in</strong>vece… Invece erano stati arrestati due padovani<br />

con l’accusa di appartenere alle nuove Brigate Ros-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

se 1 . Un’altra volta, le nuove Brigate Rosse. Nuove erano<br />

state anche quelle della Lioce, quelle che avevano ammazzato<br />

Massimo D’Antona e Marco Biagi 2 . Adesso ce<br />

n’erano ancora di “nuove”.<br />

«E chi sono questi padovani», aveva chiesto D<strong>in</strong>o. «Il<br />

c<strong>in</strong>quantaduenne Andrea Tonello, detto Zebb, e Giuseppe<br />

Simonetto, che di anni ne ha solo 19», aveva letto a<br />

voce alta Gald<strong>in</strong>o dal giornale. «L’accusa a loro carico è di<br />

concorso esterno <strong>in</strong> banda armata e associazione terroristica,<br />

mentre il troncone dell’<strong>in</strong>chiesta è quello partito il<br />

12 febbraio scorso e che aveva portato all’arresto di qu<strong>in</strong>dici<br />

persone pronte a colpire una sede dell’Eni, il giuslavorista<br />

Piero Ich<strong>in</strong>o, l’abitazione milanese di Silvio Berlusconi,<br />

oltre alla redazione del quotidiano “Libero”: azione<br />

prevista prima di Pasqua».<br />

Quando aveva smesso di leggere, gli amici avevano guardato<br />

Gald<strong>in</strong>o come fosse uno scolaro che non aveva f<strong>in</strong>ito i<br />

compiti. Così era andato avanti e dalle pag<strong>in</strong>e del giornale<br />

erano arrivate le altre <strong>in</strong>formazioni. Agli arresti di Padova –<br />

spiegava “Il Matt<strong>in</strong>o” – si era giunti anche grazie alle dichiarazioni<br />

di uno degli arrestati di febbraio, Valent<strong>in</strong>o Ross<strong>in</strong>.<br />

A febbraio, oltre c<strong>in</strong>quecento poliziotti avevano preso parte<br />

a un’operazione condotta dalle questure di Milano, Tor<strong>in</strong>o<br />

e della stessa Padova che aveva portato all’arresto di<br />

qu<strong>in</strong>dici persone accusate di banda armata: di appartenere<br />

1. Il 6 luglio 2007 f<strong>in</strong>iscono <strong>in</strong> carcere i padovani Andrea Tonello, detto Zebb, 52 anni, e Giuseppe<br />

Simonetto, 19 anni, il primo iscritto alla Cisl, il secondo vic<strong>in</strong>o (secondo gli <strong>in</strong>vestigatori) al Pcdl di<br />

Marco Ferrando e ambedue attivisti del centro sociale “Gramigna”. Questi nuovi arresti allungano la<br />

lista dei presunti militanti dell’organizzazione riconducibile alle vecchie Brigate Rosse Seconda<br />

Posizione. Il 12 febbraio, un’operazione di polizia fra Veneto, Lombardia e Piemonte aveva fatto scattare<br />

le manette attorno ai polsi di qu<strong>in</strong>dici persone.<br />

2. Massimo D’Antona, consulente del M<strong>in</strong>istero del Lavoro del governo D’Alema, fu ucciso il 20 maggio<br />

1999 a Roma. Marco Biagi, che svolgeva la stessa funzione nel governo Berlusconi, fu assass<strong>in</strong>ato il 19<br />

marzo 2002 a Bologna. A compiere i due omicidi, le nuove BR-PCC fra i cui leader spiccava Nadia<br />

Desdemona Lioce.<br />

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cioè alle Brigate Rosse. «Nuove», s’<strong>in</strong>tende. Ora, la storia si<br />

ripeteva con questi nuovi arresti.<br />

Da quel che diceva il giornale, Andrea Tonello, 52 anni,<br />

era accusato di essere stato presente alla collocazione di<br />

armi <strong>in</strong> un casolare nel padovano, oltre ad avere ospitato<br />

nella propria abitazione Lat<strong>in</strong>o e Ghirardi, due degli arrestati<br />

di febbraio. Giampiero Simonetto, che di anni ne denunciava<br />

<strong>in</strong>vece solo 19, si sarebbe reso <strong>disponibile</strong> ad<br />

acquistare munizioni nuove. Fra le armi r<strong>in</strong>venute nel padovano,<br />

una mitraglietta Skorpion, una pistola Sig Sauer<br />

e una carab<strong>in</strong>a W<strong>in</strong>chester provenienti dalla storica colonna<br />

milanese del partito armato, la Walter Alasia 3 : segno<br />

di una cont<strong>in</strong>uità che faceva sbiadire la qualifica di<br />

“nuove” alle attuali Brigate Rosse. A confermare che<br />

quelle armi appartenevano alla Walter Alasia, era stato<br />

Calogero Diana, brigatista condannato all’ergastolo anche<br />

per l’omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo 4 .<br />

Nomi e sigle che <strong>in</strong>somma riportavano <strong>in</strong>dietro le lancette<br />

della storia. Di oltre un quarto di secolo. Cioè, un tempo<br />

precedente alla nascita di quel ragazzo che, a 19 anni,<br />

s’era ritrovato con l’accusa di partecipazione a banda armata<br />

contro i poteri costituiti dello Stato.<br />

Un’altra “Aurora” brigatista<br />

Dopo l’arresto di Mario Moretti ed Enrico Fenzi, avvenuto<br />

a Milano il 4 aprile 1981 mentre tentavano di ricucire<br />

lo strappo con la colonna milanese della Walter Alasia,<br />

s’erano formate due correnti pr<strong>in</strong>cipali <strong>in</strong> seno alle BR:<br />

3. La colonna milanese delle Brigate Rosse era stata dedicata a Walter Alasia, militante ventenne morto <strong>in</strong><br />

uno scontro a fuoco con la polizia avvenuto nella sua abitazione di Sesto San Giovanni il 15 dicembre 1976.<br />

4. Maresciallo degli agenti di custodia del carcere milanese di San Vittore, Francesco Di Cataldo fu<br />

ucciso dalle Brigate Rosse il 20 aprile 1978, a poco più di un mese dal sequestro di Aldo Moro.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

una “movimentista” (BR – Partito della Guerriglia), <strong>in</strong> l<strong>in</strong>ea<br />

col fronte delle carceri e con la colonna napoletana<br />

guidata da Giovanni Senzani, e una “militarista” (BR –<br />

Partito Comunista Combattente), con a capo Barbara<br />

Balzerani. Con la cattura di Senzani nel 1982 – e la conseguente<br />

disgregazione del Partito della Guerriglia – e<br />

con la dissoluzione della Walter Alasia, erano rimaste sulla<br />

scena solo le BR-PCC. Nell’autunno del 1984, però, all’<strong>in</strong>terno<br />

dell’ala militarista, le tensioni <strong>in</strong>iziate tre anni<br />

prima avevano provocato una nuova scissione che aveva<br />

dato orig<strong>in</strong>e da un lato alle Brigate Rosse per l’Unione dei<br />

Comunisti Combattenti o BR-UCC, e dall’altro alla cosiddetta<br />

ala movimentista o “Seconda Posizione”, contrapposta<br />

alla “Prima Posizione” assunta dall’ala militarista,<br />

cioè le BR-PCC.<br />

L’ala movimentista, e qu<strong>in</strong>di le UCC, si porranno <strong>in</strong> azione<br />

soprattutto tenendo conto delle battaglie s<strong>in</strong>dacali. Gli<br />

ultimi fuochi erano stati del 1988, con l’uccisione del professor<br />

Roberto Ruffilli 5 . Poi, per oltre dieci anni non era<br />

più accaduto nulla, f<strong>in</strong>ché nel ’99 i brigatisti avevano colpito<br />

Massimo D’Antona e, nel 2002, Marco Biagi. Responsabili<br />

le BR-PCC della Lioce, legate alla “Prima Posizione”<br />

(ala militarista). Dopo l’annientamento di questo ennesimo<br />

troncone brigatista, era sceso nuovamente il silenzio.<br />

La guerra, questa volta, sembrava davvero f<strong>in</strong>ita. E <strong>in</strong>vece<br />

no, perché il 14 ottobre del 2004 “Panorama” aveva<br />

presentato <strong>in</strong> esclusiva i primi due numeri del “Foglio di<br />

propaganda per la costruzione del Partito Comunista Politico-Militare”<br />

chiamato “Aurora”, che rappresentavano<br />

5. Roberto Ruffilli fu ucciso nella sua casa forlivese da un commando delle Brigate Rosse il 16 aprile<br />

1988. Senatore democristiano ed esperto di riforme istituzionali, Ruffilli era uno stretto collaboratore di<br />

Ciriaco De Mita, il cui governo si era <strong>in</strong>sediato solo pochi giorni prima.<br />

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una sorta di manifesto per la r<strong>in</strong>ascita della lotta armata<br />

nel Nord Italia. Come riferimento, non c’erano però le ultime<br />

BR, quelle della Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi<br />

ormai sconfitte, bensì quelle di “Seconda Posizione”,<br />

secondo le quali la guerra rivoluzionaria <strong>in</strong> Italia andava<br />

centrata <strong>in</strong> modo essenziale, ma non esclusivo, sulla lotta<br />

armata. Per gli <strong>in</strong>vestigatori, i punti di partenza dei<br />

nuovi brigatisti potevano nascondersi dietro due sigle<br />

<strong>in</strong>edite milanesi – il Fronte rivoluzionario per il comunismo<br />

e i Nuclei comunisti rivoluzionari – e si sarebbero<br />

ispirati all’attività della Walter Alasia: quella del s<strong>in</strong>dacalismo<br />

armato, dello scontro nelle fabbriche e <strong>in</strong> tutti i<br />

luoghi di lavoro.<br />

Proseliti nel Veneto<br />

Quando si parla di Brigate Rosse, spesso si pensa erroneamente<br />

a un’entità monolitica, mentre dagli <strong>in</strong>izi degli<br />

anni Ottanta non era più così. Nel corso di quegli anni,<br />

<strong>in</strong>fatti, le BR subirono una serie di scissioni e ricomposizioni,<br />

f<strong>in</strong>o alla suddivisione <strong>in</strong> due filoni pr<strong>in</strong>cipali: militaristi<br />

e movimentisti.<br />

I “militaristi” avevano dato vita alle BR-PCC, delle quali il<br />

gruppo della Lioce e di Galesi erano stati gli ultimi eredi.<br />

Gli altri, <strong>in</strong>vece, erano rimasti <strong>in</strong> disparte per dare nuova<br />

vita alle BR con una l<strong>in</strong>ea molto differente rispetto al<br />

gruppo Lioce-Galesi. L<strong>in</strong>ea che <strong>in</strong>tendeva radicare il progetto<br />

sovversivo all’<strong>in</strong>terno delle lotte sociali e i movimenti<br />

di massa, f<strong>in</strong>o a ipotizzare un doppio livello: azione<br />

legale-clandest<strong>in</strong>a e opera di proselitismo. Nel documento<br />

di “Aurora” era ipotizzata la costituzione di cellule<br />

rivoluzionarie <strong>in</strong> ogni s<strong>in</strong>gola fabbrica. Se cioè i “militaristi”<br />

<strong>in</strong>terpretavano fortemente il loro ruolo di avan-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

guardia, i “movimentisti”, al contrario, volevano far crescere<br />

il sentimento rivoluzionario tra le masse popolari<br />

partendo dal basso: una visione, per quanto settaria, meno<br />

“ortodossa” rispetto al gruppo “militarista” e potenzialmente<br />

<strong>in</strong> grado di raccogliere più consensi, soprattutto<br />

se il sentimento antimperialista (altro possibile collante<br />

rivoluzionario) si fosse ulteriormente rafforzato.<br />

Il gruppo sgom<strong>in</strong>ato a febbraio e i due arrestati di Padova<br />

facevano parte proprio di questo troncone, cioè dell’ala<br />

movimentista, potenzialmente più pericolosa, perché<br />

– contrariamente a quella “militarista”, del tutto isolata<br />

– era fortemente radicata nelle realtà della fabbrica,<br />

del lavoro precario, del s<strong>in</strong>dacato, dei centri sociali. E il<br />

Veneto, come la Lombardia e il Piemonte, era una regione<br />

“privilegiata” per fare proseliti: le stesse BR-PCC della<br />

Lioce avevano tentato di agganciare alcune realtà sovversive<br />

del Nord Est, come i Nuclei territoriali antimperialisti.<br />

Nei file cancellati e poi recuperati dalla polizia<br />

postale <strong>in</strong> casa di C<strong>in</strong>zia Banelli, la brigatista “pentita”<br />

del gruppo della Lioce, erano stati trovati due documenti<br />

che gli <strong>in</strong>vestigatori avevano attribuito ai Nuclei territoriali<br />

antimperialisti del Nord Est, a testimonianza di un<br />

dibattito <strong>in</strong> corso f<strong>in</strong>alizzato ad allargare la base di adesioni<br />

e di militanti delle BR-PCC nel triveneto. Tentativo<br />

poi però abortito con la sconfitta subita nel 2003, ma andato<br />

a buon f<strong>in</strong>e per l’ala movimentista, che nel frattempo<br />

era penetrata <strong>in</strong> questo territorio f<strong>in</strong>o a fare di Padova<br />

una base logistica importante, <strong>in</strong> attesa di identificare<br />

gli elementi sovversivi presenti nel movimento contestativo<br />

che si stava sviluppando a Vicenza per l’allargamento<br />

della base NATO Dal Mol<strong>in</strong>.<br />

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“L’INCIDENTE” DI PADOVA:<br />

IL PRIMO OMICIDIO DELLE BRIGATE ROSSE<br />

Se nel terzo millennio Padova si era ritrovata al centro<br />

dell’<strong>in</strong>teresse degli <strong>in</strong>quirenti per l’ennesima riorganizzazione<br />

delle Brigate Rosse, molti anni prima, precisamente<br />

nel 1974, proprio lì si era consumato il primo omicidio<br />

brigatista. Era <strong>in</strong>fatti il 17 giugno, quando Giuseppe Mazzola<br />

e Graziano Giralucci erano stati uccisi nella sede del<br />

Movimento Sociale Italiano.<br />

Era appena trascorso un mese dal rilascio del giudice genovese<br />

Mario Sossi, liberato dalle BR sano e salvo alla f<strong>in</strong>e<br />

di un lungo e tormentato braccio di ferro con lo Stato, che<br />

aveva dato alla banda armata comunista l’immag<strong>in</strong>e di<br />

banditi gentiluom<strong>in</strong>i, di coloro che erano riusciti a mettere<br />

<strong>in</strong> scacco le forze dell’ord<strong>in</strong>e e a dividere drammaticamente<br />

quelle politiche senza spargere una sola goccia di<br />

sangue. Il rapimento aveva generato immediatamente due<br />

fronti: quello della trattativa e quello dell’<strong>in</strong>transigenza<br />

(come avverrà quattro anni dopo con Moro). Posizioni <strong>in</strong>conciliabili<br />

e perdenti: alla f<strong>in</strong>e, a v<strong>in</strong>cere saranno solo le<br />

BR, che offriranno all’op<strong>in</strong>ione pubblica l’<strong>in</strong>carnazione di<br />

novelli Rob<strong>in</strong> Hood <strong>in</strong> un’escalation di azioni <strong>in</strong> cui non solo<br />

nessuno era morto, ma addirittura senza feriti. F<strong>in</strong>o a<br />

quel momento, f<strong>in</strong>o alla tragedia di Padova, le Brigate Rosse<br />

avevano compiuto solo gesti dimostrativi contro macch<strong>in</strong>e<br />

e fabbriche, ma anche di una certa audacia e consistenza<br />

penale, come i diversi sequestri lampo di capi e capetti<br />

messi a segno su segnalazioni provenienti dall’<strong>in</strong>terno<br />

delle stesse fabbriche. Ora però quei due omicidi denunciavano<br />

un tragico salto di qualità del partito armato:<br />

una nuova fase <strong>in</strong> cui nulla sarebbe più stato come prima.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Vedi alla voce “Primavalle”<br />

Contrariamente a quanto era sempre accaduto, questa<br />

volta le BR non avevano rivendicato l’azione, col risultato<br />

che nelle ventiquattro ore successive (cioè f<strong>in</strong>o all’assunzione<br />

di responsabilità) si era scatenata una ridda di ipotesi<br />

che andavano dalle “fantomatiche Brigate Rosse” 6 alle<br />

piste nere, f<strong>in</strong>o al delirio di un regolamento di conti tra<br />

fascisti. Insomma, le stesse congetture funamboliche e<br />

colpevolmente demenziali avanzate un anno prima con il<br />

rogo di Primavalle 7 , dove due figli di un miss<strong>in</strong>o erano<br />

morti carbonizzati nella loro abitazione. Anche <strong>in</strong> quell’occasione<br />

c’era stato chi – e non certo l’ultimo qualunquista<br />

che passava per strada, ma fior di <strong>in</strong>tellettuali –<br />

aveva avallato la tesi “<strong>in</strong>terna”: cioè che i Mattei avessero<br />

dato fuoco al loro appartamento per far ricadere la<br />

colpa sull’ultras<strong>in</strong>istra, non valutando bene l’impossibilità<br />

di controllare il fuoco e di mettere al riparo tutti i componenti<br />

di una famiglia numerosa. In <strong>alternativa</strong> si diceva<br />

che fossero stati puniti da una faida fascista. Insomma,<br />

come con Primavalle, anche dopo gli omicidi di Padova<br />

erano andati <strong>in</strong> scena stupidari di vario genere e <strong>in</strong><br />

malafede. Il sipario sulle diverse speculazioni era calato<br />

solo quando, f<strong>in</strong>almente, le BR avevano diffuso un comu-<br />

6. F<strong>in</strong>o al sequestro del giudice genovese Mario Sossi, la vera natura delle Brigate Rosse era messa <strong>in</strong><br />

dubbio da più parti. Anche sulla stampa della s<strong>in</strong>istra storica (“L’Unità” e “L’Avanti”) e di quella<br />

“nuova” (“Il Manifesto”, “Lotta cont<strong>in</strong>ua”) erano qualificate come “fantomatiche”, “sedicenti” o<br />

“cosiddette”, se non come veri e propri provocatori, oppure fascisti travestiti o ancora creazioni di<br />

servizi segreti italiani o stranieri.<br />

7. Nella notte del 16 aprile 1973 un rogo sviluppatosi con benz<strong>in</strong>a sparsa sotto la porta<br />

dell’appartamento di Mario Mattei, segretario della sezione miss<strong>in</strong>a del quartiere romano di Primavalle,<br />

uccise due dei suoi sei figli: Virgilio, di 22 anni, e Stefano, di 10. I responsabili – che sul selciato<br />

avevano lasciato una rivendicazione a firma “Brigata Tanas” – saranno identificati <strong>in</strong> Mar<strong>in</strong>o Clavo,<br />

Manlio Grillo e Achille Lollo. Si vedano: Ritratto di un terrorista da giovane di Valerio Morucci (Piemme,<br />

1999), Primavalle, <strong>in</strong>cendio a porte chiuse (Savelli, 1974) e le <strong>in</strong>tervista ad Achille Lollo sul “Corriere<br />

della Sera” del 10 febbraio 2005, a Franco Piperno su “La Repubblica” del 13 febbraio 2005 e a Manlio<br />

Grillo su “La Repubblica” del 17 febbraio 2005.<br />

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nicato <strong>in</strong> cui si assumevano la responsabilità del duplice<br />

omicidio, pur precisando che comunque quelle morti non<br />

volute, erano la tragica conseguenza della reazione <strong>in</strong>consulta<br />

dei due miss<strong>in</strong>i.<br />

Renato Curcio: «Non posso che ribadire quanto detto più<br />

volte e cioè che ciò che accadde a Padova quel giorno<br />

non fu affatto voluto. L’azione di via Zabarella non aveva<br />

niente a che vedere con ciò che le BR stavano facendo,<br />

non rientrava nei nostri piani. Noi ormai puntavamo al<br />

“cuore dello Stato”, cioè alla Democrazia cristiana. Non<br />

solo i fascisti non ci <strong>in</strong>teressavano più perché non li ritenevamo<br />

realmente pericolosi, ma anzi contestavamo a<br />

quelle frange del movimento ancora impegnate nel cosiddetto<br />

“antifascismo militante”, di essere assolutamente<br />

fuori rotta, imbevute di una cultura postbellica tutto<br />

sommato di comodo, arretrata e mascheratrice. Non a<br />

caso, proprio perché non ci apparteneva, fu forte la tentazione<br />

di non rivendicare l’episodio» 8 .<br />

Da parte sua, Mario Moretti dichiarerà: «Non era mai<br />

morto nessuno nelle nostre azioni, ma chiunque non<br />

stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere e che<br />

avrebbe modificato la nostra collocazione. E malauguratamente,<br />

con Padova, lì ci trovavamo. Ne discutemmo.<br />

Considerai un opportunismo <strong>in</strong>tollerabile far f<strong>in</strong>ta di<br />

niente. E pericoloso: cullarsi nell’illusione che stessimo<br />

spensieratamente giocando una partita della quale non<br />

sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volant<strong>in</strong>o<br />

proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo<br />

l’azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la<br />

lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava<br />

8. Dichiarazione resa all’autore.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni successivi<br />

sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritornammo<br />

soltanto nel ‘78» 9 . Insomma, un <strong>in</strong>cidente.<br />

Morire di politica<br />

Ma Giralucci e Mazzola non erano due “<strong>in</strong>cidenti”. Erano<br />

due persone col loro lavoro, i loro affetti, le loro idee. Anche<br />

politiche. Ed era proprio questa la loro “colpa”: quella<br />

di avere una propria identità politica e, peggio, di praticarla<br />

<strong>in</strong> un periodo <strong>in</strong> cui morire di politica era un’eventualità<br />

all’ord<strong>in</strong>e del giorno. Per Mazzola e Giralucci, questa<br />

nefasta “eventualità” si era concretizzata la matt<strong>in</strong>a<br />

del 17 giugno 1974 fra le 9.30 e le 10, quando al numero<br />

24 di via Zabarella che ospitava la sede dell’MSI-DN di Padova<br />

era arrivato un commando brigatista per una “perquisizione<br />

e acquisizione di documenti”: prassi ormai<br />

consueta e collaudata delle BR.<br />

Questa volta, però, qualcosa era andato storto, come<br />

confermerà la ricostruzione fatta <strong>in</strong> un’aula di giustizia<br />

da una componente del commando, Susanna Ronconi:<br />

Mart<strong>in</strong>o Seraf<strong>in</strong>i faceva il palo, Giorgio Semeria guidava<br />

l’auto, la stessa Ronconi era rimasta sulle scale <strong>in</strong> attesa<br />

dei documenti prelevati da mettere <strong>in</strong> una borsa, mentre<br />

Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli erano entrati nella sede.<br />

La settimana prima, <strong>in</strong> visita di ricognizione si era<br />

presentato alla sede del MSI Ognibene che, dando generalità<br />

false e dichiarando la propria simpatia per il MSI, aveva<br />

annunciato la sua prossima iscrizione al partito. Penetrati<br />

dunque all’<strong>in</strong>terno del locali che avrebbero dovuto<br />

“perquisire” con tutta tranquillità perché teoricamente<br />

9 In Brigate rosse, una storia italiana, <strong>in</strong>tervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Anabasi, 1994.<br />

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vuoti, Pelli e Ognibene s’erano trovati <strong>in</strong>vece <strong>in</strong>aspettatamente<br />

al cospetto di due persone: Graziano Giralucci e<br />

Giuseppe Mazzola, entrambi casualmente presenti nella<br />

sede del partito. Un imprevisto di fronte al quale i due<br />

brigatisti avevano reagito estraendo le pistole, una P38 e<br />

una 7,65 con silenziatore, ma Mazzola s’era avventato<br />

contro uno dei due, subito imitato da Giralucci, che però<br />

era stato colpito alla spalla, mentre Mazzola aveva ricevuto<br />

un colpo alla gamba destra. Poi erano stati f<strong>in</strong>iti entrambi<br />

con un colpo alla testa. La rivendicazione – <strong>in</strong> ritardo,<br />

come detto – arriverà con due volant<strong>in</strong>i fatti ritrovare<br />

<strong>in</strong> cab<strong>in</strong>e telefoniche a Padova e Milano, con una telefonata<br />

alla redazione padovana del quotidiano “Il gazzett<strong>in</strong>o”.<br />

Due vie per due vite<br />

Sedici anni dopo, l’11 maggio 1990, i giudici della Corte<br />

d’Assise di Padova avevano condannato i responsabili di<br />

quegli omicidi a queste pene: Roberto Ognibene a diciotto<br />

anni di reclusione, Susanna Ronconi e Giorgio Semeria<br />

a nove anni e sei mesi, Mart<strong>in</strong>o Seraf<strong>in</strong>i a sei anni, un mese<br />

e dieci giorni. Fabrizio Pelli era <strong>in</strong>tanto morto <strong>in</strong> carcere<br />

nel 1979 per leucemia. Contro la sentenza avevano presentato<br />

appello sia il pubblico m<strong>in</strong>istero che la difesa.<br />

Il processo di secondo grado si era aperto il 20 novembre<br />

1991 di fronte alla Corte d’Assise di Venezia e il 9 dicembre<br />

dello stesso anno Susanna Ronconi, Giorgio Semeria e Mart<strong>in</strong>o<br />

Seraf<strong>in</strong>i si erano visti convertire la condanna <strong>in</strong> concorso<br />

pieno <strong>in</strong> duplice omicidio rispetto al concorso anomalo<br />

del primo grado. Semeria e Ronconi avevano così ricevuto<br />

dodici anni di carcere, Seraf<strong>in</strong>i sette anni e sei mesi,<br />

mentre a Ognibene era stata confermata la pena di di-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ciotto anni: tutte pene <strong>in</strong>asprite, qu<strong>in</strong>di, rispetto al primo<br />

grado. Seraf<strong>in</strong>i aveva ottenuto la grazia nel luglio 1992, ma<br />

il 1° agosto era stato riarrestato per scontare due anni e<br />

mezzo di pena residua. Susanna Ronconi e Giorgio Semeria<br />

avevano poi usufruito della semilibertà, mentre Roberto<br />

Ognibene aveva goduto dei benefici dovuti alla legge sui<br />

dissociati ed era stato assunto dal Comune di Bologna.<br />

E le famiglie delle vittime All’epoca dei fatti, Piero, figlio<br />

di Giuseppe Mazzola, era stato assunto come assistente di<br />

diritto costituzionale all’Università di Padova dopo aver<br />

v<strong>in</strong>to il concorso <strong>in</strong> marzo. Quella matt<strong>in</strong>a stava facendo<br />

lezione <strong>in</strong> via del Santo quando il preside lo aveva avvertito<br />

che era accaduto qualcosa alla sede del Movimento Sociale,<br />

dove suo padre svolgeva mansioni di contabilità.<br />

«In pochi istanti sono arrivato al numero 24 di via Zabarella.<br />

C’era tanta gente, erano già sul posto mia sorella,<br />

mia madre e uno dei miei fratelli, che mi ha detto: “Hanno<br />

sparato a papà”. Abbiamo lasciato la mamma sul portone<br />

dello stabile e siamo saliti. Non dimenticherò mai la<br />

scena. Sullo scal<strong>in</strong>o davanti alla porta del partito c’era il<br />

corpo di Graziano, riverso, immobile. Poco più <strong>in</strong> là, dietro<br />

una scrivania, mio padre. Ricordo di avergli messo le<br />

mani <strong>in</strong>torno alla nuca e poi più niente: un senso di gelo<br />

assoluto <strong>in</strong> quella giornata calda. Soltanto a casa, dopo<br />

ore, mi sono accorto che avevo le mani piene di sangue.<br />

Ricordo quel gelo, come di ibernazione, che mi prende<br />

ancora quando ci penso, e lo sgomento, e l’angoscia, e<br />

mia madre che nella sua <strong>in</strong>f<strong>in</strong>ita tristezza non piange,<br />

perché non ha lacrime, e meccanicamente mette <strong>in</strong> ord<strong>in</strong>e<br />

le cose di mio padre, sì, per l’ultima volta...» 10 .<br />

10. Dichiarazione resa all’autore.<br />

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Giuseppe Mazzola aveva sessant’anni, era un carab<strong>in</strong>iere<br />

bergamasco <strong>in</strong> pensione. In Calabria, dove aveva prestato<br />

servizio agli <strong>in</strong>izi, aveva conosciuto e sposato Giuditta Caccia<br />

mettendo al mondo quattro figli. Poi tutta la famiglia si<br />

era trasferita a Padova nei primi anni Sessanta. Una volta<br />

<strong>in</strong> pensione, Mazzola aveva assunto, pur non avendo la tessera<br />

del partito, l’impegno di tenere la contabilità del Movimento<br />

Sociale. Quando l’ho <strong>in</strong>contrato, l’avvocato Piero<br />

Mazzola mi ha ribadito la sua ferma conv<strong>in</strong>zione che non si<br />

fosse trattato affatto di un <strong>in</strong>cidente, ma di un’azione preord<strong>in</strong>ata<br />

che prevedesse anche l’omicidio: «La ricostruzione<br />

da lei fatta (ne Il libro nero delle Brigate Rosse, N.D.A.)<br />

non è affatto rispondente alla verità. Glielo dice uno che ha<br />

seguito tutto l’iter giudiziario sia come vittima, sia come uomo<br />

di legge. Riveda le sue posizioni, Casamassima…» 11 .<br />

Graziano Giralucci aveva <strong>in</strong>vece 29 anni, lavorava come<br />

agente di commercio di articoli sanitari, era sposato con<br />

Bruna Vettorato ed era padre di una bamb<strong>in</strong>a di tre anni,<br />

Silvia.<br />

La giunta comunale di Padova, con delibera numero 3427<br />

del 12 novembre 1992, ha deciso di onorare la memoria<br />

di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola con la denom<strong>in</strong>azione<br />

di due vie contigue nella zona di Altichiero. Due<br />

vie per due vite.<br />

IL FEROCE BIENNIO DEI PAC DI CESARE BATTISTI<br />

Dopo lo scioglimento di Potere Operaio al convegno di<br />

Rosol<strong>in</strong>a nel giugno del 1973, nei due anni successivi la<br />

11. Idem<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

maggioranza dei militanti veneti di questa organizzazione<br />

– ad eccezione delle sezioni di Venezia e Verona – avevano<br />

<strong>formato</strong> i Collettivi Politici del Veneto per il Potere<br />

Operaio (CPV). La loro azione di lotta si focalizzava pr<strong>in</strong>cipalmente<br />

sul precariato, <strong>in</strong>teso come forma-lavoro del<br />

nuovo ciclo produttivo, ed erano stati elaborati i concetti<br />

di “zona omogenea”, di “fabbrica diffusa” e di “territorio<br />

liberato”. Tra il 1977 e il 1978, il loro <strong>in</strong>tervento si era<br />

manifestato contro la ristrutturazione <strong>in</strong> fabbrica e contro<br />

le <strong>in</strong>frastrutture dell’università. Le azioni conseguenti<br />

erano stati i ferimenti del giornalista Antonio Granzotto<br />

– avvenuto ad Abano Terme il 7 luglio 1977 – e del direttore<br />

dell’Opera universitaria Giampaolo Mercanz<strong>in</strong> –<br />

compiuto a Padova il 20 ottobre dell’anno successivo.<br />

Numerosi erano stati anche i sabotaggi – come quelli<br />

compiuti il 30 giugno ’77 ai vagoni ferroviari della Zanussi-Rex<br />

– e gli attentati <strong>in</strong>cendiari, il più clamoroso dei<br />

quali era stato attuato il 30 ottobre ‘78 contro la sede dell’Ispettorato<br />

regionale veneto delle case di reclusione e<br />

pena di Padova. Dopo il convegno tenuto a Bologna nel<br />

settembre del ’77 dal Movimento che prenderà il suo nome<br />

proprio da quell’anno “rivoltoso”, i Collettivi Politici<br />

Veneti avevano promosso il Movimento Comunista Organizzato<br />

(MCO) che si prefiggeva il duplice compito di formare<br />

una forza politica nazionale (Autonomia Operaia<br />

Organizzata) e di concentrare l’attenzione sulla specificità<br />

territoriale. La cosiddetta “notte dei fuochi” era stata<br />

la conseguenza “naturale” di queste tesi che avevano attuato<br />

a livello locale il disegno politico del MCO: tra il 18 e<br />

il 19 dicembre 1978 erano state colpite la sede dell’Associazione<br />

Industriali di Schio, l’abitazione del presidente<br />

dell’Associazione Industriali di Rovigo, la sede dell’Inter-<br />

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s<strong>in</strong>d di Venezia, la sede dell’Associazione Industriali di<br />

Vicenza, la Federazione Regionale Industriali del Veneto<br />

a Mestre e <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e l’Associazione Artigiani di Rovigo. Nell’autunno<br />

di quello stesso anno era nato <strong>in</strong>tanto il giornale<br />

“Autonomia”, ospitato nei locali di Radio Sherwood, a<br />

Padova, per dare voce all’area aggregatasi attorno ai CPV.<br />

Nello stesso periodo era maturato un più profondo rapporto<br />

politico-organizzativo con collettivi autonomi milanesi<br />

e tor<strong>in</strong>esi che editavano il giornale “Rosso” e che,<br />

proprio per palesare la ricerca di una nuova omogeneità<br />

e una modifica della l<strong>in</strong>ea politica ed editoriale, era stato<br />

poi chiamato “Rosso per il Potere Operaio”.<br />

F<strong>in</strong>e dei Collettivi Politici Veneti<br />

In risposta all’ondata di arresti seguita all’istruttoria del<br />

processo noto come “7 Aprile” (vedi capitolo successivo),<br />

nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1979 erano stati<br />

compiuti diversi attentati contro caserme dei – <strong>in</strong>ieri del<br />

Veneto. Nel contesto di questa “campagna”, l’11 aprile<br />

1979, a Thiene, mentre manipolavano un ordigno esplosivo,<br />

avevano perso la vita tre militanti del CPV-Fronte<br />

Comunista Combattente: Maria Antonietta Berna, Angelo<br />

Del Santo e Alberto Graziani. Un quarto militante, Lorenzo<br />

Bortoli, arrestato, era morto suicida <strong>in</strong> carcere.<br />

Nell’ottobre del 1979 i CPV avevano poi compiuto diversi<br />

attentati contro filiali della FIAT, fra cui uno a Padova il 30<br />

ottobre ’79, per protestare contro il licenziamento di sessantuno<br />

operai a Tor<strong>in</strong>o. Il 3 dicembre dello stesso anno,<br />

circa duecento militanti armati del CPV avevano bloccato<br />

gli snodi viari di Padova. Nel corso del biennio successivo,<br />

la forte repressione poliziesca, i conflitti politici <strong>in</strong>terni<br />

ai collettivi e il crollo dell’ipotesi politica <strong>in</strong>torno a cui<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

era nato l’MCO avevano portato all’esaurimento dell’esperienza<br />

dei Collettivi Politici Veneti: una decisione sancita<br />

nel Convegno Internazionale di Venezia, svoltosi nell’autunno<br />

del 1981.<br />

In quest’ultimo periodo erano stati rivendicati l’attacco<br />

alla caserma della 4 a Brigata Carab<strong>in</strong>ieri con razzi bazooka<br />

a Mestre il 17 aprile dell’81, le <strong>in</strong>cursioni <strong>in</strong> agenzie<br />

immobiliari di Padova e Venezia fra il 7 e l’8 ottobre dello<br />

stesso anno, oltre al sequestro dell’<strong>in</strong>gegner Luigi<br />

Strizzolo, capogruppo dello stabilimento Montedison petrolchimico<br />

di Porto Maghera, il 22 ottobre ’80. La sua fotografia,<br />

con al collo un cartello con la scritta “sono uno<br />

sfruttatore della classe operaia”, era stata distribuita ai<br />

giornali. Il 1 o dicembre ’81 era stato <strong>in</strong>vece ferito a Vicenza<br />

il medico carcerario Anton<strong>in</strong>o Mundo.<br />

I Proletari armati per il comunismo<br />

In questo clima sovversivo avevano così trovato facile<br />

spazio i Proletari Armati per il Comunismo (PAC): un’organizzazione<br />

armata che, pur messa <strong>in</strong> piedi a Milano nel<br />

’77 da Sebastiano Masala, Arrigo Cavall<strong>in</strong>a e Giuseppe<br />

Memeo, di estrazione operaia, aveva <strong>in</strong> Cesare Battisti –<br />

un ragazzo all’epoca di 23 anni, nato a Sermoneta –<br />

l’esponente di maggiore spicco, dest<strong>in</strong>ato a far parlare di<br />

sé nei decenni successivi 12 . Gli obiettivi più importanti<br />

dei Proletari armati per il comunismo furono la lotta alle<br />

strutture carcerarie e, nei quartieri, contro coloro che<br />

venivano giudicati collaboratori delle forze dell’ord<strong>in</strong>e.<br />

12. Il caso Battisti tiene banco da diversi anni nel panorama politico/giudiziario italiano e<br />

<strong>in</strong>ternazionale. Arrestato a Copacabana il 18 marzo 2007, Cesare Battisti ha ottenuto dal governo del<br />

Brasile lo stato di rifugiato politico il 13 gennaio 2009; il 18 novembre successivo la Corte<br />

costituzionale brasiliana considera illegittimo quel riconoscimento. Il 5 marzo 2010 il Tribunale di Rio de<br />

Janeiro condanna Battisti a due anni da scontare <strong>in</strong> regime di semilibertà per uso di passaporto falso.<br />

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“Lotta” al carcere che – “politicamente” – si sostanziava<br />

nei ferimenti (gambizzazioni) di Giorgio Rossanigo, medico<br />

del penitenziario di Novara, e di Arturo Nigro, agente<br />

di sorveglianza <strong>in</strong> quello di Verona. Poi, il 16 giugno<br />

’78, era arrivato anche l’omicidio: il condannato a morte<br />

era stato Antonio Santoro, maresciallo nel carcere di<br />

Ud<strong>in</strong>e. Sul “fronte collaboratori”, i puniti furono il macellaio<br />

L<strong>in</strong>o Sabbad<strong>in</strong>, ucciso a Santa Maria di Sala, nei pressi<br />

di Venezia, il 16 febbraio 1979 e, nello stesso giorno,<br />

ma a Milano, il gioielliere Luigi Torregiani, il cui figlio, ferito<br />

nell’agguato, era rimasto paraplegico e sarebbe diventato<br />

il più acerrimo nemico di Cesare Battisti.<br />

I Torregiani furono colpiti perché mesi prima avevano<br />

sparato e ucciso due ragazzi durante una rap<strong>in</strong>a ai loro<br />

danni. La contemporaneità delle due azioni era stata<br />

ideata per aumentarne la rilevanza mediatica, oltre a enfatizzare<br />

la reale consistenza del gruppo: una formazione<br />

cioè capace di colpire contemporaneamente <strong>in</strong> due città<br />

di due regioni diverse. Un’audacia che però fu duramente<br />

pagata dai PAC. Le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i serrate alla f<strong>in</strong>e avevano<br />

portato all’identificazione di alcuni membri dell’organizzazione,<br />

che erano stati arrestati. Alcuni di essi denunciarono<br />

di aver subito delle torture – una prassi che diventerà<br />

drammaticamente consueta negli anni successivi<br />

– e la ritorsione dei PAC non si fece attendere: il 19<br />

aprile 1979 era stato mortalmente colpito a Milano<br />

l’agente della DIGOS Andrea Campagna. Ma l’offensiva poliziesca<br />

contro i PAC era ormai avanzata e gli arresti che<br />

produsse nei mesi successivi stroncarono def<strong>in</strong>itivamente<br />

l’organizzazione. I militanti sfuggiti alla giustizia confluirono<br />

per lo più <strong>in</strong> Prima L<strong>in</strong>ea.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

La vicenda Cesare Battisti<br />

Nel corso dei decenni successivi, dei PAC si erano perse le<br />

tracce, come del resto di tante sigle di organizzazioni armate,<br />

ma nel 2004 si era improvvisamente tornato a parlare<br />

di loro. A riaccendere i riflettori su questa formazione,<br />

la vicenda di Cesare Battisti, condannato all’ergastolo<br />

<strong>in</strong> contumacia dalla giustizia italiana e superlatitante<br />

<strong>in</strong> Francia, Messico e di nuovo <strong>in</strong> Francia, sotto la protezione<br />

della dottr<strong>in</strong>a Mitterrand. Una legge che dava asilo<br />

politico a chiunque si fosse macchiato di delitti a sfondo<br />

politico, a condizione che i loro crim<strong>in</strong>i non fossero avvenuti<br />

<strong>in</strong> territorio francese o contro lo Stato francese. In<br />

base a tale direttiva, la Francia aveva rifiutato già negli<br />

anni Novanta l’estradizione avanzata dalla magistratura<br />

italiana di Battisti, che nel frattempo era diventato un<br />

autore di noir di successo, nonché un <strong>in</strong>tellettuale di riferimento<br />

dell’<strong>in</strong>tellighenzia parig<strong>in</strong>a. Entrata <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e <strong>in</strong><br />

vigore la normativa sul mandato di cattura europeo – che<br />

di fatto rendeva <strong>in</strong>efficace la dottr<strong>in</strong>a Mitterrand – di<br />

Battisti era stata nuovamente chiesta l’estradizione <strong>in</strong><br />

Italia. Estradizione concessa dalla Francia il 30 giugno<br />

2004. Nel frattempo, però, Battisti si era reso nuovamente<br />

irreperibile. Rifugiatosi <strong>in</strong> Brasile, il leader dei PAC era<br />

stato r<strong>in</strong>tracciato e arrestato <strong>in</strong> un albergo di Copacabana<br />

il 18 marzo 2007, ma il 13 gennaio 2009 gli è stato riconosciuto<br />

lo status di rifugiato politico.<br />

PIETRO CALOGERO: UN TEOREMA PER L’AUTONOMIA<br />

L’op<strong>in</strong>ione pubblica italiana era ancora lacerata dalla polemica<br />

scatenatasi all’<strong>in</strong>domani del ritrovamento del ca-<br />

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davere di Aldo Moro (9 maggio 1978) fra chi voleva trattare<br />

con i brigatisti e chi <strong>in</strong>vece pretendeva la l<strong>in</strong>ea dura<br />

(che poi sarà quella adottata), quando a neppure un anno<br />

di distanza, esattamente sabato 7 aprile 1979, agenti<br />

della DIGOS, della polizia e dei carab<strong>in</strong>ieri avevano effettuato<br />

cent<strong>in</strong>aia di perquisizioni <strong>in</strong> tutta Italia, arrestando,<br />

sulla base di ventidue ord<strong>in</strong>i di cattura firmati dal sostituto<br />

procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero,<br />

qu<strong>in</strong>dici esponenti di Autonomia Operaia: Antonio<br />

Negri (a Milano); Oreste Scalzone, Emilio Vesce, Lauro<br />

Zagato (a Roma); Ivo Galimberti, Luciano Ferrari Bravo,<br />

Carmela Di Rocco, Giuseppe Nicotri, Paolo Benvegnù,<br />

Alisa Del Re, Sandro Seraf<strong>in</strong>i, Massimo Tramonti (a Padova);<br />

Mario Dalmaviva (a Tor<strong>in</strong>o); Guido Bianch<strong>in</strong>i (a<br />

Ferrara); Marzio Sturaro (a Rovigo). Erano sfuggiti alla<br />

retata Franco Piperno, Pietro Despali, Roberto Ferrari,<br />

Giambattista Marongiu, Gianfranco Panc<strong>in</strong>o, Giancarlo<br />

Balestr<strong>in</strong>i e Gianni Boeto.<br />

Gli arrestati e i ricercati erano tutti professori, assistenti<br />

e studenti universitari, giornalisti. A dodici di essi veniva<br />

contestato il reato di «avere organizzato e diretto le Brigate<br />

Rosse al f<strong>in</strong>e di promuovere l’<strong>in</strong>surrezione armata<br />

contro i poteri dello Stato e mutare violentemente la Costituzione<br />

e le forme di governo sia mediante propaganda<br />

di azioni armate contro persone e cose, sia mediante<br />

la predisposizione e la messa <strong>in</strong> opera di rapimenti e sequestri<br />

di persona, omicidi e ferimenti e danneggiamenti,<br />

di attentati contro istituzioni pubbliche e private».<br />

Tutti gli imputati erano accusati di avere organizzato e<br />

diretto Potere Operaio e Autonomia Operaia al f<strong>in</strong>e di<br />

«sovvertire violentemente gli ord<strong>in</strong>amenti costituiti dello<br />

Stato sia mediante la propaganda e l’<strong>in</strong>citamento alla<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

pratica cosiddetta dell’illegalità di massa di varie forme<br />

di violenza e di lotta armata, espropri e perquisizioni proletarie,<br />

<strong>in</strong>cendi e danneggiamenti ai beni pubblici e privati,<br />

rapimenti e sequestri di persona, pestaggi e ferimenti,<br />

attentati a carceri, caserme, sedi di partito, associazioni<br />

e cosiddetti “covi di lavoro nero”, sia mediante<br />

l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi,<br />

ordigni <strong>in</strong>cendiari e, <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e, mediante il ricorso ad atti di<br />

illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni degli<br />

obbiettivi sopra precisati». A sostegno di queste imputazioni,<br />

secondo il PM Calogero: «esistono sufficienti <strong>in</strong>dizi<br />

di colpevolezza, desumibili dalla copiosa documentazione<br />

sequestrata o acquisita soprattutto nelle parti <strong>in</strong><br />

cui si esalta e si programma la lotta armata, si annunciano<br />

e si rivendicano atti di violenza o attentati terroristici,<br />

si predispongono mezzi e organizzazioni di tipo paramilitare,<br />

si promuove e si <strong>in</strong>cita alla <strong>in</strong>surrezione armata contro<br />

lo Stato».<br />

I cattivi maestri<br />

Il professore padovano Antonio Negri era stato colpito da<br />

un mandato di cattura emesso dal consigliere di Roma<br />

Achille Gallucci basato – tra l’altro – sui seguenti punti: il<br />

primo, due rapporti, uno della DIGOS di Padova e l’altro<br />

della DIGOS di Roma; il secondo, le “enunciazioni ideologiche”<br />

di Negri sarebbero “sostanzialmente riprese” <strong>in</strong> documenti<br />

delle Brigate Rosse; il terzo, la voce del telefonista<br />

delle BR che parlò con Eleonora Moro il 30 aprile 1978<br />

sarebbe quella di Negri. Il procuratore della Repubblica<br />

Aldo Fais poco dopo gli arresti aveva dichiarato: «Noi ci<br />

sp<strong>in</strong>giamo verso la soluzione di un problema sociale<br />

enorme, quale quello del terrorismo» e, riferendosi agli<br />

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arrestati: «Li teniamo saldamente <strong>in</strong> pugno». Il Presidente<br />

della Repubblica Sandro Pert<strong>in</strong>i aveva telefonato a<br />

Fais e gli aveva <strong>in</strong>viato un telegramma <strong>in</strong> cui affermava:<br />

«Facendo seguito alla mia telefonata, riconfermo piena<br />

solidarietà a Lei e ai magistrati di Padova per la fermezza<br />

e il coraggio con cui stanno agendo <strong>in</strong> difesa delle nostre<br />

istituzioni democratiche». Inf<strong>in</strong>e, l’istruttoria era<br />

stata divisa <strong>in</strong> due tronconi: uno a Roma per Negri, Nicotri,<br />

Scalzone, Zagato, Ferrari Bravo, Dalmaviva, Piperno,<br />

Ferrari, Marongiu, Pac<strong>in</strong>o e Balestr<strong>in</strong>i, quali imputati di<br />

“banda armata”; l’altro a Padova per i restanti dieci, per<br />

“associazione sovversiva”. Un altro professore, Franco<br />

Piperno, dalla latitanza aveva <strong>in</strong>viato una lettera a<br />

“L’Espresso” <strong>in</strong> cui affermava: «Qui si tratta della possibilità<br />

stessa di espressione politica (cioè di mediazione<br />

<strong>in</strong>telligente) da parte dei nuovi strati sociali m<strong>in</strong>oritari<br />

ma significativi che sono oltre l’etica del lavoro – vero<br />

tarlo che rode lentamente l’assetto sociale vigente […]. A<br />

una logica politica si sostituisce una logica di guerra». E<br />

concludeva con un appello: «Coloro che pur essendo nostri<br />

avversari si battono contro il regime armonico DC-PCI<br />

devono venire allo scoperto […]. La nuova s<strong>in</strong>istra, il partito<br />

radicale, magistratura democratica, Terrac<strong>in</strong>i, Lombardi,<br />

Pannella, Rodotà, Rossanda, P<strong>in</strong>tor, Bocca vogliamo<br />

sapere da che parte state». A parte le prese di posizione<br />

<strong>in</strong>dividuali, si erano svolte manifestazioni di protesta<br />

a Milano, Roma, Bologna (con scontri violenti con la<br />

polizia che cercava di impedirle), mentre quella nazionale<br />

<strong>in</strong>detta a Padova si era ridotta a un’assemblea per il colossale<br />

dispiegamento di polizia e carab<strong>in</strong>ieri. Quattro<br />

giorni dopo la maxi-retata, a Thiene, tre elementi del<br />

Gruppo sociale locale (legato all’Autonomia padovana)<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

erano morti per l’esplosione di un ordigno che stavano<br />

preparando: Angelo Dal Santo, Maria Antonietta Berna,<br />

Alberto Graziani.<br />

Il telefonista<br />

Entrando nello specifico delle accuse, Antonio (Toni) Negri<br />

era stato dunque <strong>in</strong>dicato dagli <strong>in</strong>quirenti come l’ideologo<br />

delle Brigate Rosse e mandante morale dell’omicidio<br />

di Aldo Moro. Non solo: era anche accusato di essere l’autore<br />

della drammatica telefonata effettuata alla moglie di<br />

Moro il 30 aprile ’78 <strong>in</strong> cui le BR chiedevano un <strong>in</strong>tervento<br />

di Benigno Zaccagn<strong>in</strong>i come unica possibilità per salvare<br />

la vita del presidente della Democrazia cristiana (telefonata<br />

effettuata <strong>in</strong>vece da Mario Moretti, come si appurerà<br />

nei vari processi Moro). Nel 1983, mentre era ancora <strong>in</strong><br />

prigione <strong>in</strong> attesa di giudizio, Toni Negri aveva accettato<br />

la candidatura alla Camera dei deputati propostagli da<br />

Marco Pannella per il Partito Radicale (nelle circoscrizioni<br />

di Roma, Milano e Napoli, anche se non come capolista).<br />

Con la sua <strong>in</strong>iziativa, Pannella presentava “una candidatura<br />

critica”, sostenendo che Negri fosse vittima di<br />

leggi repressive imposte dai vertici del PCI. Una candidatura<br />

qu<strong>in</strong>di provocatoria per aprire un dibattito sulle leggi<br />

liberticide. Da parte sua, Negri aveva promesso di impegnarsi<br />

su questo fronte e, una volta eletto alla Camera,<br />

era stato qu<strong>in</strong>di scarcerato, anche se il Parlamento aveva<br />

poi concesso l’autorizzazione all’arresto: l’astensione dei<br />

radicali, contrari per pr<strong>in</strong>cipio alle votazioni, aveva avuto<br />

un peso determ<strong>in</strong>ante nell’esito della votazione; dietro<br />

proposta del PCI, s’era votato anche sulla sospensiva, che<br />

era stata resp<strong>in</strong>ta per pochi voti. Per sfuggire al nuovo arresto,<br />

Negri si rifugiò <strong>in</strong> Francia, dove rimase per quattor-<br />

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dici anni, svolgendo l’attività di scrittore e docente presso<br />

l’università di Parigi (Sa<strong>in</strong>t Denis), al Collegio Internazionale<br />

di Filosofia, fondato da Jacques Derrida. Nel 1990<br />

fondò con Jean-Marie V<strong>in</strong>cent e Denis Berger la rivista<br />

“Futur Antérieur”. Anche se non poté impegnarsi <strong>in</strong> attività<br />

politiche per via dello specifico divieto che la legislazione<br />

francese (Dottr<strong>in</strong>a Mitterand) imponeva ai rifugiati<br />

politici, durante la permanenza francese Negri scrisse numerosi<br />

testi politici e, grazie alla sua produzione filosofica,<br />

nel 2005, “Le Nouvel Observateur” lo <strong>in</strong>serì tra i ventic<strong>in</strong>que<br />

“grandi pensatori del mondo <strong>in</strong>tero”, unico italiano<br />

assieme al filosofo Giorgio Agamben.<br />

Negri rientrò volontariamente <strong>in</strong> Italia nel 1997 per f<strong>in</strong>ire<br />

di scontare la sua pena e anche per promuovere un<br />

nuovo dibattito sulla conclusione politica degli “anni di<br />

piombo”. Pena che f<strong>in</strong>ì di scontare (sotto forma di reclusione<br />

e, <strong>in</strong> seguito, di semi-libertà tra Rebibbia e la sua<br />

casa di Trastevere) nella primavera del 2003. «Sto riprendendo<br />

il mio lavoro politico», disse, «e con il mio ritorno<br />

vorrei dare una sp<strong>in</strong>ta alla generazione che è stata<br />

emarg<strong>in</strong>ata dalle leggi anti-terrorismo degli anni Settanta<br />

<strong>in</strong> modo che ancora partecipi alla vita pubblica e democratica».<br />

Oggi vive tra Venezia e Parigi.<br />

L’ho <strong>in</strong>contrato a Padova nell’agosto del 2008 e gli ho chiesto<br />

un giudizio sulle radicali trasformazioni avvenute nel<br />

“suo” Veneto. «Basta rapportare il Veneto del dopoguerra<br />

a quello degli anni Settanta per accorgersi della formidabile<br />

trasformazione sociale avvenuta <strong>in</strong> esso: non sembrano<br />

trascorsi pochi decenni, ma oltre un secolo e questo perché<br />

ha vissuto quasi contemporaneamente l’<strong>in</strong>dustrializzazione<br />

e il suo superamento. Una trasformazione perf<strong>in</strong>o<br />

antropologica, estetica – è impressionante quanto sono di-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ventate belle le ragazze e i ragazzi – che è proseguita f<strong>in</strong>o<br />

al ’79: dopo ci sono stati solo i Pietro Maso, c’è stata la rottura<br />

tra lo sviluppo dell’uomo e lo sviluppo delle idee. È rimasto<br />

solo un grande bordello, ma vivente e contraddittorio:<br />

la Lega e alcune delle punte culturali più sviluppate, la<br />

ripresa di una brutalità rozza e plebea, ma anche alcune<br />

delle più <strong>in</strong>telligenti <strong>in</strong>novazioni <strong>in</strong>dustriali. Bisognerebbe<br />

raccontarlo questo nuovo Veneto, ma più che Carlo Goldoni<br />

ci vorrebbe Ruzante. Anzi, mi ci potrei cimentare io<br />

stesso, mi piacerebbe. Ho <strong>in</strong>iziato a fare del teatro: ho<br />

scritto una trilogia, Trilogia della Differenza, presentata<br />

a Parigi. Quando non avrò più le energie necessarie per<br />

cont<strong>in</strong>uare a spostarmi così frequentemente, penso che<br />

mi metterò a scrivere qualcosa del genere sul Veneto» 13 .<br />

Per quanto riguarda l’<strong>in</strong>chiesta 7 aprile, i vari gradi di<br />

giudizio si erano <strong>in</strong>caricati di dimostrare come non ci fosse<br />

stato nessun tentativo di organizzare un’<strong>in</strong>surrezione<br />

contro i poteri dello Stato e come nessuno degli arrestati<br />

appartenesse alle Brigate Rosse.<br />

MESTRE CUORE BRIGATISTA: IL SEQUESTRO<br />

E L’UCCISIONE DELL’INGEGNER TALIERCIO<br />

La famiglia Taliercio abitava a Mestre. Era composta da sette<br />

persone, ma all’ora di pranzo di mercoledì 20 maggio<br />

1981 solo quattro erano sedute a tavola, <strong>in</strong> cuc<strong>in</strong>a, per il<br />

pranzo: papà P<strong>in</strong>o, mamma Lella e i figli Cesare e Bianca.<br />

Gli altri tre erano fuori casa: Lucia al lavoro, Antonio a scuola,<br />

Elda all’università. Quel pranzo, però, non <strong>in</strong>iziò mai.<br />

13. Dichiarazione resa all’autore.<br />

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Suonò il campanello e la signora Lella andò ad aprire la porta.<br />

«Sono quattro f<strong>in</strong>anzieri», disse al marito rientrando <strong>in</strong><br />

cuc<strong>in</strong>a. «Vogliono te». P<strong>in</strong>o si era qu<strong>in</strong>di alzato e li aveva <strong>in</strong>vitati<br />

a seguirlo <strong>in</strong> salotto, ma all’improvviso lo scenario era<br />

cambiato. I sorrisi di circostanza, i modi educati e rispettosi<br />

avevano lasciato il posto alle pistole. Sì, perché quei quattro<br />

non avevano nulla a che fare con la F<strong>in</strong>anza. Quei quattro<br />

erano un commando delle Brigate Rosse. Che se ne era<br />

andato portando con sé P<strong>in</strong>o Taliercio, il direttore del Petrolchimico<br />

di Marghera, la “fabbrica di morti bianche”, come<br />

si leggeva da qualche parte, anche su qualche muro. La<br />

colonna veneta delle BR aveva identificato <strong>in</strong> lui il nemico da<br />

colpire nella campagna contro lo sfruttamento <strong>in</strong> fabbrica.<br />

Dopo la tragica conclusione del sequestro Moro, le BR<br />

avevano alzato il tiro <strong>in</strong> un crescendo di ferimenti, sequestri<br />

e uccisioni scandite con drammatica frequenza sui<br />

vari “fronti” aperti. Su quello delle carceri, con il rapimento<br />

avvenuto a Roma il 12 dicembre 1980 del giudice<br />

Giovanni D’Urso, direttore dell’Ufficio III della direzione<br />

generale degli istituti di prevenzione e pena del M<strong>in</strong>istero<br />

della Giustizia. Le Brigate Rosse avevano chiesto la<br />

chiusura immediata del carcere dell’As<strong>in</strong>ara, che contava<br />

ormai solo pochi brigatisti, dopo lo smantellamento della<br />

rivolta del 2 ottobre 1979 14 . La “campagna carceri” era<br />

14. Il 2 ottobre 1979 i brigatisti detenuti nel supercarcere sardo dell’As<strong>in</strong>ara avevano dato il via a una<br />

rivolta f<strong>in</strong>alizzata allo smantellamento della struttura distruggendo la diramazione Fornelli (la sezione<br />

speciale del complesso carcerario dell’isola dell’As<strong>in</strong>ara) all’<strong>in</strong>segna della parola d’ord<strong>in</strong>e «chiudere con<br />

ogni mezzo l’As<strong>in</strong>ara e i punti di massima deterrenza del circuito delle carceri speciali». Dopo la rivolta<br />

tutti i detenuti erano stati trasferiti <strong>in</strong> altre carceri speciali, mentre si era acceso un dibattito all’<strong>in</strong>terno<br />

del partito armato, che aveva portato alla proposta di attaccare frontalmente i Carceri Speciali, sia con<br />

rivolte da dentro le strutture, sia con attacchi esterni. Nel settembre del 1980 ci sarà la rivolta nella<br />

sezione speciale del carcere di Badu ‘e Carros (Nuoro), e nel dicembre dell’80, <strong>in</strong> concomitanza con il<br />

sequestro del magistrato D’Urso (responsabile m<strong>in</strong>isteriale dei CS) realizzato dalle Brigate Rosse, ci sarà<br />

la rivolta nel carcere di Trani.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

proseguita con l’attentato mortale, avvenuto sempre a<br />

Roma alla f<strong>in</strong>e dello stesso mese, al generale dei carab<strong>in</strong>ieri<br />

Enrico Galvaligi, responsabile del coord<strong>in</strong>amento<br />

delle misure di sicurezza nelle carceri speciali e ritenuto<br />

responsabile dell’assalto compiuto il 29 dicembre 1980<br />

dal Gruppo d’Intervento Speciale (GIS) per riprendere il<br />

controllo del carcere di Trani <strong>in</strong> rivolta da due giorni.<br />

Il sequestro D’Urso si era concluso il 15 gennaio 1981 con<br />

la liberazione del magistrato e la chiusura dell’As<strong>in</strong>ara<br />

(peraltro già deserta a causa della rivolta del ’79), ma<br />

questa azione era co<strong>in</strong>cisa con la conclusione del percorso<br />

unitario delle Brigate Rosse. Nell’aprile 1981, i già precari<br />

equilibri tra le varie istanze e le diverse posizioni politiche<br />

all’<strong>in</strong>terno delle BR erano precipitate, mentre a Milano<br />

era stato arrestato Mario Moretti, il capo. Da questo<br />

momento, i percorsi all’<strong>in</strong>terno del partito armato si erano<br />

divisi: la colonna milanese della Walter Alasia aveva<br />

gestito <strong>in</strong> proprio il sequestro dell’<strong>in</strong>gegnere dell’Alfa Romeo<br />

Sandrucci (liberato) 15 ; quella napoletana e del<br />

Fronte Carceri i rapimenti di Ciro Cirillo (liberato) e Roberto<br />

Peci (ucciso <strong>in</strong> quanto fratello del “delatore” Patrizio<br />

Peci), dando vita alle Brigate Rosse-Partito della<br />

Guerriglia, guidate dal crim<strong>in</strong>ologo Giovanni Senzani, co-<br />

15. «Al processo, l’<strong>in</strong>gegner Sandrucci testimoniò che era stato trattato bene, che l’avevamo trattato<br />

bene, e mentre deponeva guardò proprio me».<br />

«Ma come è successo che sei f<strong>in</strong>ito nelle Brigate Rosse».<br />

«Per me è <strong>in</strong>iziato tutto con l’occupazione delle case a Milano. A un’assemblea un compagno mi disse<br />

che ero stupido a pagare un affitto per stare lì a studiare: che sia lo studio che la casa erano diritti.<br />

Così andai <strong>in</strong> quella casa occupata. Poi mi trovai a lasciare <strong>in</strong> giro volant<strong>in</strong>i con la stella a c<strong>in</strong>que<br />

punte: ero nelle Brigate Rosse senza accorgermene».<br />

«Quanto hai fatto <strong>in</strong> tutto di carcere».<br />

«Quattordici anni. In primo grado presi trent’anni per partecipazione a banda armata, poi fra appello e<br />

Legge Gozz<strong>in</strong>i riuscii a f<strong>in</strong>ire la pena dopo quattordici anni».<br />

M. F. lo conoscevo da anni. Nella seconda metà dei Settanta aveva partecipato saltuariamente a<br />

qualche riunione politica del mio collettivo, poi l’avevo perso di vista: sapevo solo che era andato a<br />

studiare a Milano. Poi venni a sapere del suo arresto. È uscito dal carcere a metà degli anni Novanta.<br />

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gnato di quell’Enrico Fenzi arrestato a Milano con Moretti.<br />

Solo il sequestro dell’<strong>in</strong>gegner Giuseppe Taliercio, direttore<br />

del Petrolchimico di Mestre, era ancora rivendicato<br />

con la sigla BR. Ma anche nel Veneto, proprio <strong>in</strong> seguito<br />

a divergenze sorte nella gestione di questa operazione,<br />

tra ottobre e novembre successivi, alcuni militanti<br />

della colonna veneta erano usciti dall’organizzazione<br />

dando vita alla colonna “2 Agosto”.<br />

L’<strong>in</strong>gegnere buono<br />

L’<strong>in</strong>gegner Giuseppe Taliercio, P<strong>in</strong>o per i familiari e gli<br />

amici, proveniva da una famiglia segnata dalla prematura<br />

scomparsa del papà – un commerciante che aveva trasferito<br />

la sua attività da Ischia a Mar<strong>in</strong>a di Carrara – e la<br />

mamma che aveva dovuto occuparsi di un’attività che<br />

non conosceva per poter mantenere i quattro figli. Dopo<br />

la maturità classica, P<strong>in</strong>o si era laureato <strong>in</strong> <strong>in</strong>gegneria alla<br />

Normale di Pisa e nel 1952 era entrato alla Montedison<br />

di Porto Marghera, dove, dopo la “gavetta”, era arrivato<br />

ai vertici della direzione. Frequentando l’Azione Cattolica,<br />

aveva <strong>in</strong>contrato la sua futura sposa, Gabriella. Dalla<br />

loro unione erano nati c<strong>in</strong>que figli, ma la serenità di questa<br />

famiglia borghese era andata <strong>in</strong>cr<strong>in</strong>andosi con il clima<br />

di sempre maggiore violenza che ormai si respirava <strong>in</strong><br />

tutto il Paese e <strong>in</strong> modo particolare <strong>in</strong> Veneto. Quel Veneto<br />

che aveva proprio nella Montedison un centro ormai<br />

riconosciuto di scontro frontale: un obiettivo privilegiato<br />

da colpire. Un clima pesante, avvertito <strong>in</strong> modo drammatico<br />

dallo stesso Taliercio, che solo una settimana prima<br />

del suo rapimento aveva confidato a un amico: «L’anno<br />

scorso hanno ucciso l’<strong>in</strong>gegnere Sergio Gori, vicedirettore.<br />

Ma è stato un errore. Miravano a me».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Non era il suo posto», confiderà un ex-dipendente del<br />

Petrolchimico. «Era un grande tecnico, ma troppo leale<br />

e coerente con la sua fede cristiana per occupare il vertice<br />

di una mult<strong>in</strong>azionale, fatto di furberie e fondato sulle<br />

bugie. Mi sono <strong>in</strong>contrato più volte con lui: era un uomo<br />

di gentilezza e competenza estreme. Nella sua coscienza<br />

sentiva lo stridore del “sistema”» 16 . Si raccontava<br />

che a un dirigente licenziato, fra l’altro anche amico,<br />

che gli r<strong>in</strong>facciava il suo mancato <strong>in</strong>teressamento, Taliercio<br />

avesse risposto: «Non ho steso io la lista dei licenziati,<br />

ma se dovessi sostituirti non saprei chi mandare a casa<br />

al tuo posto. Vieni, guarda i nomi e dimmi: chi avresti<br />

il coraggio di sacrificare al tuo posto» 17 . In un’altra occasione,<br />

con gli operai <strong>in</strong> cassa <strong>in</strong>tegrazione, la direzione<br />

di Milano, dopo una revisione amm<strong>in</strong>istrativa, aveva punito<br />

un dirigente giovane e capace: Taliercio aveva m<strong>in</strong>acciato<br />

le dimissioni se non fosse stato re<strong>in</strong>tegrato.<br />

È andata male<br />

«Era la notte del 5 luglio», aveva raccontato Bianca, la figlia<br />

di Taliercio che curava i rapporti con la stampa.<br />

«Eravamo molto <strong>in</strong> ansia per papà. Verso le due di notte,<br />

squilla il telefono. Va a rispondere Elda, la nostra sorella<br />

maggiore. Un giornalista del quotidiano “Il Gazzett<strong>in</strong>o” ci<br />

comunicava che era stato trovato il corpo del papà. Elda<br />

si avvic<strong>in</strong>a al mio letto e, piangendo, mi dice: “Bianca, è<br />

andata male”. Capisco subito e corro ad abbracciare la<br />

mamma e gli altri di casa. Poco dopo, giungono l’avvocato,<br />

che ci era stato tanto vic<strong>in</strong>o, don Franco De Pieri e<br />

16. Ne «Il Messaggero di Sant’Antonio» del novembre 2000.<br />

17. Ibidem<br />

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monsignor Valent<strong>in</strong>o Vecchi, della parrocchia di San Lorenzo<br />

di Mestre; e ci raccogliamo <strong>in</strong> preghiera» 18 . L’<strong>in</strong>gegner<br />

Taliercio fu trovato raggomitolato nel bagagliaio di<br />

una FIAT 128 azzurra, a pochi metri dal Petrolchimico, devastato<br />

da diciassette colpi di pistola: i capelli diventati<br />

tutti bianchi, la barba lunga, il volto scavato. Avrebbe<br />

compiuto 54 anni un mese dopo.<br />

A ucciderlo, Antonio Savasta. In una lettera firmata del<br />

18 febbraio 1987, <strong>in</strong>dirizzata alla signora Gabriella Taliercio,<br />

che pubblicamente aveva perdonato agli assass<strong>in</strong>i di<br />

suo marito, una brigatista scriveva: «Il suo perdono [...]<br />

mi porta a pensare <strong>in</strong> un possibile riscatto di me stessa.<br />

Ciò che scrivo mi viene dettato dal cuore. Voglio renderle<br />

una parte dei momenti <strong>in</strong>timamente vissuti da suo marito.<br />

Nella nostra follia volevamo colpire il simbolo, ma il<br />

vivergli accanto, giorno dopo giorno, ora dopo ora, mi<br />

portò, <strong>in</strong>evitabilmente, alla conoscenza dell’uomo, del<br />

suo spirito estremamente delicato, dignitoso e mai arrogante.<br />

C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non<br />

capivo. Oggi comprendo che tutta la sua forza d’animo<br />

era <strong>in</strong>timamente legata al valore che egli dava alla preghiera.<br />

La preghiera era il suo mondo <strong>in</strong>s<strong>in</strong>dacabile, dove<br />

noi, con la nostra stupida razionalità, non potevamo<br />

raggiungerlo. Questa sua forza si imponeva con dolcezza,<br />

si trasformava <strong>in</strong> serenità di giudizio, anche, con noi<br />

aguzz<strong>in</strong>i. Non potrò mai pensare a quei momenti senza<br />

morire ogni volta un po’ [...]. La mia angoscia diventa disperazione<br />

rendendomi conto che la spirale di violenza<br />

non si è ancora chiusa e che ciò è frutto mio e di altri. È<br />

un mostro che io ho contribuito a far venire al mondo...<br />

18. Ibidem<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Signora Taliercio, lei ha avuto tanto coraggio nel perdonare<br />

gli assass<strong>in</strong>i di suo marito, la prego, accetti che una<br />

simile persona, quale io sono, le chieda umilmente perdono...<br />

Non potrò mai restituire ciò che ho rubato e perciò<br />

non mi basterà la mia <strong>in</strong>tera vita a pagare un prezzo<br />

equo» 19 .<br />

Due anni prima, un altro brigatista così si era rivolto alla<br />

vedova Taliercio: «La parola che portava suo marito... ha<br />

v<strong>in</strong>to: contro di me, che solo oggi riesco a comprendere<br />

qualcosa; contro tutti coloro che ancora oggi non capiscono.<br />

Anche <strong>in</strong> quei momenti suo marito ha dato amore...<br />

Questo è un fiore che voglio coltivare per poter poi<br />

essere io a donarlo. Forse, se non ci foste stati voi a donare<br />

per primi questo seme, sarei ancora perso nel deserto...<br />

Spero soltanto di colmare questo vuoto, restituendo<br />

e <strong>in</strong>segnando ad altri quello che voi avete dato e<br />

<strong>in</strong>segnato a me» 20 .<br />

Le parole dei figli<br />

Vent’anni dopo la morte del loro padre, anche i figli dell’<strong>in</strong>gegner<br />

Taliercio resero pubblica una lettera. Questa:<br />

In questi lunghi anni senza di te, grande è stato il nostro dolore,<br />

per la violenza con cui ci sei stato tolto. Ma, ugualmente, forti sono<br />

stati i ricordi delle tue parole, della fede, della fiducia che ponevi<br />

nella misericordia e provvidenza di Dio. Ci hanno aiutato a<br />

guardare alla vita nuovamente, con serenità. A scriverti questa<br />

lettera aperta proviamo emozione e tristezza, anche se tante volte<br />

ci siamo ritrovati, nel nostro cuore, a parlare con te delle gioie<br />

19. Ibidem<br />

20. Ibidem<br />

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o delle croci che stavamo vivendo. Le gioie più grandi sono stati<br />

i matrimoni di Elda e Mauro, di Bianca e Gigi, di Rosa e Cesare e<br />

la nascita di tanti nipoti: Stefano, Giulia, Luca, Giovanni, Marco,<br />

Laura e i piccoli Michele e Sofia. Spesso parliamo a loro di te, di<br />

come la tua presenza, a volte silenziosa, era per noi bamb<strong>in</strong>i, ragazzi,<br />

una sicurezza. Ricordiamo la gioia che suscitava <strong>in</strong> noi il<br />

sentire la porta aprirsi ed eri tu che rientravi, dopo una lunga<br />

giornata di lavoro. Nonostante la stanchezza, ci aiutavi a f<strong>in</strong>ire i<br />

compiti; ci chiedevi come era andata la giornata. Poi ci riunivi<br />

tutti a tavola. Sentiamo forte l’impegno e la difficoltà di essere<br />

genitori, specialmente ora che i bamb<strong>in</strong>i stanno crescendo: Stefano<br />

ha 16 anni, Giulia 13, Luca 12 e manifestano i problemi dell’adolescenza:<br />

le difficoltà scolastiche, l’amicizia con i coetanei,<br />

le prime simpatie. Pensiamo ai modi adottati da te e dalla mamma<br />

durante la nostra crescita, al dialogo, che cercavate di stabilire<br />

con tutti noi, all’amore alla vita che ci avete trasmesso, al coraggio<br />

nell’affrontare le difficoltà, le croci, sorretti dalla fede e<br />

dalla preghiera. È difficile educare i giovani ai sani pr<strong>in</strong>cipi! La<br />

mamma spesso ci ricorda che anche tu, giovane genitore, pensavi<br />

con un po’ di timore al nostro futuro. Grandissimo è stato il dolore,<br />

profonda la sofferenza, per la malattia e la morte di Elda,<br />

nostra sorella: un altro grande terremoto che ha scosso tutta la<br />

famiglia e ha messo <strong>in</strong> crisi la nostra fede. Il sostegno di tanti<br />

amici, di fratelli nella fede, soprattutto, la misericordia e l’amore<br />

di Dio ci hanno aiutato a sentire Elda nella gloria di Dio, vic<strong>in</strong>o<br />

a te. Abbiamo imparato a confidare nella vostra <strong>in</strong>tercessione<br />

per noi, specialmente per la mamma, che, pur sostenuta dalla fede,<br />

prova un grande vuoto con la vostra mancanza. Carissimo papà,<br />

sarai sempre nel nostro cuore: di Antonio, che hai lasciato<br />

bamb<strong>in</strong>o e ora è un giovane prossimo alla laurea; di Lucia, che<br />

cont<strong>in</strong>ua con <strong>in</strong>teresse e impegno il suo lavoro; di Bianca e Cesare,<br />

che, con le proprie famiglie, testimoniano l’amore del Signore<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

per noi. Siamo certi che sei ancora nel cuore di tanti tuoi colleghi,<br />

amici, di tante persone di Mestre e Mar<strong>in</strong>a di Carrara, che, pur<br />

senza averti personalmente conosciuto, riconoscono nella tua vita<br />

e nella tua morte i segni di un progetto div<strong>in</strong>o 21 .<br />

J. L. DOZIER: UN AMERIKANO A VERONA<br />

Erano passati solo centosessanta giorni dall’uccisione di<br />

Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrolchimico di Marghera,<br />

a Mestre. In quel 1981 che sembrava non f<strong>in</strong>ire<br />

mai, ora erano Verona e Padova a dover vivere un nuovo<br />

capitolo drammatico. Questa volta, però, le cose andranno<br />

diversamente. Questa volta non morirà nessuno. Tanto<br />

meno con diciassette colpi di pistola <strong>in</strong> faccia.<br />

Questa nuova storia era <strong>in</strong>iziata a Verona, il 17 dicembre,<br />

sotto un sole piacevole, di quelli che <strong>in</strong> una giornata <strong>in</strong>vernale<br />

e vic<strong>in</strong>a al Natale scaldano anche il cuore. Verona<br />

è una bella città, ma ospita una base NATO. Una base importante,<br />

dove <strong>in</strong> quel 1981 lavorava anche un americano<br />

di c<strong>in</strong>quant’anni: alto, affilato, le orecchie a sventola. Un<br />

generale. James Lee Dozier, un veterano del Vietnam. Da<br />

un anno Dozier era sottocapo di Stato maggiore della FTA-<br />

SE e dirigeva i servizi logistici e amm<strong>in</strong>istrativi <strong>in</strong> Italia.<br />

Come ogni giorno, alle c<strong>in</strong>que del pomeriggio <strong>in</strong> punto,<br />

dalla FIAT 132 blu il suo autista faceva un cenno con la mano<br />

al piantone, che azionava qu<strong>in</strong>di elettronicamente il<br />

pesante portone di ferro facendo sfilare la macch<strong>in</strong>a del<br />

generale. Nonostante le vic<strong>in</strong>e festività, quel pomeriggio il<br />

traffico era scorrevole, tanto da raggiungere la dest<strong>in</strong>azio-<br />

21. Ibidem<br />

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ne c<strong>in</strong>que m<strong>in</strong>uti dopo: il numero 5 di Lungadige Capena.<br />

Era lì che abitava Dozier, <strong>in</strong> un appartamento al sesto piano<br />

con un grande liv<strong>in</strong>g e una mansarda, <strong>in</strong>sieme con la<br />

moglie Judith, poco più giovane di lui. La famiglia era<br />

composta anche da due figli, un maschio e una femm<strong>in</strong>a,<br />

che però vivevano negli Stati Uniti.<br />

Quel giorno, quel 17 dicembre quasi primaverile, c’era un<br />

pulm<strong>in</strong>o parcheggiato nei pressi del palazzo del generale.<br />

Un pulm<strong>in</strong>o blu con una striscia bianca, ma senza alcuna<br />

scritta. Anonimo, anomalo. Il generale non ci aveva<br />

fatto caso: congedato il suo autista, aveva varcato l’<strong>in</strong>gresso.<br />

Sua moglie non c’era ancora, arriverà da lì a poco,<br />

ma anche lei non baderà a quel pulm<strong>in</strong>o.<br />

Sono quasi le sei del pomeriggio.<br />

L’azione<br />

Dal pulm<strong>in</strong>o erano usciti due uom<strong>in</strong>i <strong>in</strong> tuta da idraulici<br />

e si erano diretti verso il portone, che però, ovviamente,<br />

era chiuso.<br />

«La cosa più semplice era entrare nell’appartamento<br />

con un pretesto. Qu<strong>in</strong>di io e “Daniele” ci eravamo travestiti<br />

da idraulici. Il portone era sempre chiuso, ma avevamo<br />

scoperto che nell’androne c’era un negozio di articoli<br />

sportivi. Così “Giorgio” doveva suonare il campanello<br />

f<strong>in</strong>gendosi un cliente. Io e “Daniele” saremmo saliti<br />

allora s<strong>in</strong>o all’appartamento, mentre “Rolando” e<br />

“Fabrizio” sarebbero rimasti sulla rampa delle scale.<br />

“Mart<strong>in</strong>a” e “Giorgio” si sarebbero fermati <strong>in</strong> strada per<br />

coprirci con i mitra <strong>in</strong> caso di necessità, e “Federico”<br />

non si sarebbe mosso dal posto di guida del pulm<strong>in</strong>o».<br />

Lo racconterà Antonio Savasta, capo del commando. Sì,<br />

perché quelli non erano idraulici, ma un commando bri-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

gatista. Saliti s<strong>in</strong>o al sesto piano, Savasta aveva suonato<br />

il campanello.<br />

«Siamo dell’acqua potabile», aveva mentito attraverso la<br />

porta, «e abbiamo notato che al piano di sotto c’è una<br />

perdita. Dobbiamo dare una controllata».<br />

Dozier aveva aperto la porta disattendendo ogni precauzione.<br />

Dopo essersi assicurati che nell’appartamento non ci fosse<br />

nessun altro, i brigatisti avevano estratto le pistole. Dozier<br />

aveva cercato di reagire, ma “Daniele” lo aveva colpito al capo<br />

con il calcio della pistola, facendogli perdere i sensi. Anche<br />

la moglie era stata immobilizzata, poi “Fabrizio” era sceso<br />

a prendere dal pulm<strong>in</strong>o una grande cassa. Una cassa capace<br />

di contenere un uomo, com’era avvenuto con Moro.<br />

«Dopo aver caricato la cassa», ricordò ancora Savasta,<br />

«diamo l’ok con un walkie-talkie a “Rolando” e “Daniele”<br />

che sono rimasti nell’appartamento. Se ne andranno più<br />

tardi, per evitare che qualcuno possa dare l’allarme mentre<br />

siamo ancora <strong>in</strong> strada. In una specie di galleria fra due<br />

palazzi trasbordiamo la cassa su una Ritmo, a cui abbiamo<br />

levato il sedile posteriore. Poi io e “Giorgio” abbandoniamo<br />

il pulm<strong>in</strong>o e prendiamo il treno per Padova. “Rolando” e<br />

“Daniele” partiranno <strong>in</strong>vece più tardi per Milano».<br />

Quei “cialtroni” delle Brigate Rosse<br />

Fu l’ANSA a ricevere, per telefono verso le 23, la rivendicazione<br />

del sequestro. L’<strong>in</strong>domani, alle 14, ci fu un’altra<br />

conferma, sempre telefonica, ma più precisa. Una voce<br />

maschile, con accento veneto, aveva dettato: «Qui Brigate<br />

Rosse, colonna Anna Maria Ludmann, “Cecilia” 22 . Ri-<br />

22. Anna Maria Ludmann, nome di battaglia “Cecilia”, era la brigatista proprietaria dell’appartamento<br />

genovese di via Fracchia, dove il 28 marzo 1980 era stata uccisa dai carab<strong>in</strong>ieri del generale Carlo<br />

Alberto Dalla Chiesa <strong>in</strong>sieme a Riccardo Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli.<br />

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vendichiamo il rapimento del boia della NATO, James Dozier,<br />

che sarà r<strong>in</strong>chiuso nelle carceri del popolo e sottoposto<br />

al giudizio del proletariato».<br />

Il presidente americano Ronald Reagan aveva reagito con<br />

violenza, chiedendo come fosse possibile che “quattro<br />

cialtroni” potessero permettersi il lusso di rapire un generale<br />

americano. I primi agenti della CIA arrivarono a Verona<br />

già il 18 sera, seguiti da una task-force composta da sette<br />

agenti speciali scelti tra il fior fiore della CIA e del FBI<br />

(più alcuni “tecnici” di orig<strong>in</strong>e siciliana, “esperti di mafia”).<br />

A Roma, <strong>in</strong>tanto, la direzione delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i era stata affidata<br />

all’Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e<br />

le Operazioni Speciali (UCIGOS), che coord<strong>in</strong>ava l’azione<br />

delle divisioni prov<strong>in</strong>ciali (DIGOS, ex uffici politici) operanti<br />

su piano locale. Anche l’Arma dei carab<strong>in</strong>ieri partecipava<br />

alle ricerche. I reparti speciali, <strong>in</strong>vece, attendevano<br />

il loro momento. Le “teste di cuoio” italiane erano state<br />

create al tempo del sequestro Moro, nel 1978; a questi<br />

si affiancavano i Gruppi per Interventi Speciali (GIS) dei<br />

carab<strong>in</strong>ieri. Subito dopo il sequestro, la NATO aveva precisato<br />

che il generale Dozier non era depositario di alcun<br />

segreto militare, ma la verità era un po’ diversa.<br />

Come responsabile dei servizi logistici e amm<strong>in</strong>istrativi, <strong>in</strong>fatti,<br />

Dozier conosceva perfettamente la struttura complessiva<br />

delle basi NATO <strong>in</strong> Italia. Forse non era al corrente<br />

dei dati più segreti relativi al “parco nucleare” puntato verso<br />

Est, ma le <strong>in</strong>formazioni di cui era <strong>in</strong> possesso bastavano<br />

per destare <strong>in</strong>quietud<strong>in</strong>i <strong>in</strong> seno all’Alleanza, qualora le<br />

BR avessero deciso di “passarlo” al setaccio. Inquietud<strong>in</strong>i<br />

superflue semplicemente perché nessuno dei brigatisti<br />

che tenevano prigioniero Dozier conosceva bene l’<strong>in</strong>glese<br />

e il generale americano non era andato oltre il m<strong>in</strong>imo <strong>in</strong>-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

dispensabile: “rivelando” quasi dei luoghi comuni. I rapitori<br />

si erano fatti nuovamente vivi due giorni più tardi, questa<br />

volta con un messaggio scritto. Altri quattro erano seguiti<br />

a <strong>in</strong>tervalli di otto-dieci giorni. Con il comunicato n. 2<br />

del 27 dicembre era stata diffusa anche una foto <strong>in</strong> cui si<br />

vedeva il generale sullo sfondo della stella brigatista a c<strong>in</strong>que<br />

punte mentre reggeva un messaggio a lettere di scatola,<br />

con il viso segnato da una ecchimosi.<br />

So io dov’è il generale<br />

Dozier era stato trasferito a Padova, s<strong>in</strong> dalla sera del sequestro,<br />

<strong>in</strong> un appartamento di via Ippolito P<strong>in</strong>demonte 2,<br />

alla periferia della città: c<strong>in</strong>que stanze al primo piano di un<br />

condom<strong>in</strong>io popolare, sopra un grande supermercato.<br />

Proprietario della “prigione del popolo” era un ignaro medico,<br />

Mario Frascella, che aveva lasciato l’appartamento a<br />

disposizione della figlia secondogenita Emanuela (nome di<br />

battaglia “Daniela” o “Lucia”), una studentessa di vent’anni,<br />

<strong>in</strong>censurata. Nel salone, <strong>in</strong>sonorizzato, i brigatisti avevano<br />

montato una tenda verde da campo ed è lì che Dozier<br />

avrebbe passato i quaranta e passa giorni della sua prigionia,<br />

su un materass<strong>in</strong>o di gomma, e con i ferri ai piedi.<br />

I comunicati delle BR erano tutti firmati con una sigla <strong>in</strong>edita,<br />

“Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista<br />

combattente”, quelle che avevano rapito e ucciso<br />

Taliercio, firmando però quell’azione ancora unitariamente<br />

come BR. La svolta decisiva nelle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i era avvenuta<br />

a Verona fra il 26 e il 27 gennaio. Tra i fermati<br />

c’era un sospetto che si chiamava Ruggero Vol<strong>in</strong>ia, detto<br />

“Spillo” per la sua somiglianza con il calciatore Alessandro<br />

Altobelli. Sottoposto a un <strong>in</strong>terrogatorio a dir poco<br />

“duro”, “Spillo” aveva chiesto garanzie <strong>in</strong> cambio dell’<strong>in</strong>-<br />

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ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 43<br />

dicazione della prigione del generale. Lui quel posto lo<br />

conosceva bene, perché era lui che aveva guidato il pulm<strong>in</strong>o<br />

da Verona a Padova. Vol<strong>in</strong>ia <strong>in</strong>fatti altri non era che<br />

“Federico”.<br />

Un’Alfetta era partita pochi m<strong>in</strong>uti dopo “la confessione”.<br />

A bordo c’era anche il commissario Salvatore Genova –<br />

poi eletto nelle file del PSDI e autore di un libro sulla sua<br />

personale esperienza, nonché grande accusatore per le<br />

torture perpetrate nella caserma Diaz di Genova <strong>in</strong> occasione<br />

del G8 di Genova del 2001 –, membro del Comitato<br />

di coord<strong>in</strong>amento per le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i sul sequestro, ed era<br />

passata davanti alla casa <strong>in</strong> questione per controllare la<br />

situazione. Un quarto d’ora dopo, un altro passaggio, poi<br />

dritti <strong>in</strong> Questura. Vol<strong>in</strong>ia aveva disegnato una pianta<br />

dell’appartamento. C’era stato solo una volta, ma ricordava<br />

tutto con precisione e aveva così fornito due dettagli<br />

della massima importanza: il primo che la porta d’<strong>in</strong>gresso,<br />

non bl<strong>in</strong>data, poteva essere sfondata con facilità; il<br />

secondo che il “codice di comportamento” delle BR dopo<br />

la strage di via Fracchia – dove erano morti quattro brigatisti<br />

uccisi dai carab<strong>in</strong>ieri – sconsigliava gli scontri a<br />

fuoco nel caso di irruzioni.<br />

L’irruzione<br />

I preparativi per l’irruzione erano com<strong>in</strong>ciati all’alba del<br />

28 gennaio. L’<strong>in</strong>tervento era stato affidato a dieci NOCS<br />

coperti da agenti della polizia <strong>in</strong> borghese. Via P<strong>in</strong>demonte<br />

è una strada popolare, piena di gente tranquilla.<br />

Bisognava agire qu<strong>in</strong>di con cautela. Nei pressi era stato<br />

messo <strong>in</strong> funzione un bulldozer che con il suo frastuono<br />

aveva coperto ogni possibile rumore e che giustificava la<br />

deviazione di tutto il traffico dalla “zona calda”.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Salvatore Genova: «Mi <strong>in</strong>filo un giubbotto antiproiettile e<br />

faccio scattare il tamburo della mia Smith & Wesson. È<br />

ok. Alle 11.15 <strong>in</strong> via P<strong>in</strong>demonte arriva un camion della<br />

“Domenichelli Trasporti”. È carico di NOCS con il loro <strong>in</strong>credibile<br />

e <strong>in</strong>gombrante armamentario: tute mimetiche,<br />

mute subacquee, una bi-bombola con erogatore, sagole e<br />

cordami, arnesi da rocciatori, caschi e armi pesanti, che<br />

hanno l’ord<strong>in</strong>e di portare sempre con loro. Sono <strong>in</strong> piena<br />

forma grazie ai loro allenamenti quotidiani di judo, pugilato,<br />

karate, lotta, pesi; ma anche tiro con armi lunghe e<br />

corte, discesa con corde da elicotteri e lungo le facciate<br />

dei palazzi, guida veloce di auto con catapultamento<br />

esterno, tecniche di irruzione <strong>in</strong> luoghi aperti e chiusi,<br />

azioni antiguerriglia urbane ed extraurbane, e chi più ne<br />

ha più ne metta. Sul marciapiede un ragazzo e una ragazza,<br />

mano nella mano, tubano come i fidanzat<strong>in</strong>i di Peynet.<br />

Sono due poliziotti: lui ha una Smith & Wesson alla<br />

c<strong>in</strong>tura, lei un’automatica nel reggicalze. Altri poliziotti<br />

stazionano qua e là con dis<strong>in</strong>voltura, confondendosi con<br />

l’ambiente. Un cenno e, come <strong>in</strong> un film d’azione, grappoli<br />

di NOCS e poliziotti si catapultano verso il fabbricato.<br />

I primi divorano le scale s<strong>in</strong>o all’<strong>in</strong>gresso dell’appartamento;<br />

gli altri si allargano a ventaglio sul marciapiede. I<br />

NOCS sono armati s<strong>in</strong>o ai denti, con il volto coperto dal<br />

passamontagna che lascia vedere solo gli occhi. “Tranquilli,<br />

siamo della polizia” dicono a chi, vedendoli, rimane<br />

paralizzato dallo stupore. Una spallata, una sola, e la<br />

porta si schianta. I ragazzi rimbalzano dentro. L’attimo di<br />

sorpresa dei c<strong>in</strong>que BR è il loro punto di forza. Sotto la<br />

tenda da campo, un brigatista punta una rivoltella alla<br />

tempia di Dozier. Le frazioni di tempo sono vitali. Un<br />

NOCS allunga una gamba <strong>in</strong> una mossa di karate e riesce a<br />

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far volare via l’arma. Poi prende il terrorista per le spalle<br />

e lo immobilizza. I BR non hanno letteralmente il tempo<br />

di premere il grilletto. I NOCS danno fondo al loro repertorio,<br />

senza mai usare le armi. Io, altri tre <strong>in</strong>vestigatori e<br />

un agente della DIGOS siamo rimasti fermi sul pianerottolo<br />

disposti a ventaglio. Abbiamo il compito di coprire le<br />

spalle all’avanguardia NOCS e siamo disposti a tutto, ma<br />

dall’<strong>in</strong>terno una voce grida “tutto ok”. Sono passati esattamente<br />

novanta secondi» 23 .<br />

23. La soffiata per la liberazione di Dozier arrivò con le torture effettuate <strong>in</strong> una chiesa sconsacrata di<br />

Verona: Un passaggio che impressionò pers<strong>in</strong>o la CIA». Questa la ricostruzione, dettagliata e <strong>in</strong>edita, fatta<br />

dal “Secolo XIX” che pubblicò il 16 giugno 2007 una clamorosa <strong>in</strong>tervista a Salvatore Genova, <strong>in</strong> cui l’allora<br />

commissario della DIGOS genovese “aggregato” all’UCIGOS ha rivelato l’esistenza di una squadra di veri e<br />

propri torturatori di Stato specializzati nell’estorsione di confessioni. «Nei primi anni ’80», dice Genova,<br />

«esistevano due gruppi di cui tutti sapevano: “i vendicatori della notte” e “i c<strong>in</strong>que dell’Ave Maria”. I primi<br />

operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di<br />

Lenardo, c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci). Succedeva<br />

esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto<br />

pers<strong>in</strong>o su un ord<strong>in</strong>e di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta,<br />

presentandomi al matt<strong>in</strong>o per un <strong>in</strong>terrogatorio, Savasta mi disse: «Ma perché cont<strong>in</strong>uano a torturarci, che<br />

stiamo collaborando» (la sua “dissociazione” permise cent<strong>in</strong>aia di arresti, N.d.A.). Le violenze avvenivano<br />

di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone<br />

sbagliate». Il discorso è più ampio e <strong>in</strong>quietante quando entrano <strong>in</strong> gioco “i c<strong>in</strong>que dell’Ave Maria”.<br />

Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva <strong>in</strong> più zone<br />

d’Italia, poiché altri BR (<strong>in</strong> particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla DIGOS di Roma)<br />

avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile <strong>in</strong>dividuarne nomi, cognomi e<br />

“mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità: le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni<br />

sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è<br />

cambiato». «Furono messe sotto controllo cent<strong>in</strong>aia di utenze telefoniche», rievoca Genova ritornando ai<br />

tempi di Dozier, «con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, <strong>in</strong> particolare le<br />

conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro <strong>in</strong>vestigativo era la questura di Verona,<br />

dove di tanto <strong>in</strong> tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uom<strong>in</strong>i <strong>in</strong><br />

divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare». È <strong>in</strong> questo modo che vengono <strong>in</strong>dividuati Ruggero<br />

Vol<strong>in</strong>ia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati <strong>in</strong><br />

questura», prosegue Genova, «e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare <strong>in</strong>dicazioni<br />

tanto importanti». Non potevano immag<strong>in</strong>are, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo<br />

nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di<br />

Lungadige Catena, a Verona, al covo di via Ippolito P<strong>in</strong>demonte, a Padova. «Un gruppo specializzato»,<br />

prosegue Genova, «si occupò dell’<strong>in</strong>terrogatorio. Separarono Vol<strong>in</strong>ia dalla compagna e su di lei ci furono<br />

violenze. Io non partecipai all’azione, ma <strong>in</strong> seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri<br />

funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera <strong>in</strong> cambio del silenzio. Sentendo le urla disumane<br />

della fidanzata, Ruggero Vol<strong>in</strong>ia a un certo punto supplicò di fermarsi. E <strong>in</strong>iziò a fare qualche nome; nulla<br />

di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». «Non credevamo»,<br />

dissero gli uom<strong>in</strong>i della CIA mandati da Reagan, «che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale».<br />

Vol<strong>in</strong>ia, dunque, cede: «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio 1982,<br />

nella chiesa scende f<strong>in</strong>almente il silenzio. E scatta il blitz dei NOCS. Si veda Le torture affiorate (Sensibili<br />

alle Foglie, 1998).<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Pentiti e tortura<br />

I c<strong>in</strong>que carcerieri vengono portati fuori ammanettati.<br />

Sono tumefatti. Si tratta di Antonio Savasta, la sua fidanzata<br />

Emilia Libera (“Mart<strong>in</strong>a”), Cesare Di Leonardo (“Fabrizio”),<br />

Giovanni Ciucci (“Saverio”, che aveva puntato la<br />

rivoltella contro Dozier), e la proprietaria dell’appartamento,<br />

Daniela Frascella. Intanto, altri poliziotti avevano<br />

liberato Dozier, che si era presentato <strong>in</strong> tuta, barba e capelli<br />

lunghi, una catena alla caviglia e una cuffia stereo<br />

<strong>in</strong>collata alle orecchie. I brigatisti lo avevano obbligato a<br />

usarla quasi <strong>in</strong><strong>in</strong>terrottamente per isolarlo dal mondo e<br />

la musica rock, trasmessa a tutto volume, gli aveva provocato<br />

una lesione <strong>in</strong>terna all’orecchio destro. Le prime<br />

parole del generale erano state: «Wonderful, police!», ma<br />

poi confessò di aver temuto – per un attimo <strong>in</strong>term<strong>in</strong>abile<br />

– di essere vic<strong>in</strong>o alla f<strong>in</strong>e.<br />

Savasta, ritenuto responsabile di diciassette omicidi, aveva<br />

<strong>in</strong>iziato pochi giorni dopo una confessione fiume che<br />

si era aggiunta a quella di altri pentiti e che portò nei mesi<br />

successivi ad arresti <strong>in</strong> massa di brigatisti e fiancheggiatori.<br />

Già il giorno successivo erano stati arrestati diciotto<br />

brigatisti. A f<strong>in</strong>e gennaio c’era stata la scoperta<br />

della prigione di Moro <strong>in</strong> via Montalc<strong>in</strong>i a Roma, all’<strong>in</strong>izio<br />

di febbraio erano stati arrestati <strong>in</strong> Friuli gli altri responsabili<br />

dell’omicidio Taliercio, tra aprile e maggio era stata<br />

quasi sgom<strong>in</strong>ata la colonna romana che al momento<br />

contava cento regolari e quattrocento fiancheggiatori.<br />

Savasta e la Libera si guadagnarono presto la libertà grazie<br />

al loro “contributo”. Barbara Balzerani riuscì <strong>in</strong>vece a<br />

sfuggire a questa ondata di arresti – capeggiando poi le<br />

BR-PCC <strong>in</strong> contrasto con le BR-PG di Giovanni Senzani –<br />

mentre Cesare Di Leonardo, nonostante le brutali tortu-<br />

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re cui fu ripetutamente sottoposto, scelse di non collaborare<br />

con la giustizia e fu condannato all’ergastolo.<br />

LA PRIMA LINEA DI ROVIGO: EVASIONE CON MORTO<br />

Mentre il generale Dozier era nella “prigione del popolo”<br />

di Padova, un’altra città veneta, Rovigo, stava per entrare<br />

a far parte di un capitolo della guerra contro lo Stato<br />

dichiarata da comunisti passati «dalle armi della dialettica<br />

alla dialettica delle armi». Era il 3 gennaio del 1982.<br />

Cioè dell’anno che avrebbe regalato all’Italia il mondiale<br />

di calcio, anzi, il “mundial”, ché questa volta era la Spagna<br />

a ospitare la tenzone quadriennale, con Pert<strong>in</strong>i – il<br />

presidente con la pipa, il presidente partigiano – a esultare<br />

come un hooligan sulla faccia dell’impassibile monarca<br />

Borbone quando l’Italia, alla terza cannonata contro<br />

la Germania, era salita sull’irraggiungibile vetta calcistica.<br />

Lo stesso anno che avrebbe visto il generale Carlo<br />

Alberto Dalla Chiesa cadere sotto i colpi della mafia, sotto<br />

i colpi della politica 24 . Purtroppo eravamo solo agli <strong>in</strong>izi,<br />

l’anno era ancora giovanissimo, era appena nato. Quel<br />

3 gennaio, un network di diciotto televisioni locali, guidato<br />

dall’editore Edilio Rusconi, si era unito per trasmettere<br />

su scala nazionale il segnale di una nuova rete televisiva:<br />

Italia 1.<br />

24. Dopo aver lasciato la Prefettura di Palermo, alle 21.15 del 3 settembre 1982 la Autobianchi A112<br />

con a bordo Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro fu affiancata <strong>in</strong> via Car<strong>in</strong>i<br />

da una BMW dalla quale furono esplose raffiche di Kalashikov che uccisero il prefetto e sua moglie.<br />

Contemporaneamente l’auto con a bordo l’autista e l’agente di scorta Domenico Russo fu colpita da due<br />

uom<strong>in</strong>i <strong>in</strong> motocicletta, che uccisero Russo. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo Totò<br />

Ri<strong>in</strong>a, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Nenè Geraci e Bernardo Brusca, mentre gli<br />

esecutori sono stati identificati <strong>in</strong> V<strong>in</strong>cenzo Galatolo e Anton<strong>in</strong>o Madonia, anch’essi condannati<br />

all’ergastolo. Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci sono stati condannati a 14 anni.<br />

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ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 48<br />

ARMI IN PUGNO<br />

Quel giorno a Rovigo c’era il sole: faceva freddo, ma c’era<br />

il sole. Eppure <strong>in</strong> un punto il cielo si era scurito, sembrava<br />

notte, anche se le lancette dell’orologio segnavano le<br />

tre e mezza del pomeriggio. Era scoppiata una bomba:<br />

venti chili di esplosivo che avevano aperto una breccia<br />

nel muro del penitenziario femm<strong>in</strong>ile. Sotto quel cielo <strong>in</strong>grigitosi<br />

improvvisamente col boato di una improbabile<br />

saetta di Zeus, il pulviscolo dell’audacia aveva coperto la<br />

fuga di Susanna, Mar<strong>in</strong>a, Loredana e Federica. Che non<br />

erano donne qualsiasi, non erano detenute qualsiasi, “comuni”,<br />

ma donne condannate per appartenenza a banda<br />

armata. Donne che <strong>in</strong>vece di darla la vita, avevano scelto<br />

di poterla togliere e poterla perdere. La miccia no, la<br />

miccia l’aveva <strong>in</strong>nescata un uomo. Un ragazzo <strong>in</strong> “Prima<br />

l<strong>in</strong>ea” contro lo Stato. Il suo nome di battaglia era Sirio.<br />

Il comandante Sirio.<br />

Miccia corta<br />

Per squarciare il muro, Sergio Segio, alias Comandante<br />

Sirio, aveva parcheggiato l’auto rasente la c<strong>in</strong>ta del carcere<br />

e poi aveva <strong>in</strong>nescato la miccia: una miccia corta.<br />

Come ha ricordato <strong>in</strong> un libro chiamato proprio così,<br />

Miccia corta, dal quale, poi, è stato tratto un film (La<br />

prima l<strong>in</strong>ea): «Doveva essere un’azione motivata dall’amore<br />

e dalla solidarietà verso i nostri compagni… Si risolse<br />

<strong>in</strong>vece <strong>in</strong> un nuovo lutto». Sì, perché quell’esplosione<br />

spaventò a morte un pensionato uscito come sempre,<br />

ogni pomeriggio, per portare il suo cane a fare una passeggiata.<br />

Angelo Furlan, così si chiamava, aveva 64 anni,<br />

era iscritto al PCI dall’età della ragione e quel giorno si<br />

trovò nel più classico dei posti sbagliati nel momento<br />

sbagliato.<br />

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«Hai pianificato tutto, hai pensato a tutto e ti sei preoccupato<br />

che nessuno si faccia del male», mi confidò quando<br />

lo conv<strong>in</strong>si a scrivere un altro libro, Una vita <strong>in</strong> prima<br />

l<strong>in</strong>ea, «poi arriva l’imponderabile con le vesti di un<br />

pensionato» 25 . Quando lo sento al telefono, faccio sempre<br />

una notevole fatica perché parla a voce bassissima,<br />

forse per andare contro la naturale propensione a urlare<br />

che hanno tutti i sordi. Segio, <strong>in</strong>fatti, non ci sente da un<br />

orecchio: «Il regalo di un maresciallo che mi sfondò il<br />

timpano con la guida del telefono».<br />

Per quella e altre azioni, omicidi compresi, Segio ha<br />

scontato ventidue anni di carcere e poi, a pena conclusa,<br />

è entrato nel Gruppo Abele di don Luigi Ciotti per occuparsi<br />

di volontariato sui problemi di carcere, esclusione e<br />

tossicodipendenze. Nel 2003 gli è stato conferito il premio<br />

<strong>in</strong>ternazionale all’impegno sociale “Rosario Livat<strong>in</strong>o”,<br />

il giudice bamb<strong>in</strong>o ucciso dalla mafia.<br />

Quel 1982, però, Segio era ancora l’ex-comandante Sirio<br />

di Prima L<strong>in</strong>ea, una banda armata comunista formatasi<br />

nella seconda metà degli anni Settanta da reduci di Lotta<br />

cont<strong>in</strong>ua e Potere Operaio. Una sigla, Prima L<strong>in</strong>ea,<br />

mutuata dalla prima l<strong>in</strong>ea del servizio d’ord<strong>in</strong>e di Lotta<br />

cont<strong>in</strong>ua. Inizialmente il gruppo non aveva rivendicato le<br />

proprie azioni, anche perché nei primi mesi si autodef<strong>in</strong>iva<br />

«non un nuovo nucleo combattente, ma l’aggregazione<br />

di vari gruppi guerriglieri che f<strong>in</strong>ora hanno agito con<br />

sigle diverse» (dal testo di un comunicato fatto trovare<br />

dopo un’irruzione nella sede del gruppo dirigente della<br />

FIAT di Tor<strong>in</strong>o). Il modello di questa formazione – le cui<br />

tesi erano state def<strong>in</strong>ite <strong>in</strong> una riunione tenutasi a Salò,<br />

25. Dichiarazione resa all’autore.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

sul lago di Garda – era molto diverso rispetto alla rigida<br />

impostazione stal<strong>in</strong>ista delle Brigate Rosse, rifiutando la<br />

logica della clandest<strong>in</strong>ità per muoversi meglio e con maggiore<br />

dis<strong>in</strong>voltura nel “Movimento”. Altro punto di divergenza<br />

con le BR, il mettere l’azione al centro dell’attività<br />

politica, conf<strong>in</strong>ando <strong>in</strong> second’ord<strong>in</strong>e l’elaborazione ideologica<br />

(tipica <strong>in</strong>vece dei brigatisti). Per l’attività di questa<br />

formazione furono <strong>in</strong>quisite oltre novecento persone,<br />

un numero superiore a quello delle Brigate Rosse, nonostante<br />

una vita ben più breve, conclusasi nell’arco di un<br />

qu<strong>in</strong>quennio, dopo l’arresto nel 1980 di Michele Viscardi,<br />

alla f<strong>in</strong>e di una rocambolesca fuga seguita a una rap<strong>in</strong>a<br />

conclusasi nel sangue con l’uccisione del brigadiere Pietro<br />

Cuzzoli e dell’appuntato Ippolito Cortelessa. Il repent<strong>in</strong>o<br />

pentimento di Viscardi provocò la decapitazione di<br />

Prima L<strong>in</strong>ea: fra gli arrestati anche Susanna Ronconi, legata<br />

sentimentalmente proprio al comandante Sirio, che<br />

dopo l’azzeramento di PL diede vita ai COLP (Combattenti<br />

per la Liberazione Proletaria), e successivamente ai Nuclei<br />

comunisti. Proprio quando era a capo di quest’ultima<br />

formazione, Segio progettò l’assalto al carcere di Rovigo.<br />

Dalla breccia nel muro del penitenziario, oltre alla Ronconi,<br />

erano uscite anche Mar<strong>in</strong>a Premoli (figlia di un senatore<br />

liberale di Venezia), Loredana Biancamano e l’<strong>in</strong>fermiera<br />

milanese Federica Meroni. Nata a Venezia, dopo<br />

una militanza nella s<strong>in</strong>istra extraparlamentare, Susanna<br />

Ronconi era entrata nelle Brigate Rosse, partecipando<br />

anche all’azione che nel ’74 aveva provocato la morte<br />

di Giuseppe Giralucci e Graziano Mazzola nella sede miss<strong>in</strong>a<br />

di Padova. Uscita dalle BR, aveva aderito al progetto<br />

di Prima L<strong>in</strong>ea ed era stata arrestata a Firenze nel 1980.<br />

Evasa qu<strong>in</strong>di dal carcere di Rovigo, era stata nuovamen-<br />

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te arrestata e f<strong>in</strong>ì di scontare la sua pena nel ’98, diventando<br />

una specialista dei problemi legati alle tossicodipendenze.<br />

Rovigo, poligono di tiro<br />

Ventiquattro anni dopo l’assalto al penitenziario, Rovigo<br />

era salita nuovamente alla ribalta sovversiva: il 19 novembre<br />

2006 la campagna veneta era diventata una sorta<br />

di poligono di tiro, dove le “Nuove Brigate Rosse” si<br />

esercitavano a sparare.<br />

Rapporto della DIGOS: «Alle 17.10, <strong>in</strong> località Mardimago<br />

(Rovigo), lungo la prov<strong>in</strong>ciale che attraversa il paese, sono<br />

stati visti Davide Bortolato, Claudio Lat<strong>in</strong>o e Bruno<br />

Ghirardi mentre <strong>in</strong>sieme passeggiavano e conversavano<br />

tra loro. Poco più avanti, <strong>in</strong> un parcheggio, sono stati notati<br />

Toschi Massimiliano e Rossi Valent<strong>in</strong>o. Alle 17.20, <strong>in</strong><br />

condizioni di buio totale, gli ultimi due vanno <strong>in</strong> una zona<br />

meno frequentata. Hanno qu<strong>in</strong>di percorso l’arg<strong>in</strong>e per<br />

circa settecento metri, s<strong>in</strong>o a giungere <strong>in</strong> corrispondenza<br />

di un piccolo casolare […]. Le sagome si sono spostate<br />

di una vent<strong>in</strong>a di metri, <strong>in</strong> corrispondenza di un blocco<br />

di cemento, [dove] è stata notata accendersi la luce di<br />

una piccola torcia. Immediatamente dopo è stato dist<strong>in</strong>tamente<br />

udito il tipico rumore di scarrellamento di armi.<br />

Nel frattempo, arrivano gli altri tre brigatisti, dopo aver<br />

controllato che la zona fosse tranquilla. Ma il personale<br />

operante ha potuto udire, provenienti dal punto <strong>in</strong> cui il<br />

gruppo si era radunato, brevi e ripetute raffiche di mitra,<br />

nonché altri colpi s<strong>in</strong>goli. Nel corso dello svolgimento di<br />

questa attività si è vista qu<strong>in</strong>di una delle auto dei brigatisti<br />

staccarsi e girare per i soliti “controlli antisbirri”. Ma<br />

è stata <strong>in</strong> più occasioni <strong>in</strong>quadrata dalla nostra telecame-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ra […]. Accertato il def<strong>in</strong>itivo allontanamento di tutti i<br />

soggetti co<strong>in</strong>volti dalla zona delle “prove”, il personale ha<br />

proceduto a un sopralluogo e sono stati sequestrati quattro<br />

bossoli di due calibri diversi».<br />

Nessuno però era stato arrestato, perché, dicono i detective,<br />

«la lepre doveva ancora correre». Anche se era una<br />

lepre armata. «Noi», avevano spiegano alla DIGOS, «avevamo<br />

un solo patema: che colpissero. Perciò, anche se s’<strong>in</strong>filavano<br />

a tutta velocità contromano nelle strade, pedalando<br />

come ossessi, tentavamo di non perderli mai. E mai<br />

li abbiamo persi, anzi, eravamo spesso <strong>in</strong>sieme a loro, anche<br />

se <strong>in</strong>visibili, grazie ai nostri microfoni». La corsa di<br />

quella lepre ebbe term<strong>in</strong>e il 17 febbraio 2007, con la vasta<br />

operazione di polizia che portò <strong>in</strong> carcere anche la<br />

“componente veneta” delle Nuove Brigate Rosse, il cosiddetto<br />

Partito Comunista Politico Militare.<br />

LA VITA SPERICOLATA DI MARCO DONAT CATTIN<br />

Verona, 19 giugno 1988. Domenica e, come tutte le domeniche,<br />

l’autostrada A4 che collega Venezia a Milano<br />

era trafficata più che mai. La giornata era quasi ormai<br />

term<strong>in</strong>ata e il traffico <strong>in</strong>tenso nelle due direzioni annunciava<br />

che la festa era f<strong>in</strong>ita. Dall’<strong>in</strong>domani si tornava a lavorare.<br />

All’altezza dello sv<strong>in</strong>colo con la Modena-Brennero,<br />

una FIAT Regata aveva tamponato violentemente una<br />

BMW: un <strong>in</strong>cidente che aveva co<strong>in</strong>volto altre quattro vetture.<br />

Un’auto aveva preso fuoco, c<strong>in</strong>que persone erano<br />

rimaste ferite, mentre una donna, Andre<strong>in</strong>a Furlan, era<br />

morta. Un <strong>in</strong>ferno d’asfalto sul quale giacevano altre due<br />

persone, un uomo e una donna: Alberto Quagli e Franca<br />

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Marchetto, <strong>in</strong> condizioni gravissime. Una scena apocalittica.<br />

Dal fumo che tutto avvolgeva <strong>in</strong> una nuvola di orrore<br />

era comparso all’improvviso un uomo che correva agitando<br />

le braccia e urlando per attirare l’attenzione delle<br />

auto <strong>in</strong> corsa: voleva che si fermassero per prestare<br />

aiuto o che almeno rallentassero. I telefoni cellulari sono<br />

ancora di là da venire. Anche lui stava passando con<br />

la sua auto, ma si era fermato non appena si era reso<br />

conto di quanto fosse successo. Alto, robusto, un bel ragazzo<br />

di 35 anni che però non era un ragazzo come tutti<br />

gli altri. Sulle spalle si portava sette anni di galera degli<br />

undici che gli erano stati comm<strong>in</strong>ati per partecipazione<br />

a banda armata: precisamente Prima L<strong>in</strong>ea, sotto<br />

la cui sigla aveva firmato rap<strong>in</strong>e, ferimenti e uccisioni.<br />

Era riuscito a evitare decenni di carcere perché era stato<br />

un collaboratore di giustizia, un pentito. Il suo nome:<br />

Marco Donat Catt<strong>in</strong>.<br />

Un nome importante. Suo padre era un papavero della<br />

Democrazia cristiana: Carlo Donat Catt<strong>in</strong> 26 . Uscito di<br />

prigione, Marco s’era messo a lavorare come assistente<br />

sociale <strong>in</strong> un istituto per bamb<strong>in</strong>i abbandonati, il Razzetti,<br />

poi al progetto Exodus nella comunità di don Antonio<br />

Mazzi. Ora correva nel buio, nell’<strong>in</strong>ferno di quell’<strong>in</strong>cidente,<br />

quando all’improvviso dal fumo era uscita<br />

un’automobile che lo aveva travolto. Il suo corpo era diventato<br />

un manich<strong>in</strong>o volato per aria e ricaduto rov<strong>in</strong>osamente<br />

sull’asfalto. Era morto così Marco Donat Catt<strong>in</strong>,<br />

travolto sulla A4 nel tentativo di portare soccorso <strong>in</strong><br />

un <strong>in</strong>cidente.<br />

26. Carlo Donat Catt<strong>in</strong> è stato più volte m<strong>in</strong>istro. È morto il 17 marzo 1991.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Una storia ribelle<br />

La “vita contro” di Marco Donat Catt<strong>in</strong>, classe 1953, era<br />

<strong>in</strong>iziata a Tor<strong>in</strong>o nel 1974, quando aveva preso servizio come<br />

bibliotecario al liceo scientifico Galileo Ferraris, noto<br />

come il “Gal-Fer”. Pur essendo figlio di uno dei politici più<br />

importanti, la sua era una vita precaria, <strong>in</strong>quieta, simile a<br />

quella di tanti ragazzi del suo tempo <strong>in</strong> un Paese devastato<br />

dalle bombe e dagli scontri di piazza, dove spesso ci<br />

scappava anche il morto. Gli studenti del “Gal-Fer” erano<br />

sempre fra i più attivi nelle manifestazioni.<br />

Nell’autunno del 1976, Lotta Cont<strong>in</strong>ua aveva deciso di<br />

sciogliersi. Per alcuni militanti del servizio d’ord<strong>in</strong>e era<br />

l’occasione per il def<strong>in</strong>itivo salto di qualità: il passaggio<br />

alla lotta armata. Fra essi, Marco Donat Catt<strong>in</strong>. La formazione,<br />

quella di Prima L<strong>in</strong>ea. Il 29 novembre 1976, un<br />

commando di cui faceva parte anche Marco aveva assaltato<br />

l’Associazione Dirigenti FIAT di Tor<strong>in</strong>o. La prima azione.<br />

La più feroce fu quella che nel ‘79 lo vide partecipare<br />

all’uccisione del sostituto procuratore di Milano Emilio<br />

Alessandr<strong>in</strong>i 27 . La “carriera” nella lotta armata di Marco<br />

f<strong>in</strong>ì nel 1980, precisamente il 18 febbraio, quando i carab<strong>in</strong>ieri<br />

arrestarono a Tor<strong>in</strong>o il brigatista Patrizio Peci.<br />

Poco più di un mese dopo, Peci <strong>in</strong>iziò a parlare, a rivelare<br />

tutto: nomi, fatti, date. A parlare anche di Prima L<strong>in</strong>ea,<br />

facendo i nomi dei suoi leader: fra questi, Marco Donat<br />

Catt<strong>in</strong>. Una rivelazione esplosiva. Una confidenza da<br />

fare tremare il palazzo.<br />

L’8 maggio successivo, il quotidiano romano “Paese sera”<br />

riportò le affermazioni di Peci su Marco Donat Catt<strong>in</strong>.<br />

27 Il giudice Emilio Alessandr<strong>in</strong>i fu ucciso da un commando di Prima L<strong>in</strong>ea la matt<strong>in</strong>a del 29 gennaio<br />

1979 mentre si recava al Palazzo di Giustizia di Milano.<br />

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Due giorni dopo fu pubblicata la notizia di un mandato di<br />

cattura contro il figlio del vice segretario della DC, imputato<br />

anche per l’omicidio del giudice Alessandr<strong>in</strong>i. La<br />

nuova accusa era arrivata da Roberto Sandalo, “pentito”<br />

di Prima L<strong>in</strong>ea. Questi aveva detto ai magistrati che il suo<br />

capo era riuscito a scappare perché il presidente Francesco<br />

Cossiga aveva avvisato Donat Catt<strong>in</strong> e quest’ultimo<br />

suo figlio. Carlo Donat Catt<strong>in</strong> s’era qu<strong>in</strong>di dimesso dalla<br />

segreteria DC ed era stato sostituito dal compagno di corrente<br />

Vittor<strong>in</strong>o Colombo. Il 31 maggio la Commissione <strong>in</strong>quirente<br />

(l’organo addetto a giudicare i reati m<strong>in</strong>isteriali)<br />

assolse Cossiga per il caso Donat Catt<strong>in</strong> con una maggioranza<br />

risicata: undici voti contro nove. Determ<strong>in</strong>ante<br />

il voto dei commissari di nom<strong>in</strong>a PSI.<br />

Questa la sequenza degli avvenimenti f<strong>in</strong>o a quel momento:<br />

il 24 aprile, il senatore Donat Catt<strong>in</strong> aveva <strong>in</strong>contrato<br />

il presidente del consiglio Cossiga per parlargli di<br />

suo figlio e l’<strong>in</strong>domani aveva chiesto a Roberto Sandalo di<br />

r<strong>in</strong>tracciare Marco e avvertirlo che il pentito Patrizio Peci<br />

aveva fatto il suo nome. Sandalo sarà arrestato il 29<br />

aprile a Tor<strong>in</strong>o. Pentitosi, rivelerà il presunto favoreggiamento<br />

di Cossiga nei confronti di Donat Catt<strong>in</strong>. Le confessioni<br />

di Sandalo proseguirono per quattordici giorni. Il<br />

suo nome era stato fatto da Patrizio Peci, che lo aveva <strong>in</strong>contrato<br />

due volte per valutare il suo <strong>in</strong>gresso nelle Brigate<br />

Rosse dopo aver abbandonato Prima L<strong>in</strong>ea. Era stato<br />

<strong>in</strong> uno di questi <strong>in</strong>contri che Sandalo aveva rivelato a<br />

Peci il nome di Marco Donat Catt<strong>in</strong>. Anche lui – aveva<br />

confidato Sandalo al capo brigatista – voleva lasciare PL<br />

perché ormai <strong>in</strong> rotta di collisione con l’esecutivo. Il 2<br />

maggio il vicecapo del SISDE, Silvano Russomanno, aveva<br />

consegnato al giornalista Fabio Isman – che li aveva pub-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

blicati sulle pag<strong>in</strong>e del quotidiano “Il Messaggero” a partire<br />

dal 4 maggio – i verbali delle confessioni di Peci. Il<br />

verbale però non era completo, mancava <strong>in</strong>fatti una pag<strong>in</strong>a,<br />

la numero 50, quella che conteneva le rivelazioni di<br />

Peci su Marco Donat Catt<strong>in</strong>.<br />

Il 7 maggio, “Lotta Cont<strong>in</strong>ua”, che aveva avuto da Fabio<br />

Ismam copia dei verbali dell’<strong>in</strong>terrogatorio di Peci, era<br />

uscita con un supplemento di 16 pag<strong>in</strong>e, mentre nell’edizione<br />

pomeridiana dello stesso giorno, “Paese sera” aveva<br />

titolato: “Peci: il figlio di Donat Catt<strong>in</strong> fa parte di Prima<br />

L<strong>in</strong>ea”. Fabio Ismam era stato arrestato per divulgazione<br />

di atti giudiziari. Contemporaneamente era stato<br />

spiccato un mandato di cattura contro Marco Donat Catt<strong>in</strong>.<br />

L’11 maggio era però scappato <strong>in</strong> Francia, dest<strong>in</strong>azione<br />

Parigi: lo stesso giorno <strong>in</strong> cui i giornali avevano pubblicato<br />

la notizia della sua partecipazione all’uccisione<br />

del giudice Alessandr<strong>in</strong>i.<br />

Polemiche <strong>in</strong>crociate<br />

Venerdì 7 settembre 2007, dalle pag<strong>in</strong>e del “Corriere della<br />

sera”, l’emerito presidente della Repubblica, Francesco<br />

Cossiga, rivelò <strong>in</strong> un’<strong>in</strong>tervista i retroscena della sua<br />

<strong>in</strong>formazione all’amico Carlo Donat Catt<strong>in</strong>. Un’<strong>in</strong>tervista<br />

che suscitò molte polemiche.<br />

«Vennero da me», spiegò Cossiga, «Virg<strong>in</strong>io Rognoni, che<br />

era il m<strong>in</strong>istro dell’Interno, e Flam<strong>in</strong>io Piccoli, segretario<br />

della DC. Patrizio Peci, il primo pentito del terrorismo,<br />

aveva com<strong>in</strong>ciato a parlare. E aveva fatto il nome di Marco<br />

Donat Catt<strong>in</strong>. Rognoni mi chiese: “Diglielo tu a Donat<br />

Catt<strong>in</strong>, perché io non ci vado d’accordo”. Presi su di me<br />

la grana. Verificai la notizia con il generale Dalla Chiesa.<br />

E avvertii il mio m<strong>in</strong>istro che suo figlio era ricercato […].<br />

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Chiesi a Donat Catt<strong>in</strong> di dire al figlio di consegnarsi e raccontare<br />

tutto quanto sapeva».<br />

L’<strong>in</strong>domani, su “Il Giornale”, Roberto Sandalo aveva fornito<br />

la sua versione dei fatti.<br />

«[Carlo Donat Catt<strong>in</strong>] Mi convocò a casa sua, a Tor<strong>in</strong>o, la<br />

matt<strong>in</strong>a del 25 aprile 1980. Erano le sette e mezzo, aveva<br />

il pigiama a righe e gli occhialoni. Venne subito al dunque:<br />

“Ieri sera Cossiga mi ha detto che Patrizio Peci ha<br />

parlato. Mio figlio è <strong>in</strong> Prima L<strong>in</strong>ea ed è uno dei capi. Cossiga<br />

mi suggerisce di dirgli di scappare all’estero perché<br />

se lo pigliano <strong>in</strong> Italia, con le elezioni <strong>in</strong> vista, è un cas<strong>in</strong>o”.<br />

Il senatore e la moglie Amalia cont<strong>in</strong>uavano a ripetere:<br />

andiamo a prenderlo, partiamo subito. Io li fermai:<br />

non so dov’è. Dovete pazientare. Io e Marco eravamo<br />

usciti da Prima L<strong>in</strong>ea nell’ottobre precedente, portandoci<br />

dietro un terzo circa dell’organizzazione. Sapevo a malapena<br />

che era a Brescia. Poi ero preoccupato; avevamo<br />

tutti e due sulla coscienza reati da ergastolo e non sapevo<br />

nemmeno che Peci si era pentito, ma il m<strong>in</strong>istro del<br />

Lavoro mi rassicurò: “Sandalo, stia tranquillo, lei è <strong>in</strong> una<br />

botte di ferro”».<br />

«Aspettai il lunedì e la f<strong>in</strong>e del ponte. Il 28 andai a lavorare<br />

alla Simca e feci alcune telefonate. Alle due e mezzo<br />

un contatto mi chiamò: Marco è stato avvisato, ti r<strong>in</strong>grazia.<br />

Mia mamma parlò con la signora Amalia che però<br />

era tesissima e si auto-<strong>in</strong>vitò a cena a casa nostra. E a cena<br />

accadde l’<strong>in</strong>credibile: una telefonata per la signora<br />

Amalia. Tornò a tavola felice. Disse che era il convivente<br />

della figlia che, guarda la comb<strong>in</strong>azione, aveva <strong>in</strong>contrato<br />

a Milano Marco: tutto ok».<br />

«Inverosimile. Qualcuno, ai piani alti delle istituzioni,<br />

confermava il mio contatto: Marco era <strong>in</strong> fuga. Accompa-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

gnammo Amalia a casa sua, tornammo a Mirafiori: polizia<br />

da tutte le parti. Scappai. Ma dove Prima L<strong>in</strong>ea mi voleva<br />

morto. Andai nell’unico posto dove non mi avrebbero<br />

cercato: da Maria Pia Donat Catt<strong>in</strong>, la sorella di Marco.<br />

Ma non avevo vie d’uscita: ero il figlio di un operaio, non<br />

di un m<strong>in</strong>istro. La matt<strong>in</strong>a dopo andai <strong>in</strong> fabbrica e lì un<br />

agente della DIGOS, travestito da autista, mi puntò una pistola<br />

alla tempia».<br />

«Querelerò Cossiga quando dice che ero stato catturato<br />

e rimesso <strong>in</strong> libertà a seguito di un accordo fra il giudice<br />

Giancarlo Caselli e la polizia per utilizzarmi come agente<br />

provocatore contro Marco. Una follia: perché non accetta<br />

un confronto con me <strong>in</strong> TV A novembre però i carab<strong>in</strong>ieri<br />

di Dalla Chiesa mi mostrarono le foto di Marco scattate<br />

col teleobiettivo a Parigi. Confermai: è lui. Così anche<br />

Donat-Catt<strong>in</strong> fu bl<strong>in</strong>dato».<br />

Storie, versioni. Gli unici che non possono dire la loro sono<br />

i diretti protagonisti: Carlo Donat Catt<strong>in</strong>, morto a<br />

Montecarlo nel ’91, e suo figlio Marco, travolto tre anni<br />

prima da un’auto mentre cercava di portare soccorso sulla<br />

A4, all’altezza di Verona.<br />

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I NERI<br />

LA PISTA VENETA DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA<br />

Il 15 aprile 1969, cioè otto mesi prima della strage di<br />

piazza Fontana, era esplosa una bomba collocata nel rettorato<br />

di Padova, occupato dal professor Enrico Opocher.<br />

Responsabili, appartenenti alle classi più elevate di<br />

una borghesia che strizzava l’occhio al neofascismo. Da<br />

Padova, a Treviso, dove Guido Lorenzon era il segretario<br />

di una sezione della Democrazia cristiana. La sera del 15<br />

dicembre 1969 – cioè tre giorni dopo l’esplosione della<br />

bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano e<br />

mentre l’anarchico P<strong>in</strong>o P<strong>in</strong>elli volava dal quarto piano<br />

della Questura milanese – Lorenzon si trovava nello studio<br />

dell’avvocato Alberto Steccanella, cui confidava,<br />

chiedendo consiglio, di essere a conoscenza di fatti <strong>in</strong>quietanti<br />

riguardanti le bombe del 12 dicembre 28 . Fatti<br />

che riguardavano Giovanni Ventura, un piccolo editore di<br />

Treviso che lui conosceva da anni.<br />

Ventura non solo gli aveva dato <strong>in</strong>formazioni precise e<br />

dettagliate su quelle bombe, ma alcune settimane prima<br />

gli aveva descritto gli attentati ai treni compiuti nel Nord<br />

Italia nella notte tra l’8 e il 9 agosto, rivendicando l’appartenenza<br />

a un’organizzazione clandest<strong>in</strong>a e mettendolo al<br />

28. Oltre alla bomba esplosa alle 16.37 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana (17<br />

morti e 88 feriti), a Milano era stato r<strong>in</strong>venuto un ulteriore ordigno nella Banca Commerciale Italiana di<br />

piazza della Scala. Alle 16.55 scoppiò un’altra bomba, questa volta a Roma, nel passaggio sotterraneo<br />

che collegava l’entrata di via Veneto con quella di via San Basilio della Banca Nazionale del Lavoro,<br />

provocando il ferimento di tredici persone. Fra le 17.20 e le 17.30, nella capitale esplosero altre due<br />

bombe: una davanti all’Altare della Patria e la seconda all’<strong>in</strong>gresso del Museo del Risorgimento, ferendo<br />

quattro persone.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

corrente del progetto di un colpo di Stato imm<strong>in</strong>ente.<br />

L’avvocato Steccanella aveva qu<strong>in</strong>di consigliato il suo <strong>in</strong>terlocutore<br />

di stendere un memoriale dettagliato da presentare<br />

alla magistratura. Lorenzon si trovò così faccia a<br />

faccia col procuratore Pietro Calogero che, sulla base di<br />

quel memoriale, aveva aperto un’istruttoria nei confronti<br />

del Ventura. Lorenzon aveva poi cercato Ventura e i<br />

due si erano qu<strong>in</strong>di nuovamente <strong>in</strong>contrati, ma l’editore<br />

veneto non sapeva che questa volta le sue confidenze<br />

erano registrate dalla polizia giudiziaria: meno di un mese<br />

dopo, il procuratore Calogero aveva raccolto <strong>in</strong>dizi<br />

sufficienti non solo contro di lui, ma anche nei confronti<br />

di Franco Freda, nome emerso da quelle registrazioni.<br />

Pochi giorni dopo l’attentato al rettore di Padova, il commissario<br />

di pubblica sicurezza Pasquale Juliano aveva ord<strong>in</strong>ato<br />

perquisizioni nelle abitazioni di diversi neofascisti<br />

e una sua fonte, Franco Tommasoni, gli aveva riferito che<br />

responsabile di quelli e di altri attentati era un’organizzazione<br />

con a capo Franco Freda, Giovanni Ventura e Marco<br />

Pozzan, un bidello dell’istituto Configliachi di Padova.<br />

Inoltre, Nicolò Pezzato, un pregiudicato, <strong>in</strong> cambio di denaro<br />

aveva fatto a Juliano i nomi di altri componenti la<br />

cellula eversiva, fra cui quello di Massimiliano Fach<strong>in</strong>i,<br />

che il commissario aveva fatto ped<strong>in</strong>are perché sospettato<br />

di essere l’armiere del gruppo neofascista.<br />

Gli appostamenti avevano dato il loro frutto: un giorno,<br />

dall’abitazione del Fach<strong>in</strong>i, era uscito Giancarlo Patrese,<br />

un neofascista che, fermato e perquisito, era stato trovato<br />

<strong>in</strong> possesso di una Beretta calibro 9 e di un ordigno<br />

esplosivo. Era la prova che Juliano cercava. Aveva qu<strong>in</strong>di<br />

arrestato Fach<strong>in</strong>i e i suoi camerati, ma per lui erano<br />

<strong>in</strong>iziati i guai. Alcuni degli arrestati e i confidenti aveva-<br />

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no scagionato <strong>in</strong>fatti Patrese, denunciando una macch<strong>in</strong>azione<br />

orchestrata da Juliano. Così, il commissario era<br />

stato prima sospeso dal servizio, poi trasferito a Matera,<br />

mentre il carab<strong>in</strong>iere Alberto Murano, l’unico testimone<br />

<strong>in</strong>tervenuto <strong>in</strong> suo favore, era morto <strong>in</strong> circostanze sospette,<br />

volando nella tromba di un ascensore.<br />

Rivelazioni e depistaggi<br />

A <strong>in</strong>castrare però Ventura & company si era aggiunto anche<br />

un muratore che, mentre svolgeva alcuni lavori <strong>in</strong><br />

un’abitazione di Castelfranco Veneto, aveva sfondato<br />

<strong>in</strong>avvertitamente una tramezza che divideva quella casa<br />

da un’altra, trovandosi al cospetto di una vera santa barbara:<br />

pistole, fucili, mitra, esplosivo. Giancarlo Marches<strong>in</strong>,<br />

proprietario di quella casa, era stato così arrestato.<br />

«Quelle armi», aveva rivelato, «sono state nascoste da<br />

Giovanni Ventura dopo gli attentati del 12 dicembre. Prima<br />

si trovavano nell’abitazione di Ruggero Pan». La polizia<br />

aveva perciò <strong>in</strong>terrogato questo Ruggero Pan, che<br />

aveva dichiarato: «Durante l’estate del 1969, dopo gli attentati<br />

ai treni, Ventura mi aveva chiesto di comprare<br />

delle casse metalliche tedesche di marca Jewell. Diceva<br />

che quelle di legno usate per collocarvi gli esplosivi negli<br />

attentati non avevano prodotto l’effetto sperato: quello<br />

di compressione esplosiva del metallo. Io mi sono rifiutato<br />

di acquistarle, ma il giorno dopo notai da Ventura una<br />

cassetta di metallo. Ho presto compreso che altri erano<br />

andati a comprarla al posto mio» 29 .<br />

In più, ora i magistrati sapevano che il gruppo neofascista<br />

si riuniva nella sala di un istituto universitario di Pa-<br />

29. Commissione parlamentare d’<strong>in</strong>chiesta sul terrorismo <strong>in</strong> Italia, X Legislatura.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

dova, grazie alla collaborazione del custode, Marco Pozzan,<br />

braccio destro di Franco Freda. Interrogato, Pozzan<br />

aveva parlato di una riunione notturna tenutasi il 18 aprile<br />

con P<strong>in</strong>o Rauti, <strong>in</strong> cui si era deciso il piano degli attentati,<br />

ma pochi giorni dopo aveva ritrattato tutto e, tornato<br />

<strong>in</strong> libertà, aveva fatto perdere le sue tracce.<br />

«Gli apparati dello Stato», dichiarò sconsolato il procuratore<br />

Calogero, «com<strong>in</strong>ciano a lavorare non a favore<br />

delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i, ma contro di esse. Non per collaborare<br />

con i giudici, ma per <strong>in</strong>tralciare e depistare il loro lavoro.<br />

Pozzan aveva dato segni di cedimento <strong>in</strong> un <strong>in</strong>terrogatorio<br />

e aveva rivelato fatti di notevole rilievo sulla<br />

strategia della tensione e sulla sua matrice di destra. Era<br />

così importante avere la disponibilità fisica di Pozzan.<br />

Ma uom<strong>in</strong>i del SID avevano <strong>in</strong>tercettato Pozzan durante<br />

la sua latitanza, lo avevano condotto a Roma, <strong>in</strong> via Sicilia<br />

dove il SID aveva uffici di copertura, e lo avevano sottoposto<br />

a un <strong>in</strong>terrogatorio per saggiarne la tenuta,<br />

qu<strong>in</strong>di lo avevano fatto espatriare <strong>in</strong> Spagna fornendogli<br />

un passaporto falso» 30 .<br />

I processi<br />

Il 21 marzo del 1972 il giudice Giancarlo Stiz di Treviso<br />

trasmise il fascicolo riguardante Freda e Ventura alla<br />

procura di Milano per competenza e da quel momento<br />

l’<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e era passata nelle mani del giudice Gerardo<br />

D’Ambrosio e dei sostituti Luigi Rocco Fiasconaro ed<br />

Emilio Alessandr<strong>in</strong>i. Chiusa l’istruttoria, seguì l’Assise a<br />

Catanzaro, dove il processo era stato spostato, e il 23 febbraio<br />

1979 era stata emessa la sentenza di primo grado:<br />

30. Ibidem<br />

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ergastolo per Freda, Ventura, Pozzan e l’agente del SID<br />

Guido Giannett<strong>in</strong>i 31 , due e quattro anni rispettivamente<br />

ai carab<strong>in</strong>ieri Antonio La Bruna e Gian Adelio Maletti, anch’essi<br />

appartenenti al SID, mentre Giulio Andreotti, Mario<br />

Tanassi e Mariano Rumor furono r<strong>in</strong>viati a giudizio<br />

per reati m<strong>in</strong>isteriali.<br />

L’anarchico Pietro Valpreda e il neofascista Mario Merl<strong>in</strong>o<br />

(<strong>in</strong>filtrato nel circolo anarchico 22 marzo di Roma)<br />

erano stati condannati a quattro anni e sei mesi di reclusione,<br />

ma assolti dall’accusa di strage per <strong>in</strong>sufficienza di<br />

prove. Il 20 marzo 1981, la Corte d’Assise di Appello di<br />

Catanzaro aveva assolto Giannett<strong>in</strong>i, Freda, Ventura, Maletti<br />

e La Bruna per il reato di falsità ideologica, decretato<br />

l’<strong>in</strong>sufficienza di prove per Merl<strong>in</strong>o, condannato a<br />

qu<strong>in</strong>dici anni Freda e Ventura per associazione sovversiva,<br />

e prosciolto Pozzan. Il 10 giugno 1982, la Corte di<br />

Cassazione annullava la sentenza di Appello, r<strong>in</strong>viando il<br />

processo a Bari. Il 1° agosto 1985, la Corte d’Assise d’Appello<br />

di Bari confermava le sentenze di assoluzione per<br />

<strong>in</strong>sufficienza di prove per strage nei confronti di Valpreda,<br />

Merl<strong>in</strong>o, Freda e Ventura, riducendo ulteriormente le<br />

pene contro La Bruna e Maletti. Il 22 gennaio ’87, la Corte<br />

di Cassazione confermava la sentenza emanata dalla<br />

Corte d’Assise d’Appello di Bari, mentre proseguiva la<br />

quarta istruttoria sulla strage, durata f<strong>in</strong>o al 1986.<br />

Al centro di questa nuova <strong>in</strong>chiesta, Stefano Delle Chiaie<br />

e Massimiliano Fach<strong>in</strong>i. Il 25 luglio 1989 la Corte d’Assise<br />

di Catanzaro però li assolveva dall’imputazione del<br />

delitto di strage per non aver commesso il fatto. Il 5 lu-<br />

31. In un’<strong>in</strong>tervista a “Il Mondo”, pubblicata il 20 giugno 1974, Giulio Andreotti, all’epoca m<strong>in</strong>istro della<br />

Difesa, <strong>in</strong>dicò Guido Giannett<strong>in</strong>i come uomo del SID, sostenendo che era stato un errore tenere nascosta<br />

questa <strong>in</strong>formazione agli <strong>in</strong>quirenti durante le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i per la strage di piazza Fontana.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

glio 1991 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro confermava<br />

la sentenza di primo grado. La sentenza di Appello<br />

diventava def<strong>in</strong>itiva per decorso del term<strong>in</strong>e utile al ricorso<br />

per Cassazione.<br />

So chi è stato<br />

Tra il ’91 e il ’92, V<strong>in</strong>cenzo V<strong>in</strong>ciguerra 32 , esponente di<br />

Avanguardia Nazionale, riempiva centoc<strong>in</strong>quanta pag<strong>in</strong>e<br />

di verbali <strong>in</strong> cui parlava anche del gruppo neofascista La<br />

Fenice e dei contatti di questo gruppo con Ord<strong>in</strong>e Nuovo<br />

del Veneto. Questo gruppo aveva il suo baricentro nel<br />

Veneto, ma naturalmente aveva agito anche a Roma e a<br />

Milano. Nel 1992 il SISMI, il servizio segreto militare, aveva<br />

<strong>in</strong>dividuato nel suo rifugio all’estero Mart<strong>in</strong>o Siciliano<br />

che davanti ai giudici affermava: «Pochi giorni dopo la<br />

strage di Piazza Fontana mi trovavo nella Galleria Matteotti<br />

di Mestre <strong>in</strong> compagnia di camerati del MSI, fra cui<br />

l’ex-senatore Piergiorgio Gradari. Parlando di quanto era<br />

avvenuto a Milano, a un certo punto ebbi una crisi di<br />

pianto. Nel corso di questa crisi, confidai a Granari la mia<br />

conv<strong>in</strong>zione che la strage non fosse opera degli anarchici,<br />

ma che fosse da attribuirsi a elementi di Ord<strong>in</strong>e Nuovo<br />

di Venezia e Padova. Gradari mi consigliò di calmarmi<br />

e mi disse che, anche se ciò che pensavo fosse stato vero,<br />

avrei dovuto tenermelo per me. C’era l’assoluta somiglianza<br />

fra gli ordigni che avevo visto e materialmente<br />

deposto a Trieste e Gorizia con la descrizione che era stata<br />

fatta dai giornali della bomba esplosa alla Banca Nazionale<br />

dell’Agricoltura. Intendo riferirmi al contenitore dell’esplosivo<br />

che era costituito <strong>in</strong> tutti e tre i casi da una<br />

32. Autore della strage di Peteano. Vedi capitolo successivo.<br />

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cassetta metallica. I giornali, <strong>in</strong>oltre, avevano riportato la<br />

notizia che l’esplosivo impiegato era costituito da candelotti<br />

di gelignite perfettamente analoghi a quelli che avevo<br />

visto, manipolati e <strong>in</strong>nescati <strong>in</strong>sieme a Delfo Zorzi nei<br />

due falliti attentati di Trieste e Gorizia. Mi è qu<strong>in</strong>di venuta<br />

<strong>in</strong> mente l’affermazione di Delfo Zorzi nel corso del<br />

viaggio a Trieste. Disse che vi erano molte altre cassette<br />

metalliche e molto altro materiale, cioè candelotti di gelignite<br />

come quelli che stavamo trasportando <strong>in</strong> quel momento»<br />

33 . Affermazioni che avevano generato una nuova<br />

<strong>in</strong>chiesta.<br />

La pietra tombale<br />

Il 21 maggio 1998 la Procura di Milano chiudeva la nuova<br />

<strong>in</strong>chiesta sulla strage chiedendo il r<strong>in</strong>vio a giudizio per<br />

Carlo Maria Maggi, Delfo Zorgi, Giancarlo Rognoni, Carlo<br />

Digilio e per i due ex-appartenenti a Ord<strong>in</strong>e Nuovo, Piero<br />

Andreatta e Piercarlo Motagner, con l’accusa di favoreggiamento.<br />

L’8 giugno dell’anno successivo erano stati<br />

r<strong>in</strong>viati a giudizio per strage Zorzi, Maggi e Rognoni. Per<br />

favoreggiamento nei confronti di Zorzi era stato r<strong>in</strong>viato<br />

a giudizio Stefano Tr<strong>in</strong>gali: sorte toccata <strong>in</strong> seguito anche<br />

a Carlo Digilio. In un’<strong>in</strong>tervista al TG2, dalla sua latitanza<br />

giapponese Delfo Zorzi dichiarava che i servizi segreti<br />

italiani avevano dato 100 milioni di lire al pentito Mart<strong>in</strong>o<br />

Siciliano perché <strong>in</strong>dicasse <strong>in</strong> lui l’autore materiale della<br />

strage.<br />

Il 24 febbraio 2000 si era aperto a Milano il settimo processo<br />

e il 30 giugno dell’anno successivo erano stati condannati<br />

all’ergastolo Zorzi, Maggi e Rognoni, mentre i<br />

33. Fonte: Retegreen.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

reati per Digilio risultavano prescritti dopo la concessione<br />

delle attenuanti generiche per la sua collaborazione.<br />

Tr<strong>in</strong>gali era stato condannato a tre anni per favoreggiamento<br />

(il PM ne aveva chiesti due). Il 19 gennaio 2002<br />

erano state depositate le motivazioni della sentenza, <strong>in</strong><br />

cui i pentiti Carlo Digilio e Mart<strong>in</strong>o Siciliano venivano dichiarati<br />

credibili. Il 6 luglio dello stesso anno era morto<br />

Pietro Valpreda (aveva 69 anni) mentre il 22 novembre<br />

veniva scoperta la fuga all’estero di Mart<strong>in</strong>o Siciliano, exappartenente<br />

a Ord<strong>in</strong>e Nuovo e vecchio amico di Delfo<br />

Zorzi, nonché collaboratore di giustizia nell’ambito delle<br />

<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i per le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della<br />

Loggia a Brescia.<br />

Il 22 gennaio 2004 il sostituto procuratore generale, al<br />

term<strong>in</strong>e della requisitoria, aveva chiesto la conferma delle<br />

condanne emesse nella sentenza di primo grado e <strong>in</strong>vitava<br />

la Corte a trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica<br />

per verificare eventuali false testimonianze da<br />

parte di alcuni testimoni della difesa. Il 12 marzo successivo,<br />

la Corte d’Assise d’Appello di Milano assolveva Delfo<br />

Zorzi e Carlo Maria Maggi (sotto processo anche per la<br />

strage di Brescia e quella alla questura di Milano) per <strong>in</strong>sufficienza<br />

di prove, Giancarlo Rognoni per non aver<br />

commesso il fatto e riduceva da tre anni a uno la pena<br />

per Stefano Tr<strong>in</strong>gali con la sospensione condizionale e la<br />

non menzione della condanna. Veniva qu<strong>in</strong>di revocata<br />

l’ord<strong>in</strong>anza di arresto (per altro mai eseguita perché latitante<br />

<strong>in</strong> Giappone) nei confronti di Zorzi e la misura cautelare<br />

dell’obbligo di dimora per Maggi.<br />

Il 21 aprile 2005 <strong>in</strong>iziava il lavoro della Corte di Cassazione<br />

che doveva valutare il ricorso presentato dalla Procura<br />

generale milanese contro le sentenze di assoluzione<br />

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della Corte d’Appello. Il 3 maggio successivo la Cassazione<br />

metteva la pietra tombale su Piazza Fontana, confermando<br />

le sentenze dei giudici della Corte D’Appello e<br />

condannando al pagamento delle spese processuali i parenti<br />

delle vittime.<br />

PETEANO, PROVINCIA DI ORDINE NUOVO<br />

Peteano è un piccolo paese <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Gorizia. Un<br />

piccolo paese con una piccola stazione di carab<strong>in</strong>ieri,<br />

dove il 31 maggio 1972 era arrivata una telefonata che<br />

raccoglieva il carab<strong>in</strong>iere Domenico La Malfa: «Senta,<br />

vorrei dirle che xè una mach<strong>in</strong>a che la gà do busi sul<br />

parabresa. La xè una s<strong>in</strong>quesento bianca, vis<strong>in</strong> la ferovia,<br />

sula strada per Savogna». Ma chi parla Click, f<strong>in</strong>e<br />

della comunicazione. Non restava che andare sul posto<br />

per verificare.<br />

C’erano andati <strong>in</strong> quattro, con due gazzelle, e avevano<br />

facilmente r<strong>in</strong>tracciato la FIAT 500 col parabrezza sfondato<br />

dai colpi di pistola. Non erano artificieri, quei<br />

quattro, ma semplici carab<strong>in</strong>ieri di una piccola stazione<br />

di un piccolo paese. Non sapevano, né potevano immag<strong>in</strong>are,<br />

che nel bauletto di quella piccola macch<strong>in</strong>a<br />

era stipato dell’esplosivo sufficiente per farli saltare <strong>in</strong><br />

aria. Non sapevano che forzare quel baule significava<br />

attivare un congegno mortale. E fu proprio ciò che accadde.<br />

La deflagrazione uccise tre dei quattro militi:<br />

Antonio Ferraro, Franco Dongiovanni e Donato Poveromo.<br />

Quel botto passò alla storia come la strage di Peteano.<br />

Le prime <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i puntarono subito su un nucleo di Lot-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ta Cont<strong>in</strong>ua, sulla base delle presunte confidenze fatte<br />

dal brigatista pentito Marco Pisetta 34 al colonnello Michele<br />

Santoro, comandante della stazione dei carab<strong>in</strong>ieri<br />

di Trento. Tuttavia, sia i magistrati presenti all’<strong>in</strong>contro<br />

con Santoro, sia lo stesso Pisetta smentirono sempre tutto.<br />

E allora E allora era successo che il generale Giovanni<br />

Battista Palumbo, comandante della Pastrengo di Milano,<br />

aveva mandato <strong>in</strong> maniera del tutto irregolare – vale<br />

a dire fuori protocollo, tramite corriere e senza seguire<br />

le vie gerarchiche – una “vel<strong>in</strong>a” con il riferimento a<br />

Lotta Cont<strong>in</strong>ua. Dest<strong>in</strong>atario: il colonnello D<strong>in</strong>o M<strong>in</strong>garelli,<br />

comandante della Legione Ud<strong>in</strong>e, che aveva avocato<br />

a sé la responsabilità delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i.<br />

«Quella fu l’orig<strong>in</strong>e della cosiddetta pista rossa. Io sapevo<br />

che quelle notizie arrivavano da Trento e che la fonte<br />

confidenziale era Marco Pisetta», dichiarò M<strong>in</strong>garelli davanti<br />

alla commissione stragi. Del resto, <strong>in</strong> quel momento<br />

Lotta Cont<strong>in</strong>ua era nell’occhio del ciclone: solo due<br />

settimane prima, <strong>in</strong>fatti, il commissario Luigi Calabresi,<br />

accusato da LC di essere il responsabile della morte dell’anarchico<br />

P<strong>in</strong>o P<strong>in</strong>elli, era stato ucciso davanti alla sua<br />

abitazione. E gli occhi erano tutti puntati sulla formazione<br />

di Adriano Sofri.<br />

Dimostratasi <strong>in</strong>verosimile la “pista rossa”, se ne seguì<br />

una nuova, questa volta di colore giallo. Laddove il giallo<br />

identificava la piccola crim<strong>in</strong>alità locale. Tuttavia anche<br />

questa si dimostrò non solo <strong>in</strong>consistente, ma addirittura<br />

risibile e basata esclusivamente sulle affermazioni di<br />

34. Arrestato nel 1970 per una serie di attentati compiuti a Trento, Marco Pisetta era stato condannato<br />

a tre anni, ma poco dopo era uscito di galera. Entrato nelle Brigate Rosse, fu arrestato con altri<br />

brigatisti il 2 maggio 1972 nel covo milanese di via Boiardo, ma fu subito rilasciato, consegnando il 29<br />

settembre successivo un dettagliato memoriale seguito da un secondo poco dopo, grazie ai quali furono<br />

scoperte diverse basi e arrestati diversi brigatisti.<br />

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un <strong>in</strong><strong>formato</strong>re dei carab<strong>in</strong>ieri che, quando si trovò davanti<br />

al magistrato, ritrattò tutto. Il danno nel frattempo<br />

era stato fatto e i pregiudicati chiamati <strong>in</strong> causa dovettero<br />

subire lunghe <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i e vari giudizi prima di essere riconosciuti<br />

estranei ai fatti. Estranei cioè a una strage che<br />

solo nel 1984, vale a dire dodici anni dopo, ebbe la sua<br />

spiegazione e i relativi colpevoli. Una verità che non<br />

emerse grazie a una nuova e illum<strong>in</strong>ata <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e, ma dalla<br />

bocca di V<strong>in</strong>cenzo V<strong>in</strong>ciguerra: l’autore della strage.<br />

Sono stato io<br />

Militante di Ord<strong>in</strong>e Nuovo, nel 1974 V<strong>in</strong>ciguerra si era rifugiato<br />

prima <strong>in</strong> Spagna, dove era entrato <strong>in</strong> contatto con<br />

Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie, per poi<br />

raggiungere l’Argent<strong>in</strong>a, dove era vissuto f<strong>in</strong>o al 1979,<br />

anno <strong>in</strong> cui aveva deciso di rientrare <strong>in</strong> Italia e di costituirsi,<br />

motivando il suo gesto clamoroso con la salvaguardia<br />

della sua dignità di rivoluzionario. Al momento della<br />

sua seppur tardiva confessione, V<strong>in</strong>ciguerra si trovava <strong>in</strong><br />

carcere per un altro episodio crim<strong>in</strong>oso avvenuto nel<br />

1972 e che lo aveva <strong>in</strong>dotto a darsi alla latitanza <strong>in</strong> Spagna<br />

e <strong>in</strong> Argent<strong>in</strong>a: all’aeroporto di Ronchi dei Legionari,<br />

Ivano Boccaccio, un ex-paracadutista militante ord<strong>in</strong>ovista,<br />

aveva tentato di dirottare un aereo per ottenere un<br />

riscatto allo scopo di f<strong>in</strong>anziare il gruppo neofascista.<br />

Circondato dalla polizia, aveva com<strong>in</strong>ciato a sparare, rimanendo<br />

ucciso nel conflitto a fuoco.<br />

Ma cosa aveva sp<strong>in</strong>to V<strong>in</strong>ciguerra a vuotare il sacco su<br />

Peteano «L’onore».<br />

V<strong>in</strong>ciguerra non r<strong>in</strong>negava <strong>in</strong>fatti nulla del suo passato,<br />

rivendicando anzi con orgoglio il suo ruolo di “soldato politico”.<br />

La sua decisione non andava dunque <strong>in</strong>terpretata<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

come la collaborazione di un qualsiasi pentito, ma come<br />

la volontà di fare chiarezza, avendo compreso che «tutte<br />

le precedenti azioni della destra radicale, <strong>in</strong>cluse le stragi,<br />

<strong>in</strong> realtà erano state manovrate da quello stesso regime<br />

che mi proponevo di attaccare. Mi assumo la responsabilità<br />

piena, completa e totale dell’ideazione, dell’organizzazione<br />

e dell’esecuzione materiale dell’attentato di<br />

Peteano, che si <strong>in</strong>quadra <strong>in</strong> una logica di rottura con la<br />

strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo<br />

rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che <strong>in</strong>vece seguivano<br />

una strategia dettata da centri di potere nazionali e<br />

<strong>in</strong>ternazionali collocati ai vertici dello Stato [...]» 35 .<br />

Perché colpire proprio un gruppo di carab<strong>in</strong>ieri Perché<br />

i carab<strong>in</strong>ieri rappresentavano lo Stato e non una folla <strong>in</strong>discrim<strong>in</strong>ata<br />

e <strong>in</strong>nocente. Quello Stato che V<strong>in</strong>ciguerra<br />

voleva combattere “da vero rivoluzionario”. Una confessione<br />

costata l’ergastolo. Solo dopo che la condanna era<br />

passata <strong>in</strong> giudicato, e qu<strong>in</strong>di solo dopo che non aveva<br />

più la possibilità di barattare dichiarazioni con sconti di<br />

pena, V<strong>in</strong>ciguerra aveva assunto un atteggiamento collaborativo,<br />

grazie al quale la magistratura aveva potuto ricostruire<br />

l’attività di Ord<strong>in</strong>e Nuovo di Ud<strong>in</strong>e.<br />

Per quanto riguarda Peteano, per capire i contorni di una<br />

delle tante, troppe stragi che hanno <strong>in</strong>sangu<strong>in</strong>ato l’Italia,<br />

basta leggere le considerazioni della commissione stragi,<br />

alla quale, «<strong>in</strong> ord<strong>in</strong>e a tale episodio, non resta che prendere<br />

atto di ciò che può ritenersi ormai un fatto storico<br />

accertato e consacrato <strong>in</strong> giudicati penali di condanna; e<br />

cioè l’illecita copertura attribuita agli estremisti di destra<br />

35. Nell’<strong>in</strong>tervista a V<strong>in</strong>cenzo V<strong>in</strong>ciguerra effettuata da Gigi Marcucci e Paola M<strong>in</strong>oliti nel carcere di<br />

Opera l’8 luglio 2000.<br />

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autori dell’attentato da parte di alti ufficiali dell’Arma dei<br />

carab<strong>in</strong>ieri, tra questi il colonnello M<strong>in</strong>garelli condannato<br />

dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per falso<br />

ideologico e materiale e per soppressione di prove [...].<br />

Appare sul punto <strong>in</strong>negabile che i carab<strong>in</strong>ieri disponessero<br />

di un elemento chiarissimo per l’<strong>in</strong>dividuazione della<br />

matrice della strage, <strong>in</strong> quanto l’ord<strong>in</strong>ovista Ivano<br />

Boccaccio era stato trovato <strong>in</strong> possesso della stessa arma<br />

utilizzata per sparare contro i vetri della 500 ove era<br />

stata collocata la bomba di Peteano, e i cui bossoli esplosi<br />

erano stati repertati dai carab<strong>in</strong>ieri. Alla luce di ciò, è<br />

del tutto evidente come la pista rossa subito imboccata<br />

non possa giustificarsi neppure come una volontà di trovare<br />

comunque il colpevole, anche a f<strong>in</strong>i di immag<strong>in</strong>e;<br />

emerge <strong>in</strong>fatti chiaro l’<strong>in</strong>tento deliberato di strumentalizzare<br />

un episodio, pure così tragico e una crim<strong>in</strong>alizzazione<br />

della s<strong>in</strong>istra eversiva secondo un disegno strategico<br />

preciso» 36 .<br />

La strage è solo di Stato<br />

La commissione addebitava qu<strong>in</strong>di pesantissime responsabilità<br />

agli apparati di sicurezza del nostro Paese, tra le<br />

quali l’aver pilotato le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i verso una direzione strategicamente<br />

stabilita. Per questa ragione, nonostante<br />

nelle <strong>in</strong>tenzioni dell’attentatore avrebbe dovuto avere<br />

tutt’altro significato, anche la strage di Peteano diventava<br />

funzionale alla “strategia della tensione”.<br />

«La strage», dichiarò V<strong>in</strong>ciguerra, «è un mezzo che il potere<br />

utilizza per creare uno stato di allarme tra la popolazione<br />

ed eventualmente poter <strong>in</strong>tervenire per rassicu-<br />

36. Estratto dalla relazione della commissione stragi.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

rare questa stessa popolazione. Perché è un evento<br />

traumatico che ha <strong>in</strong>teresse a determ<strong>in</strong>are solo chi detiene<br />

il potere, perché solo chi detiene il potere può padroneggiare<br />

gli eventi successivi. Qu<strong>in</strong>di la strage è un<br />

mezzo di prevaricazione del potere sulla popolazione.<br />

Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di<br />

Peteano non ha le connotazioni della strage. È strage sul<br />

piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del Codice<br />

penale può essere, viene def<strong>in</strong>ita strage. Perché il numero<br />

dei morti poteva essere <strong>in</strong>determ<strong>in</strong>ato. Cioè <strong>in</strong>vece di<br />

tre carab<strong>in</strong>ieri ne potevo uccidere c<strong>in</strong>que, sei, sette. Però<br />

non è strage, nel senso che l’attentato di Peteano colpisce<br />

per la prima e unica volta un apparato militare dello<br />

Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità<br />

di colpire i civili e ha una f<strong>in</strong>alizzazione esclusivamente<br />

di opposizione al regime, cioè non si colpisce<br />

l’apparato militare del regime per dare la possibilità al<br />

regime di sfruttare questo attentato. Ha avuto, come era<br />

nelle mie <strong>in</strong>tenzioni, implicazioni politiche pesantissime.<br />

Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni,<br />

di fronte alla commissione stragi, Francesco Cossiga ha<br />

dovuto ammettere che dopo Peteano <strong>in</strong>iziò il percorso<br />

di divaricazione tra l’Arma dei carab<strong>in</strong>ieri e il SID da un<br />

lato, e la destra dall’altro. Cioè l’Arma dei carab<strong>in</strong>ieri,<br />

pur tacendo, occultando le prove, depistando le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i,<br />

<strong>in</strong>sieme ad altri apparati dello Stato (M<strong>in</strong>istero dell’Interno,<br />

Guardia di F<strong>in</strong>anza), prese atto che dall’estrema<br />

destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E<br />

com<strong>in</strong>ciò a prendere le distanze, a staccare dall’estrema<br />

destra. Qu<strong>in</strong>di def<strong>in</strong>ire l’attentato di Peteano una strage,<br />

si confondono un po’ le idee alle persone nel senso addirittura<br />

di far credere che l’attentato di Peteano avesse<br />

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le stesse f<strong>in</strong>alità della strage di Piazza Fontana, della<br />

strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente<br />

l’opposto» 37 .<br />

GIANFRANCO BERTOLI, COME TI PLAGIO L’ANARCHICO<br />

Milano, matt<strong>in</strong>a del 17 maggio 1973. C’è un uomo che si<br />

aggira <strong>in</strong> via Fatebenefratelli, nei pressi della Questura.<br />

Si chiama Gianfranco Bertoli ed è nato a Venezia quarant’anni<br />

prima. Guarda cont<strong>in</strong>uamente l’orologio. Sono le<br />

10.45. Un cicchetto ci sta. Così entra <strong>in</strong> un bar e chiede<br />

un cognac.<br />

In via Fatebenefratelli c’è anche Aldo Bernareggi. Lui<br />

guarda l’orologio quando sono le 10.53: il suo turno di<br />

servizio è quasi f<strong>in</strong>ito. Turno da ghisa, come si dice a Milano,<br />

da vigile urbano. «Muoviamoci che se qui <strong>in</strong>iziano a<br />

tirare pietre, f<strong>in</strong>isce che si menano» dice il ghisa a Federico<br />

Masar<strong>in</strong>, un agente veneto dell’ufficio politico della<br />

Questura. Sa bene Masar<strong>in</strong> che potrebbero volare non<br />

solo pietre. Per quello è lì. Perché quello non è un giorno<br />

qualsiasi. È una ricorrenza: giusto un anno prima è<br />

stato ammazzato il commissario Luigi Calabresi, <strong>in</strong> memoria<br />

del quale nell’atrio della Questura menegh<strong>in</strong>a è<br />

stato eretto un busto che Mariano Rumor, m<strong>in</strong>istro degli<br />

Interni, deve <strong>in</strong>augurare.<br />

«Mi sono trovato <strong>in</strong> mezzo a quella brutta storia», confida<br />

Bernareggi a Masar<strong>in</strong> ricordando l’esecuzione di un<br />

anno prima, «Ero <strong>in</strong> strada a fare il gambone, il servizio<br />

<strong>in</strong> strada, quando mi si accosta l’auto di un collega: “Cor-<br />

37. Nell’<strong>in</strong>tervista a V<strong>in</strong>ciguerra, cit.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ri e svolta <strong>in</strong> via Cherub<strong>in</strong>i, che hanno sparato”. Sono stato<br />

uno dei primi ad arrivare lì. C’era un uomo riverso tra<br />

due macch<strong>in</strong>e, mi sembrava <strong>in</strong>castrato. C<strong>in</strong>que persone<br />

<strong>in</strong>torno, che non sapevano cosa fare. Neanch’io capivo<br />

cos’era successo. Poi una donna sul marciapiede si mise<br />

a urlare: “Gesù, Gesù, è il commissario Calabresi”» 38 .<br />

Intanto le porte della Questura si erano aperte facendo<br />

sfilare le auto delle autorità: il s<strong>in</strong>daco Aldo Aniasi, il m<strong>in</strong>istro<br />

Rumor. L’orologio di Bernareggi segnava le 10.57<br />

quando il ghisa aveva visto volare qualcosa nella direzione<br />

del portone: «Non pensai a una bomba, mi vennero <strong>in</strong><br />

mente solo i sassi» 39 . Altro che sassi. Quello che aveva visto<br />

il vigile Bernareggi era un ordigno: un’ananas a frammentazione<br />

di fabbricazione israeliana. Il lancio, però,<br />

era stato maldestro: <strong>in</strong>vece di colpire l’obiettivo – l’auto<br />

di Rumor – la bomba era f<strong>in</strong>ita contro il muro al quale<br />

erano appoggiati Bernareggi e Masar<strong>in</strong> e lì era esplosa,<br />

aprendo una grossa crepa e provocando tantissime<br />

schegge. Schegge mortali.<br />

Punire Rumor<br />

C’era anche un fotografo <strong>in</strong> via Fatebenefratelli, e due<br />

dei suoi scatti erano dest<strong>in</strong>ati a diventare storia d’Italia.<br />

Nel primo: Gabriella Bortolon, Felicia Bertolozzi, l’appuntato<br />

Masar<strong>in</strong> e il vigile Bernareggi, unico sopravvissuto:<br />

si è voltato e per questo non ha preso le schegge <strong>in</strong><br />

volto, ma sulla schiena. Dato per spacciato per il troppo<br />

sangue perso, aveva ricevuto due volte l’estrema unzione,<br />

ma si era salvato, seppur convivendo con centotren-<br />

38. “Corriere della sera”, 17 maggio 2003, <strong>in</strong> Io, testimone per caso con 130 schegge addosso di Marco<br />

Imarisio.<br />

39. Ibidem<br />

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ta schegge impossibili da estrargli. Nel secondo fotogramma<br />

era stato immortalato Gianfranco Bertoli, l’attentatore,<br />

bloccato dalla folla pochi secondi dopo il lancio.<br />

Quasi <strong>in</strong>differente a quel che gli capitava, non aveva<br />

neppure cercato di sottrarsi alla cattura: sembrava lì per<br />

caso, stralunato. Sembrava non c’entrasse nulla con quei<br />

morti, con quelle quarantasei persone ferite. Fuori dalle<br />

due <strong>in</strong>quadrature, un’altra vittima: il pensionato Giuseppe<br />

Panz<strong>in</strong>o. Vittime al posto di Rumor.<br />

Era lui l’obiettivo. Era lui che doveva morire, perché da<br />

presidente del consiglio, dopo Piazza Fontana, non aveva<br />

dichiarato lo stato d’emergenza e poi, da m<strong>in</strong>istro dell’Interno,<br />

nel 1972, aveva avviato l’iter per mettere fuori<br />

legge Ord<strong>in</strong>e Nuovo, un compito portato a term<strong>in</strong>e un<br />

anno dopo dal suo successore al Vim<strong>in</strong>ale, Paolo Emilio<br />

Taviani. Per questo Rumor e Taviani erano nel mir<strong>in</strong>o<br />

dell’organizzazione neofascista.<br />

Lo avevano detto <strong>in</strong> tanti che Ord<strong>in</strong>e Nuovo voleva punire<br />

Rumor. Lo aveva detto V<strong>in</strong>cenzo V<strong>in</strong>ciguerra, il “soldato<br />

politico” di Peteano, al quale era stato chiesto di ammazzare<br />

il m<strong>in</strong>istro democristiano nella sua villa <strong>in</strong> Veneto,<br />

garantendogli il non <strong>in</strong>tervento della scorta. V<strong>in</strong>ciguerra<br />

aveva rifiutato, perché «io volevo fare la guerra allo<br />

Stato, non la guerra per lo Stato». Lo aveva detto anche<br />

Roberto Cavallaro, f<strong>in</strong>to magistrato militare, ma vero<br />

golpista di Stato co<strong>in</strong>volto nell’operazione della Rosa dei<br />

Venti 40 . Lo aveva detto il neofascista Marco Affatigato.<br />

Anche Carlo Digilio, lo “zio Otto” <strong>in</strong><strong>formato</strong>re degli americani<br />

e armiere di Ord<strong>in</strong>e Nuovo, aveva avuto qualcosa<br />

da dire ai magistrati: «Maggi ci parlò del suo progetto di<br />

40. Vedi capitolo successivo.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

un attentato a Rumor e ci <strong>in</strong>formò che V<strong>in</strong>ciguerra, <strong>in</strong>terpellato<br />

per l’esecuzione, si era rifiutato... Prospettò la<br />

possibilità di reclutare per l’attentato tale Gianfranco<br />

Bertoli, persona disposta a tutto. Se si fosse riusciti a reclutarlo,<br />

vi sarebbe stata per l’azione una copertura anarchica<br />

d<strong>in</strong>anzi all’op<strong>in</strong>ione pubblica» 41 . Dunque, Rumor.<br />

Dunque Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi.<br />

La stagione delle bombe<br />

I morti di via Fatebenefratelli erano solo gli ultimi di una<br />

stagione <strong>in</strong>fausta <strong>in</strong>augurata il 12 dicembre ‘69 alla Banca<br />

Nazionale dell’Agricoltura di Milano, e proseguita a<br />

Gioia Tauro il 22 luglio 1970 42 , dove il deragliamento do-<br />

41. In “Archivio storico dell’<strong>in</strong>formazione”.<br />

42. Un mese dopo la tragedia, i marescialli Guido De Claris e Giuseppe Ciliberti del commissariato di<br />

polizia presso la direzione compartimentale delle ferrovie dello Stato, <strong>in</strong> un rapporto del 28 agosto 1970<br />

al procuratore della repubblica di Palmi, asserirono che era «da escludere che il disastro ferroviario<br />

abbia avuto orig<strong>in</strong>e dolosa». Nessuno dei presenti, <strong>in</strong> attesa alla stazione di Gioia Tauro o a bordo del<br />

treno, personale viaggiante compreso, testimoniò, <strong>in</strong>fatti, di aver udito alcun boato. Tale <strong>in</strong>terpretazione<br />

venne ribadita <strong>in</strong> un secondo rapporto del 9 settembre 1971 <strong>in</strong> cui si sostenne che «se non vi fu<br />

detonazione non poté esservi attentato d<strong>in</strong>amitardo», senza considerare m<strong>in</strong>imamente che l’esplosione<br />

di un ordigno, <strong>in</strong> grado di tranciare una rotaia, poteva benissimo essere avvenuta prima del passaggio<br />

del treno. In questo nuovo atto la causa della tragedia venne <strong>in</strong>dividuata nella negligenza del personale<br />

ferroviario che aveva «illegittimamente» disposto la cessazione del rallentamento a 60 chilometri orari<br />

per tutti i treni percorrenti il b<strong>in</strong>ario pari della tratta Palmi-Gioia Tauro, <strong>in</strong>teressati da giugno da lavori<br />

di livellamento e all<strong>in</strong>eamento delle rotaie. Una posizione <strong>in</strong> palese contrasto con le conclusioni del<br />

collegio peritale, nom<strong>in</strong>ato dal sostituto procuratore della repubblica di Palmi, Paolo Scopelliti, che,<br />

depositando la propria relazione il 7 luglio 1971 escluse errori risalenti al personale di guida, alla<br />

disposizione degli scambi all’<strong>in</strong>gresso della stazione o a difetti del materiale rotabile. Il collegio<br />

riscontrò <strong>in</strong>vece un’avaria su una rotaia che presentava la parziale asportazione della suola <strong>in</strong>terna per<br />

circa 180 centimetri, ipotizzando un’orig<strong>in</strong>e dolosa. Si sostenne, <strong>in</strong> conclusione, che lo scoppio di un<br />

ordigno rappresentava la causa più probabile del deragliamento, rilevando forti analogie con altri<br />

attentati avvenuti successivamente, il 22 e il 27 settembre sulla l<strong>in</strong>ea Rosario-Gioia Tauro-Villa San<br />

Giovanni, e il 10 ottobre sul tratto Catania-Mess<strong>in</strong>a, <strong>in</strong> cui non erano stati r<strong>in</strong>venuti pezzi di miccia ed<br />

evidenti segni di esplosione. Sulla base del rapporto di polizia, la procura della repubblica di Palmi<br />

decise comunque di promuovere un procedimento penale per disastro colposo e omicidio colposo plurimo<br />

nei confronti di quattro dipendenti delle ferrovie dello Stato. Il 30 maggio 1974 il giudice istruttore<br />

sentenziò il non doversi procedere nei confronti degli imputati per non aver commesso il fatto,<br />

chiudendo ogni <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e. L’ipotesi dell’attentato d<strong>in</strong>amitardo come causa del disastro venne conf<strong>in</strong>ata<br />

nel limbo delle congetture, non meritevole della riapertura del caso. Una conclusione sorprendente. Il<br />

fallimento dell’ipotesi del disastro colposo, smentita a sua volta da una commissione d’<strong>in</strong>chiesta delle<br />

ferrovie dello Stato, avrebbe <strong>in</strong>fatti dovuto almeno portare al proseguimento delle <strong>in</strong>vestigazioni. (Il<br />

sangue dei rossi, Cairo, 2009, dell’autore).<br />

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loso di un treno aveva causato sei morti e un cent<strong>in</strong>aio di<br />

feriti. Poi c’era stato l’attentato di Peteano, dove il 31 maggio<br />

del ’72 erano morti tre carab<strong>in</strong>ieri, mentre il 7 aprile<br />

1973, sul treno Tor<strong>in</strong>o-Genova, il neofascista Nico Azzi 43<br />

era rimasto ferito mentre <strong>in</strong>nescava una bomba cercando<br />

di far ricadere la colpa su Lotta Cont<strong>in</strong>ua. C<strong>in</strong>que giorni<br />

dopo, durante una manifestazione di miss<strong>in</strong>i a Milano, era<br />

stata lanciata contro la polizia una bomba a mano che aveva<br />

ucciso l’agente Antonio Mar<strong>in</strong>o: gli autori, Maurizio Morelli<br />

e Vittorio Loi (figlio del noto pugile Duilio Loi), appartenevano<br />

al gruppo neofascista La Fenice.<br />

Che c’entrava un anarchico con questi attentati neofascisti<br />

Bertoli s’era dichiarato subito “anarchico <strong>in</strong>dividualista”<br />

– come testimoniava la “a” tatuata su un braccio – e<br />

di aver fatto tutto da solo. Ma non era così. Malgrado i depistaggi<br />

degli apparati dello Stato fossero scattati puntualmente<br />

come i meccanismi di una bomba, malgrado la<br />

“a” tatuata, la storia che l’anarchico raccontava – e cioè<br />

43. La basilica di Sant’Ambrogio, la più bella chiesa di Milano, dedicata al patrono della città, si è<br />

aperta ieri nella tarda matt<strong>in</strong>ata per i funerali di Nico Giuseppe Azzi, fascista ed ex-terrorista nero. Si è<br />

aperta anche ai nazisk<strong>in</strong>, rapati a zero e <strong>in</strong> bomber e anfibi lustri che scortavano la bara, a un tricolore<br />

fascistissimo con l’aquila rampante sul fascio littorio, deposta su un cusc<strong>in</strong>o di margherite bianche. In<br />

attesa, sul sagrato altri addolorati camerati che sventolavano altre bandiere, stavolta con la croce<br />

celtica. D’altra parte si sa che Nico Azzi, morto c<strong>in</strong>quantac<strong>in</strong>quenne per un colpo al cuore, si era<br />

avvic<strong>in</strong>ato a Forza Nuova, che non s’è mai negato il piacere di certi lugubri simboli e che ieri, sul suo<br />

sito, ricordava Azzi così: «Le parole sono <strong>in</strong>sufficienti a descrivere il dolore… Altrettanto povere<br />

sembrano le parole per descrivere il tributo di gratitud<strong>in</strong>e e affetto che Nico ha saputo meritare nei<br />

confronti di tutte le generazioni forzanoviste, soprattutto verso le più giovani schiere militanti…».<br />

Nell’ideale eredità di Nico Azzi alcune bombe. La prima sarebbe dovuta esplodere sul treno Tor<strong>in</strong>o-Roma<br />

il 7 aprile 1973. Esplose <strong>in</strong>vece tra le gambe di Azzi, mentre stava preparando l’<strong>in</strong>nesco di due<br />

saponette di tritolo militare da mezzo chilo l’una nella toilette (dopo aver lasciato <strong>in</strong> giro, lui e i suoi<br />

compagni, un po’ di copie di Lotta Cont<strong>in</strong>ua, tanto per far capire dove si dovessero cercare i colpevoli).<br />

Le altre erano le bombe a mano che aveva provveduto a fornire proprio lui per una manifestazione<br />

neofascista <strong>in</strong> quello stesso aprile a Milano: una venne lanciata e ferì un agente di pubblica sicurezza e<br />

un passante, la seconda uccise un altro agente, Antonio Mar<strong>in</strong>o, un ragazzo di ventidue anni. Vennero<br />

arrestati i responsabili, due fascisti, Maurizio Murelli e Vittorio Loi, il figlio del popolare Duilio, il<br />

campione di pugilato. Nico Azzi fu condannato per il treno a tredici anni di carcere, per le bombe a due:<br />

non le aveva lanciate, le aveva solo procurate (estratto da Nico Azzi: funerali <strong>in</strong> chiesa con svastica di<br />

Oreste Pivetta, pubblicato su “L’Unità” del 13 gennaio 2007).<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

che avrebbe agito per vendicare la morte del compagno<br />

P<strong>in</strong>o P<strong>in</strong>elli, volato dal quarto piano della Questura di Milano<br />

– era stata smontata dal giudice istruttore milanese<br />

Antonio Lombardi, per il quale Bertoli era tutt’altro che<br />

anarchico e tutt’altro che solo.<br />

Da sempre amico dei neofascisti, f<strong>in</strong> dagli anni C<strong>in</strong>quanta<br />

<strong>in</strong><strong>formato</strong>re del servizio segreto militare, uomo della<br />

struttura segreta di Gladio, nel 1971 Bertoli si era rifugiato<br />

<strong>in</strong> un kibbutz israeliano, poi era tornato <strong>in</strong> Italia e aveva<br />

scagliato la bomba. Non per vendicare P<strong>in</strong>elli, ma per<br />

colpire Rumor. La sua non era stata un’<strong>in</strong>iziativa personale,<br />

ma pilotata da quell’Ord<strong>in</strong>e Nuovo che da tempo<br />

meditava di uccidere il m<strong>in</strong>istro democristiano. Del resto,<br />

come avrebbe mai potuto Bertoli superare tre frontiere,<br />

da Israele f<strong>in</strong>o a Milano, portando con sé anche una<br />

bomba a mano Era chiaro che gli fosse stata data <strong>in</strong> Italia,<br />

era chiaro che <strong>in</strong> questa bugia era contenuta la verità<br />

su chi avesse armato la sua mano. Prima di armare<br />

quella mano, però, bisognava armare il cervello. Addestrare<br />

Bertoli, <strong>in</strong>somma, ma addestrarlo bene, perché era<br />

un elemento poco affidabile, dedito all’alcool e alla droga.<br />

L’unico, comunque, disposto a compiere l’attentato<br />

contro Rumor.<br />

L’addestramento veronese di via Stella<br />

È stato Carlo Digilio, lo “zio Otto”, a parlare dell’addestramento<br />

di Bertoli <strong>in</strong> un appartamento di via Stella, a Verona,<br />

con il triest<strong>in</strong>o Francesco Neami come <strong>in</strong>segnante.<br />

«Mi ricordo che Neami stava facendo con Bertoli una<br />

specie di lavaggio del cervello su cosa avrebbe dovuto dire<br />

se fosse stato arrestato», dichiarò Digilio. «Se ciò fosse<br />

avvenuto avrebbe dovuto dire che era un anarchico,<br />

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che si era procurato da solo la bomba <strong>in</strong> Israele, che aveva<br />

fatto tutto da solo, essendo un anarchico <strong>in</strong>dividualista.<br />

Neami si comportava duramente con Bertoli quando<br />

non gli dava le risposte esatte... Bertoli fumava e beveva<br />

molto. In effetti gli piaceva molto bere e f<strong>in</strong>iva con<br />

l’ubriacarsi a tavola. Annegava le sue mal<strong>in</strong>conie nell’alcool.<br />

Appresi che lo avevano conv<strong>in</strong>to con la promessa di<br />

un po’ di soldi... Neami cercava di rafforzare i suoi propositi<br />

stuzzicando la sua vanità, dicendo che doveva mostrare<br />

il suo coraggio, che sarebbe stato un eroe e che<br />

tutti avrebbero parlato di lui. Bertoli era molto esigente<br />

e chiedeva cont<strong>in</strong>uamente da bere e vitto di prima qualità<br />

portato da fuori. Chiedeva sigarette e alcolici di marca<br />

e nell’appartamento vi erano bottiglie vuote dovunque<br />

sul pavimento, tanto che a volte vi <strong>in</strong>ciampavamo» 44 .<br />

Altro che tutto da solo. Del resto, alcolista e tossicodipendente,<br />

difficilmente Bertoli avrebbe potuto ideare e<br />

portare a term<strong>in</strong>e un attentato tutto da solo. E f<strong>in</strong> da subito,<br />

f<strong>in</strong> dalle 11 di quella tragica matt<strong>in</strong>a del 17 maggio<br />

del ’73, s’era comportato come gli era stato <strong>in</strong>segnato.<br />

Due anni dopo, il 1 o marzo 1975, la prima Corte d’Assise<br />

di Milano lo aveva condannato all’ergastolo: sentenza<br />

confermata un anno dopo <strong>in</strong> Appello e dalla Cassazione<br />

nel novembre successivo.<br />

Nel 1998, il giudice istruttore Antonio Lombardi, a conclusione<br />

del supplemento d’<strong>in</strong>chiesta condotto col vecchio<br />

rito, aveva r<strong>in</strong>viato a giudizio sette persone accusandole<br />

di concorso <strong>in</strong> strage: Carlo Maria Maggi, Giorgio<br />

Boffelli, Francesco Neami, Carlo Digilio e Amos Spiazzi.<br />

Gian Adelio Maletti e Sandro Romagnoli erano stati accu-<br />

44. In “Archivio storico dell’<strong>in</strong>formazione”.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

sati <strong>in</strong>vece di omissione di atti d’ufficio e di soppressione<br />

e sottrazione di atti e documenti concernenti la sicurezza<br />

dello Stato. L’11 marzo 2000, dopo c<strong>in</strong>que giorni di camera<br />

di consiglio, la qu<strong>in</strong>ta Corte d’Assise aveva emesso<br />

la sentenza che con l’accusa di strage condannava all’ergastolo<br />

Maggi, Spiazzi, Boffelli e Neami. Maletti era stato<br />

condannato a qu<strong>in</strong>dici anni di reclusione. Il 27 settembre<br />

2002, dopo nove ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise<br />

d’Appello assolveva tutti gli imputati perché il fatto<br />

non sussisteva o per non averlo commesso, rovesciando<br />

completamente la sentenza di primo grado. L’11 luglio<br />

2003, la qu<strong>in</strong>ta sezione penale della Cassazione annullava<br />

l’assoluzione di Boffelli, Maggi e Neami confermando<br />

<strong>in</strong>vece l’assoluzione del generale Gian Adelio Maletti e di<br />

Amos Spiazzi.<br />

Di Bertoli, per oltre vent’anni da quella matt<strong>in</strong>a della<br />

strage, si erano perse le tracce f<strong>in</strong>ché si era venuto a sapere<br />

che il 18 giugno ‘97 aveva tentato il suicidio con<br />

un’overdose di ero<strong>in</strong>a: non poteva sopportare di passare<br />

per fascista, lui che si era sempre proclamato un anarchico,<br />

f<strong>in</strong>o a tatuarsi su un braccio quell’idea, <strong>in</strong> modo che<br />

tutti vedessero, che tutti sapessero. Che lui era un anarchico.<br />

E la strage alla Questura di Milano, allora Probabilmente<br />

aveva voluto essere per un giorno protagonista,<br />

come quegli anarchici degli <strong>in</strong>izi del Novecento. Certamente<br />

era stato usato: un utile idiota per altri f<strong>in</strong>i. Gianfranco<br />

Bertoli è morto il 28 novembre del 2000 a Livorno,<br />

dove viveva <strong>in</strong> semilibertà facendo il lavapiatti <strong>in</strong> un<br />

piccolo ristorante di periferia. Ottenuti i benefici di legge,<br />

era ripiombato immediatamente nel tunnel della tossicodipendenza<br />

da ero<strong>in</strong>a. Si è sempre dichiarato anarchico.<br />

Per sua espressa volontà è stato seppellito con i<br />

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funerali religiosi: nella bara ha voluto un crocefisso e la<br />

bandiera degli ultras del Livorno.<br />

IL GIUDICE PADOVANO E LA ROSA DEI VENTI<br />

Giovanni Tambur<strong>in</strong>o era un giovane giudice di Padova.<br />

Aveva appena trent’anni quando nell’autunno del 1973<br />

gli era stata affidata un’<strong>in</strong>chiesta che scottava. Le carte<br />

gli arrivavano da La Spezia, dove la procura aveva <strong>in</strong>iziato<br />

a <strong>in</strong>dagare su Giancarlo Porta Casucci, un medico ligure<br />

con la passione per armi, svastiche, medaglie e cimeli<br />

vari riguardanti fascismo e nazismo, oltre ad appartenere<br />

a un gruppo di destra dal roboante nome di Elmi d’Acciaio.<br />

Casucci aveva <strong>in</strong>iziato subito a collaborare, mettendo<br />

gli <strong>in</strong>quirenti al corrente di un’Organizzazione (identificata<br />

proprio così, con la o maiuscola) di cui facevano<br />

parte diversi personaggi della destra eversiva, fra cui il<br />

pr<strong>in</strong>cipe Giovanni Francesco Alliata di Montereale, dist<strong>in</strong>tosi<br />

per essere stato fra i fondatori del Movimento nazionale<br />

di op<strong>in</strong>ione pubblica e della Maggioranza silenziosa,<br />

due gruppi contigui all’estrema destra.<br />

Ufficialmente, il pr<strong>in</strong>cipe risultava presidente di una non<br />

meglio identificata Libera confederazione mondiale del<br />

commercio e del turismo, con sede a Bruxelles. Dell’Organizzazione<br />

faceva parte anche Eugenio Rizzato, ex-gerarca<br />

della RSI, la Repubblica sociale italiana, che, graziato<br />

dall’amnistia di Palmiro Togliatti, aveva ripreso subito<br />

la sua attività politica. Durante un normale controllo, la<br />

polizia aveva trovato la macch<strong>in</strong>a di Rizzato imbottita di<br />

volant<strong>in</strong>i, passamontagna e, dulcis <strong>in</strong> fundo, armi. A<br />

questi due signori, nella sua deposizione Casucci aveva<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

aggiunto un altro personaggio: Roberto Cavallaro, le cui<br />

dichiarazioni furono fondamentali nelle successive tappe<br />

dell’<strong>in</strong>chiesta di Tambur<strong>in</strong>o.<br />

Il panorama di una nuova Italia<br />

Il giudice padovano aveva <strong>in</strong>iziato il suo lavoro partendo<br />

dalle tante carte di Casucci, fra le quali alcuni appunti riguardanti<br />

f<strong>in</strong>anziamenti al gruppo, proclami da <strong>in</strong>viare<br />

alle caserme sul “pericolo rosso” e perf<strong>in</strong>o un progetto<br />

<strong>in</strong>surrezionale. Il colpo grosso, però, Tambur<strong>in</strong>o lo aveva<br />

fatto quando aveva messo le mani su una borsa nascosta<br />

da Casucci <strong>in</strong> una canonica. Più che una borsa, una m<strong>in</strong>iera<br />

di <strong>in</strong>formazioni che consentivano di mappare altre<br />

organizzazioni di estrema destra, fra le quali una <strong>in</strong> particolare,<br />

la Rosa dei Venti, dest<strong>in</strong>ata a dare il nome alla<br />

stessa <strong>in</strong>chiesta di Tambur<strong>in</strong>o.<br />

Senza saperlo, il giudice aveva scoperchiato una delle<br />

pentole dell’eversione della prima metà degli anni Settanta<br />

<strong>in</strong> cui bollivano, oltre ai richiami nostalgici, i progetti<br />

per un futuro “nero”. Progetti che co<strong>in</strong>volgevano<br />

anche alcune caserme, come quella di Verona che ospitava<br />

il reparto di artiglieria di stanza <strong>in</strong> Veneto, dove l’ufficiale<br />

responsabile dell’Ufficio I (Informazioni) era il colonnello<br />

Amos Spiazzi. Il suo reparto era l’unico che non<br />

aveva mai riconsegnato un codice segreto militare ormai<br />

<strong>in</strong> disuso (Farilc 59), né comunicato il verbale della sua<br />

distruzione, come volevano le disposizioni dello Stato<br />

Maggiore dell’Esercito. Tambur<strong>in</strong>o aveva qu<strong>in</strong>di disposto<br />

la perquisizione dell’abitazione del colonnello Spiazzi,<br />

dove, fra cimeli fascisti e nazisti, erano saltate fuori anche<br />

diverse armi. Non basta: grazie a Spiazzi, Roberto<br />

Cavallaro – che con l’avallo del colonnello si era spaccia-<br />

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to per magistrato militare – aveva potuto tenere nella caserma<br />

di Verona un’affollata conferenza politico-organizzativa<br />

ai soldati, cui aveva tratteggiato «il panorama di<br />

una nuova Italia».<br />

Tambur<strong>in</strong>o poteva ormai contare sulla collaborazione dei<br />

camerati pescati con le mani nella marmellata: come aveva<br />

fatto Casucci, anche Cavallaro, <strong>in</strong>fatti, aveva <strong>in</strong>iziato<br />

subito a parlare. E non solo aveva confermato tutto, ma<br />

aveva portato elementi assolutamente <strong>in</strong>editi e sconosciuti,<br />

del<strong>in</strong>eando la struttura di un’organizzazione<br />

(quella con la “o” maiuscola) ormai pronta ad agire. Organizzazione<br />

che aveva <strong>in</strong> un’altra struttura il suo braccio<br />

armato: la Rosa dei Venti.<br />

Il piano prevedeva il radicale cambiamento politico del<br />

Paese col non trascurabile appoggio di ufficiali americani.<br />

Dal quartier generale della NATO sarebbe arrivato <strong>in</strong>fatti<br />

l’avallo alla procedura operativa che avrebbe portato<br />

al colpo di Stato nella primavera del 1973, ma poi tutto<br />

era f<strong>in</strong>ito nel nulla all’improvviso e senza una ragione.<br />

Come per il golpe Borghese <strong>in</strong>somma. Ancora una volta,<br />

un niente di fatto. Tuttavia, a differenza del maldestro<br />

tentativo dei forestali nel 1970, questa volta l’organizzazione<br />

restava <strong>in</strong> piedi e, soprattutto, qualora si fossero<br />

create le condizioni favorevoli, era pronta all’azione. Oltre<br />

alla Rosa dei Venti, poi, utilizzava altri gruppi paralleli:<br />

Ord<strong>in</strong>e Nuovo, La Fenice, i MAR (Movimento di azione<br />

rivoluzionaria di Carlo Fumagalli) e i Giustizieri d’Italia.<br />

Cavallaro aveva confidato a un esterrefatto Tambur<strong>in</strong>o<br />

che l’Organizzazione aveva ipotizzato due tipi di <strong>in</strong>tervento<br />

attuabili a seconda delle circostanze: la prima, di<br />

carattere “cileno” (riferendosi al colpo di Stato organizzato<br />

<strong>in</strong> Cile l’11 settembre 1973 dalle forze armate col so-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

stanziale aiuto americano); la seconda prevedeva una<br />

strategia del terrore (bombe) che avrebbe giustificato<br />

una “naturale” svolta autoritaria. “Confidenze” che per il<br />

giudice Tambur<strong>in</strong>o trovavano sostegno nelle ammissioni<br />

di Spiazzi: il colonnello confermava, <strong>in</strong>fatti, l’esistenza di<br />

un’organizzazione costituita da civili e militari pronta a<br />

mettere <strong>in</strong> atto il progetto eversivo. Il collante politico<br />

era il “pericolo rosso”, il sostegno <strong>in</strong>terno garantito dal<br />

SID, quello <strong>in</strong>ternazionale, neanche a dirlo, dagli USA, attraverso<br />

la CIA.<br />

Il livello parallelo del SID<br />

Per Tambur<strong>in</strong>o, però, le sorprese non erano f<strong>in</strong>ite: scavando<br />

ulteriormente erano saltati fuori nomi blasonati<br />

dell’<strong>in</strong>dustria italiana – Andrea Maria Piaggio, <strong>in</strong> qualità<br />

di munifico f<strong>in</strong>anziatore – e di Junio Valerio Borghese. A<br />

unire i due nomi, un passaggio di denaro dall’<strong>in</strong>dustriale<br />

all’ex-comandante della X Mas di ben 800 milioni: una cifra<br />

considerevole, se si considera che all’epoca lo stipendio<br />

medio di un operaio era di 150mila lire.<br />

Chi erano i capi dell’Organizzazione Il risultato delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i<br />

era sconcertante: Vito Miceli, direttore del SID<br />

(Servizio Informazioni Difesa, succeduto al SIFAR, Servizio<br />

Informazioni Forze Armate) e Gian Adelio Maletti, capo<br />

del reparto D, Servizio Informazioni Difesa. Informazioni<br />

che per Tambur<strong>in</strong>o diventavano il cuore dell’<strong>in</strong>chiesta.<br />

Messo alle strette, il colonnello Spiazzi aveva sostenuto<br />

che di più non poteva proprio dire, perché non poteva<br />

essere liberato dal segreto cui era tenuto, se non da un<br />

ufficiale dei carab<strong>in</strong>ieri di grado superiore al suo. Tuttavia,<br />

c’era un’altra spiegazione alla diga che Spiazzi aveva<br />

alzato fra le sue affermazioni precedenti e la verità com-<br />

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pleta: la paura. Antonio Alemanno, un altro generale del<br />

SID, gli aveva fatto arrivare il preciso ord<strong>in</strong>e di tacere. Da<br />

questo momento, al giudice padovano avevano com<strong>in</strong>ciato<br />

a spuntarsi le armi e alla f<strong>in</strong>e gli erano state tolte del<br />

tutto.<br />

Nell’estate del 1974, <strong>in</strong>tanto, la bomba di piazza della<br />

Loggia a Brescia e quella al treno Italicus avevano provocato<br />

tensione <strong>in</strong> casa SID. Maletti sosteneva di aver più<br />

volte <strong>in</strong><strong>formato</strong> Miceli della pericolosità imm<strong>in</strong>ente di alcune<br />

organizzazioni eversive <strong>in</strong> proc<strong>in</strong>to di compiere attentati.<br />

Affermazioni che avevano <strong>in</strong>dotto Tambur<strong>in</strong>o a<br />

far arrestare il direttore del servizio militare. Il cerchio<br />

era chiuso, si poteva andare <strong>in</strong> tribunale, ma il 14 luglio<br />

1978 la corte d’Assise di Roma – che nel frattempo aveva<br />

sottratto a Tambur<strong>in</strong>o l’<strong>in</strong>chiesta – aveva emesso verdetti<br />

che di fatto vanificano il lavoro del giudice padovano:<br />

Spiazzi era stato condannato a c<strong>in</strong>que anni di reclusione,<br />

Casucci a un anno e sei mesi, mentre Miceli – nel<br />

frattempo eletto alla Camera dei deputati fra le fila del<br />

Movimento sociale – era stato addirittura assolto dall’accusa<br />

di favoreggiamento con la formula della non sussistenza<br />

del fatto. Assoluzione che strideva con quanto<br />

emerso nel corso della movimentatissima udienza del 14<br />

dicembre 1977. In quella occasione, <strong>in</strong>fatti, il giudice Antonio<br />

Abbate aveva chiesto a Miceli conferma dell’esistenza<br />

di un doppio organismo parallelo – e qu<strong>in</strong>di illegale<br />

– del SID.<br />

Questa era stata la risposta: «Lei <strong>in</strong> sostanza vuole sapere<br />

se esiste un organismo segretissimo nell’ambito del<br />

SID. Io f<strong>in</strong>ora ho parlato delle dodici branche <strong>in</strong> cui si divide.<br />

Ognuna di esse ha come appendice altri organismi,<br />

altre organizzazioni operative, sempre con scopi istitu-<br />

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zionali. C’è, ed è sempre esistita, una particolare organizzazione<br />

segretissima, che è a conoscenza anche delle<br />

massime autorità dello Stato. Vista dall’esterno, da un<br />

profano, questa organizzazione può essere <strong>in</strong>terpretata<br />

<strong>in</strong> senso non corretto, potrebbe apparire come qualcosa<br />

di estraneo alla l<strong>in</strong>ea ufficiale. Si tratta di un organismo<br />

<strong>in</strong>serito nell’ambito del SID, comunque sv<strong>in</strong>colato dalla<br />

catena di ufficiali appartenenti al servizio I, che assolve<br />

compiti pienamente istituzionali, anche se si tratta di attività<br />

ben lontana dalla ricerca <strong>in</strong>formativa. Se mi chiedete<br />

dettagli particolareggiati, dico: non posso rispondere.<br />

Chiedeteli alle massime autorità dello Stato, <strong>in</strong> modo che<br />

possa esservi un chiarimento def<strong>in</strong>itivo» 45 .<br />

Da questo livello parallelo illegale del Servizio Informazioni<br />

Difesa si poteva dunque ripartire per fare luce sull’<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>amento<br />

eversivo di <strong>in</strong>teri apparati dello Stato e<br />

qu<strong>in</strong>di su molti tragici misteri della strategia della tensione,<br />

ma l’assoluzione del direttore del SID impedì tutto<br />

questo, mettendo una pietra tombale su fatti, circostanze,<br />

episodi. E anche sull’Organizzazione chiamata “Rosa<br />

dei Venti”.<br />

ITALICUS, TRENO DI MORTE, VERONA SALUTA<br />

CON ONORE<br />

La matt<strong>in</strong>a del 5 agosto 1974 un’edizione straord<strong>in</strong>aria<br />

del telegiornale annunciava una nuova strage. Erano trascorsi<br />

poco più di due mesi dall’eccidio di Piazza della<br />

45. Idem<br />

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Loggia a Brescia e la storia d’Italia doveva registrarne un<br />

altro. Un nuovo massacro, che andava ad aumentare le<br />

troppe tessere del funesto mosaico della strategia della<br />

tensione, quella <strong>in</strong>augurata c<strong>in</strong>que anni prima a Milano,<br />

<strong>in</strong> piazza Fontana. Nel 1969 Tito Stagno aveva testimoniato<br />

con Ruggero Orlando, collegato da New York, l’allunaggio<br />

di Apollo 11, ora gli era toccato l’<strong>in</strong>grato compito<br />

di raccontare quanto accaduto nella notte. Cioè che<br />

all’1.30, all’uscita di una galleria di San Benedetto Val di<br />

Sambro, una bomba era esplosa nel secondo scompartimento<br />

della qu<strong>in</strong>ta carrozza del treno Italicus, partito da<br />

Roma alle 20.35 della sera precedente e diretto al Brennero,<br />

causando la morte di dodici persone e il ferimento<br />

di quarantaquattro.<br />

Quella stessa matt<strong>in</strong>a, su un muro dei Bastioni di Porta<br />

Palio a Verona, era comparsa una scritta: «Camerata<br />

Esposti presente!» firmato ON, Ord<strong>in</strong>e Nero, mentre un<br />

volant<strong>in</strong>o dell’organizzazione neofascista, diffuso non solo<br />

nella città scaligera, proclamava: «Giancarlo Esposti è<br />

stato vendicato. Abbiamo voluto dimostrare alla nazione<br />

che siamo <strong>in</strong> grado di mettere le bombe dove vogliamo,<br />

<strong>in</strong> qualsiasi ora, <strong>in</strong> qualsiasi luogo, dove e come ci pare.<br />

Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la<br />

democrazia sotto una montagna di morti».<br />

Uno strano identikit<br />

Chi era quel Giancarlo Esposti vendicato con la morte di<br />

dodici persone Due giorni dopo la strage di Brescia,<br />

l’identikit dell’uomo che avrebbe messo la bomba nel cest<strong>in</strong>o<br />

dei rifiuti <strong>in</strong> Piazza della Loggia era apparso su tutti<br />

i giornali. Si trattava del neofascista Giancarlo Esposti,<br />

che però una settimana dopo era stato ucciso <strong>in</strong> un con-<br />

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flitto a fuoco coi carab<strong>in</strong>ieri a Pian del Rasc<strong>in</strong>o. Al momento<br />

dell’autopsia, quando bisognava ufficializzare il riconoscimento<br />

con l’identikit, ci si era accorti che Esposti,<br />

da due mesi, si era fatto crescere la barba e qu<strong>in</strong>di<br />

non poteva assomigliare a quell’identikit. Una constatazione<br />

<strong>in</strong>quietante: significava cioè che per la strage di<br />

Brescia era stato tutto predisposto, colpevole compreso.<br />

Ma che c’entrava tutto ciò con l’Italicus C’entrava con la<br />

strategia delle bombe, la strategia del terrore. Proprio<br />

Esposti e il suo gruppo, prima si essere <strong>in</strong>tercettati dai<br />

carab<strong>in</strong>ieri, si trovavano <strong>in</strong> Abruzzo <strong>in</strong> attesa di un’azione<br />

clamorosa da <strong>in</strong>terpretare come segnale preciso per<br />

l’entrata <strong>in</strong> scena <strong>in</strong>sieme con altre formazioni, fra le quali<br />

Ord<strong>in</strong>e Nero. La prospettiva era quella di un golpe da<br />

preparare attraverso “una serie di attentati di gravità<br />

crescente”, di stragi <strong>in</strong>discrim<strong>in</strong>ate <strong>in</strong> città diverse. La<br />

bomba dell’Italicus – come quella di Brescia – obbediva<br />

qu<strong>in</strong>di a questa “logica” stragista. Una “logica” che esigeva<br />

morti, tanti morti per mandare il Paese allo sbando.<br />

Morti ammazzati. Ammazzati con bombe che non guardano<br />

<strong>in</strong> faccia nessuno e proprio per questo sem<strong>in</strong>ano<br />

paura, terrore. Come di terrore erano le parole dei testimoni<br />

di questo nuovo eccidio. «Improvvisamente», aveva<br />

raccontato uno di essi, «il tunnel da cui doveva sbucare<br />

il treno si è illum<strong>in</strong>ato a giorno, la montagna ha tremato,<br />

poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza<br />

di <strong>in</strong>erzia, è arrivato f<strong>in</strong> davanti a noi. Le fiamme erano<br />

altissime e abbaglianti. Nella vettura <strong>in</strong>cendiata c’era<br />

gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro<br />

espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente<br />

poiché le lamiere esterne erano <strong>in</strong>candescenti. Dentro<br />

doveva già esserci una temperatura da forno crematorio.<br />

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“Mettetevi <strong>in</strong> salvo”, abbiamo gridato, senza renderci conto<br />

che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione.<br />

Qualcuno si è buttato dal f<strong>in</strong>estr<strong>in</strong>o con gli abiti<br />

<strong>in</strong> fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura<br />

un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie<br />

rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci<br />

una persona impigliata. “Vieni via da lì”, gli abbiamo<br />

gridato, ma proprio <strong>in</strong> quel momento una vampata lo ha<br />

<strong>in</strong>vestito facendolo cadere accartocciato al suolo» 46 .<br />

Quel ferroviere era Silver Sirotti, <strong>in</strong> servizio sull’Italicus<br />

come macch<strong>in</strong>ista. Diplomatosi all’ITIS di Forlì nel 1968,<br />

era sopravvissuto all’esplosione, ma trovandosi nelle vic<strong>in</strong>anze<br />

della carrozza colpita, aveva cercato di portare<br />

soccorso. Il fumo e le fiamme avevano poi avuto il sopravvento<br />

anche su di lui <strong>in</strong> un vagone che, come hanno<br />

poi raccontato due agenti di polizia, «sembrava friggere,<br />

gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzavano su. Su tutta<br />

la zona aleggiava l’odore dolciastro e nauseabondo della<br />

morte».<br />

La morte di dodici persone, con tanto di nome e cognome:<br />

Elena Donat<strong>in</strong>i, Nicola Buffi, Herbert Kotr<strong>in</strong>er, Nunzio<br />

Russo, Maria Sant<strong>in</strong>a Carraro, Marco Russo, Tsugufumi<br />

Fukada, Antidio Medaglia, Elena Celli, Raffaella Garosi,<br />

Wìlbelmus Jacobus Hanema e Silver Sirotti, il ferroviere.<br />

Tuttavia, seppur spaventoso, questo nuovo capitolo<br />

della politica del terrore, nelle <strong>in</strong>tenzioni degli autori, doveva<br />

essere ancor più consistente: il timer era stato programmato<br />

<strong>in</strong>fatti perché la bomba esplodesse all’<strong>in</strong>terno<br />

della galleria, con effetti devastanti per la naturale compressione<br />

che avrebbe subito il treno e solo la differenza<br />

46. Da “L’Unità” del 5 agosto 1999.<br />

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di un m<strong>in</strong>uto aveva evitato un’ecatombe. Molti anni dopo<br />

mi sono ritrovato a percorrere <strong>in</strong> treno quella galleria.<br />

Una galleria lunghissima che sembrava non f<strong>in</strong>ire mai.<br />

Quando siamo ritornati alla luce del sole, ho cercato<br />

qualcuno del personale delle ferrovie e gli ho qu<strong>in</strong>di chiesto<br />

se poteva controllare quanto fosse lungo quel tunnel:<br />

diciotto chilometri. Solo il caso ha voluto che la bomba<br />

esplodesse all’uscita di una galleria così lunga.<br />

Camerata Mario Tuti<br />

C’era dunque la rivendicazione di Ord<strong>in</strong>e Nero, ma su<br />

quali gambe marciava questa organizzazione Chi aveva<br />

organizzato la strage Chi aveva messo la bomba Come<br />

da tradizionali copioni di questi almanacchi delle stragi,<br />

neanche a dirlo gli <strong>in</strong>vestigatori “brancolavano nel buio”,<br />

f<strong>in</strong>o a quando un extraparlamentare di s<strong>in</strong>istra, Aurelio<br />

Fianch<strong>in</strong>i, era evaso dal penitenziario di Arezzo facendo<br />

arrivare alla stampa questa dichiarazione, frutto a suo dire<br />

di confidenze raccolte <strong>in</strong> carcere: «La bomba è stata<br />

messa sul treno dal gruppo eversivo di Mario Tuti, che ha<br />

ricevuto ord<strong>in</strong>i dal Fronte nazionale rivoluzionario e da<br />

Ord<strong>in</strong>e Nero. Materialmente hanno agito Piero Malentacchi,<br />

che ha piazzato l’esplosivo alla stazione di Santa Maria<br />

Novella a Firenze, Luciano Franci, che gli ha fatto da<br />

palo, e la donna di quest’ultimo, Margherita Luddi».<br />

All’<strong>in</strong>izio del ‘75 era stato emesso un mandato di cattura<br />

contro Mario Tuti, che però era riuscito a fuggire all’arresto<br />

dopo aver ucciso due carab<strong>in</strong>ieri andati a casa sua<br />

per arrestarlo, Leonardo Falco e Giovanni Ceravolo, e<br />

averne ferito un terzo. Rifugiatosi prima ad Ajaccio, si<br />

era poi nascosto <strong>in</strong> Costa azzurra, dove però era stato<br />

r<strong>in</strong>tracciato e arrestato dopo un conflitto a fuoco. In re-<br />

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lazione alla strage dell’Italicus, Tuti sarà assolto def<strong>in</strong>itivamente<br />

nel ’92, e quella è rimasta una delle troppe stragi<br />

impunite.<br />

Ho avuto modo di <strong>in</strong>contrare personalmente l’ex-terrorista<br />

nero condannato a due ergastoli per tre omicidi: i due<br />

carab<strong>in</strong>ieri ed Ermanno Buzzi, strangolato con l’aiuto del<br />

camerata Pierluigi Concutelli nel carcere di Novara. Il 28<br />

dicembre 2003 era uscito per la prima volta dopo ventisette<br />

anni, per quattro ore. Non si è mai pentito, né dissociato.<br />

Ha scritto un saggio per il libro La Bibbia dei non credenti,<br />

al quale hanno collaborato Massimo Cacciari, Luciano<br />

Violante e Francesco Gucc<strong>in</strong>i. È stato anche protagonista<br />

<strong>in</strong> carcere di uno spettacolo sul Vangelo.<br />

La prima cosa che mi aveva detto, quando l’avevo <strong>in</strong>contrato<br />

<strong>in</strong> un’assolata matt<strong>in</strong>a di luglio, era stata che «comunisti<br />

si diventa, fascisti si nasce». E lui, fascista lo era<br />

qu<strong>in</strong>di da sempre, seppure con visioni diverse del mondo<br />

e degli uom<strong>in</strong>i, del bene e del male. Ora si sentiva un altro<br />

uomo. Un uomo che odia la violenza, ogni forma di<br />

violenza: «ai blocchi stradali, a quelli dei treni, preferisco<br />

i girotondi».<br />

«I diversi, i reietti della cultura imperante di quegli anni<br />

terribili», aveva aggiunto quasi con orgoglio, «eravamo<br />

noi, i fascisti. Avevamo contro tutti e noi eravamo<br />

contro tutti». Compreso Ermanno Buzzi, strangolato<br />

«perché si era sporcato le mani coi servizi, cioè con lo<br />

Stato, vale a dire con quello Stato che noi combattevamo.<br />

Per questo l’abbiamo ucciso, non perché era un delatore,<br />

un <strong>in</strong>fame, ma perché aveva tradito la nostra<br />

idea, che era quella appunto di combatterlo questo Stato,<br />

non di agire con lui o per lui».<br />

«Con la giustizia», aveva risposto a una mia precisa do-<br />

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manda, «credo di aver saldato il mio conto. Il carcere<br />

cambia le persone. Non sono quello che si dice un pentito,<br />

ma posso garantire che oggi non sono socialmente pericoloso<br />

e non mi ritengo neppure una persona malvagia,<br />

tutt’altro, una persona buona, <strong>disponibile</strong>».<br />

E la coscienza che dice «Con quella il conto è ancora<br />

aperto. Non sarei più capace di uccidere nessuno, ma ciò<br />

non mi consola. Provo un dolore profondo e <strong>in</strong>cancellabile<br />

per ciò che ho commesso. Però non chiederei mai perdono,<br />

perché il perdono non si chiede per potersi sentire<br />

meglio, per un fatto egoistico, qu<strong>in</strong>di, semmai si riceve<br />

da chi vuole dartelo, o meglio, concedertelo spontaneamente».<br />

E ancora: «il carcere è dentro di me, dopo quasi trent’anni<br />

la galera ti entra dentro irrimediabilmente. Mi sto per<br />

laureare <strong>in</strong> Scienze forestali, mi manca la tesi. Sono<br />

iscritto al conservatorio di Parma. Ironia della sorte, l’ho<br />

potuto fare grazie a una vecchia legge sui prigionieri di<br />

guerra. Trent’anni fa mi sentivo anch’io un prigioniero di<br />

guerra. Oggi spero di poter aiutare la gente, fare qualcosa<br />

di utile».<br />

Il terribile segreto dell’Italicus<br />

Dopo quell’<strong>in</strong>contro, Tuti lo avevo sentito saltuariamente,<br />

f<strong>in</strong>ché mi aveva detto che aveva qualcosa di <strong>in</strong>teressante<br />

per le mie ricerche storiche. Ma era sempre impegnato<br />

col teatro, così non ci pensai più. F<strong>in</strong>ché, saputo<br />

che stavo lavorando al caso Campanile 47 , il giovane mili-<br />

47. Il riferimento è al mio libro Il sangue dei rossi (Cairo, 2009) che contiene anche la storia di Alceste<br />

Campanile e alla puntata della trasmissione “La Storia siamo noi” da me realizzata come autore col<br />

titolo “Due spari nel buio, il caso Campanile” (Rai Storia, giugno 2009).<br />

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tante di Lotta Cont<strong>in</strong>ua ucciso a Reggio Emilia nel giugno<br />

del 1975, mi aveva f<strong>in</strong>almente “svelato il segreto”: «Adesso<br />

ti dico una cosa nuova… E lo dico a te perché te lo devo<br />

da un po’ di tempo. Una cosa che riguarda Alceste<br />

Campanile».<br />

«Sei un po’ <strong>in</strong> ritardo…».<br />

«Diciamo che il libro e la trasmissione che hai fatto su<br />

Campanile sono ricostruzioni corrette, perché sostenute<br />

da sentenze di tribunale, ma sono la verità giudiziaria,<br />

non quella vera. Quella vera è un’altra…».<br />

«Quale».<br />

«Porta dritto dritto proprio all’Italicus».<br />

«Spiegami per favore perché è tutto troppo sibill<strong>in</strong>o».<br />

«Nel corso del processo <strong>in</strong> cui ero imputato, venne fuori<br />

un biglietto della polizia di Reggio Emilia che facendo riferimento<br />

a una fonte confidenziale – e qu<strong>in</strong>di protetta<br />

anche di fronte alla magistratura – riproponeva per la<br />

strage dell’Italicus una pista legata ad ambienti dell’<strong>in</strong>tellighentia<br />

di s<strong>in</strong>istra di quella città, già <strong>in</strong>dicata all’<strong>in</strong>izio<br />

delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i, ma poi lasciata cadere».<br />

«Se ti riferisci alla cosiddetta pista rossa, mi pare sia stata<br />

smontata pezzo per pezzo, anche perché trovava sostegno<br />

solo <strong>in</strong> Vittorio Campanile, il padre di Alceste, notoriamente<br />

uomo di destra che, stando anche agli stessi<br />

<strong>in</strong>quirenti, si mosse più che per trovare la verità, per dimostrare<br />

la sua tesi: cioè che suo figlio era stato ucciso<br />

dai suoi stessi compagni».<br />

«In effetti, malgrado la protezione della fonte, <strong>in</strong> via <strong>in</strong>formale<br />

le notizie del biglietto vennero attribuite proprio<br />

al padre di Alceste, che mi pare venisse <strong>in</strong>terrogato <strong>in</strong><br />

proposito, ma senza dare conferme».<br />

«Qu<strong>in</strong>di, niente di nuovo».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Non è così e ora ti spiego perché. Quando le persone <strong>in</strong>dicate<br />

<strong>in</strong> quel biglietto furono chiamate a testimoniare<br />

per l’<strong>in</strong>domani, una di queste, tale Ennio Scolari, docente<br />

nella facoltà frequentata da Alceste e dirigente del<br />

Partito comunista, si suicidò durante la notte, impiccandosi<br />

e lasciando un biglietto molto confuso <strong>in</strong> cui ricordava<br />

appunto la sua dedizione al partito e l’angoscia per la<br />

citazione a testimoniare».<br />

«Avrà vissuto un particolare momento di debolezza emotiva,<br />

come quei ragazz<strong>in</strong>i che si suicidano perché resp<strong>in</strong>ti<br />

a scuola: mica è per quello che saltano dalla f<strong>in</strong>estra.<br />

La bocciatura è solo una goccia che fa traboccare un vaso<br />

già pieno».<br />

«A parte il fatto che un professore universitario ha tutti gli<br />

strumenti culturali per sapere che la citazione come testimone<br />

non ha niente di <strong>in</strong>famante, anzi è un alto dovere civico,<br />

la cosa che fece pensare all’epoca e che dovrebbe far<br />

pensare adesso è che alla base di quel gesto estremo dovesse<br />

esserci qualcosa di molto grave e sporco».<br />

«Che andava denunciato».<br />

«Infatti, tutti i giornali e i telegiornali diedero ampio rilievo<br />

alla notizia. Non solo, ma lo stesso processo per l’Italicus<br />

venne sospeso perché il pubblico m<strong>in</strong>istero si era<br />

recato a consultarsi coi suo colleghi di Reggio Emilia».<br />

«E quali furono i risultati».<br />

«I risultati sono sotto gli occhi: dal giorno dopo nessuno<br />

menzionò più l’episodio e nemmeno Scolari e, se ci fai caso,<br />

quella dell’Italicus è la strage meno ricordata di tutte».<br />

«Non mi pare. Comunque, seguendo la tua tesi, perché<br />

dovrebbe essere la meno ricordata».<br />

«Perché è l’unica dove ci sono molti e concordanti <strong>in</strong>dizi<br />

su una commistione tra servizi segreti deviati e, que-<br />

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sta volta, non i soliti partiti governativi, o il Movimento<br />

sociale…».<br />

«Svela l’arcano».<br />

«Ma te l’ho già detto… Il Partito comunista».<br />

«Maddai…».<br />

«Quando un colonnello dei carab<strong>in</strong>ieri si prende senza battere<br />

ciglio una condanna a quattro anni per proteggere la<br />

loro “traduttrice” iscritta al Partito comunista, nonché<br />

compagna di un resistente greco, come Claudia Aiello…».<br />

«Che significa Spiegami perché non capisco».<br />

«È qui che entra <strong>in</strong> ballo il tuo amico Alceste».<br />

«Amico…».<br />

«Amico nel senso che è uno su cui hai lavorato parecchio».<br />

«Questo, sì».<br />

«Ma non abbastanza. Non hai analizzato bene le troppe<br />

ambiguità e reticenze su quel caso. Per non parlare dell’opera<br />

di dis<strong>in</strong>formazione operata da Paolo Bell<strong>in</strong>i».<br />

«Reo confesso dell’omicidio di Alceste».<br />

«Credimi, dietro la morte di Alceste ci sono implicazioni<br />

<strong>in</strong>nom<strong>in</strong>abili. E ho speso la parola più idonea: <strong>in</strong>nom<strong>in</strong>abili».<br />

«La mia limitatezza mi impedisce di capire, di collegare<br />

il caso Campanile all’Italicus, anche perché non mi<br />

hai spiegato nulla. Hai fatto solo affermazioni sibill<strong>in</strong>e<br />

f<strong>in</strong>ora».<br />

«Rivaluta bene quel che ti ho detto. Ricomponi il puzzle<br />

che comprende il suo professore suicida, il biglietto del<br />

padre <strong>in</strong> cui co<strong>in</strong>volgeva appartenenti al PCI, l’oscuramento<br />

mediatico di quella strage, il colonnello dei carab<strong>in</strong>ieri<br />

e, <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e, le plurime e discordanti confessioni di<br />

Bell<strong>in</strong>i e hai il quadro giusto. Non ti devo dire niente, io,<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ce l’hai sotto gli occhi la storia vera dell’Italicus e di Alceste<br />

Campanile».<br />

«Tento una traduzione: nell’attentato all’Italicus è co<strong>in</strong>volto<br />

il PCI e Alceste Campanile viene soppresso perché<br />

sa troppo e non ci si può fidare di uno come lui, fra l’altro<br />

eccessivamente esuberante ed esposto a Reggio Emilia.<br />

È così».<br />

«Quel biglietto coi nomi è poi sparito, anche se la storia<br />

d’Italia è piena di pizz<strong>in</strong>i e biglietti spariti… Ora torniamo<br />

alla pista nera dell’Italicus. Considera che dopo la mia<br />

assoluzione nel processo di primo grado, come richiesto<br />

anche dallo stesso pubblico m<strong>in</strong>istero e dalle parti civili<br />

delle vittime, che non conclusero contro di noi – a parte<br />

le parti civili istituzionali come il comune di Bologna, il<br />

cui avvocato, Roberto Montorsi, ex-ufficiale dei carab<strong>in</strong>ieri,<br />

sarà poi <strong>in</strong>dagato <strong>in</strong>sieme a Licio Gelli –, <strong>in</strong> Appello,<br />

dopo le dichiarazioni dei cosiddetti pentiti neri, vale a<br />

dire Sergio Calore, V<strong>in</strong>cenzo V<strong>in</strong>ciguerra, Edgardo Bonazzi,<br />

Angelo Izzo – tutti concordi nell’escludere non solo<br />

la mia colpevolezza per la strage, ma anche il semplice<br />

co<strong>in</strong>volgimento coi servizi o la massoneria – venni <strong>in</strong>vece<br />

condannato. Formidabile, no».<br />

«Vai avanti».<br />

«Mentre dopo l’assoluzione venni mandato nei cosiddetti<br />

“braccetti della morte”, il grado estremo di durezza repressiva<br />

<strong>in</strong> Italia, tipo Guantanamo per <strong>in</strong>tenderci, stranamente<br />

dopo la condanna <strong>in</strong> Appello per un delitto così grave<br />

e <strong>in</strong>famante venni mandato nel miglior carcere d’Italia,<br />

Porto Azzurro. Quasi una sorta di scambio, che, implicitamente<br />

mi diceva: “tieniti la condanna, tanto da qui con un<br />

paio di anni di buona condotta uscirai anche tu...”».<br />

«E tu».<br />

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«Come sai, io fui poi assolto def<strong>in</strong>itivamente per la strage<br />

dell’Italicus. Ma ti confesso che non presi bene quella<br />

specie di patto scellerato e cercai altre strade, magari anche<br />

per provare ad andare a mia volta a <strong>in</strong>terrogare qualcuno<br />

di quei giudici, togati e popolari, che mi avevano<br />

condannato, e cercar di capire cosa c’era sotto...».<br />

«Senza riuscirci, ovviamente».<br />

«Ovviamente. Comunque, oggi non me ne frega più niente,<br />

anche perché sono certo che pure se uscisse una confessione<br />

o delle prove <strong>in</strong>oppugnabili, al massimo vivrebbero<br />

un giorno sui giornali e <strong>in</strong> televisione, poi sarebbero<br />

oscurate dal silenzio. Tu che ami il teatro, dovresti pensare<br />

a trarre un adattamento da un bel giallo di Durrenmatt:<br />

Giustizia...» 48 .<br />

Anche Moro su quel treno<br />

Calato il sipario anche sull’Italicus, restavano solo i morti,<br />

poiché perf<strong>in</strong>o le carrozze del treno, rimaste per tanti<br />

anni <strong>in</strong> un deposito “a disposizione”, sono state vendute<br />

come ferro vecchio. Scenografie obsolete di una storia<br />

vecchia che nella relazione di maggioranza della commissione<br />

parlamentare d’<strong>in</strong>chiesta sulla loggia P2, così era<br />

stata riassunta: «La strage dell’Italicus è ascrivibile a una<br />

48. «Un ricco notabile svizzero – Isaak Kohler – uccide un uomo <strong>in</strong> mezzo a un ristorante “non senza<br />

averlo salutato cordialmente”, si lascia docilmente arrestare, loda i giudici per la condanna a vent’ anni<br />

che subisce, va soddisfatto <strong>in</strong> carcere, diventa detenuto modello, senza mai svelare – contro ogni logica<br />

<strong>in</strong>vestigativa – alcuna motivazione del suo gesto. Ma l’evento paradossale, che scuote la prov<strong>in</strong>cia<br />

subalp<strong>in</strong>a, è solo il primo di una serie di colpi di scena pilotati dall’assass<strong>in</strong>o, che riesce a muovere<br />

spavaldamente dal carcere alcuni uom<strong>in</strong>i-ped<strong>in</strong>e. Tra essi il protagonista, un avvocato spiantato di<br />

nome Spaet, a cui il consigliere cantonale Kohler propone di “riesam<strong>in</strong>are il caso partendo dall’ipotesi<br />

che l’omicida non sia lui”. È una sfida apparentemente senza senso – tutti hanno visto l’omicida<br />

sparare – che <strong>in</strong>vece si rivela v<strong>in</strong>cente e si conclude con l’assoluzione del notabile, il suicidio di un altro<br />

possibile colpevole e una raffica di morti ammazzati. È la trama di Giustizia, scritto nel 1985 da<br />

Friedrich Durrenmatt e tradotto – <strong>in</strong> modo eccellente – da Giovanna Agabio per Marcos y Marcos» (da<br />

“L’Almanacco dei libri”, “La Repubblica”, aprile 2005).<br />

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organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o<br />

neonazista operante <strong>in</strong> Toscana. La loggia P2, al cui vertice<br />

c’era Licio Gelli, già implicato nel tentato golpe Borghese,<br />

svolse opera di istigazione agli attentanti e di f<strong>in</strong>anziamento<br />

nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare<br />

toscana. La loggia P2 è qu<strong>in</strong>di gravemente<br />

co<strong>in</strong>volta nella strage dell’Italicus e può considerarsene<br />

anzi addirittura responsabile <strong>in</strong> term<strong>in</strong>i non giudiziari,<br />

ma storico-politici quale essenziale retroterra economico,<br />

organizzativo e morale».<br />

Per concludere – si fa per dire – questa triste e dolorosa<br />

vicenda, c’è da registrare una dichiarazione di Maria Fida<br />

Moro a Tele Serenissima il 18 aprile 2004 e contenuta<br />

anche nel suo libro, La nebulosa del caso Moro 49 : suo<br />

padre, il 4 agosto 1974, era salito sull’Italicus, ma venne<br />

fatto scendere all’improvviso per firmare delle carte che<br />

gli erano state portate. E il treno partì senza di lui. Era<br />

forse lui l’obiettivo Il dest<strong>in</strong>o di Aldo Moro si sarebbe comunque<br />

compiuto quattro anni dopo.<br />

OCCORSIO, UNA SENTENZA A MORTE SCRITTA<br />

SUI MURI DI VERONA<br />

Verona, via Stella, 9 luglio 1976. In un appartamento del<br />

centro, c’erano alcune persone, una delle quali leggeva<br />

ad alta voce il testo di un volant<strong>in</strong>o: «Il Tribunale speciale<br />

del MPON ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto<br />

colpevole di avere, per opportunismo carrieristico,<br />

49. Il libro è uscito per Selene Edizioni nel giugno 2004. Maria Fida Moro spiega di non aver mai fatto<br />

prima cenno all’episodio dell’Italicus perché fortemente sconsigliata da amici per evitare qualsiasi<br />

forma di strumentalizzazione.<br />

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servito la dittatura democratica perseguitando i militanti<br />

di Ord<strong>in</strong>e Nuovo e le idee di cui essi sono portatori. Vittorio<br />

Occorsio ha, <strong>in</strong>fatti, istruito due processi contro il<br />

MPON. Al term<strong>in</strong>e del primo, grazie alla complicità dei giudici<br />

marxisti [Ernesto] Battagl<strong>in</strong>i e [Michele] Coiro e del<br />

barone DC Taviani, il movimento politico è stato sciolto e<br />

dec<strong>in</strong>e di anni di carcere sono stati <strong>in</strong>flitti ai suoi dirigenti.<br />

Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti<br />

del MPON sono stati <strong>in</strong>quisiti e <strong>in</strong>carcerati e condotti <strong>in</strong> catene<br />

d<strong>in</strong>anzi ai Tribunali del sistema borghese. Molti di<br />

essi sono ancora illegalmente trattenuti nelle democratiche<br />

galere, molti altri sono da anni costretti a una dura<br />

latitanza. L’atteggiamento <strong>in</strong>quisitorio tenuto dal servo<br />

del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna attenuante.<br />

L’accanimento da lui usato per colpire gli ord<strong>in</strong>ovisti<br />

lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia<br />

muoiono! La sentenza emessa dal Tribunale del MPON è di<br />

morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo.<br />

Avanti per l’Ord<strong>in</strong>e Nuovo!».<br />

L’acronimo MPON stava per Movimento Politico Ord<strong>in</strong>e<br />

Nuovo e l’appartamento era lo stesso nel quale era stato<br />

preparato il volant<strong>in</strong>o diffuso <strong>in</strong> città all’<strong>in</strong>domani della<br />

strage dell’Italicus. Vittorio Occorsio era <strong>in</strong>vece il giudice<br />

che stava “perseguitando” Ord<strong>in</strong>e Nuovo. Non solo, fonti<br />

<strong>in</strong>formate rivelavano che il giudice romano aveva <strong>in</strong> mente<br />

di creare un pool con i giudici veneti, bresciani e milanesi<br />

per unire le forze contro l’eversione di destra.<br />

Roma, via Giulia, stesso giorno. In casa Occorsio – una famiglia<br />

composta da quattro persone – il giudice Vittorio<br />

stava cenando con suo figlio Enrico. Erano soli perché<br />

sua moglie era rimasta a dormire dai genitori e sua figlia<br />

si trovava fuori Roma. Dopo cena, il giudice si era ritira-<br />

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to nel suo studio per controllare alcune carte. Verso mezzanotte<br />

era andato a dormire, imitato poco dopo da suo<br />

figlio. Il matt<strong>in</strong>o seguente Enrico era ancora a letto quando<br />

era stato svegliato dalla sventagliata di una mitraglietta:<br />

erano passate da poco le otto del matt<strong>in</strong>o, suo padre<br />

era qu<strong>in</strong>di già fuori casa. Atterrito da un tragico presentimento,<br />

si era vestito <strong>in</strong> fretta e furia, era corso <strong>in</strong> strada<br />

e, girato l’angolo di via Mogadisco, era stato fulm<strong>in</strong>ato<br />

da una scena che gli rimarrà negli occhi per tutta la vita:<br />

suo padre riverso sul volante della sua auto, crivellato di<br />

colpi.<br />

Il persecutore di Ord<strong>in</strong>e Nuovo<br />

La polizia aveva trovato nella macch<strong>in</strong>a sette volant<strong>in</strong>i<br />

della rivendicazione, con tanto di ascia bipenne, simbolo<br />

di Ord<strong>in</strong>e Nuovo. Chi aveva ucciso Vittorio Occorsio, e<br />

perché<br />

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo<br />

<strong>in</strong>dietro, esattamente al 1956, quando P<strong>in</strong>o Rauti e alcuni<br />

esponenti del MSI, tra cui Clemente Graziani ed Elio<br />

Massagrande, <strong>in</strong> dissidio con le l<strong>in</strong>ee politiche del partito,<br />

avevano fondato Ord<strong>in</strong>e Nuovo: il nome era stato scelto<br />

<strong>in</strong> onore della Neue Ordnung vagheggiata da Hitler. Il<br />

gruppo si rifaceva alla Repubblica di Salò, assumendo come<br />

tesi quelle di Julius Evola, e adottando come simbolo<br />

l’ascia bipenne <strong>in</strong> un cerchio bianco su fondo rosso. Il<br />

motto, quello delle SS: «Il nostro onore si chiama fedeltà».<br />

Per Ord<strong>in</strong>e Nuovo bisognava abbattere la democrazia<br />

borghese, il capitalismo decadente e l’imperialismo<br />

americano per creare una società fondata sulla gerarchia,<br />

l’autorità, la subord<strong>in</strong>azione.<br />

Un movimento, quello di ON, che configurava il reato di<br />

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ricostituzione del disciolto Partito fascista e per questa<br />

ragione, il 6 giugno del 1973, era <strong>in</strong>iziato il processo che<br />

vedeva come pubblico m<strong>in</strong>istero il giudice Vittorio Occorsio.<br />

Il 21 novembre successivo erano stati condannati<br />

trenta ord<strong>in</strong>ovisti, tra cui Elio Massagrande, Clemente<br />

Graziani e Salvatore Francia, e l’anno successivo altri<br />

esponenti di Ord<strong>in</strong>e Nuovo che, nonostante lo scioglimento,<br />

aveva cont<strong>in</strong>uato non solo a operare, ma anche a<br />

fare nuovi proseliti, fra cui il futuro killer di Occorsio:<br />

Pierluigi Concutelli.<br />

Mentre sui muri di Roma e Verona erano comparse scritte<br />

profeticamente m<strong>in</strong>acciose, come «Occorsio, tu ci dai<br />

l’ergastolo, noi di più», alla f<strong>in</strong>e del giugno 1975, Concutelli<br />

partecipava <strong>in</strong>sieme ad altri estremisti di destra al<br />

sequestro del banchiere pugliese Luigi Mariano. Il banchiere<br />

era stato liberato dopo un riscatto di 180 milioni<br />

di lire 50 . A quel sequestro aveva partecipato anche Luigi<br />

Mart<strong>in</strong>ese, segretario federale del MSI di Br<strong>in</strong>disi, che due<br />

anni dopo aveva rivelato la dest<strong>in</strong>azione di quel denaro:<br />

il f<strong>in</strong>anziamento di un gruppo eversivo.<br />

Mafia, eversione e P2<br />

Secondo un rapporto della polizia di Trapani noto come<br />

“Rapporto Peri”, nel rapimento Mariani c’era anche un<br />

forte co<strong>in</strong>volgimento della mafia, così come <strong>in</strong> almeno altri<br />

tre sequestri avvenuti nello stesso anno. Un <strong>in</strong>treccio,<br />

qu<strong>in</strong>di, che legava politica, crim<strong>in</strong>alità organizzata ed<br />

eversione neofascista.<br />

Dopo il sequestro, Concutelli aveva partecipato a una<br />

50. Novantac<strong>in</strong>quemila euro attuali, ma con un potere d’acquisto dieci volte superiore, visto che lo<br />

stipendio medio di un operaio si aggirava sulle 120mila lire: 65 euro circa.<br />

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riunione che si era tenuta <strong>in</strong> un casolare di Albano <strong>in</strong>sieme<br />

a esponenti di Avanguardia Nazionale e del MSI. Motivo<br />

dell’<strong>in</strong>contro, trovare una soluzione per Ord<strong>in</strong>e Nuovo:<br />

i militanti ord<strong>in</strong>ovisti sarebbero confluiti <strong>in</strong> Avanguardia<br />

Nazionale, organizzazione ancora legale. Pochi giorni<br />

dopo, <strong>in</strong> relazione al sequestro Mariani, la procura di Palermo<br />

aveva spiccato un mandato di cattura per Concutelli,<br />

che era fuggito <strong>in</strong> Spagna, sotto la protezione di Stefano<br />

Delle Chiaie, ormai punto di riferimento dei latitanti<br />

di estrema destra.<br />

Intanto Occorsio proseguiva il suo lavoro e fiutava che la<br />

pista dei sequestri poteva portare lontano: <strong>in</strong>dagando così<br />

su quelli del gioielliere Gianni Bulgari, del figlio del f<strong>in</strong>anziere<br />

Umberto Ortolani, e di Alfredo Danesi, <strong>in</strong>dustriale<br />

del caffè, aveva notato un particolare <strong>in</strong>quietante.<br />

Ortolani e il padre di Danesi avevano qualcosa <strong>in</strong> comune:<br />

la massoneria. Più precisamente, facevano parte di<br />

una loggia segreta ancora sconosciuta, la P2 di Licio Gelli,<br />

che aveva sede a Roma <strong>in</strong> via Condotti, proprio vic<strong>in</strong>o<br />

alla gioielleria di Bulgari. Per Occorsio l’ipotesi era che<br />

quei sequestri fossero maturati all’<strong>in</strong>terno dell’ambiente<br />

massonico per f<strong>in</strong>anziare un gruppo di eversione di destra<br />

e che fossero stati eseguiti con l’appoggio della più<br />

potente organizzazione crim<strong>in</strong>ale che <strong>in</strong> quel periodo<br />

operava a Roma: la banda dei Marsigliesi (che da lì a poco<br />

sarebbe stata soppiantata da quella della Magliana 51 ).<br />

Ma non basta: il magistrato aveva anche scoperto che il<br />

totale della cifra messa <strong>in</strong>sieme con i riscatti, circa sei<br />

miliardi di lire, corrispondeva esattamente alla somma<br />

51. La banda della Magliana fu attiva per un decennio a partire dalla seconda metà degli anni<br />

Settanta.<br />

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spesa per comprare un palazzo <strong>in</strong> via Romagna, a Roma,<br />

sede dell’OMPAM. OMPAM significava Organizzazione Mondiale<br />

del Pensiero e dell’Assistenza Massonica e – neanche<br />

a dirlo – era stata fondata da Licio Gelli. Il 30 marzo<br />

‘76 Occorsio ord<strong>in</strong>ava qu<strong>in</strong>di l’arresto di Albert Bergamelli,<br />

uno dei capi della banda dei Marsigliesi, e del segretario<br />

della P2, nonché braccio destro di Gelli, Gian<br />

Antonio M<strong>in</strong>ghelli. Dieci giorni dopo, i risultati delle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i<br />

di Occorsio arrivavano sui giornali: “L’Unità”, citando<br />

fonti della magistratura, denunciava forti collegamenti<br />

tra la P2, la malavita organizzata e l’estrema destra per<br />

un comune progetto eversivo (con la morte di Occorsio<br />

le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i su questi <strong>in</strong>trecci saranno bloccate: bisognerà<br />

aspettare sei anni perché scoppi lo scandalo della P2).<br />

Soffiate dal Palazzo di Giustizia<br />

Il dest<strong>in</strong>o di Occorsio era però ormai segnato: il 22 aprile<br />

Concutelli era tornato a Roma dalla sua latitanza spagnola.<br />

Con sé aveva un mitra Ingram: gli sarebbe servito<br />

la matt<strong>in</strong>a del 10 luglio. Ord<strong>in</strong>e Nuovo gli aveva affidato,<br />

<strong>in</strong>fatti, il compito di eseguire la sentenza di morte. Concutelli<br />

aveva ped<strong>in</strong>ato qu<strong>in</strong>di il magistrato, <strong>in</strong>dividuandone<br />

il posto di lavoro, l’abitazione e i luoghi maggiormente<br />

frequentati, ma l’<strong>in</strong>formazione più preziosa gli arrivava<br />

proprio dal Palazzo di Giustizia: da venerdì 9 luglio “il<br />

persecutore” di Ord<strong>in</strong>e Nuovo non avrebbe avuto scorta,<br />

perché <strong>in</strong> proc<strong>in</strong>to di partire per le ferie il lunedì seguente.<br />

Chi aveva soffiato questa notizia al killer Concutelli<br />

si è sempre rifiutato di <strong>in</strong>dicarlo.<br />

Dopo l’omicidio, le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i sul delitto Occorsio erano<br />

state assegnate al giudice romano Claudio Vitalone, passando<br />

poi però per competenza alla procura di Firenze e<br />

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<strong>in</strong> particolare ai sostituti Antonio Pappalardo e Pier Luigi<br />

Vigna. L’<strong>in</strong>dizio pr<strong>in</strong>cipale che avevano per le mani gli<br />

<strong>in</strong>quirenti era l’avvistamento di due persone su una moto<br />

Guzzi 750 rossa, notata diverse volte nei pressi dell’abitazione<br />

di Occorsio. Vigna si era messo subito sulle<br />

tracce della moto e il 22 ottobre, <strong>in</strong> un covo romano di<br />

estremisti di destra, <strong>in</strong>sieme ad armi e munizioni, era saltata<br />

fuori proprio una Guzzi. Ma nera. Vigna era però<br />

conv<strong>in</strong>to che si trattasse della pista giusta: la sua ost<strong>in</strong>azione<br />

fu premiata quando scoprì che un certo Gianfranco<br />

Ferro, qu<strong>in</strong>dici giorni dopo l’omicidio, aveva lasciato<br />

<strong>in</strong> un’offic<strong>in</strong>a proprio una moto Guzzi rossa prendendone<br />

<strong>in</strong> cambio una nera. Arrestato e <strong>in</strong>terrogato, Ferro ammetteva<br />

di aver partecipato all’omicidio, precisando che<br />

però era stato compiuto da Concutelli.<br />

Un soldato politico<br />

Il 12 gennaio ’77, la procura di Firenze emetteva un mandato<br />

di cattura contro Concutelli che diveniva il ricercato<br />

“numero uno” d’Italia. Esattamente un mese dopo sarebbe<br />

stato arrestato a Roma.<br />

«Sono un soldato politico», dichiarava ai giornali, «e<br />

qu<strong>in</strong>di sono un prigioniero politico. Sono stato preso <strong>in</strong><br />

nottata, grazie anche all’abilità del nucleo che mi ha catturato,<br />

una menzione merita il brigadiere Antonio Germano,<br />

che è entrato per primo. Potevo opporre resistenza,<br />

ma non avevo possibilità di fuga, qu<strong>in</strong>di, come dovere<br />

rivoluzionario, <strong>in</strong> virtù di un ragionamento di economia<br />

rivoluzionaria, ho preferito non opporre resistenza».<br />

Concutelli è stato condannato a tre ergastoli: oltre che<br />

per l’omicidio Occorsio, anche per altri due. Il 13 aprile<br />

’81, nel carcere di Novara, con Mario Tuti, ha strangolato<br />

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Ermanno Buzzi, condannato <strong>in</strong> primo grado per la strage<br />

di Brescia, mentre il 12 agosto 1982, sempre nello stesso<br />

carcere, si era ripetuto strangolando un altro estremista<br />

di destra, Carm<strong>in</strong>e Pallad<strong>in</strong>o, f<strong>in</strong> dagli anni Sessanta luogotenente<br />

di Stefano Delle Chiaie, uno dei capi dell’estremismo<br />

nero già co<strong>in</strong>volto nello stragismo fascista.<br />

Pallad<strong>in</strong>o, raggiunto dalle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i sulla strage alla stazione<br />

di Bologna, aveva dato segni di disponibilità a collaborare<br />

con la giustizia. Concutelli è stato <strong>in</strong>dagato anche<br />

dalla questura di Trapani per il sequestro dell’imprenditore<br />

Luigi Corleo – suocero dell’esattore della mafia N<strong>in</strong>o<br />

Salvo di Salemi – effettuato il 17 luglio 1975. Il corpo del<br />

prigioniero non sarà mai ritrovato.<br />

AMATO, DA ROVERETO A ROMA PER MORIRE<br />

DI EVERSIONE NERA<br />

Si chiamava Mario Amato, era un magistrato. Era nato a<br />

Roma, ma per anni Rovereto è stata la sua città. Ogni<br />

matt<strong>in</strong>a si recava <strong>in</strong> procura per svolgere il suo lavoro di<br />

giudice: piccoli reati, niente di particolarmente importante,<br />

come <strong>in</strong> tutte le procure di prov<strong>in</strong>cia. F<strong>in</strong>ché era<br />

arrivato il trasferimento a Roma. Amato ne era felice.<br />

Non sapeva che aveva com<strong>in</strong>ciato a morire proprio <strong>in</strong><br />

quel luglio del 1977, quando, con la famiglia, aveva lasciato<br />

la tranquilla cittad<strong>in</strong>a trent<strong>in</strong>a per spostarsi nella<br />

capitale.<br />

A dicembre gli era stato affidato il primo “caso”: il fascicolo<br />

del “processo della Baldu<strong>in</strong>a”. Il 1° ottobre precedente,<br />

<strong>in</strong>fatti, nel quartiere romano della Baldu<strong>in</strong>a, la sede<br />

miss<strong>in</strong>a di via delle Medaglie d’Oro, considerata tra i<br />

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più pericolosi covi neri della città, era stata chiusa su disposizione<br />

del m<strong>in</strong>istro dell’Interno. La direttissima era<br />

obbligatoria, perché si trattava di un processo per ricostituzione<br />

del Partito fascista. Altro che piccoli reati di<br />

prov<strong>in</strong>cia: Amato si era trovato per le mani un caso importante,<br />

ma anche un caso che scottava: il 30 settembre<br />

Walter Rossi, simpatizzante di Lotta Cont<strong>in</strong>ua, era stato<br />

ucciso da Alessandro Alibrandi e da Cristiano Fioravanti,<br />

militanti del gruppo di estrema destra dei NAR (Nuclei<br />

Armati Rivoluzionari). Uno di quei due killer, Alessandro,<br />

era una patata bollente: era <strong>in</strong>fatti figlio di Antonio Alibrandi,<br />

giudice istruttore di Roma e collega di Mario<br />

Amato.<br />

Questo 1977, oltre a orig<strong>in</strong>are un nuovo movimento che<br />

riverberava il ‘68, sul fronte opposto aveva visto fiorire<br />

nuovi gruppi eversivi: a quelli “storici”, come Ord<strong>in</strong>e<br />

Nuovo e Avanguardia Nazionale sciolti per decreto del<br />

Vim<strong>in</strong>ale, si erano sostituiti quelli di Terza Posizione – attiva<br />

soprattutto nelle scuole – delle COP (Comunità Organiche<br />

di Popolo) – formate da giovanissimi neofascisti<br />

che gravitavano <strong>in</strong>torno al FUAN (l’organizzazione degli<br />

universitari miss<strong>in</strong>i) – e quello dei NAR, il più pericoloso e<br />

attivo 52 .<br />

Un unico filo nero<br />

L’attivismo neofascista aveva subito una determ<strong>in</strong>ante<br />

accelerazione il 7 gennaio ‘78, quando davanti alla sezione<br />

miss<strong>in</strong>a di Acca Larentia a Roma, una raffica di mitra<br />

aveva ucciso due giovanissimi militanti: il diciannovenne<br />

52. «La nostra era un’organizzazione anomala, quasi anarchica, nel senso che ognuno poteva servirsi<br />

della sigla dei Nar per compiere azioni contro lo Stato, che fosse rappresentato da un carab<strong>in</strong>iere, un<br />

giudice, una qualsiasi istituzione». Testimonianza resa all’autore.<br />

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Franco Bigonzetti, e Francesco Ciavatta, che di anni ne<br />

aveva solo 18. Negli scontri che erano seguiti con le forze<br />

dell’ord<strong>in</strong>e, un carab<strong>in</strong>iere aveva ucciso un altro miss<strong>in</strong>o,<br />

Stefano Recchioni, di 19 anni. «Acca Larentia segnò<br />

un punto di non ritorno», mi spiegò Francesca Mambro,<br />

leader dei NAR con Valerio Fioravanti. «Giurai che non mi<br />

sarei più fatta trovare disarmata» 53 .<br />

Amato si era conv<strong>in</strong>to che i tanti gruppi di estrema destra<br />

fossero riconducibili a un’unica regia eversiva. Gli attentati<br />

erano diventati pressoché quotidiani e non sempre<br />

attribuibili a un gruppo specifico, anche perché spesso<br />

erano rivendicati da sigle diverse. In questo contesto,<br />

Amato ebbe l’<strong>in</strong>tuizione di mettere <strong>in</strong>sieme fatti apparentemente<br />

slegati tra loro e di cercare un filo conduttore,<br />

anche se l’attività dei NAR da questo momento era diventata<br />

prem<strong>in</strong>ente: nella primavera successiva era stata<br />

trovata una cassa contenente munizioni ed esplosivo nella<br />

caserma di Tauriano di Spilimbergo, vic<strong>in</strong>o a Pordenone,<br />

dove Valerio Fioravanti aveva svolto il servizio militare.<br />

Altre casse, Fioravanti era riuscito a farle arrivare a<br />

Roma, dove erano state utilizzate per diverse azioni sia<br />

dai NAR che dalla banda della Magliana, a significare una<br />

sorta di s<strong>in</strong>ergia fra terrorismo nero e crim<strong>in</strong>alità organizzata.<br />

Amato, però, non poteva svolgere al meglio il proprio lavoro<br />

perché era stato isolato sempre di più, anche per la<br />

questione Alibrandi. Per salvaguardare suo figlio, il giudice<br />

era arrivato a mettere <strong>in</strong> guardia il collega “visionario”<br />

con queste parole: «Attento, perché questi sparano».<br />

53. Testimonianza resa all’autore.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

“Questi” erano i NAR, di cui faceva parte appunto Alessandro.<br />

Amato, però, era andato avanti per la sua strada<br />

e lo aveva fatto arrestare. Le manette erano scattate poi<br />

ai polsi di Paolo Signorelli, “cattivo maestro” dello spontaneismo<br />

armato di destra, e Sergio Calore. L’<strong>in</strong>chiesta si<br />

era concentrata qu<strong>in</strong>di sul gruppo di Costruiamo l’Azione,<br />

nato dalle ceneri di Ord<strong>in</strong>e Nuovo e Avanguardia Nazionale.<br />

Tutto ciò aveva scatenato violente polemiche<br />

contro Amato: ad attaccarlo, non era solo una parte della<br />

stampa, ma addirittura l’ord<strong>in</strong>e degli avvocati, che – su<br />

estenuante istigazione di Antonio Alibrandi – aveva scritto<br />

una lettera al procuratore generale <strong>in</strong> cui denunciava<br />

un comportamento «deontologicamente scorretto».<br />

Rivelazioni<br />

La violenza <strong>in</strong>tanto si era fatta più feroce, con molte persone<br />

uccise a sangue freddo, e anche Amato aveva <strong>in</strong>iziato<br />

ad avere paura. «Ero a casa con un amichetto», confidò<br />

poi suo figlio Sergio, «probabilmente rovistavamo tra<br />

le cose di mio padre e uscì fuori questa pistola: ricordo la<br />

sorpresa di trovare quell’oggetto <strong>in</strong> mano. Era la conferma<br />

che papà si sentiva <strong>in</strong> pericolo».<br />

Amato era ormai qu<strong>in</strong>di consapevole di essere un probabile<br />

bersaglio, ma aveva cont<strong>in</strong>uato il suo lavoro, seppur<br />

sempre più isolato <strong>in</strong> un contesto ostile, f<strong>in</strong>ché aveva<br />

messo le mani su qualcosa di teoricamente <strong>in</strong>attaccabile.<br />

Il 21 aprile ’80, nella relazione al procuratore capo di Roma,<br />

Giovanni De Matteo, aveva <strong>in</strong>fatti scritto: «Il 17 aprile<br />

mi è pervenuta una lettera anonima secondo cui Massimi<br />

Marco Mario era a conoscenza di notizie utili sui Nuclei<br />

Armati Rivoluzionari, sulle Comunità Organiche di<br />

Popolo e sul Movimento Rivoluzionario Popolare. Il Mas-<br />

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simi, da me <strong>in</strong>terpellato, ha ammesso senza esitare di essere<br />

l’autore della lettera e mi ha dichiarato di conoscere<br />

fatti utili alle <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i, e a conferma di quanto mi stava<br />

dicendo, estraeva da sotto la camicia una caten<strong>in</strong>a con<br />

applicata un’ascia bipenne, simbolo della disciolta associazione<br />

sovversiva ON, sostenendo di aver aderito a essa<br />

s<strong>in</strong> dal 1962. Prima ancora che il sottoscritto potesse fargli<br />

delle domande, dichiarava che naturalmente la lettera<br />

a me pervenuta doveva sparire».<br />

Massimi non aveva però voluto verbalizzare le sue rivelazioni,<br />

che qu<strong>in</strong>di erano state sottovalutate: il procuratore<br />

non aveva qu<strong>in</strong>di preso nessuna decisione <strong>in</strong> merito,<br />

lasciando ulteriormente solo il suo sostituto. Solo e <strong>in</strong> pericolo.<br />

Eppure Massimi era stato chiaro, molto chiaro,<br />

descrivendo la vera struttura dei NAR, <strong>in</strong>dicando il ruolo<br />

prem<strong>in</strong>ente di Paolo Signorelli, Claudio Mutti e Aldo Semerari<br />

e, oltre a svelare rap<strong>in</strong>e e omicidi, aveva rivelato<br />

che nel mir<strong>in</strong>o dei terroristi ormai c’erano agenti di polizia,<br />

carab<strong>in</strong>ieri e magistrati.<br />

Sostiene Fioravanti<br />

Le dichiarazioni di Massimi avevano trovato subito una<br />

tragica conferma il 28 maggio ’80, quando un commando<br />

dei NAR aveva attaccato una volante della polizia di guardia<br />

davanti al liceo romano Giulio Cesare: nello scontro a<br />

fuoco era morto l’agente Franco Evangelista, detto “Serpico”<br />

54 , e altri due erano rimasti gravemente feriti. Pochi<br />

giorni più tardi, Amato aveva r<strong>in</strong>novato al CSM le sue pre-<br />

54. “Serpico” è un film del 1973 di Sidney Lumet che ha per protagonista Al Pac<strong>in</strong>o nei panni di Frank<br />

Serpico, un poliziotto realmente esistito, <strong>in</strong> forza alla polizia di New York, che nel 1972 aveva denunciato<br />

di corruzione diversi suoi colleghi.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

occupazioni, denunciando ancora una volta la sua solitud<strong>in</strong>e<br />

e la sua conseguente esposizione. Ormai mortale. I<br />

NAR, <strong>in</strong>fatti, avevano <strong>in</strong>iziato a “preparare” il suo omicidio.<br />

Il 22 giugno, Amato aveva chiamato <strong>in</strong> ufficio per chiedere<br />

una macch<strong>in</strong>a bl<strong>in</strong>data, perché la sua era ferma <strong>in</strong> offic<strong>in</strong>a,<br />

ma gli era stato risposto che per l’ora da lui richiesta<br />

non era <strong>disponibile</strong> nessuna vettura. Il giorno seguente,<br />

<strong>in</strong>torno alle 7.50, il giudice era uscito di casa per l’ultima<br />

volta. Raggiunta la fermata dell’autobus di viale Ionio,<br />

poco dopo, <strong>in</strong> mezzo ad altre persone, era stato freddato<br />

con un colpo di pistola alla nuca da un killer, poi caricato<br />

da un complice su una moto di grossa cil<strong>in</strong>drata<br />

che si era dileguata nel traffico.<br />

Era stato Sergio Amato ad avvertire sua sorella Crist<strong>in</strong>a<br />

che era accaduto qualcosa al padre: «Mio fratello è arrivato<br />

e mi ha detto: “Papà l’hanno ucciso con la pistola”…<br />

Mio fratello di sei anni».<br />

Valerio Fioravanti mi ha spiegato così le motivazioni dell’omicidio:<br />

«Avevamo identificato Amato come obiettivo<br />

per lanciare un messaggio chiaro, <strong>in</strong>equivocabile, direi<br />

clamoroso, che sanzionasse la rottura fra noi e quella serie<br />

di apparati dello Stato a cui eravamo stati perlomeno<br />

“simpatici” f<strong>in</strong>o a quel momento».<br />

Da parte sua, Crist<strong>in</strong>a Amato aveva avanzato questi dubbi:<br />

«Non posso non pensarlo, non posso non pensare che<br />

ci sia stata una precisa volontà. Ci sono troppe co<strong>in</strong>cidenze:<br />

mio padre dopo tre giorni partiva per il mare e<br />

questa è una cosa che poteva sapere soltanto qualcuno.<br />

Mi sembra proprio strano che hanno deciso per quel giorno<br />

e non dieci giorni dopo o un mese prima. Il fatto che<br />

non aveva la macch<strong>in</strong>a…».<br />

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L’immag<strong>in</strong>e impietosa<br />

Gilberto Cavall<strong>in</strong>i, esecutore materiale, è stato condannato<br />

all’ergastolo. Ottenuta la semilibertà nel 2001, è stato<br />

nuovamente arrestato nel 2002 per possesso d’arma da<br />

fuoco. Luigi Ciavard<strong>in</strong>i il giorno dell’omicidio guidava la<br />

moto. M<strong>in</strong>orenne all’epoca dei fatti, è stato condannato a<br />

dieci anni e due mesi di reclusione. Fioravanti e Mambro,<br />

condannati all’ergastolo per concorso nell’omicidio di<br />

Amato, attualmente sono entrambi <strong>in</strong> semilibertà.<br />

Dopo la morte di Amato, alla procura di Roma sono state<br />

assegnate trecento macch<strong>in</strong>e bl<strong>in</strong>date. Si è <strong>in</strong>oltre costituito<br />

un pool di magistrati che ha sgom<strong>in</strong>ato il terrorismo<br />

di destra a Roma, grazie al lavoro svolto da Amato, che a<br />

sua volta aveva ereditato i fascicoli del giudice che prima<br />

di lui si era occupato di terrorismo nero: quel Vittorio Occorsio<br />

ucciso il 10 luglio 1976 dal neofascista Pierluigi<br />

Concutelli. Con l’elim<strong>in</strong>azione di Amato era <strong>in</strong>tanto svanita<br />

la possibilità di impedire la strage di Bologna.<br />

Mentre Amato cadeva a Roma, Valerio Fioravanti e Francesca<br />

Mambro si trovavano a Treviso, dove, ricevuta la<br />

notizia, avevano festeggiato a ostriche e champagne prima<br />

di stendere la rivendicazione: «Oggi Amato ha chiuso<br />

la sua squallida esistenza imbottito di piombo». La f<strong>in</strong>e di<br />

un’esistenza impietosamente apparsa su tutti i giornali<br />

con la fotografia del magistrato riverso sull’asfalto con la<br />

suola delle scarpe bucata.<br />

LUDWIG E LA PULIZIA DEL MONDO<br />

«La nostra fede è il nazismo, la nostra giustizia è la morte,<br />

la nostra democrazia lo sterm<strong>in</strong>io. Il f<strong>in</strong>e della nostra<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

vita, la morte di coloro che tradiscono il vero Dio». Firmato<br />

Ludwig.<br />

Questa è una brutta storia. Una storia di conf<strong>in</strong>e fra i crim<strong>in</strong>i<br />

comuni e quelli “politici”. Una storia nata e sviluppatasi<br />

<strong>in</strong> Veneto.<br />

Trento, 26 febbraio 1983. Per terra, un uomo. Un anziano<br />

prete con un punteruolo da scalpell<strong>in</strong>o conficcato nel cranio.<br />

Sullo scalpell<strong>in</strong>o è stato saldato un crocifisso di legno.<br />

Rantola, è <strong>in</strong> agonia. Una scena da film horror, ma non è<br />

una fiction. È tutto vero, e quello non è un attore. È padre<br />

Armando Bison, 71 anni, padovano di orig<strong>in</strong>e, della Congregazione<br />

dei Figli del Sacro Cuore, detti Ventur<strong>in</strong>i.<br />

Aveva appena celebrato la messa nella chiesa del Suffragio<br />

e stava tornando <strong>in</strong> convento. Piovigg<strong>in</strong>ava ed era ormai<br />

buio. A un tratto, arrivato a pochi passi dal cancello,<br />

qualcuno lo aveva aggredito alle spalle, fracassandogli la<br />

testa a martellate. Un confratello l’aveva trovato così, <strong>in</strong><br />

un lago di sangue. E si era messo a urlare, a disperarsi.<br />

Grida raccolte da una donna, la stessa che dichiarò poi<br />

alla polizia di aver notato dalla sua f<strong>in</strong>estra due giovani<br />

sui vent’anni, mai visti <strong>in</strong> zona, nascondersi alla vista di<br />

alcuni passanti prima di sparire nel buio. Soccorso, padre<br />

Bison era stato portato al neurochirurgico di Verona, <strong>in</strong>utilmente:<br />

era morto dopo dieci giorni senza mai riprendere<br />

conoscenza.<br />

I pazzi<br />

Che mostri giravano per Trento Fra quelle montagne che<br />

trasmettono serenità Il fatto suscitò un’enorme emozione,<br />

ma qualcuno ha pure memoria lunga: un massacro del<br />

genere non era forse già successo da qualche parte non<br />

tanto tempo prima Ma sì, certo, a Vicenza. Lì, a centoc<strong>in</strong>-<br />

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quanta chilometri di distanza, l’estate prima due monaci<br />

del Santuario di Monte Berico, Gabriele Pigato e Giuseppe<br />

Lovato, entrambi di settant’anni, erano stati massacrati<br />

a martellate. Un duplice omicidio firmato. “Rivendicato”,<br />

come facevano tutte le formazioni politiche eversive<br />

e sovversive, nere e rosse. Sotto un’aquila stilizzata, sormontata<br />

dalla scritta “Gott mit uns” (“Dio è con noi”, il<br />

motto dei nazisti), questo delirio: «Il f<strong>in</strong>e della nostra vita<br />

è la morte di chi tradisce il vero Dio». La nuova “griffe”<br />

del terrore si chiamava Ludwig 55 .<br />

Ma non era un debutto, non era la prima volta che compariva<br />

quella sigla: già nel 1980 Ludwig aveva rivendicato<br />

la paternità di una catena di omicidi com<strong>in</strong>ciata nel 1977<br />

e proseguita al ritmo di uno all’anno. Le vittime: “impuri”<br />

da punire con la morte. Lo scenario era sempre quello del<br />

Veneto, f<strong>in</strong>o a quell’omicidio fuori regione, a Trento. Una<br />

novità. Una svolta che proseguiva: dal Veneto al Trent<strong>in</strong>o,<br />

dal Trent<strong>in</strong>o alla Lombardia e poi anche all’estero.<br />

Il 4 marzo 1984, nella discoteca Melamara di Castiglione<br />

delle Stiviere (Mantova) c’erano circa trecento persone<br />

per una festa <strong>in</strong> maschera.<br />

«Ma questo è odore di benz<strong>in</strong>a».<br />

«Che ti sei fumato».<br />

«Ti dico che è benz<strong>in</strong>a».<br />

«Cambia pusher, va’!».<br />

Altro che pusher. C’era stato chi, oltre a sentire quell’odore,<br />

aveva visto, e non aveva le traveggole.<br />

55. Per la sigla Ludwig, Abel e Furlan si sarebbero ispirati alla «metafisica biocentrica» di Ludwig<br />

Klages (1872-1956), psicologo e filosofo tedesco studioso del carattere umano, autore del trattato Lo<br />

spirito avversario dell’anima, mai tradotto per <strong>in</strong>tero <strong>in</strong> italiano, secondo il quale «una masnada di<br />

razze sporche e <strong>in</strong>feriori - ebrei, sbandati, gente senza dignità - ha fatto irruzione nella storia,<br />

<strong>in</strong>nescandovi un cancro che ormai non ha rimedio». E tutto ciò perché «lo spirito, da <strong>in</strong>tendersi come<br />

ragione, si è <strong>in</strong>cuneato nell’<strong>in</strong>contro tra corpo e anima, impedendolo per sempre».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Ma che fa quel pazzo vestito da Pierrot».<br />

«Sta svuotando una tanica di benz<strong>in</strong>a sulla moquette!».<br />

Nel parapiglia, era stato bloccato. Con lui c’era “un altro<br />

pazzo”, anche lui vestito da Pierrot. Tutti e due erano<br />

stati strattonati e poi tenuti ben fermi f<strong>in</strong>o all’arrivo della<br />

polizia, che li aveva identificati. Dai documenti i due<br />

“pazzi” erano risultati essere Marco Furlan, veronese di<br />

27 anni, figlio del primario del reparto ustionati dell’ospedale<br />

di Verona, e Wolfgang Abel, 25 anni, figlio di<br />

un ricco assicuratore tedesco che da anni risiedeva a Negrar<br />

di Verona.<br />

Colpire gli <strong>in</strong>feriori<br />

Disposte le perquisizioni domiciliari, nelle abitazioni dei<br />

due “pazzi”, gli <strong>in</strong>quirenti, fra croci unc<strong>in</strong>ate, armi e ch<strong>in</strong>caglierie<br />

neonaziste di vario genere e natura, avevano<br />

trovato dei block notes con fogli uguali a quelli usati per<br />

le rivendicazioni e sui quali erano visibili i solchi lasciati<br />

sul foglio sottostante dalla penna che aveva tracciato i loro<br />

messaggi. Comunicati molto “artigianali” <strong>in</strong>somma.<br />

Perché tutto questo Perché due giovani dell’alta borghesia,<br />

uno laureato <strong>in</strong> matematica, l’altro <strong>in</strong> fisica, si<br />

erano auto<strong>in</strong>vestiti del ruolo di giudice e boia. Forse non<br />

s’erano più ripresi dopo aver letto – rigorosamente <strong>in</strong> tedesco<br />

anche perché nessun editore italiano l’aveva trovata<br />

degna di traduzione – una tragedia di Otto Ludwig, figura<br />

marg<strong>in</strong>ale del romanticismo germanico. Un drammone<br />

<strong>in</strong> cui il protagonista teorizzava la figura del “sacerdote<br />

perfetto” e puniva con la morte “i servi dei falsi dei”.<br />

Insomma, “il progetto politico” dei due Ludwig era semplice<br />

quanto rozzo: ripulire la società da “froci”, “drogati”,<br />

“pervertiti”, “z<strong>in</strong>gari”, “ebrei”, “puttane” e pure preti<br />

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<strong>in</strong> odore di peccato. Ma anche dai malati di mente. In una<br />

parola, quegli “<strong>in</strong>feriori” di cui si era occupato il Terzo<br />

Reich.<br />

Il r<strong>in</strong>verdito “progetto” era costato la vita a qu<strong>in</strong>dici persone<br />

tra il 1977 e il 1984. La prima vittima, sacrificata<br />

sull’altare di una purezza che Ludwig non aveva, era stato<br />

Guerr<strong>in</strong>o Sp<strong>in</strong>elli, un clochard di trent’anni, bruciato<br />

vivo a Verona nel suo giaciglio di cartone <strong>in</strong>ondato di<br />

benz<strong>in</strong>a. Il poveretto, una torcia umana, era morto fra<br />

atroci dolori e urla disumane sentite dall’altra parte del<br />

canale Camuzzoni. Ironia della sorte, era f<strong>in</strong>ito – <strong>in</strong>utilmente<br />

– nel reparto dell’ospedale di cui era primario il<br />

padre di uno dei suoi carnefici. Poi era toccato a Luciano<br />

Stefano, che faceva il sommelier a Padova. Uno bravo nel<br />

suo lavoro, ma aveva un difetto, anzi, una colpa grave:<br />

era omosessuale. Per questo era stato prima bastonato<br />

selvaggiamente, poi f<strong>in</strong>ito a coltellate. Coltellate che avevano<br />

straziato anche le carni di un altro “peccatore”,<br />

Claudio Costa, un ventiduenne reo di essere un tossicodipendente.<br />

Reo di sporcare Venezia con la sua sola presenza.<br />

Anche Vicenza era sporca. C’era una certa Alice Beretta,<br />

che a c<strong>in</strong>quantac<strong>in</strong>que anni suonati faceva ancora la puttana<br />

per strada. Un’<strong>in</strong>decenza punita a fil di lama. I due<br />

crim<strong>in</strong>ali erano qu<strong>in</strong>di tornati a Verona per ripulirla di un<br />

capannone sul lungadige. “Un postaccio” dove trovavano<br />

riparo, neanche a dirlo, drogati e sbandati. Come Luca<br />

Mart<strong>in</strong>otti. Uno che a diciott’anni era già un rifiuto della<br />

società. Un rifiuto da elim<strong>in</strong>are col fuoco. Ad altri due<br />

“tossici” era andata “meglio”: se l’erano cavata con ustioni<br />

dest<strong>in</strong>ate a lasciare i segni per tutta la vita, dopo lunghe<br />

degenze e <strong>in</strong>terventi chirurgici.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Era stata qu<strong>in</strong>di la volta dei religiosi: i frati di Vicenza e<br />

il sacerdote di Trento. Dalle persone si era poi passati ai<br />

locali. Locali peccam<strong>in</strong>osi, s’<strong>in</strong>tende. Il 14 maggio 1983 i<br />

due Ludwig si erano spostati f<strong>in</strong>o a Milano per <strong>in</strong>cendiare<br />

il c<strong>in</strong>ema a luci rosse Eros. Nel rogo purificatore erano<br />

morte sei persone, trentadue erano rimaste ferite, alcune<br />

<strong>in</strong> modo grave e debilitate per il resto della vita. Le<br />

trasferte si erano <strong>in</strong>tensificate col cambio di “rotta politica”,<br />

non si colpivano più le s<strong>in</strong>gole persone, ma i posti di<br />

perdizione. E non solo <strong>in</strong> Italia, perché era ormai l’<strong>in</strong>tera<br />

Europa che doveva essere moralizzata, purificata. A com<strong>in</strong>ciare<br />

dalla Germania. A Monaco di Baviera c’erano<br />

luoghi di immoralità frequentati anche da molti italiani:<br />

era <strong>in</strong>fatti italiana Cor<strong>in</strong>na Tartarotti, morta nell’<strong>in</strong>cendio<br />

della discoteca Liverpool, dove erano rimaste gravemente<br />

ferite altre sette persone. Anche il Melamara era un<br />

luogo di peccati <strong>in</strong>dicibili a Castiglione delle Stiviere.<br />

Proprio lì, <strong>in</strong> quel paese che ospitava uno dei più noti<br />

ospedali psichiatrici giudiziari, Marco Furlan e Wolfgang<br />

Abel avevano trovato la f<strong>in</strong>e della loro storia crim<strong>in</strong>ale.<br />

Siamo estranei<br />

I due neonazisti moralizzatori, seppur beccati con le mani<br />

nella benz<strong>in</strong>a che avrebbe dovuto <strong>in</strong>cendiare il Melamara<br />

di Castiglione delle Stiviere, si erano dichiarati<br />

estranei ai delitti firmati Ludwig. Le loro parole, comunque,<br />

non potevano contare nulla di fronte alle prove raccolte,<br />

e per i due era <strong>in</strong>iziato un iter giudiziario lunghissimo.<br />

Ventuno udienze per omicidi e stragi. Di “ferreo”,<br />

dopo l’arresto, ai due era rimasto solo il silenzio, rotto solamente<br />

per dichiararsi «colpevoli di uno scherzo nato<br />

senza la volontà di nuocere a qualcuno». A entrambi era<br />

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stata riconosciuta la sem<strong>in</strong>fermità mentale. Abel – def<strong>in</strong>ito<br />

“potenzialmente pericoloso per sé e per gli altri” – aveva<br />

tentato più volte il suicidio <strong>in</strong> carcere. Una sem<strong>in</strong>fermità<br />

che aveva permesso loro di evitare l’ergastolo, per<br />

una condanna a 30 anni emessa l’11 febbraio 1987.<br />

Per la lunghezza dei procedimenti, nel frattempo erano<br />

decorsi i term<strong>in</strong>i per la carcerazione preventiva e i due<br />

erano stati rimessi <strong>in</strong> libertà con l’obbligo di soggiorno a<br />

Mestr<strong>in</strong>o e Casale Scodosia. Il 10 aprile 1990 la Corte<br />

d’Appello aveva ridotto le pene a ventisette anni sia per<br />

Abel che per Furlan, ma Furlan non ci stava ed era scappato.<br />

Per quattro anni era sparito dalla circolazione f<strong>in</strong>ché<br />

fu r<strong>in</strong>tracciato a Creta. Da parte sua, Abel si fece il<br />

carcere dal primo giorno. Dopo avere protestato contro<br />

la sentenza con lo sciopero della fame ed essere stato ricoverato<br />

per molti anni <strong>in</strong> un ospedale psichiatrico sotto<br />

sorveglianza, Abel ha goduto di permessi premio.<br />

Il 24 aprile 2008 il tribunale di sorveglianza di Milano ha<br />

deciso di affidare Marco Furlan <strong>in</strong> prova ai servizi sociali.<br />

Attraverso i suoi legali, Furlan aveva chiesto di poter lasciare<br />

il carcere di giorno per rientrarvi di notte, ma il tribunale<br />

aveva preso una decisione a sorpresa, preferendo<br />

anticipare la scarcerazione del serial killer, tornato libero<br />

a gennaio 2009. Pochi giorni ed è toccato all’altra metà<br />

Ludwig lasciare il carcere di Sulmona: Wolfgang Abel, che<br />

<strong>in</strong> un’<strong>in</strong>tervista a una televisione veronese lamenta la sua<br />

lunga detenzione da <strong>in</strong>nocente. Proprio così. Innocente.<br />

«Non ho nulla a che vedere con i delitti che mi sono stati<br />

attribuiti», dice. «È stata dura, ma dal carcere sono<br />

uscito sano e <strong>in</strong> buona salute. La mia famiglia mi è sempre<br />

stata vic<strong>in</strong>o e chi mi conosce sa che non c’entro nulla<br />

con la vicenda Ludwig».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Se non è stato lui col suo amico Furlan, allora chi «Presumo<br />

gente tipo le bestie di Satana o una setta religiosa».<br />

Già, una setta religiosa. Pazzi scatenati, <strong>in</strong>somma, prede<br />

di un delirio. Non come Ludwig, che <strong>in</strong>vece agiva per un<br />

obiettivo politico nobile, come quello di elim<strong>in</strong>are dalla<br />

faccia della terra tutti quei reietti, quella feccia dell’umanità.<br />

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LA NERA<br />

FELICE MANIERO E LA MAFIA DEL BRENTA<br />

«Non vedevo l’ora di andare <strong>in</strong> carcere per conquistare<br />

quel rispetto dovuto a chi passa dal gabbio». Parola di<br />

Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, l’organizzazione<br />

crim<strong>in</strong>ale che replicò nel Veneto le gesta crim<strong>in</strong>ali<br />

compiute dalla banda della Magliana a Roma.<br />

Questa storia <strong>in</strong>izia nella campagna veneta nella seconda<br />

metà degli anni Sessanta, quando Felice, nato nel 1954,<br />

era un ragazz<strong>in</strong>o che, <strong>in</strong>vece di studiare e svolgere i compiti<br />

assegnatigli dagli <strong>in</strong>segnanti della scuola media, al<br />

pomeriggio preferiva seguire suo zio Renato: per lui un<br />

vero mito. Sì, perché zio Renato era un crim<strong>in</strong>ale. Un ladro,<br />

un truffatore, un rap<strong>in</strong>atore ben lieto di dare a suo<br />

nipote altre lezioni, diverse da quelle <strong>in</strong>utili della scuola.<br />

A 15 anni, Felice era così pronto per seguire suo zio nelle<br />

rap<strong>in</strong>e. Aveva anche imparato a sparare e sapeva maneggiare<br />

bene una pistola, un revolver. L’apprendistato<br />

era durato qualche anno, f<strong>in</strong>ché Felice fu <strong>in</strong> grado di andare<br />

per la sua strada, di <strong>in</strong>traprendere autonomamente<br />

la carriera di bandito. Fra l’altro, aveva scoperto qualcosa<br />

di formidabile, sfuggita agli occhi di suo zio, ancora legato<br />

a una malavita di basso profilo, da rubagall<strong>in</strong>e:<br />

l’oro del Veneto. Altro che rubare forme di parmigiano,<br />

che puzzavano pure! Un chilo d’oro valeva molto, molto<br />

di più e non puzzava. L’oro era lì, a portata di mano, perché<br />

un quarto di tutto l’oro del mondo veniva lavorato<br />

sotto il naso di Felice, nel vicent<strong>in</strong>o.<br />

La scoperta l’aveva fatto sobbalzare nella poltrona dove<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

era sprofondato mezzo addormentato mentre guardava<br />

un noiosissimo documentario sulla lavorazione del preziosissimo<br />

metallo. Dalla TV aveva scoperto <strong>in</strong>somma che<br />

gli bastava uscire di casa per arricchirsi. Ecco a cosa si<br />

sarebbe dedicato con la sua banda: altro che furti da<br />

quattro palanche. All’<strong>in</strong>terno del gruppo crim<strong>in</strong>ale che<br />

aveva messo <strong>in</strong> piedi era già lui il leader e ora, con quell’idea<br />

si era assicurato la totale deferenza e l’<strong>in</strong>discussa<br />

obbedienza. Con la sua banda aveva messo qu<strong>in</strong>di a segno<br />

una serie di colpi nelle botteghe orafe dissem<strong>in</strong>ate<br />

nel circondario.<br />

La sua banda era stata immortalata <strong>in</strong> una fotografia di<br />

gruppo scattata il giorno del matrimonio di uno di loro:<br />

Zeno Bert<strong>in</strong>. Tutti dest<strong>in</strong>ati a morire o f<strong>in</strong>ire <strong>in</strong> galera. Gli<br />

anni Settanta erano f<strong>in</strong>iti e il 1980 s’<strong>in</strong>caricava di registrare<br />

la presenza <strong>in</strong> Veneto di una vera e propria banda<br />

organizzata con schemi e d<strong>in</strong>amiche mafiose. Maniero<br />

aveva <strong>in</strong>fatti spostato la sua attenzione dalle seppur munifiche<br />

campagne “dorate” vicent<strong>in</strong>e alla ricca Venezia.<br />

Fra gondole e acqua da tutte le parti, quella città era per<br />

lui una zecca a cielo aperto col suo cas<strong>in</strong>ò. E attorno al<br />

cas<strong>in</strong>ò ruotavano i cambisti, cioè strozz<strong>in</strong>i. «Gentaglia».<br />

Per questo Maniero aveva imposto loro una tangente di<br />

un milione e mezzo al giorno: tanto doveva versare ognuno<br />

di loro se non voleva fare la f<strong>in</strong>e di quell’idiota pestato<br />

a sangue e al quale erano state spezzate le dita perché<br />

s’era rifiutato.<br />

La svolta mafiosa<br />

Il salto di qualità per Felice Maniero e la sua banda era<br />

avvenuto con l’<strong>in</strong>contro dei fratelli Fidanzati: due mafiosi<br />

siciliani mandati al soggiorno obbligato proprio lì, <strong>in</strong><br />

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Veneto. Erano stati loro che gli avevano prospettato un<br />

nuovo scenario con tanti soldi e pochi rischi. Quello della<br />

droga. I mafiosi procuravano la droga, l’organizzazione<br />

di Felice – che contava ormai oltre c<strong>in</strong>quecento “soldati”<br />

– la spacciava.<br />

Il primo omicidio di Maniero e della sua banda era avvenuto<br />

ai danni di un vecchio amico dello zio Renato: Gianni<br />

Barizza. La sua colpa, quella di essersi impossessato di<br />

parte di una fornitura per spacciarla per proprio conto.<br />

Quasi la chiusura di un cerchio per Felice, una sorta di<br />

affrancamento def<strong>in</strong>itivo dalla crim<strong>in</strong>alità paesana del<br />

mondo di suo zio. Barizza era stato anche <strong>in</strong>caprettato,<br />

un chiaro messaggio mafioso per chiunque avesse lontanamente<br />

pensato di fare uno sgarro a quell’organizzazione<br />

crim<strong>in</strong>ale che ormai controllava tutto il territorio. Come<br />

era accaduto a Ottavio Andreoli che, pur facendo<br />

parte della banda, aveva deciso di mettersi <strong>in</strong> proprio,<br />

gestendo per sé e non per la banda il traffico di stupefacenti<br />

a Venezia. Il suo corpo era stato trovato <strong>in</strong> un appartamento<br />

veneziano con sei colpi di calibro 38. Due<br />

erano bastati per chiudere la bocca della pericolosa testimone<br />

che stava passando la notte con lui.<br />

Va bene la droga, ma quando hai tanto oro sotto il naso<br />

non puoi proprio voltare la faccia dall’altra parte, non<br />

puoi dare un calcio a tutti quei soldi. A f<strong>in</strong>e novembre<br />

’83, Maniero aveva <strong>in</strong>fatti saputo che nell’aeroporto Marco<br />

Polo di Venezia il 1° dicembre ci sarebbe stato oro per<br />

oltre 3 miliardi. Oro lavorato e dest<strong>in</strong>ato all’esportazione<br />

<strong>in</strong> tutto il mondo. Oro che <strong>in</strong>vece f<strong>in</strong>ì nelle tasche della<br />

banda con un’azione da film spettacolare <strong>in</strong> cui non fu<br />

sparato neppure un colpo. Com’era accaduto per la rap<strong>in</strong>a<br />

ai caveau dell’hotel De Bois. Un’attività, quella della<br />

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banda, che aveva <strong>in</strong>evitabilmente f<strong>in</strong>ito col pagare qualche<br />

pegno: qualcuno della banda era stato <strong>in</strong>fatti arrestato.<br />

Fra questi, un cug<strong>in</strong>o del boss.<br />

«Dobbiamo trattare con le autorità», aveva annunciato<br />

Felice ai suoi sgherri che con tutta la buona volontà,<br />

non riuscivano proprio a capire. «Dobbiamo rubare<br />

opere d’arte e chiedere come riscatto la liberazione dei<br />

nostri». Un’idea folle. Invece no, perché loro non trafugarono<br />

cosucce dalle chiese, ma tele del Correggio, anche<br />

se l’affronto maggiore era arrivato col furto della<br />

mandibola di Sant’Antonio dalla basilica di Padova. Il risultato,<br />

comunque, era stato raggiunto. Con tanto di restituzione<br />

della sacra reliquia. Sì, perché lui ci teneva a<br />

mantenere un buon rapporto con la gente e quell’azione<br />

aveva scandalizzato non solo i veneti, ma tutto il<br />

mondo.<br />

Al suo paese – Campolongo Maggiore, nella campagna<br />

veneziana – tutti gli volevano bene. Era visto come un<br />

Rob<strong>in</strong> Hood, anche perché chi aveva qualche problema<br />

sapeva di poter contare su di lui, che metteva subito mano<br />

al portafoglio. Nella sua banda c’era chi doveva fare il<br />

giro delle cassette delle lettere delle famiglie <strong>in</strong>dicategli<br />

dal capo e <strong>in</strong> quelle cassette <strong>in</strong>filare centomila lire. Del<br />

resto, lui non si era mai mosso da lì, da Campolongo, dalla<br />

casa di sua madre, vero e unico punto di riferimento.<br />

Un attaccamento che lo aveva portato a essere soprannom<strong>in</strong>ato<br />

“cottola”, sottana. A un magistrato che gli aveva<br />

chiesto perché dopo aver accumulato tutti quei miliardi<br />

non fosse fuggito all’estero, aveva risposto che per lui vivere<br />

lontano dalla sua terra – e da sua madre – non era<br />

vivere.<br />

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L’arresto<br />

La f<strong>in</strong>e della corsa arrivò <strong>in</strong> una giornata di maggio del<br />

1984. Trasferito nel supercarcere di Fossombrone – dove<br />

sua madre gli faceva arrivare filetto e aragoste – aveva<br />

stretto amicizia col brigatista Giuseppe Di Cecco,<br />

mentre la sua banda s’<strong>in</strong>caricava di mettere f<strong>in</strong>e alla vita<br />

di quel traditore del “sauna”: Stefano Carraro, che aveva<br />

tagliato oltremodo una partita di ero<strong>in</strong>a per impossessarsi<br />

di parecchi milioni per conto suo.<br />

Col Di Cecco, Maniero riuscì a evadere nel dicembre ’87,<br />

con una fuga rocambolesca f<strong>in</strong>ita a Bologna, dove i due<br />

avevano preso ognuno la propria strada. Ma era proprio<br />

col Di Cecco che aveva poi organizzato la rap<strong>in</strong>a al caveau<br />

dell’Istituto di vigilanza di Mestre. Per l’occasione, Maniero<br />

aveva deciso di creare due gruppi: uno capeggiato<br />

da lui, l’altro dal suo complice. Lui avrebbe raggiunto<br />

l’Istituto, mentre Di Cecco e gli altri, travestiti da f<strong>in</strong>anzieri,<br />

sarebbero andati a prelevare Donato Agnoletto, il<br />

direttore dell’Istituto, da casa sua. Agnoletto, però, che<br />

<strong>in</strong>izialmente aveva creduto a quei falsi f<strong>in</strong>anzieri, aveva<br />

poi reagito quando si era accorto che usavano armi che<br />

non potevano essere <strong>in</strong> loro dotazione. Era <strong>in</strong>fatti anche<br />

titolare di un’armeria e se ne <strong>in</strong>tendeva. Nel parapiglia<br />

Agnoletto era stato ferito con un colpo sparato all’addome:<br />

«Erano pure male <strong>in</strong>formati», disse poi, «perché il<br />

caveau era praticamente vuoto <strong>in</strong> quei giorni».<br />

Arrestato nuovamente a Chiasso, Maniero era stato però<br />

liberato per decorrenza dei term<strong>in</strong>i carcerari e aveva organizzato<br />

l’elim<strong>in</strong>azione dei fratelli Rizzi. Anche loro, <strong>in</strong>fatti,<br />

si erano messi <strong>in</strong> testa la pericolosissima idea di<br />

vendere la droga per conto proprio. S<strong>in</strong>golare il fatto che<br />

dopo l’omicidio, la famiglia Rizzi non avesse presentato<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

nessuna denuncia: una decisione ricompensata da Maniero<br />

con sostanziosi aiuti economici. Nel curriculum<br />

della banda mancava un assalto al treno, pecca cui era<br />

stato posto rimedio il giorno di San Valent<strong>in</strong>o del ’90,<br />

quando una carica esplosiva aveva squarciato le lamiere<br />

di una carrozza portavalori, ma l’esplosione era avvenuta<br />

nel momento <strong>in</strong> cui dalla parte opposta arrivava un altro<br />

treno, col risultato che alcune schegge avevano trafitto<br />

una passeggera. La storia, comunque, stava per f<strong>in</strong>ire def<strong>in</strong>itivamente.<br />

F<strong>in</strong>ale con dramma<br />

Dopo essere stato arrestato a Capri nel ‘93 su Lucy, lo<br />

yacht da due miliardi appena comprato al quale aveva<br />

dato il nome di sua madre, ed essere nuovamente evaso<br />

dal carcere di Padova, nel 1994 Maniero era stato arrestato<br />

a Tor<strong>in</strong>o. La successiva condanna gli aveva assegnato<br />

trentatré anni di galera. Un tempo che “faccia d’angelo”<br />

mai avrebbe trascorso dietro le sbarre. Questa volta,<br />

però, aveva deciso di uscire dal carcere <strong>in</strong> altra maniera.<br />

Basta evasioni, basta fughe. Stanco di quella vita, aveva<br />

deciso di collaborare.<br />

Con le sue rivelazioni, Maniero aveva fatto f<strong>in</strong>ire <strong>in</strong> galera<br />

tutti i suoi uom<strong>in</strong>i: ben centoquarantadue componenti<br />

della cosiddetta banda del Brenta erano stati r<strong>in</strong>viati a<br />

giudizio e poi seppelliti sotto cent<strong>in</strong>aia di anni di carcere.<br />

La vita di “faccia d’angelo” non valeva più mezza lira, per<br />

questo era stato ammesso al regime di protezione previsto<br />

per i pentiti. Si era cambiato anche i connotati con un<br />

<strong>in</strong>tervento plastico e aveva cambiato nome: come Luca<br />

Mori, ora vendeva pentole. La nuova identità era stata<br />

scoperta per una superficialità, la pubblicazione della ri-<br />

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chiesta di cambio nome sulla “Gazzetta ufficiale”. La<br />

“nuova vita” dell’ex-boss della mala del Brenta veniva<br />

sconvolta il 23 febbraio 2006, quando sua figlia, che viveva<br />

a Pescara sotto protezione, come prevede la legge per<br />

i familiari dei pentiti, s’era suicidata lanciandosi dal balcone<br />

dell’appartamento del suo fidanzato. «Me l’hanno<br />

uccisa!», aveva urlato disperato suo padre. Ma la bella<br />

trentenne che aveva già alle spalle un matrimonio fallito,<br />

stava vivendo la fase più acuta di un nuovo fallimento affettivo.<br />

I PREDATORI DEL CERMIS<br />

La gente di montagna parla poco. Come i contad<strong>in</strong>i, che<br />

ogni tanto sollevano il capo, si asciugano la fronte e lanciano<br />

lo sguardo verso l’orizzonte per scrutare anima viva<br />

e per <strong>in</strong>terrogare quel cielo che si <strong>in</strong>arca sopra la terra.<br />

Con quei gesti, atavici e quotidiani, gli chiedono silenziosamente<br />

se farà splendere il sole o butterà <strong>in</strong> pioggia.<br />

Parla con le nuvole, il sole, la luna, le stelle, la gente di<br />

montagna.<br />

Quel giorno, a Cavalese, il cielo rispose con un uccello di<br />

metallo. Un maledetto predatore che si portò via venti<br />

persone. Da qualche tempo, fra quelle montagne della<br />

Val di Fiemme avevano com<strong>in</strong>ciato a volteggiare rapaci<br />

d’acciaio, <strong>in</strong>naturali nel loro muoversi così veloci e rumorosi<br />

<strong>in</strong> quella valle, un luogo di serenità e neve. Condizioni,<br />

queste ultime, che avevano conv<strong>in</strong>to tanti “stranieri”,<br />

gente nata lontano, a venire lì per godere di quelle montagne.<br />

Di quella pace. Anche quel giorno c’era gente arrivata<br />

da ogni dove.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Quel giorno, martedì 3 febbraio 1998, diciannove persone<br />

entrarono nella cab<strong>in</strong>a della funivia che da Cavalese<br />

portava sul monte Cermis, a duemila metri. A manovrarla,<br />

c’era Marcello. Marcello Vanzo, che aveva scambiato il<br />

turno e la vita con un suo collega.<br />

Ci siamo tutti Bene, partiamo. Guarda che bello, che <strong>in</strong>canto.<br />

Pensa solo a questa esplosione di bellezza che<br />

t’avvolge coi suoi colori: lascia fuori tutto il resto. Anche<br />

quegli orrori così vic<strong>in</strong>i, così lontani. La Bosnia. Perché<br />

c’è una guerra, e non nel Sud-Est asiatico, ma là, a un naso<br />

oltre l’Adriatico, dove f<strong>in</strong>o a ieri si andava <strong>in</strong> vacanza.<br />

NATO per uccidere<br />

Alla guerra bisogna arrivare pronti, preparati, come stavano<br />

facendo quei quattro, che nella base NATO di Aviano<br />

avevano preso posto su un aereo militare. Un comandante:<br />

il capitano Richard Ashby, 32 anni, californiano, 750<br />

ore di volo, veterano della Bosnia; un navigatore: Joseph<br />

Schweitzer, 30 anni, dello Stato di New York; e, seduti alle<br />

loro spalle, i due addetti alle attrezzature di ricognizione:<br />

Chandler Seagraves, 28 anni, dell’Indiana, e William<br />

Raney, 26 anni, del Colorado.<br />

Mentre i vacanzieri si apprestavano a “scalare” il Cermis,<br />

questi quattro partivano per la missione Easy 01, all’<strong>in</strong>terno<br />

dell’operazione pianificata Deny Flight. L’aereo, un<br />

Ea–6b dall’orrendo nome di Prowler (predatore), era decollato<br />

alle 13.36. Un volo d’addestramento e un’impresa<br />

da far gonfiare il petto, scolando una birra che qualcuno<br />

avrebbe pagato. Perché qualcun altro aveva dimostrato<br />

d’averci le palle. È facile decollare, volare a norma e atterrare:<br />

un protocollo da civili, da rammolliti. Meno facile<br />

è dimostrare di non aver paura, d’essere capaci di gio-<br />

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care con la vita. È facile volare a mille piedi: prova a<br />

scendere se sei capace! Prova a <strong>in</strong>filarti fra le montagne<br />

e dist<strong>in</strong>guere una lepre da un coniglio! E allora giù, giù e<br />

ancora più giù, f<strong>in</strong>o a 800, 600, 400, 360 piedi: 360 piedi<br />

sono 110 metri, quelli che dividevano la cab<strong>in</strong>a della funivia<br />

da terra.<br />

Alle 15.12 i quattro americani avevano <strong>in</strong>crociato il dest<strong>in</strong>o<br />

di venti persone tranciando due cavi della funivia e la<br />

loro vita. «Cos’è stato Ho sentito uno scossone». Alle<br />

15.26 il “predatore” aveva fatto ritorno alla base di Aviano.<br />

Il presidente Bill Cl<strong>in</strong>ton si era scusato subito per l’<strong>in</strong>cidente,<br />

promettendo di risarcire le famiglie delle vittime,<br />

tra cui tre italiani. Ma la tensione era salita, montata, f<strong>in</strong>o<br />

a produrre manifestazioni <strong>in</strong> cui erano comparsi slogan<br />

quali “NATO per uccidere” perché anche la strage del Cermis<br />

stava assumendo contorni <strong>in</strong>quietanti, conosciuti, di<br />

impunità. Perché anche questa volta c’erano depistaggi e<br />

misteri. Eppure i responsabili erano certi, si conoscevano,<br />

le loro facce erano su tutti i giornali. Allora perché parlare<br />

di un’altra strage impunita Perché i misteri<br />

Perché – proprio nel giorno <strong>in</strong> cui la Cassazione assolveva<br />

def<strong>in</strong>itivamente Bruno Viviani, Roberto Cors<strong>in</strong>i ed Eugenio<br />

Brega dell’aeronautica militare italiana per il disastro<br />

dell’Istituto Salvem<strong>in</strong>i di Casalecchio di Reno (Bologna),<br />

dove il 6 dicembre 1990 erano stati uccisi dodici<br />

studenti e un’altra novant<strong>in</strong>a di persone era rimasta ferita<br />

a causa di un aereo schiantatosi sulla scuola – c’erano<br />

dieci m<strong>in</strong>uti di silenzio radio proprio a ridosso della tragedia,<br />

esattamente dalle 15.05 alle 15.15, quando il pilota<br />

aveva lanciato l’emergenza. Perché era sparito un<br />

“mission recorder”. Perché una cassetta video era andata<br />

distrutta. Perché c’era una carta di volo contestata.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Perché, si diceva, c’era un radar-altimetro difettoso. E,<br />

soprattutto, perché c’era un f<strong>in</strong>ale scandaloso. Un’assoluzione.<br />

Perché c’era qualcuno che non pagava. Perché<br />

questa, alla f<strong>in</strong>e, era un’altra storia di impuniti. Tutto sotto<br />

il naso. Anzi, sopra. Fra montagne e vite violate.<br />

Non era la prima volta<br />

Bisogna fare un passo <strong>in</strong>dietro, altrimenti non si capisce<br />

niente. E allora, riavvolgiamolo questo nastro maledetto<br />

e rivediamo questo film dell’orrore. O, almeno, rivediamo<br />

ciò che possiamo rivedere. Scopriamo così che quel volo,<br />

autorizzato dalle autorità italiane, era il quarto di una lista<br />

di dieci presentata dal comando dei mar<strong>in</strong>es e che<br />

sotto quell’elenco c’era una firma, o per meglio dire, la sigla,<br />

lo scarabocchio di un capitano italiano, il cui cognome<br />

<strong>in</strong>iziava per “F”. Scopriamo che gli americani avrebbero<br />

<strong>in</strong>serito il Prowler (il predatore) <strong>in</strong> un elenco che<br />

<strong>in</strong>vece era dest<strong>in</strong>ato solo agli F16. Un errore macroscopico<br />

ma, curiosamente, nessuno se n’era accorto. Neanche<br />

l’altro ufficiale italiano – tal M.B.G. – che controfirmò<br />

l’elenco, né il centro di controllo di Mart<strong>in</strong>afranca. Comunque<br />

sia, l’<strong>in</strong>chiesta della procura di Trento addossava<br />

al pilota la responsabilità della tragedia.<br />

I voli normali erano autorizzati a una quota di 1100 metri<br />

e, anche se quel predatore fosse stato autorizzato al volo<br />

radente, non poteva scendere più <strong>in</strong> basso di 650 metri.<br />

L’impatto, <strong>in</strong>vece, era avvenuto a 110 metri da terra. Non<br />

basta: anche la velocità non era a norma. Secondo i dati<br />

forniti da un aereo–radar USA “Awacs”, che <strong>in</strong> quel momento<br />

volava a una quota superiore, il Prowler sfrecciava<br />

a 500 miglia orarie e non a 100 come previsto dal regolamento.<br />

La conferma arrivava il 12 marzo, quaranta giorni<br />

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dopo la strage. Il rapporto della commissione d’<strong>in</strong>chiesta<br />

americana parlava chiaro: «La causa dell’<strong>in</strong>cidente è da riscontrarsi<br />

<strong>in</strong> un errore dell’equipaggio, che ha guidato <strong>in</strong><br />

modo aggressivo l’aereo, superando la velocità massima e<br />

volando ben al di sotto della quota richiesta».<br />

Da parte loro, i periti italiani dimostravano che l’aereo si<br />

era <strong>in</strong>cuneato fra i due cavi, tranciandoli. Cavi che distavano<br />

fra loro quaranta metri. Certo, quaranta metri! Ma è<br />

così che si dimostra d’avere le palle: passando fra due cavi<br />

distanti quaranta metri.<br />

«Ho visto passare quell’aereo poco prima. Volava basso<br />

sul pelo del lago artificiale di Stramentizzo. E non era<br />

certo la prima volta». La gente di montagna parla poco.<br />

Per questo bisogna ascoltarla quando apre bocca.<br />

Lies, videotape and air condition<strong>in</strong>g<br />

In compenso parlavano molto le televisioni e i giornali e la<br />

politica. E poi i tribunali. Quasi esattamente un anno dopo,<br />

l’8 febbraio, si aprì il processo contro il capitano Richard<br />

Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer davanti alla<br />

corte marziale di Camp Lejeune, la base dei mar<strong>in</strong>es nel<br />

North Carol<strong>in</strong>a. Il capitano rischiava duecentosei anni di<br />

carcere. Non ne farà neanche uno. Il 4 marzo, Ashby fu<br />

assolto: la corte gli riconobbe che il volo era autorizzato a<br />

una quota di 500 piedi (ma lui era molto più basso: come<br />

avrebbe fatto altrimenti a tranciare i cavi), che le mappe<br />

di volo non contenevano le <strong>in</strong>dicazioni della funivia (la<br />

smentita arrivò dello stesso comando dei mar<strong>in</strong>es: sulla<br />

TPC, la carta di pilotaggio tattico, la funivia era segnata) e<br />

che il radar-altimetro era difettoso (particolare non da<br />

poco: peccato che non sia mai stato dimostrato).<br />

Perché tutti questi misteri, queste imprecisioni Eppure,<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

doveva essere tutto chiaro: come consuetud<strong>in</strong>e, anche<br />

quel giorno era stato girato un video del volo (delle prodezze,<br />

cioè). Già, il video dov’era f<strong>in</strong>ito Non esisteva più:<br />

era stato distrutto. Da chi «Alla f<strong>in</strong>e del volo ho consegnato<br />

la cassetta al comandante. Non l’ho più rivista».<br />

Parola di mar<strong>in</strong>e, parola di Joseph Schweitzer, il navigatore.<br />

Fuori uno. Cioè fuori dalla galera, perché quella<br />

“confessione” gli aveva evitato il carcere.<br />

Una confessione che però <strong>in</strong>guaiava nuovamente il pilota<br />

e a maggio Richard Ashby tornava <strong>in</strong>fatti davanti alla<br />

sbarra per ostruzione di prove. Stavolta non si scherzava,<br />

perché c’era una dichiarazione giurata che lo <strong>in</strong>chiodava<br />

alle sue responsabilità. Quali Quelle d’aver distrutto un<br />

reperto, non d’aver ammazzato delle persone. Così, era<br />

arrivata la condanna: non tanto, sei mesi. Tuttavia, anche<br />

sei mesi dovevano essere considerati troppi e <strong>in</strong>fatti il 2<br />

ottobre, vale a dire un mese prima del “f<strong>in</strong>e pena”, Ashby<br />

aveva riconquistato la libertà.<br />

In carcere si era comportato bene, neanche a dirlo, ed<br />

era tornato a vivere nella villetta di Jacksonville, vic<strong>in</strong>o<br />

alla base dei mar<strong>in</strong>es, perché i grandi amori non si scordano<br />

mai. Con la stampa lui non parla, ci mancherebbe.<br />

A tenere le pubbliche relazioni c’era Dodie, la sua compagna:<br />

«La cella di Richard non aveva nemmeno l’aria<br />

condizionata», si era <strong>in</strong>dignata <strong>in</strong> un’<strong>in</strong>tervista. «Ha passato<br />

i primi mesi da solo a leggere davanti a un tavolo. E<br />

io potevo andarlo a trovare soltanto il f<strong>in</strong>e settimana».<br />

Una pena davvero crudele. Poco dopo, Ashby era stato<br />

nuovamente posseduto dalla sua <strong>in</strong>dole aggressiva: era<br />

stato <strong>in</strong>fatti allontanato da un cas<strong>in</strong>ò di Las Vegas dopo<br />

una rissa con gli uscieri e denunciato per <strong>in</strong>trusione <strong>in</strong><br />

luogo privato.<br />

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Il risarcimento<br />

I pubblici m<strong>in</strong>isteri italiani avevano chiesto di processare i<br />

quattro mar<strong>in</strong>es <strong>in</strong> Italia, ma il giudice per le <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i prelim<strong>in</strong>ari<br />

di Trento aveva ritenuto che, <strong>in</strong> forza della Convenzione<br />

di Londra del 19 giugno 1951 sullo statuto dei<br />

militari NATO, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscersi<br />

alla giustizia militare statunitense. Decisioni che avevano<br />

scatenato polemiche e qualche giornale aveva ricordato<br />

una tragedia simile avvenuta <strong>in</strong> Francia nell’agosto<br />

1961, quando sei persone erano morte dopo che un aereo<br />

militare francese <strong>in</strong> volo a bassa quota aveva tranciato i cavi<br />

di una funivia tra il Po<strong>in</strong>t Helbronner e la Aiguille du Midi,<br />

sul versante francese del Monte Bianco. Quella volta, i<br />

responsabili avevano pagato. Questa volta no.<br />

Il governo degli Stati Uniti verserà venti milioni di dollari<br />

alla Prov<strong>in</strong>cia Autonoma di Trento per la ricostruzione<br />

dell’impianto di risalita, ma offrirà soltanto c<strong>in</strong>quemila<br />

dollari per ciascuna delle vittime. Il Congresso americano<br />

resp<strong>in</strong>gerà una legge che prevedeva il risarcimento diretto<br />

ai familiari delle persone decedute, mentre il parlamento<br />

italiano approverà un <strong>in</strong>dennizzo per i familiari di<br />

quattro miliardi di lire per ogni vittima. In conseguenza<br />

di questo e <strong>in</strong> ottemperanza ai trattati NATO, l’amm<strong>in</strong>istrazione<br />

Cl<strong>in</strong>ton risarcirà lo Stato italiano con il 75 per<br />

cento delle somme complessivamente erogate.<br />

PIETRO MASO, IL PAVONE DI VERONA<br />

Montecchia di Crosara, che pur appartenendo alla prov<strong>in</strong>cia<br />

di Verona è più vic<strong>in</strong>o a Vicenza, è un paes<strong>in</strong>o con<br />

poco più di quattromila anime. Fra di loro, nel ’71 ne era<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

nata una nera, quella di Pietro Maso. La sua storia <strong>in</strong>izia<br />

il 3 marzo 1990, quando sua madre trova <strong>in</strong> taverna due<br />

bombole di gas, fili elettrici, una sveglia puntata sulle<br />

21.30 e, cosa ancora più strana, alcuni vestiti nascosti<br />

nella canna fumaria. Aveva qu<strong>in</strong>di chiesto spiegazione di<br />

quella roba a suo marito e alle figlie, ma nessuno aveva<br />

saputo dare delle spiegazioni, così aveva atteso il rientro<br />

di Pietro.<br />

«Dobbiamo fare una festa <strong>in</strong> maschera», aveva spiegato il<br />

più giovane della famiglia. «E le bombole, che sono pure<br />

pericolose». Servivano per alimentare due stufe aggiuntive<br />

per il riscaldamento, mentre i fili elettrici per delle<br />

luci psichedeliche. E la sveglia Quella l’aveva trovata<br />

per caso e l’aveva poggiata lì, <strong>in</strong> taverna.<br />

Una bugia dietro l’altra. Tutto quell’armamentario sarebbe<br />

servito per far saltar <strong>in</strong> aria la casa e gli abiti stipati nel<br />

cam<strong>in</strong>o. Non era successo nulla solo perché l’improvvisato<br />

e maldestro bombarolo aveva tolto le sicure delle bombole,<br />

lasciando però chiuse le manopole. E questo era<br />

stato il primo tentativo di sterm<strong>in</strong>are la famiglia.<br />

Una famiglia – composta da Antonio, da sua moglie Rosa,<br />

due figlie e Pietro – proprietaria di numerosi terreni e<br />

che <strong>in</strong> banca poteva contare su una liquidità di oltre un<br />

miliardo e mezzo di vecchie lire (più o meno ottocentomila<br />

euro attuali, ma ben di più come potere di acquisto).<br />

Una famiglia senza problemi, se non quelli che da un po’<br />

di tempo arrivavano da Pietro. Da quando aveva deciso<br />

di abbandonare la scuola, <strong>in</strong>fatti, non aveva mancato di<br />

destare preoccupazioni.<br />

Dopo aver rifiutato di lavorare con suo padre, era stato<br />

assunto <strong>in</strong> un supermercato, per poi passare a una concessionaria<br />

d’auto come <strong>in</strong>termediario, ma non era dura-<br />

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to neppure lì. Lavori saltuari che non potevano garantire<br />

quel gettito economico capace di soddisfare i “piaceri<br />

della vita” scoperti dall’esuberante ventenne. Piaceri che<br />

si consumavano di notte fra night e sale da gioco, <strong>in</strong> primis<br />

il cas<strong>in</strong>ò di Venezia, <strong>in</strong> compagnia dell’<strong>in</strong>separabile<br />

amico del cuore, Giorgio Carbogn<strong>in</strong>, più giovane di lui di<br />

due anni.<br />

Le preoccupazioni della signora Rosa avevano subito un’accelerazione<br />

quando aveva trovato un rotolo di banconote<br />

nelle tasche di un paio di pantaloni di Pietro. Come poteva<br />

suo figlio avere tutti quei soldi, visto che si era anche licenziato<br />

dall’autosalone «Sono i soldi delle ultime provvigioni<br />

che mi sono state pagate tutte <strong>in</strong>sieme», aveva spiegato<br />

Pietro. Sua madre, però, questa volta era stata irremovibile,<br />

pretendeva la verità. Messo alle strette, Pietro le aveva<br />

detto che potevano andare <strong>in</strong>sieme a controllare all’autosalone,<br />

sperando che sua madre desistesse. Invece, ost<strong>in</strong>atamente,<br />

la signora Rosa aveva detto: «Va bene, chiedi un appuntamento<br />

col tuo ex-datore di lavoro».<br />

Un bel problema, ma risolvibile con l’uccisione di sua madre.<br />

Con loro, <strong>in</strong> macch<strong>in</strong>a, sarebbe salito anche l’amico<br />

Giorgio col compito di sfondare la testa alla donna con un<br />

colpo di batticarne sferratole dal sedile posteriore. A<br />

Giorgio, però, era mancato il coraggio e Pietro s’era ritrovato<br />

<strong>in</strong> pochi m<strong>in</strong>uti a dover <strong>in</strong>ventare una nuova scusa<br />

prima di raggiungere l’autosalone.<br />

«Mamma», aveva detto, «quei soldi me li hanno dati per<br />

star zitto. Dietro c’è un giro di computer trafugati…».<br />

Imbufalita ma nell’impossibilità di fare qualcosa, la signora<br />

Rosa aveva chiuso la faccenda e, tornata a casa, si era<br />

fiondata da suo marito per consultarlo sul da farsi, perché<br />

quel ragazzo prima o poi l’avrebbe comb<strong>in</strong>ata grossa.<br />

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La bella vita<br />

Tutto poteva sospettare la signora Rosa, tranne che quei<br />

soldi sarebbero stati la genesi della sua morte e di quella<br />

di suo marito. La vera provenienza del denaro, paradossalmente,<br />

era la cosa più pulita di tutta la vicenda: arrivava<br />

da un regolarissimo prestito bancario. Un prestito di<br />

ventiquattro milioni di lire chiesto dall’amico Giorgio<br />

Carbogn<strong>in</strong>, per il quale aveva garantito il suo datore di lavoro.<br />

Soldi, che servivano per acquistare una Lancia Delta<br />

«usata, ma come nuova».<br />

Il padre di Giorgio si era opposto però a quella follia, <strong>in</strong>timandogli<br />

di restituire immediatamente il denaro. Giorgio<br />

aveva perciò r<strong>in</strong>unciato all’auto, ma non ai ventiquattro<br />

milioni, che aveva sperperato con l’amico Pietro. Inevitabilmente<br />

si era però presentato il grosso problema di<br />

come fare per renderli. «Non ti preoccupare», l’aveva<br />

rassicurato Pietro, «ci penso io». Come Staccando un<br />

assegno rubato a sua madre, della quale aveva falsificato<br />

la firma. Risolto un problema, se n’era però aperto un altro:<br />

cosa fare quando sarebbe arrivato a casa l’estratto<br />

conto e sua madre avrebbe visto quell’uscita di ventiquattro<br />

milioni<br />

Non restava che elim<strong>in</strong>are sua madre. Anzi, anche suo padre<br />

sarebbe morto, così avrebbe potuto mettere le mani<br />

sull’eredità. Complice, il solito Giorgio. L’<strong>in</strong>affidabile, pavido<br />

e cagasotto Giorgio, che anche questa volta aveva fallito.<br />

Il piano prevedeva che i signori Maso sarebbero stati<br />

colpiti <strong>in</strong> garage al rientro dopo una cena, ma all’ultimo<br />

momento Giorgio si era tirato <strong>in</strong>dietro. Pietro, però, aveva<br />

ormai maturato l’irrevocabile decisione di sterm<strong>in</strong>are la famiglia<br />

e, con o senza Giorgio, ci sarebbe riuscito.<br />

«Conducevo una vita brillante», cercò di spiegare dopo il<br />

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massacro, «e qu<strong>in</strong>di mi servivano molti soldi, al che per<br />

avere questo denaro l’unica soluzione possibile era quella<br />

di ottenere subito l’eredità che mi spettava dai miei genitori<br />

nel caso fossero morti. Mi sarebbe anche piaciuto<br />

averla tutta <strong>in</strong>tera, ma per questo sarei stato costretto a<br />

uccidere anche le mie sorelle». Stabilito che con Giorgio<br />

non avrebbe mai comb<strong>in</strong>ato nulla, Pietro aveva “arruolato”<br />

altri amici. Altri complici, per meglio dire: Paolo Cavazza e<br />

Damiano Burano, rispettivamente di 18 e 17 anni.<br />

Il massacro<br />

La sera del 17 aprile 1991, Maso, Carbogn<strong>in</strong>, Cavazza e<br />

Burato si erano ritrovati nel solito bar di Montecchia per<br />

discutere gli ultimi dettagli, decidendo di far partecipare<br />

al delitto anche un altro amico, Michele, che però li aveva<br />

lasciati ai loro deliri e se ne era andato, conv<strong>in</strong>to che<br />

quei quattro scemi si fossero impasticcati pesantemente<br />

e che mai sarebbero stati capaci di fare davvero una cosa<br />

del genere. Ma la banda dei quattro era lucidissima nel<br />

suo progetto omicida. Da lì a poco, qu<strong>in</strong>di, era scattata<br />

l’ora X.<br />

Alle 23.10 l’auto dei signori Maso era entrata nel garage<br />

della villetta. Antonio aveva acceso la luce, accorgendosi<br />

che mancava la corrente. Era qu<strong>in</strong>di salito per le scale<br />

raggiungendo il primo piano dove si trovava il contatore,<br />

ma <strong>in</strong> cuc<strong>in</strong>a era stato colpito alla testa da un tubo di ferro<br />

maneggiato da suo figlio, aiutato da Damiano, che<br />

sferrava colpi con una pesante pentola d’acciaio. Della signora<br />

Rosa si occupavano <strong>in</strong>vece Paolo e Giorgio, armati<br />

di un bloccasterzo e di un’altra pentola. La donna offriva<br />

però una resistenza impensata, così era <strong>in</strong>tervenuto lo<br />

stesso Pietro che aveva colpito sua madre ripetutamen-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

te. Aveva preso il posto di Paolo che, a sua volta, si era<br />

accanito contro il signor Antonio, premendogli un piede<br />

sulla gola per soffocarlo.<br />

C<strong>in</strong>quanta m<strong>in</strong>uti. Tanto era durato l’orrore negli occhi<br />

dei signori Maso che avevano vissuto la disgrazia più tremenda:<br />

quella di vedere il loro figlio ucciderli. Perché, se<br />

Burato, Carbogn<strong>in</strong> e Cavazza avevano <strong>in</strong>dossato delle<br />

maschere, Pietro no, lui aveva mostrato la sua faccia ai<br />

genitori mentre li uccideva.<br />

«Avevamo due borse», aveva poi confessato, «che contenevano<br />

le cose che ci servivano, cioè tute da lavoro, un<br />

tubo pieno di ferro del diametro di circa c<strong>in</strong>que centimetri<br />

e lungo circa c<strong>in</strong>quanta, due maschere da carnevale<br />

con i capelli f<strong>in</strong>ti, un antifurto meccanico <strong>in</strong> ferro che<br />

serve a bloccare lo sterzo delle auto. Giunti a casa mia,<br />

abbiamo <strong>in</strong>dossato le tute e qu<strong>in</strong>di abbiamo atteso dietro<br />

la porta che dalla cuc<strong>in</strong>a conduce all’<strong>in</strong>gresso della scala<br />

<strong>in</strong>terna, e siamo rimasti appostati <strong>in</strong> questo modo per un<br />

po’. Nel frattempo abbiamo spento le luci della scala svitando<br />

la lampad<strong>in</strong>a e la stessa cosa abbiamo fatto con<br />

quella della cuc<strong>in</strong>a. E abbiamo aspettato».<br />

I sospetti, le conferme<br />

A delitto compiuto, Paolo e Damiano erano rientrati a casa.<br />

Pietro, <strong>in</strong>vece, aveva bisogno di crearsi un alibi. Così,<br />

con Giorgio, si era recato <strong>in</strong> due diverse discoteche: nella<br />

prima, <strong>in</strong>fatti, non erano riusciti a entrare perché piena.<br />

Alle 2 del matt<strong>in</strong>o era <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e rientrato a casa per “scoprire”<br />

l’accaduto. Mostrandosi scosso e impaurito, aveva<br />

avvertito i vic<strong>in</strong>i, uno dei quali si era precipitato <strong>in</strong> casa<br />

scoprendo quel che era avvenuto.<br />

Chi può aver compiuto uno scempio simile Non può che<br />

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trattarsi di un tentativo di rap<strong>in</strong>a f<strong>in</strong>ita male. Ma a un carab<strong>in</strong>iere<br />

che ha passato la vita fra delitti d’ogni genere<br />

non la si fa. Per quel carab<strong>in</strong>iere il furto con quel massacro<br />

non c’entra nulla. «I cassetti sono stati trovati aperti<br />

e il contenuto gettato <strong>in</strong>torno alla stanza, quando un ladro,<br />

di solito, usa aprirli, limitarsi a cercarvi denaro e roba<br />

di valore e poi richiuderli».<br />

Alla f<strong>in</strong>e, gli <strong>in</strong>quirenti avevano abbandonato la pista fasulla<br />

del furto f<strong>in</strong>ito male per concentrarsi su altro, cioè<br />

su possibilità più <strong>in</strong>quietanti, seppur più verosimili: sulla<br />

stessa famiglia. I sospetti si erano così addensati sul figlio,<br />

quel ragazzo le cui reazioni non erano state coerenti<br />

f<strong>in</strong> dal primo momento. Sospetti che avevano assalito<br />

le stesse sorelle, Nadia e Laura, quando quest’ultima si<br />

era accorta dei ventiquattro milioni spariti dal conto della<br />

madre e aver trovato, lo stesso giorno, alcune “prove”<br />

di falsificazione della sua calligrafia su una rubrica telefonica.<br />

Pietro aveva ribattuto che quella firma era autentica,<br />

che quell’assegno l’aveva effettivamente staccato la<br />

mamma per un favore chiestogli dall’amico Giorgio, ma<br />

non sapeva spiegare il perché di quelle “prove” sulla rubrica<br />

telefonica. A questi, che ormai erano fatti <strong>in</strong>oppugnabili,<br />

se ne erano aggiunti altri che contraddicevano la<br />

fallace versione di Pietro. Il quale, fiaccato dagli <strong>in</strong>terrogatori,<br />

due giorni dopo aveva confessato, co<strong>in</strong>volgendo i<br />

suoi amici.<br />

Le condanne<br />

L’accusa per tutti era stata qu<strong>in</strong>di di omicidio volontario<br />

premeditato e pluriaggravato per la crudeltà e i futili motivi.<br />

Su Pietro pesava anche il v<strong>in</strong>colo di parentela e questo<br />

elemento faceva di lui un autentico mostro. Un mo-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

stro che la perizia del professor Vittor<strong>in</strong>o Andreoli riteneva<br />

sano di mente, come il resto del branco. Per quanto<br />

riguardava specificamente Pietro, la mente lucidamente<br />

crim<strong>in</strong>ale del gruppo, lo psichiatra aveva spiegato<br />

che il disturbo narcisistico della personalità (su cui contava<br />

fortemente la difesa) non comportava una vera e<br />

propria <strong>in</strong>fermità <strong>in</strong> grado di <strong>in</strong>ficiare la capacità di <strong>in</strong>tendere<br />

e volere. Insomma, quel pavone crim<strong>in</strong>ale poteva<br />

essere giudicato senza alcuna attenuante.<br />

Il 29 febbraio 1992 la Corte d’Assise I di Verona aveva<br />

così condannato Pietro Maso a trent’anni e due mesi di<br />

reclusione, Cavazza e Carbogn<strong>in</strong> a ventisei ciascuno,<br />

mentre Burato, non essendo ancora diciottenne, era<br />

stato giudicato dal tribunale dei m<strong>in</strong>ori che lo aveva<br />

condannato a tredici anni. Nelle motivazioni della sentenza<br />

si faceva cenno a un parziale vizio di mente, mentre<br />

l’op<strong>in</strong>ione pubblica era ancora scossa dall’atteggiamento<br />

di Pietro Maso che aveva a lungo <strong>in</strong>sistito nel rivendicare<br />

la sua parte di eredità e solo i consigli dell’avvocato<br />

lo avevano fatto desistere per evitare l’ergastolo<br />

<strong>in</strong> primo grado. Nei successivi gradi di giudizio la sentenza<br />

non subì alcuna modifica passando così <strong>in</strong> giudicato.<br />

R<strong>in</strong>chiuso nel carcere milanese di Opera, Maso ha ottenuto<br />

la concessione del regime di semilibertà nell’ottobre<br />

del 2008. Il matt<strong>in</strong>o esce dal carcere alle 7.30 per recarsi<br />

al lavoro <strong>in</strong> un’azienda di computer e assemblaggio di<br />

componentistica, e vi rientra alle 22.30. Per effetto dell’<strong>in</strong>dulto,<br />

il suo f<strong>in</strong>e pena è stato spostato dal 2018 al<br />

2015, quando avrà 44 anni.<br />

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PIETRO PERUFFO: IO SONO UN ORCO<br />

Verona e Vicenza sono ancora scosse per quel che è accaduto<br />

due mesi prima a Montecchia di Corsara, dove Pietro<br />

Maso ha ucciso i genitori per appropriarsi dell’eredità.<br />

Nelle case, nei bar si discute, ci si anima per quel massacro.<br />

Come è stato possibile Che generazione stiamo crescendo<br />

Di chi sono le reali responsabilità Interrogativi<br />

che travalicano i conf<strong>in</strong>i regionali per co<strong>in</strong>volgere l’<strong>in</strong>tera<br />

nazione. Gli anni Novanta sono appena <strong>in</strong>iziati: cosa ci riserva<br />

questa società che ha avuto una lunga <strong>in</strong>cubazione<br />

nel decennio precedente, quello che si identifica con il<br />

nuovo e sfrenato consumismo della “Milano da bere” Anche<br />

a San Bonifacio, un paese che pur appartenendo alla<br />

prov<strong>in</strong>cia di Verona è equidistante da Vicenza, si discute.<br />

Probabilmente, anche a Locara, la sua frazione più popolosa,<br />

nei diversi casolari sparsi nella campagna. Tuttavia,<br />

<strong>in</strong> uno di essi non si discute di Maso, perché c’è altro a cui<br />

pensare. Precisamente, un omicidio.<br />

È domenica. Il calendario <strong>in</strong> cuc<strong>in</strong>a segna la data del 23<br />

giugno 1991. La campagna tutt’attorno sembra bruciata<br />

da un sole implacabile e <strong>in</strong>usuale per il periodo. «Altro<br />

che <strong>in</strong>izio estate, sembra già solleone», dice qualcuno al<br />

bar mentre sfoglia un giornale <strong>in</strong> cui campeggia una notizia<br />

sul disastro di Ustica del giugno 1980: la società <strong>in</strong>glese<br />

W<strong>in</strong>pol è stata <strong>in</strong>caricata di completare il recupero<br />

del relitto e di riportare <strong>in</strong> superficie la scatola nera.<br />

Chissà, magari si verrà a capo di quel mistero…<br />

Anche nel casolare dei Peruffo l’aria è arroventata, ma<br />

non si discute di quel che accade <strong>in</strong> Italia o nel mondo.<br />

Ben altri sono gli argomenti che impone il capofamiglia.<br />

Si chiama Pietro, Pietro Peruffo, ha 46 anni, ufficialmen-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

te fa il rottamaio, ma di fatto campa di espedienti, alla<br />

giornata, oltre che con i soldi portati a casa dalle figlie,<br />

mandate a lavorare subito dopo le medie. Come tutti i<br />

pomeriggi, dopo pranzo, si stende sul letto anche per<br />

smaltire il v<strong>in</strong>o bevuto smodatamente, come sempre. Per<br />

di più fa caldo, un caldo feroce, che debilita. Meglio dormire.<br />

Questa volta, però, Pietro Peruffo non si sveglierà più.<br />

Perché viene ucciso con due colpi di pistola alla testa. A<br />

premere il grilletto, sua figlia Marcell<strong>in</strong>a. Sua sorella Maria<br />

Crist<strong>in</strong>a le sta accanto. Anzi, è lei che ricarica l’arma<br />

dopo il primo colpo, ripassandola alla sorella per colpire<br />

una seconda volta, per essere sicura che l’orco muoia.<br />

Perché quello non è un padre, è un orco. Un orco maledetto<br />

che deve morire <strong>in</strong> modo che loro possano vivere.<br />

Una brutta storia<br />

Questa è una brutta storia <strong>in</strong>iziata il 24 febbraio 1968,<br />

quando Pietro Peruffo sposa Lucia Vallar<strong>in</strong>. Un’unione<br />

che genera quattro figli, due maschi e due femm<strong>in</strong>e. Una<br />

famiglia che impara presto a conoscere la locale stazione<br />

dei carab<strong>in</strong>ieri di San Bonifacio. La conosce per le denunce<br />

– poi però sempre ritirate – presentate <strong>in</strong> più occasioni<br />

da Lucia Vallar<strong>in</strong>, che parla di maltrattamenti di<br />

vario genere e natura, sia psichici sia fisici, subiti dal marito.<br />

Quel Pietro Peruffo che i carab<strong>in</strong>ieri conoscono ancor<br />

meglio perché pregiudicato: fra il 1974 e il 1979, <strong>in</strong>fatti,<br />

quel rottamaio si era reso protagonista di reati sessuali<br />

culm<strong>in</strong>ati <strong>in</strong> una violenza carnale costatagli quasi<br />

c<strong>in</strong>que anni di reclusione.<br />

Scontata la pena e tornato a casa, per evitare altre denunce<br />

e altri anni di galera, Peruffo aveva pensato bene<br />

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di sfogare i suoi ist<strong>in</strong>ti, concentrando le sue attenzioni<br />

morbose nei confronti delle figlie. Violenze ripetute e<br />

quasi quotidiane, che alla f<strong>in</strong>e avevano conv<strong>in</strong>to la moglie<br />

a m<strong>in</strong>acciarlo: se non avesse smesso, sarebbe stato denunciato,<br />

questa volta senza rimessa di querela. Come risposta,<br />

Lucia Vallar<strong>in</strong> era stata vittima di un vero e proprio<br />

massacro, con tanto di avvertimento: che ci avesse<br />

provato pure ad andare dai carab<strong>in</strong>ieri. In quel caso sarebbero<br />

state uccise lei e le figlie.<br />

La vita prosegue così fra botte alla moglie, che arrivano<br />

gratuitamente anche per gli effetti dell’alcool, e violenze<br />

sulle ragazze, spesso costrette <strong>in</strong>sieme a soddisfare i perversi<br />

piaceri sessuali dell’orco. Ma non basta, a dimostrazione<br />

del suo totale dom<strong>in</strong>io sulla famiglia, Peruffo impone<br />

<strong>in</strong> casa la presenza della sua amante. A questo punto,<br />

sua moglie si rivolge a un avvocato per chiedere cosa deve<br />

fare per separarsi. Lucia fa tutto di nascosto, ma suo<br />

marito la scopre e la sua reazione è quanto mai violenta:<br />

la massacra di botte e non smette f<strong>in</strong>ché lei non scrive<br />

una lettera all’avvocato <strong>in</strong> cui r<strong>in</strong>uncia all’azione <strong>in</strong>trapresa<br />

per la separazione.<br />

L’andazzo stava per riprendere come sempre, ma per le<br />

figlie questo episodio rappresentò la classica goccia nel<br />

vaso pieno. Si aggiunge, <strong>in</strong>fatti, alle m<strong>in</strong>acce subite da<br />

Maria Crist<strong>in</strong>a per la sua relazione con Tiziano Albiero,<br />

un ragazzo che lavora nella stessa fabbrica <strong>in</strong> cui è occupata<br />

anche Marcell<strong>in</strong>a. Roso dalla perversa gelosia, Peruffo<br />

avverte la figlia che nel caso <strong>in</strong> cui avesse cont<strong>in</strong>uato<br />

a frequentare quel ragazzo, ci avrebbe pensato lui: lo<br />

avrebbe ucciso. Maria Crist<strong>in</strong>a, però, non è come la madre<br />

e non ci sta a subire una vita che al processo def<strong>in</strong>irà<br />

così: «Ero arrivata a pensare che sarebbe stato meglio<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

non essere neanche nata piuttosto che vivere così». Come<br />

lei la pensa sua sorella Marcell<strong>in</strong>a, che a sua volta dichiarerà:<br />

«Mi chiedevo che senso avesse cont<strong>in</strong>uare a vivere<br />

<strong>in</strong> quel modo, che futuro mi aspettava, visto che<br />

ogni giorno era peggio del precedente».<br />

È a questo punto che le due sorelle decidono che basta<br />

così. Quell’orco deve morire e si concentrano su un unico<br />

punto: come fare Il giorno successivo, <strong>in</strong> fabbrica,<br />

Marcell<strong>in</strong>a chiede a Tiziano di aiutare lei e sua sorella –<br />

che è pure la sua fidanzata – a trovare il modo per elim<strong>in</strong>are<br />

l’aguzz<strong>in</strong>o. Tiziano le procura così una pistola, un’arma<br />

modificata artigianalmente. Il giorno dopo è domenica.<br />

Lo faranno quando va a sdraiarsi. Aspetteranno che si<br />

addormenti e lo uccideranno. Così accade.<br />

Maria Crist<strong>in</strong>a e Tiziano Albiero saranno condannati a<br />

tredici anni di carcere <strong>in</strong> primo grado, ridotti a nove <strong>in</strong><br />

appello.<br />

Una famiglia violenta<br />

Ma il nome di Peruffo ricorrerà nelle aule di tribunale anche<br />

successivamente.<br />

Nel 1997, Marco, uno dei due figli maschi, confesserà di<br />

aver ucciso “<strong>in</strong>avvertitamente” Alfredo Aldighieri. “Inavvertitamente”,<br />

dice lui. Di fatto, ha prima colpito la vittima<br />

alla testa con una spranga, poi è passato sul suo corpo<br />

con la macch<strong>in</strong>a più volte, avanti e <strong>in</strong>dietro. Movente:<br />

Aldighieri avrebbe dato delle “puttane” a sua madre e alle<br />

sorelle. Tuttavia, non erano stati questi pesanti apprezzamenti<br />

familiari a scatenare la furia omicida di Marco,<br />

ma la sua <strong>in</strong>capacità di stare al volante. Aldighieri lo<br />

avrebbe <strong>in</strong>fatti più volte apostrofato come “<strong>in</strong>capace”,<br />

adducendo come prova la sua totale <strong>in</strong>abilità alla guida.<br />

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Del resto, non era un caso se aveva già sfasciato diverse<br />

auto, oltre a causare <strong>in</strong> stato di ebbrezza la morte di un<br />

quattordicenne.<br />

Dedito all’alcool e alla coca<strong>in</strong>a dopo un passato da ero<strong>in</strong>omane,<br />

prima di uccidere Aldighieri, Marco era stato <strong>in</strong><br />

galera con suo fratello Walter per furto e ricettazione. Insomma,<br />

anche i figli maschi di Peruffo erano il frutto “naturale”<br />

di una famiglia anomala. Come anomala era la famiglia<br />

d’orig<strong>in</strong>e dei Peruffo.<br />

Pietro aveva <strong>in</strong>fatti sette fratelli, tutti con problemi più o<br />

meno rilevanti a livello penale. Mario, uno di loro, era<br />

morto dissanguato sotto una trebbiatrice, mentre Giuseppe<br />

era stato <strong>in</strong> galera per stupro, come Pietro. Andrea,<br />

<strong>in</strong>vece, essendo rifiutato da tutte le donne, si “arrangiava”<br />

con qualche animale, preferibilmente mucche.<br />

Animali che, come risulta dai racconti di Maria Crist<strong>in</strong>a e<br />

Marcell<strong>in</strong>a, utilizzava anche Pietro, facendo per esempio<br />

accoppiare un bestione di cane con una piccola cagnetta,<br />

mentre lui se ne stava lì a godersi lo spettacolo, che<br />

imponeva anche ai figli. È questo dunque l’ambiente <strong>in</strong><br />

cui era maturato il delitto. Un ambiente geograficamente<br />

distante pochi chilometri da città come Verona e Vicenza,<br />

ma distante anni luce a livello culturale e umano.<br />

Legittima difesa<br />

Per cercare di capire come sia possibile che queste situazioni<br />

possano verificarsi a due passi dal vivere civile delle<br />

nostre città, delle nostre quotidianità, basta ricordare<br />

quel che racconterà Maria Crist<strong>in</strong>a a “L’Europeo” nel<br />

1992, <strong>in</strong> un’<strong>in</strong>tervista <strong>in</strong> cui ribadirà che era stata sua sorella<br />

Marcell<strong>in</strong>a e solo lei a sparare.<br />

«Quella domenica ero <strong>in</strong> bagno. Ho sentito uno sparo, poi<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

un altro. Ho visto arrivare Marcell<strong>in</strong>a. “Go copà ‘l mato,”<br />

mi ha detto, bianca come uno straccio. Le ho strappato<br />

la pistola di mano, ma lei l’ha ripresa ed è scappata nei<br />

campi. Per questo a quell’esame è risultato che la pistola<br />

l’avevo toccata anch’io. Lui, mio padre, non ci ha mai dato<br />

una sola ragione per non odiarlo. Non ho un ricordo<br />

bello con lui: un Natale, una carezza. Ci ha allevato con<br />

rabbia. Conosceva solo quella. Faceva così anche con i<br />

cani, poveretti. Prima li bastonava a sangue, poi li legava<br />

per giorni e quando li liberava quelli erano diventati belve<br />

feroci. Come lui. E non puoi dispiacerti se muore una<br />

belva feroce».<br />

«Marcell<strong>in</strong>a è la più piccola di tutti noi fratelli, ma è anche<br />

la più dura. Per forza, lei non ha avuto neppure quegli<br />

anni di respiro <strong>in</strong> cui mio padre era <strong>in</strong> galera. E lui<br />

aveva un debole per lei. Per questo Marcell<strong>in</strong>a passava le<br />

notti seduta sul letto con gli occhi sbarrati per paura che<br />

lui arrivasse da un momento all’altro. È stata <strong>in</strong> una di<br />

quelle notti che mi ha detto “io non ce la faccio più: o me<br />

o lui” e ha com<strong>in</strong>ciato a piangere. Non si fermava più. Io<br />

e mia sorella abbiamo provato più volte a denunciarlo,<br />

ma poi mia madre ci diceva che se non ritiravamo la denuncia<br />

quello ci avrebbe ammazzate. Così, anche sul lavoro,<br />

raccontavamo che eravamo cadute, che i lividi ce li<br />

eravamo procurati da sole. Ma il padrone non ci credeva<br />

e diceva che quello era un maledetto. Lo disprezzavano<br />

tutti. E tutti mi hanno detto che dovevamo ucciderlo<br />

quando aveva il coltello <strong>in</strong> mano, così sarebbe stata legittima<br />

difesa».<br />

Come se, per quelle ragazze, uccidere nel sonno l’orco<br />

non fosse stata, comunque, una “legittima difesa”.<br />

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GIANFRANCO STEVANIN, IL CONTADINO SERIAL KILLER<br />

Vicenza, sera del 16 novembre 1994. Una Lancia Dedra<br />

aveva avvic<strong>in</strong>ato una prostituta; l’uomo al volante le aveva<br />

detto che oltre a un rapporto sessuale voleva fotografarla.<br />

Un milione, ma niente viso. Va bene. La macch<strong>in</strong>a<br />

aveva raggiunto qu<strong>in</strong>di la dest<strong>in</strong>azione: un casolare a Terrazzo,<br />

nella campagna veronese. Ma una volta lì, per Gabrielle<br />

Musger, prostituta austriaca, era <strong>in</strong>iziato l’<strong>in</strong>ferno:<br />

l’uomo che l’aveva caricata le aveva imposto <strong>in</strong>fatti rapporti<br />

violenti, giochi erotici estremi, oltre alle fotografie,<br />

viso compreso. L’aveva qu<strong>in</strong>di m<strong>in</strong>acciata con una pistola<br />

e un taglier<strong>in</strong>o e la ragazza, terrorizzata, gli aveva offerto<br />

ventic<strong>in</strong>que milioni che aveva a casa. L’uomo aveva<br />

accettato, ma al casello di Vicenza Ovest, mentre stava<br />

pagando il pedaggio, Gabrielle Musger aveva notato una<br />

pattuglia della polizia stradale ferma lì vic<strong>in</strong>o e, aperta la<br />

portiera dell’auto, l’aveva raggiunta correndo a perdifiato.<br />

Confusa e <strong>in</strong> lacrime, la ragazza aveva denunciato il<br />

suo aggressore, che era stato subito raggiunto dai poliziotti:<br />

dai documenti risultava essere Gianfranco Stevan<strong>in</strong>,<br />

agricoltore. Dalla perquisizione dell’auto saltava fuori<br />

una pistola giocattolo priva del regolamentare tappo<br />

rosso, e le sorprese non erano f<strong>in</strong>ite.<br />

Sulla base del racconto dalla prostituta austriaca, gli <strong>in</strong>quirenti<br />

avevano deciso di perquisire anche la casa di<br />

Stevan<strong>in</strong>, dove i carab<strong>in</strong>ieri avevano trovato un taglier<strong>in</strong>o,<br />

altre due pistole giocattolo, <strong>in</strong>dumenti <strong>in</strong>timi, capi<br />

d’abbigliamento femm<strong>in</strong>ile, borsette da donna, oltre ai<br />

documenti di c<strong>in</strong>que ragazze. Erano saltati fuori anche<br />

circa centoc<strong>in</strong>quanta contenitori di foto, per un totale di<br />

oltre settemila scatti, negativi non ancora sviluppati, de-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

c<strong>in</strong>e di videocassette porno, una parrucca bionda, contenitori<br />

con peli pubici, giornali pornografici e anche sant<strong>in</strong>i<br />

e immag<strong>in</strong>i sacre (soprattutto di Padre Pio), enciclopedie<br />

di medic<strong>in</strong>a, atlanti di anatomia, volumi sull’uso<br />

della macch<strong>in</strong>a fotografica e, <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e, uno schedario sulle<br />

prestazioni delle donne <strong>in</strong>contrate.<br />

Per la polizia, Gianfranco Stevan<strong>in</strong> non era ancora un serial<br />

killer, ma un pervertito che aveva m<strong>in</strong>acciato e violentato<br />

una prostituta austriaca per estorcerle ventic<strong>in</strong>que<br />

milioni. Perciò era stato condannato a tre anni di<br />

carcere. Tuttavia, qualcosa faceva sospettare che la storia<br />

non fosse tutta lì: tra i documenti e gli <strong>in</strong>dumenti r<strong>in</strong>venuti<br />

durante la perquisizione, c’erano <strong>in</strong>fatti anche<br />

quelli di Claudia Pulejo, 29 anni, tossicodipendente di<br />

Legnano (Verona), scomparsa dal 15 gennaio, e di Biljana<br />

Pavlovic, cameriera serba di 25 anni residente ad Arzignano<br />

(Vicenza), della quale non si avevano più notizie<br />

da agosto. Le due ragazze figuravano nelle “schede” delle<br />

prestazioni meticolosamente compilate da Stevan<strong>in</strong>.<br />

Il mostro<br />

Solo un anno dopo si capì chi fosse realmente Stevan<strong>in</strong>,<br />

dopo che un agricoltore aveva trovato un sacco contenente<br />

un cadavere <strong>in</strong> un fosso di Terrazzo. Ora, l’accusa<br />

era di omicidio volontario e occultamento di cadavere,<br />

mentre nel podere di Terrazzo arrivavano le ruspe che,<br />

scavando, avevano riportato <strong>in</strong> superficie il cadavere di<br />

un’altra giovane donna, piegato <strong>in</strong> due, avvolto <strong>in</strong> un ampio<br />

telone blu del tipo usato <strong>in</strong> agricoltura e sepolto a<br />

un’ottant<strong>in</strong>a di centimetri di profondità. Gli esami del<br />

DNA e la ricostruzione del volto avevano appurato che si<br />

trattava di Biljana Pavlovic. Intanto era stato disseppelli-<br />

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to un terzo cadavere, sempre avvolto <strong>in</strong> un bozzolo di<br />

pellicola trasparente: quello di Claudia Pulejo.<br />

Stevan<strong>in</strong> era diventato “il mostro di Terrazzo” e a lui venivano<br />

attribuiti non solo quei tre omicidi, ma anche altri<br />

due: dalle foto r<strong>in</strong>venute veniva <strong>in</strong>fatti riconosciuta Roswita<br />

Adlassnig, una prostituta austriaca scomparsa da<br />

tempo, mentre <strong>in</strong> un’altra foto si vedeva una donna, mai<br />

identificata, ritratta <strong>in</strong> una pratica erotica estrema e che<br />

all’apparenza sembrava priva di vita.<br />

Dopo che Stevan<strong>in</strong>, confusamente, aveva alternato ammissioni<br />

a ritrattazioni, erano state disposte tre perizie<br />

psichiatriche al term<strong>in</strong>e delle quali “il mostro di Terrazzo”<br />

fu descritto come un <strong>in</strong>dividuo sano, abbastanza <strong>in</strong>telligente<br />

(il suo quoziente era di 114) e calcolatore, oltre<br />

a non essere affetto da disturbi psicosomatici o del<br />

comportamento. Sicuramente il rapporto con la madre<br />

iperprotettiva e le disavventure della sua vita lo avevano<br />

segnato, ma era <strong>in</strong> grado di <strong>in</strong>tendere e di volere. Perciò<br />

era processabile. Di idea completamente diversa i periti<br />

della difesa, che cercavano di ricondurre tutti i problemi<br />

di Stevan<strong>in</strong> a un <strong>in</strong>cidente subito <strong>in</strong> moto nel 1976, <strong>in</strong> seguito<br />

al quale avrebbe sviluppato «una complessa s<strong>in</strong>drome<br />

psicopatologica».<br />

Tra il 19 luglio e il 23 agosto 1996, ma sempre <strong>in</strong> modo<br />

confuso, Gianfranco Stevan<strong>in</strong> aveva deciso f<strong>in</strong>almente di<br />

“confessare” i delitti di quattro ragazze che gli erano<br />

«morte tra le braccia»: tre durante rapporti sessuali sp<strong>in</strong>ti<br />

all’estremo, una, la Pulejo, per overdose da ero<strong>in</strong>a. Delitti<br />

che aveva raccontato come <strong>in</strong>cubi <strong>in</strong> cui agiva senza<br />

rendersene conto. Spesso diceva di non ricordare. Ricordava<br />

però di aver sezionato un cadavere per occultarlo e<br />

di aver vomitato durante quella operazione.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

La complicità della madre<br />

Nel settembre 1996, la giornalista Alessandra Vaccari<br />

aveva ricevuto c<strong>in</strong>que lettere con m<strong>in</strong>acce di morte,<br />

scritte e <strong>in</strong>viate da Giuliano Barbatella, un crim<strong>in</strong>ale psicolabile<br />

<strong>in</strong> cella con Stevan<strong>in</strong> autoaccusatosi di essere il<br />

colpevole di quei delitti. Mentre il tribunale cercava di<br />

conv<strong>in</strong>cere Stevan<strong>in</strong> a confessare di aver dettato lui quelle<br />

lettere a Barbatella, lungo le rive dell’Adige era stato<br />

ritrovato un altro cadavere: si trattava di una giovane<br />

donna, priva di capelli e <strong>in</strong> avanzato stato di decomposizione<br />

(l’identità resterà sempre sconosciuta, ma anche<br />

questo omicidio è attribuito a Stevan<strong>in</strong>).<br />

Un anno più tardi, esattamente il 6 ottobre 1997, dopo<br />

l’ennesima perizia psichiatrica che lo dichiarava processabile,<br />

si apriva f<strong>in</strong>almente il processo contro “il mostro<br />

di Terrazzo”, accusato di c<strong>in</strong>que omicidi, aggravati dalla<br />

premeditazione e dall’occultamento di cadavere. Anche<br />

la madre del “mostro”, Noemi Miola, fu processata: secondo<br />

gli <strong>in</strong>quirenti, <strong>in</strong>fatti, la donna era da tempo al corrente<br />

dell’attività omicida del figlio e lo aveva sempre<br />

protetto. Sembrava addirittura fosse stata lei a far sparire<br />

una testa dimenticata nel granaio.<br />

La testa di Stevan<strong>in</strong> si presentava <strong>in</strong>vece alla prima<br />

udienza rasata a zero per evidenziare una cicatrice rimastagli<br />

dall’<strong>in</strong>cidente motociclistico del 1976. Su quella cicatrice<br />

e su quell’<strong>in</strong>cidente si sarebbe <strong>in</strong>centrata tutta<br />

l’azione della difesa. Il processo era stato lungo e pieno di<br />

colpi di scena, con sentenze che si erano negate a vicenda,<br />

la prima delle quali, emessa il 28 gennaio 1998, lo<br />

aveva condannato all’ergastolo. I primi tre anni li avrebbe<br />

trascorrere <strong>in</strong> totale isolamento diurno. Successivamente,<br />

la Corte d’Assise d’Appello, a sorpresa, lo aveva<br />

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assolto perché <strong>in</strong>capace d’<strong>in</strong>tendere e volere. La sentenza<br />

def<strong>in</strong>itiva arrivò il 23 marzo 2001, quando la Corte di<br />

Cassazione confermò la sentenza di ergastolo di primo<br />

grado. Sua madre era stata <strong>in</strong>vece assolta per mancanza<br />

di prove.<br />

Attualmente, “il mostro” è r<strong>in</strong>chiuso nel supercarcere di<br />

Sulmona (L’Aquila), dove, nell’estate del 2004, ha salvato<br />

due volte la vita al suo compagno di cella, un aspirante<br />

suicida.<br />

Un passato <strong>in</strong>quietante<br />

Chi è “il mostro di Terrazzo” Stevan<strong>in</strong> era nato il 21 ottobre<br />

1960 a Montagnana, un paes<strong>in</strong>o <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Padova.<br />

I suoi genitori, Giuseppe Stevan<strong>in</strong> e Noemi Miola,<br />

erano proprietari terrieri. Quando aveva c<strong>in</strong>que anni, era<br />

stato costretto a entrare <strong>in</strong> un collegio di preti perché<br />

sua madre stava affrontando una gravidanza molto difficile<br />

(<strong>in</strong>fatti abortì) e non poteva badare anche a lui. Tornato<br />

a casa, aveva com<strong>in</strong>ciato a dare una mano a suo padre,<br />

ma un giorno era scivolato e aveva sbattuto la testa<br />

contro un attrezzo agricolo.<br />

I genitori avevano dedotto che la vita nei campi era pericolosa<br />

per quel ragazzo, così lo avevano rispedito <strong>in</strong> un<br />

collegio di suore, dove aveva passato gli anni delle elementari,<br />

delle medie e i primi due delle superiori, tornando<br />

a casa nel 1975. Un anno dopo, però, la sua vita aveva<br />

avuto un’ulteriore svolta negativa: era caduto <strong>in</strong>fatti<br />

da una moto e s’era procurato un grave trauma cranico<br />

che gli aveva provocato un coma e un <strong>in</strong>tervento chirurgico<br />

molto delicato.<br />

L’<strong>in</strong>cidente gli aveva procurato anche un focolaio epilettico<br />

e, c<strong>in</strong>que anni dopo, una men<strong>in</strong>gite batterica da <strong>in</strong>-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

fezione. C’erano anche conseguenze psichiche che avevano<br />

avuto su di lui effetti negativi a livello comportamentale.<br />

Era stato <strong>in</strong>oltre costretto ad abbandonare gli<br />

studi perché non riusciva a concentrarsi troppo a lungo<br />

senza venire aggredito da una fortissima emicrania. Anche<br />

il suo rapporto con il sesso era profondamente cambiato,<br />

<strong>in</strong>ducendolo a preferire sempre di più le forme<br />

estreme della pornografia.<br />

Il “debutto” del<strong>in</strong>quenziale di Stevan<strong>in</strong> era avvenuto tra<br />

il 1978 e il 1983 con una simulazione di reato (aveva f<strong>in</strong>to<br />

di essere stato rapito e aveva chiamato i genitori per<br />

un riscatto), violenza privata (f<strong>in</strong>gendo di avere una pistola<br />

<strong>in</strong> tasca, aveva obbligato una donna ad appartarsi<br />

con lui), rap<strong>in</strong>a (sempre f<strong>in</strong>gendo di possedere una pistola,<br />

aveva costretto una ragazza a consegnargli i suoi<br />

gioielli). Nel 1983, causa un altro <strong>in</strong>cidente stradale nel<br />

quale una giovane perde la vita ed è condannato per omicidio<br />

colposo. Nel 1989, rapisce e violenta una prostituta<br />

di Verona, ma questo crim<strong>in</strong>e rimane ignoto per diversi<br />

anni: fu scoperto solo <strong>in</strong> sede dibattimentale, quando<br />

Stevan<strong>in</strong> fu processato come “mostro”.<br />

Nonostante questi precedenti, solo dopo una lunga storia<br />

d’amore f<strong>in</strong>ita per colpa dei suoi genitori, Gianfranco<br />

si era tras<strong>formato</strong> lentamente <strong>in</strong> un killer seriale. Aveva<br />

com<strong>in</strong>ciato <strong>in</strong>fatti a frequentare le prostitute <strong>in</strong> giro per<br />

il Veneto, sviluppando un profondo <strong>in</strong>teresse per il sesso<br />

estremo, che praticava nella sua casa diventata presto un<br />

lager di morte per tante ragazze. Perso il padre, nel giro<br />

di poco tempo Stevan<strong>in</strong> aveva <strong>in</strong>fatti tras<strong>formato</strong> il casolare<br />

di Terrazzo <strong>in</strong> un locale a luci rosse con videocassette,<br />

riviste porno, vibratori, mutand<strong>in</strong>e di pizzo e reggicalze,<br />

borchie e tut<strong>in</strong>e di cuoio, c<strong>in</strong>ghie e pall<strong>in</strong>e di varie di-<br />

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mensioni. Gli piaceva anche rasare le ragazze con le quali<br />

passava la notte, perché desiderava realizzare un cusc<strong>in</strong>o<br />

di peli pubici femm<strong>in</strong>ili. Ben presto, però, quella casa<br />

si era trasformata <strong>in</strong> un luogo di orrori dal quale non tutte<br />

le “prede” ebbero la fortuna di uscire vive. C’è chi è<br />

morta durante un rapporto per un braccio stretto troppo<br />

forte <strong>in</strong>torno al collo, e chi soffocata da un sacchetto di<br />

cellophane <strong>in</strong> testa durante un’esperienza di “bondage”.<br />

La prima vittima era stata Claudia Pulejo, l’ultima Gabrielle<br />

Musger che, salvandosi miracolosamente, aveva<br />

fatto scoprire chi fosse davvero Gianfranco Stevan<strong>in</strong>.<br />

ROBERTO SUCCO. ANIMA PERSA<br />

Due agenti di custodia controllano dallo spionc<strong>in</strong>o della<br />

cella un detenuto. Non è uno qualsiasi, è uno che fa paura,<br />

uno pericolosissimo, che va sorvegliato a vista. Per<br />

fortuna non ci resterà molto lì, solo il tempo del processo.<br />

Giornali e telegiornali hanno parlato a lungo di lui, anche<br />

con “speciali”.<br />

«Come a suo tempo per il Renato Vallanzasca e prima ancora<br />

col Pietro Cavallero».<br />

«Il bel René me lo ricordo, ma Cavallero chi è».<br />

«Sei giovane, per questo non lo conosci il Cavallero. Mise<br />

<strong>in</strong> piedi una banda che fece razzie per qualche anno,<br />

poi li presero a Milano. Fecero pure un film».<br />

«Comunque io non vedo l’ora che questo qui se ne vada<br />

fuori dai coglioni».<br />

«Vedi che se s’è alzato».<br />

«Macché, è ancora <strong>in</strong> branda il signor<strong>in</strong>o… È tutto coperto».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Non è possibile… Ehi tu! Alzati che è tardi… dai!».<br />

«Che fa».<br />

«Un cazzo!».<br />

«Vuoi vedere che è stato male».<br />

«O è un altro dei suoi famosi trucchi…».<br />

«Già…».<br />

«Entriamo!».<br />

Su la coperta.<br />

«Per forza non rispondeva! Questo è morto! Dai, aiutami<br />

a togliergli ‘sto sacchetto dalla testa!».<br />

«Presto, corri, vai ad avvertire il direttore!».<br />

Il ritardo di Nazario<br />

Mestre, II Distretto di Polizia San Marco, 11 aprile 1981.<br />

I colleghi dell’appuntato Nazario Succo, 53 anni di cui<br />

trenta passati <strong>in</strong> polizia, sono preoccupati perché da due<br />

giorni non si presenta al lavoro e non ha neppure avvertito.<br />

«Non è da lui».<br />

«Deve essergli successo qualcosa».<br />

«Certo, Nazario avrebbe avvertito».<br />

«Sentiamo che dice il capo».<br />

Il capo dice di muoversi subito. «Perché non mi avete avvertito<br />

prima», sbraita.<br />

«Sta a vedere che adesso è pure colpa nostra…».<br />

«C’ha ragione, c’ha! Cazzo!».<br />

Al campanello non risponde nessuno.<br />

«L’appartamento però è al primo piano… È un attimo<br />

sfondare una f<strong>in</strong>estra ed entrare <strong>in</strong> casa».<br />

«Guarda che qui non c’è nessuno».<br />

«Come sarebbe a dire che non c’è nessuno».<br />

La porta del bagno è l’unica chiusa.<br />

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Dietro c’è l’orrore, perché è così l’orrore.<br />

L’orrore sono due corpi immersi nella vasca da bagno <strong>in</strong><br />

mezzo ad acqua e sangue. Nazario e Maria sono lì, nuovi<br />

martiri di chissà chi.<br />

«E Roberto dov’è».<br />

«Chi è Roberto».<br />

«Come chi è Roberto Roberto è il figlio, ha 19 anni, fa<br />

l’ultimo anno allo scientifico, al Mor<strong>in</strong> di Gazzera».<br />

«Tu lo conosci bene Non è che è stato lui ed è sparito<br />

Non sarebbe la prima volta, anzi…».<br />

«Ma che cazzo dici, sei matto È un ragazzo tranquillo,<br />

forse un po’ troppo taciturno… È fissato col culturismo».<br />

«Vado a perquisire la casa».<br />

«Bravo, io avverto il comando».<br />

C<strong>in</strong>que m<strong>in</strong>uti dopo.<br />

«Erano ammucchiati dentro il ripostiglio, dietro un cassettone…<br />

Sono pieni zeppi di sangue».<br />

Una camicia blu, un maglione marrone.<br />

«Non ci posso credere».<br />

«Per fortuna che ero io il matto…».<br />

Nella casa della mattanza, <strong>in</strong> via Terraglio, sono <strong>in</strong>tanto<br />

arrivati quelli della polizia scientifica, il capo della squadra<br />

mobile di Venezia, dottor Arnaldo La Barbera, e il sostituto<br />

procuratore di turno, il dottor Stefano Dragone.<br />

La caccia<br />

Non sono passate due ore che <strong>in</strong>izia la caccia a Roberto<br />

Succo. Si batte tutto il Veneto e anche la Lombardia, precisamente<br />

Brescia, dove abita uno zio.<br />

«Il ragazzo si è allontanato con l’Alfasud di suo padre»,<br />

spiega da un telefono pubblico di un bar un concitato<br />

cronista de “Il Giornale di Vicenza” che ha bruciato sul<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

tempo i colleghi grazie alla talpa che ha nella Questura di<br />

Mestre. Suo cognato, non l’ha ancora sposata sua sorella,<br />

ma “è come se”. «Ha pure la sua pistola d’ord<strong>in</strong>anza, una<br />

Beretta automatica 92s con qu<strong>in</strong>dici colpi calibro 9». Intanto,<br />

la questura evidenzia nei suoi bollett<strong>in</strong>i di ricerca<br />

che «Roberto Succo è armato e pericoloso».<br />

La fuga del ricercato dura due giorni, <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e, nel pomeriggio<br />

del 13 aprile viene scovato <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Ud<strong>in</strong>e.<br />

«Pronto, polizia».<br />

«Chi parla».<br />

«Il ragazzo che cercate sta <strong>in</strong> una pizzeria, la pizzeria <strong>in</strong><br />

piazza a San Pietro Natisone».<br />

«Che ragazzo».<br />

«Quello che ha fatto fuori i genitori. La macch<strong>in</strong>a è l’Alfasud<br />

delle segnalazioni, solo che è targata Ud<strong>in</strong>e <strong>in</strong>vece<br />

che Venezia».<br />

La targa è <strong>in</strong>fatti falsa: Succo l’ha rubata a un’altra macch<strong>in</strong>a.<br />

Gli sono addosso <strong>in</strong> un soffio, prima che possa recuperare<br />

la Beretta dalla custodia di una macch<strong>in</strong>a fotografica <strong>in</strong> cui<br />

l’aveva nascosta. Gli viene anche da sorridere. “Ti farei riderei<br />

io, pezzo di merda”, pensa il maresciallo dei carab<strong>in</strong>ieri<br />

che l’ha bloccato mentre i suoi colleghi trovano nell’auto<br />

parecchi proiettili e un coltello. L’arma del massacro.<br />

Se prima sparava qualche sorriso ebete, una volta <strong>in</strong> caserma,<br />

Succo delira: «Sono stati dei carab<strong>in</strong>ieri a uccidere<br />

i miei genitori, io sono scappato prima che uccidessero<br />

anche me». Poco dopo una macch<strong>in</strong>a lo preleva per<br />

portarlo al commissariato di Mestre, dove lo aspetta il<br />

dottor La Barbera. Durante il tragitto, all’improvviso, aggredisce<br />

con pugni e morsi i due carab<strong>in</strong>ieri. Ricondotto<br />

a più miti ragioni, resterà calmo per tutto l’<strong>in</strong>terrogato-<br />

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rio, durante il quale confessa tutto. È stato lui a uccidere<br />

i suoi genitori. Dopo la deposizione viene condotto nel<br />

carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, dove sarà <strong>in</strong>terrogato<br />

dal magistrato.<br />

Perché<br />

«Mia madre non era affettuosa con me. Era come se non<br />

esistessi. Non era come le altre mamme, dioboia!», spiega<br />

Succo al sostituto procuratore, il dottor Dragone, che<br />

cerca di capire che razza di mostro ha davanti.<br />

«E tuo padre Pure tuo padre non era affettuoso».<br />

«Lù non me faseva mai prender la mach<strong>in</strong>a! Che vada en<br />

malora pure lù!».<br />

Poi descrive le modalità del duplice omicidio.<br />

«Chi per primo Chi hai ucciso prima».<br />

«Mia madre. Gò copà prima ela. Poi ho aspettato che tornasse<br />

a casa mio padre e appena è entrato gli ho tirato la<br />

prima coltellata».<br />

«Perché li hai messi nella vasca».<br />

«Perché così l’acqua copriva l’odore, ritardava la scoperta<br />

dei corpi e io potevo allontanarmi di più».<br />

«Che ora era quando sei uscito di casa».<br />

«Le 7. Le 7 del matt<strong>in</strong>o. Ho preso la pistola e trecentomila<br />

lire dal comò, tutto quello che c’era. Loro tenevano lì i<br />

contanti».<br />

«Sapevi già dove andare, cosa fare».<br />

«Prima ho pensato di raggiungere mio zio a Brescia per<br />

raccontargli tutto, ma poi ho deciso di prendere tempo e<br />

pensare bene a cosa fare. Ho girato <strong>in</strong> macch<strong>in</strong>a, sono arrivato<br />

<strong>in</strong> Friuli».<br />

«Ma prima sei passato nuovamente da casa… Sei stato tu<br />

a rompere i sigilli».<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Sì».<br />

«Perché, cosa ci sei tornato a fare».<br />

«Volevo prendere i corpi e farli sparire, ma non c’erano<br />

più».<br />

Parlando col magistrato, Roberto evidenzia buone conoscenze<br />

di anatomia derivategli da una passione che lo<br />

aveva portato f<strong>in</strong> da piccolo a scoprire come erano fatti i<br />

corpi. Per questo aveva sezionato molti animali dopo<br />

averli cloroformizzati.<br />

Non punibile<br />

Reggio Emilia, 8 ottobre 1981<br />

Le perizie psichiatriche lo hanno giudicato schizofrenico.<br />

Roberto Succo è stato dichiarato non punibile per totale<br />

<strong>in</strong>fermità mentale e ricoverato nel manicomio crim<strong>in</strong>ale<br />

di Reggio Emilia, dove rimarrà f<strong>in</strong>o alla guarigione e, comunque,<br />

non meno di dieci anni.<br />

In questa struttura, Roberto è tranquillo, anche se scrive<br />

lettere <strong>in</strong>quietanti a don Domenico Franco, un sociologo:<br />

«Se volessi», scrive fra l’altro, «potrei stritolare con una<br />

sola mano almeno c<strong>in</strong>que guardie». Chi raccoglie le sue<br />

confidenze sente giudizi volgari e pieni di livore nei confronti<br />

delle donne: «Le mie compagne di classe erano<br />

tutte delle stronzette, avrei voluto strozzarle con le mie<br />

mani». Ammira molto un recluso che è nello stesso carcere,<br />

uno “famoso”: Wolfgang Abel. Con l’amico Marco<br />

Furlan aveva massacrato a Verona qu<strong>in</strong>dici persone con<br />

la sigla di Ludwig. Dovevano “ripulire la società”.<br />

Non dà problemi, Roberto, che addirittura porta a term<strong>in</strong>e<br />

gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Scienze naturali,<br />

sostenendo un esame dietro l’altro. Risultati che gli<br />

fruttano alcune licenze studio. Ed è durante una di que-<br />

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ste licenze che scompare. Va bene tutto, ma dieci anni<br />

sono un tempo troppo lungo. Ne ha passati ben sei lì dentro,<br />

adesso basta. Lo cercano dappertutto, ma lui è scomparso,<br />

scompare nel nulla per due anni. F<strong>in</strong>o all’11 febbraio<br />

1988, quando l’ANSA batte questa agenzia: «Parigi,<br />

11 febbraio – Una serie di controlli effettuati <strong>in</strong> Italia<br />

hanno permesso alla polizia francese di identificare un<br />

pericoloso assass<strong>in</strong>o al quale si sta dando la caccia da<br />

qu<strong>in</strong>dici giorni: è Roberto Succo, di 25 anni, fuggito nel<br />

1986 da un ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, dove<br />

era stato r<strong>in</strong>chiuso per schizofrenia dopo avere ucciso<br />

nel 1981, a Mestre, il padre e la madre». Qu<strong>in</strong>di era lì che<br />

era scappato, come sospettavano gli <strong>in</strong>vestigatori italiani,<br />

<strong>in</strong> Francia.<br />

André<br />

Tolone, 28 gennaio 1988<br />

Ajazzi e Morand<strong>in</strong> sono due ispettori della polizia francese<br />

che stanno dando la caccia a un certo André che la<br />

notte prima, durante una rissa <strong>in</strong> un bar, ha ferito un uomo<br />

con un colpo di pistola. La soffiata di un <strong>in</strong><strong>formato</strong>re<br />

<strong>in</strong>dica un hotel: «Lo trovate lì».<br />

La signora al banco <strong>in</strong>formazioni ha passato da un pezzo<br />

i c<strong>in</strong>quanta, ma si sente ancora piacente. Fa un lungo sospiro<br />

che gonfia oltremodo la sua qu<strong>in</strong>ta sfacciata, s’aggiusta<br />

una ciocca di capelli biondo cenere che però torna<br />

giù per dispetto, controlla l’effetto che ha prodotto la<br />

sua avvenenza sui due poliziotti che chiedono dell’uomo<br />

e f<strong>in</strong>almente risponde: «Non è <strong>in</strong> camera». I flic stanno<br />

per <strong>in</strong>filare la seconda domanda quando la donna cambia<br />

espressione di colpo, mentre dall’<strong>in</strong>gresso dell’hotel arriva<br />

l’<strong>in</strong>ferno. Colpi di pistola.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

A sparare è proprio quell’André ricercato. L’ispettore<br />

Claude Ajazzi è a terra, immobile, ricurvo su un lato, gli<br />

occhi sbarrati. André lo crede morto, ma è solo ferito.<br />

Come ferito è anche Michel Morand<strong>in</strong>, che però si lamenta,<br />

reggendo ancora l’arma. Una Smith&Wesson 38 Special.<br />

Una meraviglia della tecnica. André la strappa dalle<br />

mani del poliziotto, la guarda con ammirazione, poi la<br />

punta contro la faccia del poliziotto, che lo supplica,<br />

piange, tira fuori la sua famiglia. Gli rispondono tre colpi<br />

di quel grosso calibro che gli sfasciano la faccia.<br />

La caccia a quel maledetto da parte della polizia francese<br />

è rabbiosa. Tutta Tolone è sotto assedio, passata al setaccio,<br />

mentre la TV diffonde l’identikit di André. Ed è<br />

grazie alla televisione che arriva la pista giusta. Al comando<br />

centrale di polizia si presentano <strong>in</strong>fatti tre persone:<br />

padre, madre e figlia di 16 anni. Lei, la ragazz<strong>in</strong>a, era<br />

stata con quel bastardo. L’ha riconosciuto <strong>in</strong> televisione,<br />

poi è svenuta. Ma non si chiama André. Si chiama Roberto.<br />

È un attimo <strong>in</strong>crociare l’<strong>in</strong>formazione con le facce dei<br />

galantuom<strong>in</strong>i sul cui capo pende un mandato di cattura<br />

<strong>in</strong>ternazionale. B<strong>in</strong>go! È Roberto Succo. Che, due giorni<br />

dopo, sarà ricercato furiosamente anche dalla polizia<br />

svizzera.<br />

Dopo la sparatoria di Tolone aveva <strong>in</strong>fatti passato il conf<strong>in</strong>e.<br />

Sulla strada fra G<strong>in</strong>evra e Losanna aveva aggredito<br />

il gestore di una stazione di servizio per rubargli la macch<strong>in</strong>a<br />

e proseguire la sua fuga. Abbandonata anche quell’auto,<br />

ne aveva fermata un’altra alla cui guida c’era una<br />

ragazza alla quale aveva <strong>in</strong>timato di accompagnarlo f<strong>in</strong>o<br />

a Berna. Lungo il tragitto, però, c’era stato un <strong>in</strong>cidente<br />

e la ragazza, terrorizzata, era riuscita a fuggire. Intanto<br />

era arrivata la polizia, ma Succo non ci aveva pensato<br />

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due volte a sparare, creandosi una via di fuga. Di nuovo<br />

libero. Libero di uccidere. Ma non solo.<br />

F<strong>in</strong>e corsa<br />

Succo non è soltanto un omicida. È anche uno stupratore.<br />

A Lyss, vic<strong>in</strong>o Berna, tre donne denunciano di essere<br />

state sequestrate e violentate. La descrizione che danno<br />

dell’aggressore non lascia spazio a dubbi: è lui. Il 20 febbraio<br />

è segnalato a Sa<strong>in</strong>te-Tuille, nell’Alta Provenza. È<br />

dunque rientrato <strong>in</strong> Francia. Perché Forse per recuperare<br />

denaro da qualcuno che lo aiuta. Un testimone lo ha<br />

identificato al volante di una Opel nera, ma di lui non c’è<br />

traccia, nonostante sia braccato da tre polizie europee.<br />

Ad avere fortuna è proprio quella italiana che, dopo averlo<br />

cercato a Belluno, Milano e Treviso, arriva a Santa Lucia<br />

di Piave, un paes<strong>in</strong>o vic<strong>in</strong>o a Conegliano. Questa volta,<br />

fra le tante segnalazioni, è arrivata quella giusta. Succo<br />

si sente perso e cerca di raggiungere una Rover 800 rubata<br />

il giorno prima sul lago di Garda, a Sirmione, nel portaoggetti<br />

c’è la Smith&Wesson dell’ispettore francese ucciso.<br />

I poliziotti, però, gli sono addosso e lo immobilizzano<br />

prima che possa aprire lo sportello. Oltre alla pistola,<br />

<strong>in</strong> macch<strong>in</strong>a Succo ha documenti falsi, un libretto d’assegni,<br />

quattrocentomila lire e sessantamila franchi francesi.<br />

C’è anche una cart<strong>in</strong>a geografica sulla quale ha segnato<br />

l’it<strong>in</strong>erario della fuga, dest<strong>in</strong>azione Nord Africa.<br />

Portato <strong>in</strong> questura, a Treviso, al dottor Francesco Zonno,<br />

capo della squadra mobile, che gli chiede di dichiarare anche<br />

la sua professione, risponde: «Ammazzo la gente».<br />

Succo elenca qu<strong>in</strong>di i suoi crim<strong>in</strong>i come fossero tappe di<br />

un curriculum professionale. A parte i genitori, ha ucciso<br />

l’ispettore Morand<strong>in</strong>, France Vu D<strong>in</strong>h, una ragazza<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

vietnamita, Michel Astoul, un medico di Annecy, Claudie<br />

Duschosal, una donna prima violentata, il brigadiere André<br />

Castillo, un poliziotto svizzero che voleva controllargli<br />

i documenti. L’unica consolazione degli <strong>in</strong>quirenti è<br />

che ora Roberto Succo è nelle mani della giustizia. Questa<br />

volta la corsa è f<strong>in</strong>ita. Forse…<br />

This is the end<br />

Treviso, carcere di Santa Bona, 1 marzo 1988<br />

Le disposizioni sono precise: si tratta di un pericoloso<br />

crim<strong>in</strong>ale che va controllato a vista. A leggere la sua storia<br />

sembra di stare <strong>in</strong> una canzone di Jim Morrison: «Father<br />

I want to kill you/ mother I want to fuck you». Uno<br />

che va controllato a vista perché basta un attimo e quello<br />

è capace di scappare di nuovo. Deve solo aspettare il<br />

momento giusto. Che prima o poi arriverà. Infatti arriva<br />

quando, durante l’ora d’aria, Succo si accorge che i tre<br />

agenti di custodia si sono distratti e ne approfitta per<br />

raggiungere con un salto una tettoia e da lì il tetto del<br />

carcere, da dove raggiunge quello di un altro edificio. Nel<br />

frattempo arriva anche la TV e a quel punto Succo improvvisa<br />

uno show, dondolandosi nel vuoto appeso a una<br />

sbarra, urlando che lui è meglio dei parà. Le sue <strong>in</strong>vettive<br />

sono rivolte soprattutto verso una donna che lo ha tradito,<br />

anzi, una ragazza di 16 anni, quella che lo ha denunciato<br />

a Tolone: «L’unica persona che ho amato».<br />

L’esibizione senza possibilità di fuga term<strong>in</strong>a nel pomeriggio,<br />

quando durante un’altra acrobazia, Succo cade da<br />

sei metri rompendosi un po’ di ossa. Anche conciato male,<br />

però, si dibatte come un leone quando viene afferrato<br />

e i medici sono costretti a somm<strong>in</strong>istrargli potenti dosi di<br />

calmanti. Il serial killer più pericoloso del momento vie-<br />

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ne qu<strong>in</strong>di trasferito nel carcere di Livorno, dove è r<strong>in</strong>chiuso<br />

<strong>in</strong> isolamento e, neanche a dirlo, sorvegliato a vista.<br />

I francesi però non si fidano e l’8 marzo chiedono l’estradizione<br />

di Succo. Hanno paura che una nuova perizia psichiatrica<br />

possa giudicarlo schizofrenico e che venga di<br />

nuova prosciolto dalle accuse perché riconosciuto <strong>in</strong>fermo<br />

di mente. Contemporaneamente arrivano rogatorie,<br />

almeno una dec<strong>in</strong>a, <strong>in</strong>oltrate dai giudici svizzeri e francesi<br />

che <strong>in</strong>dagano sugli altri delitti attribuiti a Roberto. Il 23<br />

aprile è a Treviso un magistrato d’oltralpe, il giudice<br />

istruttore Louis Bertrand, del tribunale di Tolone. L’<strong>in</strong>terrogatorio<br />

dura poco più di dieci m<strong>in</strong>uti perché, appena<br />

vede il giudice, Succo com<strong>in</strong>cia a parlare <strong>in</strong> francese: veri<br />

e propri deliri, come quando diceva che a uccidere i<br />

suoi erano stati i carab<strong>in</strong>ieri. Poi passa all’italiano, ma solo<br />

per avvalersi della facoltà di non rispondere.<br />

Il 17 maggio, il giudice istruttore Nicola Maria Pace esam<strong>in</strong>a<br />

la perizia psichiatrica che un collegio di esperti ha<br />

condotto sul crim<strong>in</strong>ale con una serie di colloqui presso il<br />

carcere di Livorno. Qui c’è scritto che Roberto Succo è<br />

schizofrenico e pericoloso per la società, così il giudice<br />

Pace non può che dichiararlo <strong>in</strong>capace di <strong>in</strong>tendere e di<br />

volere.<br />

In Francia il s<strong>in</strong>dacato nazionale autonomo della polizia<br />

<strong>in</strong> borghese, che raccoglie ispettori e commissari di polizia,<br />

protesta vivamente con il M<strong>in</strong>istero della Giustizia<br />

francese e il giudice Bertrand chiede subito una controperizia<br />

con esperti e psichiatri francesi. Comunque sia,<br />

<strong>in</strong>tanto Roberto deve tornare <strong>in</strong> un istituto psichiatrico<br />

giudiziario, come sette anni prima, ma anche questa volta,<br />

le cose non vanno come dovrebbero andare.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Notizia ANSA. «Roberto Succo si è suicidato la scorsa notte<br />

nel carcere di Vicenza.<br />

Lo avevano trasferito lì dal carcere di Livorno perché fosse<br />

più vic<strong>in</strong>o al tribunale e non facesse scherzi durante i<br />

trasferimenti. Lo avevano chiuso <strong>in</strong> una cella d’isolamento<br />

del carcere San Pio X ed era praticamente sorvegliato<br />

a vista. Accortisi che il prigioniero era ancora <strong>in</strong> branda<br />

nonostante l’ora tarda, gli agenti di custodia erano entrati<br />

e, dopo aver sollevato il cusc<strong>in</strong>o, si sono accorti che il<br />

Succo aveva la testa <strong>in</strong>filata <strong>in</strong> un sacchetto di plastica<br />

pieno del gas di una bomboletta da campeggio. Aveva 26<br />

anni».<br />

Vicenza, 23 maggio 1988<br />

LA STRANA MORTE DI DON BISAGLIA<br />

Don Mario non era un prete qualunque. Il suo cognome,<br />

Bisaglia, era lo stesso di Antonio, “Toni” Bisaglia, il potente<br />

leader della DC, presidente del gruppo democristiano<br />

al Senato, annegato il 24 giugno ’84 nel Mar Ligure.<br />

Onda anomala, avevano detto, ma lui, don Mario, non ci<br />

aveva mai creduto. Non aveva mai creduto a quella versione,<br />

nonostante la moglie di Toni, Romilda Bollati di<br />

Sa<strong>in</strong>t Pierre, sposata l’anno prima, l’avesse sempre sostenuta<br />

con tenacia: «Toni è stato <strong>in</strong>vestito da un’onda anomala<br />

mentre era a bordo del panfilo Rosalù, di mia proprietà».<br />

Don Mario era uscito di casa il 14 agosto 1992, senza tonaca,<br />

e con la sua bicicletta aveva raggiunto la Casa del<br />

Clero di Rovigo. Lì, una suora aveva chiesto di potergli<br />

parlare, ma lui non aveva tempo, aveva fretta, tanta fret-<br />

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ta: doveva prendere il treno per Calalzo. E quel treno<br />

partiva alle 7. «Devo <strong>in</strong>contrare delle persone che mi<br />

aspettano», aveva detto <strong>in</strong> modo concitato, ed era scappato<br />

via. Testimoni lo avevano visto arrivare <strong>in</strong> stazione<br />

alle 6.45, acquistare il biglietto alle 6.55 e salire sul treno<br />

diretto a Padova, da dove avrebbe preso la co<strong>in</strong>cidenza<br />

per Calalzo alle 9.25, ma a Calalzo, Don Mario non arriverà<br />

mai.<br />

Si è suicidato<br />

Una donna che lo aveva <strong>in</strong>contrato alla stazione di Rovigo,<br />

testimoniava di averlo rivisto alle 7.50 nel piazzale antistante<br />

la stazione mentre saliva a bordo di un’auto bianca<br />

di grossa cil<strong>in</strong>drata con quattro persone a bordo. Come<br />

poteva essere lì a quell’ora, don Mario C’era chi testimoniava<br />

di averlo visto salire sul treno, qu<strong>in</strong>di l’<strong>in</strong>congruenza<br />

poteva essere spiegata solo <strong>in</strong> un modo: il sacerdote<br />

era sceso da quel treno alla prima fermata, a Monselice,<br />

ed era tornato a Rovigo con un altro convoglio.<br />

Perché lo avrebbe fatto Un altro testimone dichiarava di<br />

averlo visto alle 8.35 alla stazione di Padova, dove avrebbe<br />

potuto arrivare se si fosse fatto accompagnare da<br />

quella fantomatica auto.<br />

Comunque, di don Mario s’erano perdute completamente<br />

le tracce, f<strong>in</strong>ché il suo corpo era stato r<strong>in</strong>venuto due<br />

giorni dopo, il 17 agosto, nel lago di Domegge, <strong>in</strong> Cadore.<br />

A quando risaliva la morte Non c’era concordanza neppure<br />

su questo. L’anatomopatologo, <strong>in</strong>fatti, la faceva risalire<br />

al giorno 14 – lo stesso della scomparsa – per annegamento.<br />

Per un altro medico dell’USL locale, <strong>in</strong>vece, il<br />

decesso risaliva a circa dodici ore prima del ritrovamento,<br />

cioè alla matt<strong>in</strong>a di quello stesso 17 agosto. Su una co-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

sa i due medici erano d’accordo: si trattava di un suicidio<br />

per annegamento.<br />

Un suicidio, ma come si spiegavano i tanti punti oscuri<br />

Perché, per suicidarsi, un uomo avrebbe preso un treno<br />

(o <strong>in</strong> <strong>alternativa</strong> farsi portare) da Rovigo f<strong>in</strong> su a Domegge<br />

per buttarsi poi nel lago Per annegarsi, acqua ce<br />

n’era a sufficienza anche a pochi chilometri da casa, ma,<br />

soprattutto, perché don Mario, un sacerdote molto attivo<br />

nella propria parrocchia, avrebbe dovuto suicidarsi<br />

E perché doveva andare a Calalzo Perché voleva <strong>in</strong>contrare<br />

il Papa, <strong>in</strong> quei giorni <strong>in</strong> vacanza nel Cadore. Motivo:<br />

ottenere da lui la dispensa dal segreto del confessionale.<br />

Una dispensa negatagli dal vescovo di Belluno. Cosa<br />

aveva di così grave da raccontare per chiedere una dispensa<br />

Dobbiamo tornare a otto anni prima, alla scomparsa, altrettanto<br />

misteriosa, di suo fratello Toni. Una morte che<br />

don Mario non aveva mai ritenuto accidentale. Suo fratello<br />

era stato ucciso e ora, f<strong>in</strong>almente, sapeva da chi e<br />

perché.<br />

L’ombra della P2<br />

Quando morì, il senatore democristiano Toni Bisaglia era<br />

una figura di primissimo piano all’<strong>in</strong>terno del suo partito.<br />

Nel mare antistante Portof<strong>in</strong>o, quel 26 giugno, Toni si<br />

stava godendo il sole a bordo dello yacht Rosalù con sua<br />

moglie e alcuni amici. Per motivi mai chiariti, f<strong>in</strong>ì <strong>in</strong> mare<br />

e quando fu ripescato i tentativi di rianimarlo furono<br />

<strong>in</strong>utili. Sulla d<strong>in</strong>amica degli avvenimenti, gli ospiti dello<br />

yacht fornirono versioni discordanti. Non fu effettuata<br />

neppure l’autopsia, perché, su disposizione del presidente<br />

del Senato, Francesco Cossiga, un C130 dell’aeronau-<br />

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tica militare recuperò subito la salma con dest<strong>in</strong>azione<br />

Roma, per le esequie di Stato.<br />

La f<strong>in</strong>e di Toni Bisaglia lasciò il gruppo dei dorotei senza<br />

una guida e nel giro di poco tempo sparì dalla circolazione<br />

anche uno dei suoi amici più fidati: quell’Ugo Niutta<br />

posto a capo della Farmitalia (Carlo Erba) proprio dal<br />

politico di Rovigo. Niutta morì a Londra, “suicida”, come<br />

Roberto Calvi e, come Calvi, nel “giro” della P2. A differenza<br />

di Calvi, però, lui non si impiccò, anzi, non fu impiccato.<br />

A ucciderlo fu una dose massiccia di Tavor. Si<br />

era suicidato perché malato, ma pur essendo malato di<br />

Park<strong>in</strong>son, le terapie “conservative” gli consentivano di<br />

condurre un’esistenza normale. Poco normale, <strong>in</strong>oltre, risulta<br />

la scelta di Londra come scenario del suicidio. A<br />

Londra, molto probabilmente, Calvi e Niutta avevano comuni<br />

frequentazioni e comuni affari. L’elim<strong>in</strong>azione di<br />

Niutta poteva rientrare <strong>in</strong> una più ampia strategia di liquidazione<br />

del potere dei dorotei, che solo pochi anni<br />

prima aveva sofferto la perdita del loro leader, Aldo Moro<br />

I segreti della P2 dovevano restare tali, anche a costo<br />

di elim<strong>in</strong>are un senatore e un suo stretto collaboratore<br />

Interrogativi dest<strong>in</strong>ati a restare senza risposta.<br />

Chi l’ha visto<br />

Don Mario, che non aveva mai ritenuto accidentale la<br />

morte del fratello, aveva scoperto qualcosa. Pochi giorni<br />

prima della sua morte aveva conosciuto particolari essenziali<br />

su quella tragica vicenda di Portof<strong>in</strong>o. Confidenze<br />

raccolte però dal confessionale, per poterle utilizzare<br />

aveva bisogno della dispensa. Dispensa che, negatagli dal<br />

vescovo, don Mario voleva chiedere direttamente al papa.<br />

Per questo era stato elim<strong>in</strong>ato, ma non c’era nessuna<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

prova. Così, anche la morte di don Mario era stata archiviata.<br />

Caso chiuso, come quello di suo fratello Toni.<br />

Qualcuno, però, non era conv<strong>in</strong>to. Quel qualcuno era il<br />

sostituto procuratore Raffaele Massaro, che nel 2003<br />

aveva fatto riaprire il caso, ord<strong>in</strong>ando una nuova perizia<br />

sul cadavere. Si era così scoperto che il corpo era stato<br />

sicuramente gettato <strong>in</strong> acqua dopo essere rimasto esposto<br />

al caldo di agosto <strong>in</strong> un luogo asciutto. Crollava qu<strong>in</strong>di<br />

la tesi del suicidio per annegamento e il magistrato era<br />

ricorso all’<strong>in</strong><strong>formato</strong>re più potente: la televisione. Si era<br />

rivolto <strong>in</strong>fatti alla trasmissione “Chi l’ha visto” con la<br />

speranza che si facesse vivo un testimone anonimo. Un<br />

uomo che dopo la morte del sacerdote aveva telefonato<br />

agli <strong>in</strong>quirenti affermando di aver visto degli sconosciuti<br />

gettare nel lago qualcosa di volum<strong>in</strong>oso, forse un corpo.<br />

L’anonimo veniva dunque <strong>in</strong>vitato a rifarsi vivo e a dichiarare<br />

tutto quello che sapeva, ma nessuno si fece avanti.<br />

La seconda <strong>in</strong>chiesta faceva luce anche su altri dettagli.<br />

Si scopriva per esempio che don Mario aveva deciso di<br />

partire improvvisamente dopo una misteriosa telefonata<br />

ricevuta il giorno prima. Si era anche scoperto che per<br />

quel 14 agosto don Mario aveva fissato un appuntamento<br />

con due giornalisti, Daniele Vimercati e Michele Brambilla,<br />

ai quali aveva promesso rivelazioni sensazionali per<br />

il libro che stavano scrivendo. Un libro uscito <strong>in</strong> quello<br />

stesso anno con l’<strong>in</strong>quietante titolo de Gli annegati. Facile<br />

supporre che le rivelazioni promesse riguardassero<br />

suo fratello e l’improbabile <strong>in</strong>cidente che gli era costata<br />

la vita. Don Mario non aveva mai creduto alla versione ufficiale<br />

e ora, f<strong>in</strong>almente, ne aveva le prove. Sarebbe bastata<br />

quella dispensa per svelare il segreto. Un segreto<br />

che doveva rimanere tale.<br />

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Tuttavia, non c’era lo straccio di una prova, un riscontro,<br />

così su tutta la vicenda era calato di nuovo il sipario: l’<strong>in</strong>chiesta<br />

riaperta da Massaro veniva archiviata per l’impossibilità<br />

di identificare autori e mandanti dell’omicidio<br />

di don Mario Bisaglia. Perché quel sacerdote era stato<br />

ucciso.<br />

È stato un omicidio<br />

Al mistero della morte di Toni Bisaglia, si aggiungeva<br />

qu<strong>in</strong>di il mistero della morte del fratello, ma <strong>in</strong> questo caso<br />

la magistratura parlava chiaramente di omicidio.<br />

Quali elementi giustificavano questa conv<strong>in</strong>zione Massaro<br />

aveva riaperto l’<strong>in</strong>chiesta basandosi su un esposto<br />

rivelatosi poi poco attendibile, tuttavia, dopo aver riesumato<br />

la salma per verificare le cause della morte, si scoprì<br />

che nei polmoni di don Bisaglia non c’era traccia delle<br />

tipiche alghe della zona cador<strong>in</strong>a e i medici spiegarono<br />

che il sacerdote era morto per soffocamento, non per annegamento.<br />

Qu<strong>in</strong>di, don Mario era morto prima di essere<br />

gettato <strong>in</strong> acqua. Grazie a questa importante scoperta, e<br />

considerate le affermazioni della vittima sul caso del fratello,<br />

i magistrati tornarono a <strong>in</strong>dagare anche sull’importante<br />

uomo politico veneto. Indag<strong>in</strong>i che però, ancora<br />

una volta, non portarono a nulla.<br />

Di nuovo, si ricostruirono tutti i movimenti di don Bisaglia<br />

da Rovigo a Calalzo di Cadore, vic<strong>in</strong>o al lago <strong>in</strong> cui<br />

venne trovato cadavere il 17 agosto, concentrando l’attenzione<br />

sull’<strong>in</strong>tervallo di tempo che andava dalle 7 alle<br />

20.30 di quella giornata. Furono riascoltati tutti i testimoni,<br />

compresa la donna che aveva dichiarato di averlo<br />

visto salire a bordo di una berl<strong>in</strong>a bianca, e non sul treno,<br />

<strong>in</strong> compagnia di misteriosi personaggi. Tuttavia, an-<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

che questa volta non si riuscì ad andare oltre, a chiarire<br />

il giallo di don Bisaglia, che era stato ritrovato con alcuni<br />

sassi <strong>in</strong> tasca, un foglietto di appunti poco significativi,<br />

e 850mila lire nascosti nei calz<strong>in</strong>i.<br />

MICHELE PROFETA. SCALA REALE CON LA MORTE<br />

Padova, 16 febbraio 2001. Michele Profeta, di orig<strong>in</strong>e siciliana<br />

ma residente a Mestre, veniva fermato per omicidio.<br />

Nel corso delle perquisizioni a suo carico, furono trovati<br />

un revolver Iver Johnson calibro 32, un mazzo di carte<br />

dal quale mancavano quattro re e un normografo. Il<br />

normografo con il quale il serial killer aveva scritto le lettere.<br />

La storia di Michele Profeta era <strong>in</strong>iziata a Palermo, nel<br />

‘47. Figlio di una famiglia medio borghese, aveva vissuto<br />

drammaticamente il costante confronto con suo fratello<br />

maggiore, Maurizio Profeta, al quale lo sottoponevano i<br />

genitori. Maurizio era più bravo, Maurizio era più educato,<br />

Maurizio era più rispettoso. Un tormento. I coniugi<br />

Profeta avevano grandi ambizioni per i figli, non tanto<br />

per il loro futuro, ma per tenere alto il nome di una famiglia<br />

importante, rispettata. Nonostante ciò, nonostante la<br />

pressione di una famiglia oppressiva, sia il bravo Maurizio,<br />

sia la pecora nera Michele non erano andati oltre il<br />

diploma: Maurizio aveva trovato lavoro <strong>in</strong> banca, mentre<br />

Michele, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, non aveva<br />

term<strong>in</strong>ato gli studi. Per Michele erano <strong>in</strong>iziate le sconfitte<br />

della vita, quasi dei fallimenti annunciati.<br />

Anche sul fronte privato, <strong>in</strong>timo, i fratelli Profeta subivano<br />

i voleri della famiglia, più precisamente della madre.<br />

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Michele fu costretto <strong>in</strong>fatti a chiudere con il suo grande<br />

amore, Concetta, perché Concetta era figlia del popolo,<br />

di una classe sociale <strong>in</strong>feriore. Non poteva mischiare il<br />

suo sangue con quello della loro famiglia, perché sarebbe<br />

stato un disonore. Adriana <strong>in</strong>vece andava bene, quella<br />

poteva perf<strong>in</strong>o sposarla e crearsi una famiglia. Sembrava<br />

tutto a posto, erano nati anche due figli, ma era durata<br />

f<strong>in</strong>ché era vissuta la madre padrona.<br />

Quando era morta, Michele si era sentito libero di scegliere.<br />

Libero di tornare da Concetta che non aveva mai<br />

dimenticato. Si era separato qu<strong>in</strong>di dalla moglie e, appena<br />

la legge glielo aveva consentito, aveva sposato Concetta.<br />

Erano nati due figli anche da questa unione.<br />

L’unione per tutta la vita, perché quella era la donna della<br />

sua vita. Le cose sembravano andare f<strong>in</strong>almente per il<br />

verso giusto: era impiegato presso una società immobiliare,<br />

chiudeva parecchi contratti, guadagnava bene. Una<br />

famiglia a posto, una famiglia borghese come tante.<br />

Purtroppo, un nuovo fallimento era dietro l’angolo di una<br />

notte. Una notte <strong>in</strong> cui Michele aveva scoperto casualmente<br />

una verità raggelante e dolorosa. La sua donna,<br />

quella che aveva sempre amato, quella per la quale aveva<br />

combattuto anche contro la sua famiglia, non esisteva.<br />

Era come Dulc<strong>in</strong>ea per Don Chisciotte. La sua donna lo<br />

tradiva e il suo amore si era improvvisamente tras<strong>formato</strong><br />

<strong>in</strong> odio, mentre lui non ci stava più con la testa. Anche<br />

il lavoro ne aveva risentito e da lì a poco era arrivato il<br />

fallimento della sua società immobiliare.<br />

La svolta<br />

Dall’immobiliare era passato qu<strong>in</strong>di al settore f<strong>in</strong>anziario.<br />

Intanto aveva conosciuto un’altra donna, Antonella, ma<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

non aveva il coraggio di lasciare Concetta. La odiava per<br />

quello che gli aveva fatto, però non riusciva a non amarla.<br />

E poi aveva messo su una famiglia con lei, aveva messo<br />

al mondo dei figli.<br />

La nuova vita di Michele correva ora su un doppio b<strong>in</strong>ario,<br />

con le due donne che ignoravano l’una l’esistenza<br />

dell’altra. Anche il settore f<strong>in</strong>anziario però si era presto<br />

rivelato un fallimento. L’ennesimo. Alla soglia dei c<strong>in</strong>quant’anni,<br />

si trasferisce <strong>in</strong> Veneto e sceglie Adria (Rovigo)<br />

per vivere con la moglie e i figli, mentre a Mestre<br />

piazza Antonella. Le cose sembravano andare bene f<strong>in</strong>o a<br />

quando non era stato licenziato. Un nuovo fallimento.<br />

Questa volta, però, aveva la soluzione: la svolta della sua<br />

vita. L’11 gennaio 2001, alla questura di Milano era arrivata<br />

una lettera: «Questo è un ricatto. Vogliamo 12 miliardi<br />

altrimenti uccideremo delle persone a caso <strong>in</strong> qualsiasi<br />

città. Sarà un bagno di sangue, dovete pubblicare<br />

questa <strong>in</strong>serzione sul “Corriere della Sera”: offresi tornitore<br />

specializzato dodici anni di esperienza e un numero<br />

di cellulare, entro il 15-01-01. Se non ubbidirete dopo le<br />

prime uccisioni manderemo copie alla TV e giornali e magari<br />

a qualcuno verrà voglia di imitarci e scateneremo il<br />

terrore».<br />

Il 15 gennaio, come richiesto, erano stati pubblicati l’annuncio<br />

e il numero di cellulare, ma le telefonate che erano<br />

seguite erano tutte da parte di persone effettivamente<br />

<strong>in</strong>teressate all’impiego proposto. Il 29 gennaio la polizia<br />

aveva ricevuto una segnalazione per un taxi fermo<br />

con a bordo una persona esanime. Il quarantunenne<br />

Pierpaolo Lissandron giaceva all’<strong>in</strong>terno della vettura,<br />

colpito da un proiettile alla nuca. Era morto poco dopo il<br />

ritrovamento, senza aver ripreso conoscenza. La spari-<br />

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zione del suo portafogli faceva pensare a una rap<strong>in</strong>a, ma<br />

non era così. Era la promessa mantenuta, come spiegava<br />

la seconda lettera del killer, arrivata il primo febbraio.<br />

«Cont<strong>in</strong>ueremo f<strong>in</strong>o a quando non pubblicherete sul<br />

“Corriere della Sera” questa <strong>in</strong>serzione: offresi tornitore<br />

specializzato dodici anni di esperienza e un numero di<br />

cellulare. Padova 1», recitava il secondo, folle messaggio.<br />

Passati dodici giorni, Walter Boscolo, 37 anni, agente immobiliare,<br />

era stato ritrovato riverso <strong>in</strong> una pozza di sangue<br />

<strong>in</strong> un appartamento di via San Francesco, a Padova.<br />

Come nel caso di Lissandron, l’uomo era stato ucciso con<br />

tre colpi d’arma da fuoco alla nuca. Stavolta però, il killer<br />

non aveva <strong>in</strong>scenato una rap<strong>in</strong>a. Accanto al cadavere<br />

aveva lasciato due carte da gioco: un re di quadri e un re<br />

di cuori. In una busta c’era un bigliett<strong>in</strong>o con due righe<br />

scritte con un normografo: «Anche questa non è rap<strong>in</strong>a,<br />

contattate il questore di Milano».<br />

Gli <strong>in</strong>dizi a disposizione degli <strong>in</strong>quirenti erano pochi, ma<br />

si sapeva che alle 12.30 Boscolo aveva appuntamento<br />

con un presunto cliente, tale signor Pert<strong>in</strong>i. Si era qu<strong>in</strong>di<br />

<strong>in</strong>dagato <strong>in</strong> questa direzione e si era scoperto che la<br />

telefonata era partita da un telefono pubblico presso il<br />

Pronto soccorso dell’ospedale di Noventa Vicent<strong>in</strong>a. Dallo<br />

stesso telefono risultavano partite svariate altre telefonate<br />

ad agenzie immobiliari, tutte effettuate dal sedicente<br />

signor Pert<strong>in</strong>i.<br />

L’arresto, la f<strong>in</strong>e<br />

Il 18 gennaio, utilizzando lo stesso falso nome, Profeta<br />

aveva <strong>in</strong>contrato Leonardo Carraro, agente immobiliare,<br />

<strong>in</strong> una casa <strong>in</strong> via Marostica. A questo <strong>in</strong>contro ne erano<br />

seguiti altri due. Carraro, anche se non lo sapeva, aveva<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

visto il killer <strong>in</strong> faccia ed era qu<strong>in</strong>di <strong>in</strong> grado di riconoscerlo.<br />

Determ<strong>in</strong>anti per la cattura erano stati anche gli<br />

sms con cui Profeta rispondeva, dai suoi dieci cellulari,<br />

agli annunci che la questura pubblicava per comunicare<br />

con lui.<br />

Tra le chiamate effettuate, gli <strong>in</strong>quirenti ne avevano notata<br />

una molto strana, diretta a Palermo: il numero apparteneva<br />

a un certo Giovanni Profeta. I sospetti caddero<br />

perciò su Michele, residente a Mestre ed era scattato<br />

immediatamente il mandato di cattura. Profeta fu così<br />

arrestato il 6 febbraio, mentre usciva dagli uffici di una<br />

società di servizi f<strong>in</strong>anziari. Si era dichiarato <strong>in</strong>nocente,<br />

ma nella casa <strong>in</strong> cui viveva con Antonella Gemmati erano<br />

stati ritrovati una pistola e una scatola di cartucce simili<br />

a quelle che avevano ucciso Lissandron e Boscolo, oltre<br />

a un mazzo di carte dove mancavano i quattro re. Quello<br />

di fiori verrà ritrovato successivamente nella sua auto,<br />

<strong>in</strong>sieme al normografo e alla carta da lettere.<br />

Le prove erano <strong>in</strong>equivocabili: Michele Profeta era il serial<br />

killer. A <strong>in</strong>chiodarlo, anche le dichiarazioni della sua<br />

compagna che affermava come tra il 3 e il 15 gennaio il<br />

Profeta si trovasse a Milano per fantomatici impegni di<br />

lavoro. Il collega V<strong>in</strong>cenzo Bozzi, <strong>in</strong>oltre, diceva di averlo<br />

accompagnato all’ospedale di Noventa Vicent<strong>in</strong>a l’8 febbraio,<br />

nell’orario <strong>in</strong> cui erano state effettuate tutte le telefonate<br />

alle varie agenzie.<br />

Profeta era stato trasportato nel carcere Due Palazzi di<br />

Padova e, dopo due mesi di processo e quattordici udienze,<br />

era stato condannato all’ergastolo e a due anni di isolamento.<br />

Il suo avvocato aveva deciso di ricorrere <strong>in</strong> appello,<br />

chiedendo che fossero effettuate delle perizie psichiatriche.<br />

Durante la sua permanenza <strong>in</strong> carcere, Profe-<br />

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ta era stato sottoposto a varie analisi psichiche che cercavano<br />

di comprendere cosa l’avesse portato a uccidere.<br />

Ne era venuta fuori una personalità affetta da manie di<br />

grandiosità, compiaciuta dell’attenzione che la sua vicenda<br />

stava riscuotendo. Profeta gestiva i colloqui <strong>in</strong>dirizzandoli<br />

dove più gli piaceva, discorreva di sé e della sua vita<br />

<strong>in</strong> term<strong>in</strong>i sublimi, ma, contrapposta a questa magnifica e<br />

<strong>in</strong>esistente realtà, c’era la vita vera, fatta di fallimenti amorosi<br />

e lavorativi. Fallimenti <strong>in</strong>iziati tanto tempo prima,<br />

quando non reggeva il confronto col fratello: era questa<br />

cont<strong>in</strong>ua frustrazione che l’aveva sp<strong>in</strong>to all’omicidio.<br />

Tuttavia, la sensazione di onnipotenza non lo aveva abbandonato<br />

nemmeno <strong>in</strong> carcere. Non si era arreso e aveva<br />

tentato la fuga con una limetta nascosta nel portaocchiali:<br />

con questo piccolo arnese aveva provato a segare<br />

le sbarre del bagno, di notte, f<strong>in</strong>o a quando non era stato<br />

scoperto. Per questo era stato trasferito nel supercarcere<br />

di Voghera.<br />

In appello, Profeta aveva dichiarato ancora la sua <strong>in</strong>nocenza;<br />

durante un colloquio con lo psichiatra Vittor<strong>in</strong>o<br />

Andreoli, però, aveva deciso di confessare la propria colpevolezza.<br />

Ammetteva di aver ucciso, ma non riusciva a<br />

capacitarsene: era andato contro i propri pr<strong>in</strong>cipi, la propria<br />

moralità. «È come se fossi stato preda del male, di<br />

un’entità che si era imposta e guidava il mio corpo e le<br />

mie azioni... I miei pensieri procedevano senza la mia<br />

partecipazione, come se qualcosa scorresse su di me».<br />

Queste confessioni evidenziavano come avesse compiuto<br />

i delitti <strong>in</strong> una chiara condizione maniacale, sopraffatto<br />

da deliri che avevano preso il sopravvento, facendogli<br />

perdere il contatto con la realtà: non era più padrone di<br />

se stesso.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

Le sentenze di appello e Cassazione, comunque, avevano<br />

confermato l’ergastolo. «Era meglio la pena di morte». Il<br />

16 luglio 2004 stava sostenendo il suo primo esame universitario<br />

nella sala avvocati del carcere. Conosceva bene<br />

l’argomento e sembrava perfettamente a suo agio. All’improvviso,<br />

però, aveva <strong>in</strong>iziato a rantolare e si era accasciato.<br />

Era morto poco dopo. L’ennesimo, ultimo fallimento.<br />

LA MISTERIOSA SCOMPARSA DI LIVIO ZANUSSI<br />

Pordenone è lontana mentre impazza il ’68. A marzo<br />

c’era stata la battaglia di Valle Giulia a Roma, apoteosi del<br />

movimento. Un fermento che faceva ribollire anche il<br />

mondo del lavoro e da lì a poco, anche gli operai sarebbero<br />

stati protagonisti di una propria stagione, ma nel ‘68<br />

erano solo gli studenti a fermentare. Gli operai, <strong>in</strong>vece,<br />

lavoravano. Anche quelli della Rex, gloriosa azienda di<br />

Pordenone che sfornava elettrodomestici della nuova era<br />

del consumo, attirando manodopera da tutto il Veneto e<br />

non solo. A capo c’era Livio Zanussi, 48 anni, efficiente e<br />

d<strong>in</strong>amico. Stava volando <strong>in</strong> Spagna, il 18 giugno di quell’anno<br />

turbolento. L’ultimo giorno della sua vita.<br />

Zanussi volava <strong>in</strong> Spagna per affari. Dalla torre di controllo<br />

dell’aeroporto di Fuenterabbia, tra San Sebastian e<br />

Bilbao, si seguiva con sempre maggiore preoccupazione<br />

quel bireattore executive privato, perché c’era una tempesta<br />

violenta, che aveva obbligato molti voli a cambiare<br />

rotta, a scendere a terra prima possibile. Le luci di quell’executive<br />

sembravano <strong>in</strong>termittenti fra le nubi nere<br />

che avvolgevano l’aereo.<br />

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Inizia la proceduta di atterraggio, ma la manovra non era<br />

perfetta. Meglio risalire. «Va bene, salgo nuovamente a<br />

c<strong>in</strong>quemila piedi e poi scendo». L’ultima frase registrata<br />

dalla torre di controllo. Poi un lampo nel cielo, una fiammata<br />

che aveva abbagliato un contad<strong>in</strong>o. «L’ho vista alle<br />

spalle dell’aeroporto, sotto la vetta del monte Jaizkibel»,<br />

aveva detto con sicurezza e senza tema di smentita. Nessun<br />

superstite: la tragedia aveva falciato le vite dei due<br />

piloti, del direttore generale della Rex, del dirigente della<br />

filiale spagnola, del direttore commerciale e del titolare,<br />

Livio Zanussi.<br />

Come Mattei<br />

La commissione d’<strong>in</strong>chiesta governativa aveva concluso i<br />

suoi lavori giustificando la tragedia con un errore di pilotaggio.<br />

Parlava di errata <strong>in</strong>terpretazione degli strumenti<br />

di bordo, forse di un altimetro regolato male, e aggiungeva<br />

che le condizioni meteorologiche erano proibitive. Eppure,<br />

non tutto quadrava, perché quel pilota era uno dei<br />

migliori piloti collaudatori sulla piazza. Forse non era stato<br />

un <strong>in</strong>cidente, forse era una storia che si ripeteva. Una<br />

storia come quella di Enrico Mattei, caduto anche lui col<br />

suo aereo sei anni prima. Forse anche questa volta qualcuno<br />

aveva voluto che quell’aereo cadesse. Per Mattei<br />

c’erano di mezzo il petrolio, la politica italiana ed estera,<br />

ma chi voleva morto Zanussi E perché<br />

Oggi, le persone che conoscono quei fatti sono quasi tutte<br />

d’accordo: altro che <strong>in</strong>cidente, quell’aereo doveva cadere.<br />

Il primo ad avanzare la tesi <strong>in</strong>quietante era stato<br />

Giorgio R<strong>in</strong>aldi, di professione spia. Spia per i russi: per<br />

questo era r<strong>in</strong>chiuso dall’anno precedente nel carcere di<br />

Alessandria con sua moglie Zar<strong>in</strong>a, spia anche lei.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

«Fateci parlare», avevano detto più volte. «Fateci raccontare<br />

quello che sappiamo. Dobbiamo evitare altre tragedie<br />

come questa. Fateci parlare prima che muoia altra<br />

gente». Cosa avevano da dire i due spioni Cose <strong>in</strong>quietanti.<br />

Affermavano per esempio di aver ricevuto <strong>in</strong> carcere<br />

la visita di un uomo importante: il colonnello Renzo<br />

Rocca, papavero del SIFAR, che aveva voluto sapere tutto<br />

ciò che la coppia conosceva sul conto di alcune persone<br />

segnate su un taccu<strong>in</strong>o. Una lunga lista di nomi.<br />

Fra i nomi segnati sul taccu<strong>in</strong>o del colonnello Rocca,<br />

quello di Giovanni Battista Taolotti, parente della spiona<br />

e dirigente della Rex spagnola, anche lui sull’aereo precipitato.<br />

Era dunque lui che bisognava elim<strong>in</strong>are<br />

Il colonnello Rocca, tuttavia, non avrebbe mai potuto rispondere<br />

a questa domanda, perché era morto suicida una<br />

settimana dopo la tragedia. I coniugi R<strong>in</strong>aldi, però, smentivano<br />

la versione ufficiale dell’<strong>in</strong>cidente costato la vita a<br />

Zanussi. «L’aereo dell’<strong>in</strong>gegner Zanussi aveva compiuto<br />

voli regolarissimi f<strong>in</strong>o al 17 giugno», ribadivano. «Nella<br />

notte fra il 17 e il 18, a Madrid, gli accadde qualcosa che lo<br />

rese <strong>in</strong>efficiente. Il 18, Zanussi e Taolotti dovevano raggiungere<br />

la città di Bilbao con un f<strong>in</strong>anziere spagnolo. Poiché<br />

l’aereo di Zanussi era stranamente impossibilitato a<br />

volare, fu loro offerto <strong>in</strong> prestito un aereo privato che,<br />

guarda caso, era identico a quello di Zanussi. E fu questo<br />

l’aereo che andò a schiantarsi sul monte Jaizkibel».<br />

Versione suggestiva, da “spy story” vera, altro che James<br />

Bond. E Rocca Non poteva trattarsi di suicidio, perché<br />

il colonnello, quando si era “suicidato”, era ufficialmente<br />

fuori dai servizi segreti militari e aveva aperto un ufficio<br />

di consulenze <strong>in</strong>dustriali legato ad alcuni grossi complessi<br />

<strong>in</strong>dustriali del Nord. Nel suo ufficio, setacciato dopo “il<br />

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suicidio”, erano stati r<strong>in</strong>venuti documenti def<strong>in</strong>iti “segretissimi”<br />

e qu<strong>in</strong>di <strong>in</strong>accessibili.<br />

Quelli dello spionaggio<br />

I R<strong>in</strong>aldi <strong>in</strong>sistevano: come si faceva a non pensare a una<br />

relazione diretta fra la morte del colonnello e l’<strong>in</strong>cidente<br />

aereo La storia si faceva più complessa e articolata, una<br />

storia <strong>in</strong> cui Livio Zanussi, noto imprenditore di Pordenone,<br />

era f<strong>in</strong>ito per sbaglio. Sui giornali, il suo nome oscurava<br />

tutto il resto, ma Zanussi era morto perché sul suo<br />

aereo c’era qualcun altro che doveva morire. Era improprio<br />

qu<strong>in</strong>di accostare la sua morte a quella di Mattei, come<br />

aveva fatto qualcuno, l’unico punto di contatto era il<br />

boicottaggio dell’aereo. Su quell’aereo, Zanussi era il personaggio<br />

più <strong>in</strong> vista, ma con lui c’era qualcuno noto negli<br />

ambienti dello spionaggio <strong>in</strong>ternazionale. Ambienti<br />

dove i R<strong>in</strong>aldi erano ben conosciuti: grazie a loro, e agli<br />

agenti da loro <strong>in</strong>gaggiati, ai sovietici pervenivano notizie<br />

importantissime sulla consistenza delle forze del Patto<br />

Atlantico, sui movimenti di truppe, sugli armamenti, sulla<br />

dislocazione e sull’organizzazione delle basi aeree e navali.<br />

Ambienti dove accadevano cose molto particolari.<br />

Il 15 marzo ’67 il corriere Armando Girard era stato fermato<br />

al valico del Mong<strong>in</strong>evro. Nella tasca dei pantaloni<br />

aveva una scatoletta di metallo, sigillata, contenente un<br />

microfilm, e un paio di spezzoni di pellicola c<strong>in</strong>ematografica.<br />

Lo stesso giorno, a Tor<strong>in</strong>o, ufficiali del controspionaggio<br />

avevano arrestato i R<strong>in</strong>aldi: <strong>in</strong> casa della coppia,<br />

avevano trovato una potente radioricevente, apparecchiature<br />

per la lettura di microfilm, messaggi <strong>in</strong> codice,<br />

l’attrezzatura per scrivere con <strong>in</strong>chiostro simpatico, taccu<strong>in</strong>i<br />

con diversi <strong>in</strong>dirizzi, cart<strong>in</strong>e con la localizzazione<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

delle buche <strong>in</strong> cui il materiale doveva essere depositato e<br />

recuperato da agenti sovietici. Esattamente, dal diplomatico<br />

Yuri Pavlenko. Il SIFAR gli aveva teso qu<strong>in</strong>di una trappola<br />

e lo aveva <strong>in</strong>chiodato: il 20 marzo Pavlenko era stato<br />

rispedito <strong>in</strong> Russia, dopo essere stato dichiarato <strong>in</strong>desiderabile<br />

sul suolo italiano. L’arresto di R<strong>in</strong>aldi non aveva<br />

provocato solo questo, ma aveva anche aperto una<br />

grossa falla all’<strong>in</strong>terno del sistema di spionaggio sovietico.<br />

A catena, erano seguiti <strong>in</strong>fatti arresti <strong>in</strong> Grecia, Svizzera,<br />

Francia, Marocco, Algeria, Cipro, Malta, con diplomatici<br />

russi costretti a far le valigie <strong>in</strong> quattro e quattr’otto<br />

e tornare nella casa Russia.<br />

Il doppiogiochista<br />

Da chi aveva ottenuto R<strong>in</strong>aldi i documenti a lui sequestrati<br />

e dest<strong>in</strong>ati all’Unione Sovietica Il suo uomo a Madrid<br />

era Joaquim Madolell, dal quale R<strong>in</strong>aldi e sua moglie<br />

Zar<strong>in</strong>a avevano ricevuto fra le sette e le ottocento fotografie<br />

di documenti spagnoli. Tra questi, anche le riproduzioni<br />

di fogli che recavano programmi di voli NATO effettuati<br />

nel dicembre ’66 fra la base aerea di Torrejón, <strong>in</strong><br />

Spagna, e altre basi del Patto Atlantico, fra le quali due<br />

italiane. I R<strong>in</strong>aldi, però, affermavano di non aver mai<br />

chiesto a Madolell quei documenti, spiegando il loro ritrovamento<br />

da parte del SIFAR col doppio gioco messo <strong>in</strong><br />

atto da Madolell che <strong>in</strong> realtà doveva distruggere la rete<br />

spionistica sovietica <strong>in</strong> Europa meridionale. Aveva qu<strong>in</strong>di<br />

<strong>in</strong>filato quei documenti dest<strong>in</strong>ati ai R<strong>in</strong>aldi proprio<br />

perché fossero trovati. L’<strong>in</strong>esistenza di voli propriamente<br />

NATO <strong>in</strong> Spagna confermavano quella tesi, avvalorata anche<br />

dal fatto che questi documenti non saranno mai esibiti<br />

durante il processo ai R<strong>in</strong>aldi.<br />

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I R<strong>in</strong>aldi avevano deciso di vuotare il sacco dei grandi segreti<br />

da tenere top secret quando si erano sentiti scaricati.<br />

Arrestati, messi <strong>in</strong> isolamento, sottoposti a una sorveglianza<br />

strettissima, con addirittura un assaggiatore di<br />

cibi per timore che fossero elim<strong>in</strong>ati col veleno, i R<strong>in</strong>aldi<br />

parlavano molto più di quel che le carte ufficiali del processo<br />

a loro carico evidenziassero. Interrogati da diversi<br />

colonnelli del SID, sfilati anche al processo, le loro dichiarazioni<br />

erano state puntigliosamente registrate e messe a<br />

verbale. Al processo, però, non era potuto comparire il<br />

colonnello più importante <strong>in</strong> quella storia: il colonnello<br />

Rocca che aveva trascorso un’<strong>in</strong>tera giornata nel carcere<br />

di Tor<strong>in</strong>o faccia a faccia coi due spioni, perché Rocca era<br />

morto suicida. Parlando di Rocca, i R<strong>in</strong>aldi affermavano<br />

che al colonnello non <strong>in</strong>teressavano gli aspetti militari,<br />

ma quelli <strong>in</strong>dustriali, dei quali ormai si occupava nella<br />

sua nuova attività.<br />

Fra le <strong>in</strong>formazioni raccolte da Rocca ce n’era comunque<br />

qualcuna che riguardava ben altro. Nomi che il colonnello<br />

trasmise a chi di dovere. Informazioni che, oltre a provocare<br />

il “suicidio” di Rocca, faranno fare la stessa f<strong>in</strong>e<br />

ad alcuni generali della Germania dell’Ovest: sui giornali<br />

tedeschi si collegò <strong>in</strong>fatti l’arresto dei R<strong>in</strong>aldi con quei<br />

suicidi.<br />

Alla f<strong>in</strong>e di questa storia, la figura di Livio Zanussi diventa<br />

marg<strong>in</strong>ale: una povera vittima. L’unica colpa del signor<br />

“Rex”, il monarca dell’elettrodomestico che dava lavoro a<br />

tutto il Nord Est, era stata quella di aver ospitato a bordo<br />

del suo aereo privato qualcuno che doveva morire.<br />

Anzi, non del suo aereo, ma di uno uguale al suo, manomesso<br />

proprio per farlo cadere.<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

ADRIANO FABIAN. T’AMO, T’UCCIDO<br />

Sono le 8.20 del matt<strong>in</strong>o del primo giorno dell’anno 1995,<br />

quando vic<strong>in</strong>o al bar Moresco di Vicenza, nei pressi di<br />

Campo Marzio, viene trovato il cadavere di una ragazza<br />

riverso nella Seriola, un piccolo corso d’acqua. È il corpo<br />

di Anna Bortoli, vent’anni. L’autopsia evidenzia modiche<br />

quantità di alcool, ma esclude droghe e violenza sessuale:<br />

la ragazza risulta <strong>in</strong>fatti verg<strong>in</strong>e e la morte è sopraggiunta<br />

per asfissia dovuta a strangolamento.<br />

Anna non viveva <strong>in</strong> famiglia, ma <strong>in</strong> una comunità dove<br />

era <strong>in</strong> cura per gravi conflitti familiari. Si cercò qu<strong>in</strong>di di<br />

ricostruire le sue ultime ore di vita r<strong>in</strong>tracciando gli amici<br />

con i quali la ragazza aveva trascorso l’ultimo dell’anno:<br />

Tiziano Sciarelli e Adriano Fabian, il suo ragazzo.<br />

Sciarelli dichiarava di aver lasciato Anna e Adriano pochi<br />

m<strong>in</strong>uti prima delle sette, dopo aver trascorso la notte <strong>in</strong>sieme.<br />

Fabian ammise subito di essere stato lui a uccidere<br />

Anna.<br />

«È successo stamatt<strong>in</strong>a <strong>in</strong>torno alle sette, vic<strong>in</strong>o a Campo<br />

Marzio. Io e Anna avevamo un legame sentimentale<br />

che era <strong>in</strong>iziato nel marzo dello scorso anno e che poi era<br />

andato avanti, anche se <strong>in</strong> maniera poco serena. Tra me<br />

e Anna esistevano tantissime differenze, sia nel modo di<br />

essere che di comportarci. Lei era quella che si dice una<br />

brava ragazza, mentre io sono “uno di strada”. Perciò<br />

erano frequenti le occasioni di litigio e ci eravamo lasciati<br />

anche per qualche tempo, più o meno verso ottobre.<br />

Poi avevamo ricom<strong>in</strong>ciato a frequentarci e avevamo deciso<br />

di trascorrere <strong>in</strong>sieme la notte di Capodanno, <strong>in</strong> compagnia<br />

del nostro comune amico Tiziano, che ha assistito<br />

anche a qualche litigio fra me e Anna. È rimasto con<br />

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noi f<strong>in</strong>o alle sei e mezza, quando se n’è andato lasciandoci<br />

soli…».<br />

La tragedia si consumerà da lì a poco. Ma perché Per<br />

cercare di capire, bisogna prima conoscere Anna e Adriano<br />

e le loro storie.<br />

Storia di Anna<br />

La famiglia Bortoli era composta da sei persone – due<br />

fratelli e due sorelle – ed era economicamente benestante,<br />

ma non serena a causa della forte conflittualità fra i<br />

genitori. Una situazione che aveva portato Anna a sodalizzare<br />

con il padre e a sviluppare contestualmente<br />

un’accentuata avversione nei confronti della madre. Inoltre,<br />

la ragazza soffriva di problemi di scoliosi che la costr<strong>in</strong>gevano<br />

a portare un busto ortopedico.<br />

Per Anna, la vita <strong>in</strong> famiglia era diventata alla f<strong>in</strong>e <strong>in</strong>sostenibile,<br />

portandola ad assumere farmaci e a spostarsi<br />

addirittura <strong>in</strong> una comunità per psicotici gravi. Ad aggravare<br />

la situazione era <strong>in</strong>fatti <strong>in</strong>tervenuto un lutto gravissimo:<br />

la morte della sorella maggiore, alla quale Anna era<br />

legata morbosamente, tanto da vedere <strong>in</strong> lei la figura materna.<br />

Un trauma che l’aveva portata a tentare il suicidio.<br />

Eppure, ai medici del centro di salute mentale, la sua<br />

condizione non era parsa particolarmente grave, per loro,<br />

il vero problema di quella ragazza era la perdita della<br />

sorella, figura per lei fondamentale. Con gli altri componenti<br />

della famiglia, <strong>in</strong>fatti, pur essendo persone a modo,<br />

Anna non riusciva a relazionarsi <strong>in</strong> modo sereno e il disagio<br />

la portava qu<strong>in</strong>di ad allontanarsi da loro.<br />

Le suore Orsol<strong>in</strong>e <strong>in</strong> contrà San Francesco Vecchio furono<br />

il primo approdo esterno alla famiglia. Quello successivo,<br />

nel gennaio del 1994, fu il “Geranio”, una comunità<br />

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ARMI IN PUGNO<br />

terapeutica di piccole dimensioni che ospitava persone<br />

mentalmente disturbate. Lei, però, non aveva problemi<br />

psichici e, come un operatore, si occupava degli altri<br />

ospiti: un’attività che la gratificava talmente da non avere<br />

più bisogno di farmaci.<br />

Nel frattempo aveva anche <strong>in</strong>staurato una relazione con<br />

un ragazzo di quattro anni più grande di lei, Adriano. I<br />

medici avevano constatato che quella relazione era fonte<br />

di ansia per Anna e la situazione si era aggravata<br />

quando Adriano aveva tentato di avere con lei un rapporto<br />

sessuale. Al rifiuto della ragazza, il giovane le aveva<br />

stretto le mani attorno al collo e lei a stento era riuscita<br />

a sottrarsi a un tentativo di soffocamento. La relazione<br />

era qu<strong>in</strong>di term<strong>in</strong>ata e quando Anna, accompagnata<br />

da una volontaria, aveva <strong>in</strong>contrato casualmente per<br />

strada Adriano, era stata quasi costretta a fuggire per<br />

sottrarsi alle <strong>in</strong>sistenze del ragazzo che la pregava di tornare<br />

con lui. Insistenze che si erano manifestate non solo<br />

verbalmente, f<strong>in</strong>o a paventare un nuovo scatto di violenza.<br />

Ormai era chiaro: Adriano era una persona della<br />

quale avere paura.<br />

Storia di Adriano<br />

Nato nel 1971 a Vicenza, Adriano era stato abbandonato<br />

dalla madre <strong>in</strong> un orfanotrofio, l’Istituto San Rocco, che<br />

aveva lasciato quando il tribunale dei m<strong>in</strong>ori lo aveva dato<br />

<strong>in</strong> adozione alla famiglia Fabian.<br />

F<strong>in</strong> dall’asilo, Adriano aveva dimostrato un’<strong>in</strong>capacità a<br />

relazionarsi serenamente con gli altri e, per sfogarsi, distruggeva<br />

oggetti, compresi gli abiti dei genitori adottivi.<br />

Con gli anni, i suoi problemi si erano acuiti e, quando frequentò<br />

il centro di formazione professionale, il quadro<br />

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psicopatologico diventò evidente. Perf<strong>in</strong>o gli scout lo allontanarono<br />

perché creava problemi.<br />

Aveva 17 anni quando, su suggerimento dell’assistente<br />

sociale del Comune, era stato <strong>in</strong>serito nella “Casa buoni<br />

fanciulli”, da dove però si era allontanato dopo neppure<br />

due settimane: un tempo sufficiente per farsi conoscere<br />

dagli altri ospiti come una persona con una doppia personalità.<br />

Una doppia personalità che lui stesso avvertiva:<br />

<strong>in</strong> lui convivevano Jack, una persona forte, capace di farsi<br />

rispettare, un duro; e Adriano, un debole, uno sfigato,<br />

sempre timoroso di essere abbandonato.<br />

Lasciata def<strong>in</strong>itivamente la scuola, Adriano aveva trovato<br />

un’occupazione <strong>in</strong> una cooperativa che curava giard<strong>in</strong>i,<br />

ma poi aveva abbandonato questo lavoro preferendo<br />

un posto di aiutante al cimitero. Intanto, nel 1989 era<br />

morto il padre adottivo e sua madre, appena compiuti i<br />

diciotto anni, lo aveva cacciato di casa. Per <strong>in</strong>teressamento<br />

dei servizi sociali del Comune, era stato assunto<br />

alla Lanerossi e la notte dormiva al dormitorio pubblico,<br />

con l’impegno di entrare <strong>in</strong> una comunità. L’impegno preso,<br />

però, non fu onorato e così aveva perso sia il posto al<br />

dormitorio, sia il lavoro. A questo punto <strong>in</strong>iziava per lui<br />

quella “vita da strada” della quale avrebbe parlato spesso<br />

ad Anna. Senza lavoro e senza un tetto, era diventato<br />

uno sbandato, non di rado dedito all’alcool e all’uso di<br />

stupefacenti. La comunità si era fatta qu<strong>in</strong>di nuovamente<br />

carico del suo caso e gli aveva trovato un appartamento<br />

<strong>in</strong> attesa di un lavoro. Fu <strong>in</strong> quel periodo che conobbe<br />

Anna.<br />

Jack il duro<br />

Con Anna, Adriano si trovava bene. Era tranquillo perché<br />

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sentiva di avere accanto una persona che gli dimostrava<br />

affetto: un nuovo corso di vita coronato da un nuovo lavoro<br />

<strong>in</strong> una fabbrica metalmeccanica. Del ragazzo sbandato<br />

di prima, sembrava non esserci più traccia. Dietro<br />

l’angolo, però, c’era una nuova e drammatica ricaduta: gli<br />

operatori della comunità che ospitava Anna si erano accorti,<br />

<strong>in</strong>fatti, che la ragazza era peggiorata proprio da<br />

quando lo frequentava.<br />

La forzata rottura con Anna lo aveva rigettato <strong>in</strong> un tunnel<br />

fatto di comportamenti illeciti e aggressivi, ai quali si<br />

erano unite violente crisi di panico e ansia che lo avevano<br />

portato per ben tre volte al Pronto soccorso. Era ormai<br />

conv<strong>in</strong>to di non essere degno d’amore, perché l’unica<br />

persona che lo aveva capito, che gli aveva dimostrato<br />

affetto dis<strong>in</strong>teressato, era Anna. Alla f<strong>in</strong>e era riuscito a<br />

riallacciare i rapporti con lei, ma questa volta le cose erano<br />

dest<strong>in</strong>ate a precipitare. Infatti, il loro legame era diventato<br />

sempre più pericoloso per l’equilibrio di entrambi,<br />

con Adriano che perdeva sempre più facilmente il<br />

controllo delle sue azioni, arrivando alla conv<strong>in</strong>zione che<br />

per “salvarsi” doveva dar retta a Jack, il duro, e non ad<br />

Adriano, lo sfigato.<br />

In quel priodo, Adriano occupava una stanza di una casa<br />

diroccata e abbandonata: dormiva su un materasso sul<br />

quale aveva sistemato un sacco a pelo. La sua vita era di<br />

nuovo quella di uno sbandato, di “uno di strada”. Intanto,<br />

il legame con Anna proseguiva fra rotture e riconciliazioni.<br />

Era arrivato l’ultimo dell’anno del 1994 e Adriano e<br />

i suoi amici discutevano su come trascorrerlo: fra gli amici<br />

c’era Tiziano, verso il quale Adriano nutriva sentimenti<br />

ambivalenti. Pur considerandolo l’amico più vic<strong>in</strong>o, sospettava<br />

<strong>in</strong>fatti che avesse avuto una relazione con Anna<br />

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<strong>in</strong> uno dei loro periodi di rottura. Un tradimento doppio:<br />

di Anna, la sua ragazza, e di Tiziano, il suo miglior amico.<br />

Fra l’altro, Anna gli aveva detto che proprio la notte di<br />

quell’ultimo dell’anno gli avrebbe comunicato la sua decisione:<br />

se cioè stare ancora con lui o lasciarlo def<strong>in</strong>itivamente.<br />

Perduta anche lei, Adriano non avrebbe avuto più nulla.<br />

Un pensiero che lo aveva tormentato per tutta quella sera<br />

e la notte. Notte che alla f<strong>in</strong>e erano rimasti <strong>in</strong> tre a trascorrere:<br />

Adriano, Anna e Tiziano. Poi, erano andati a<br />

una festa, dove però che non c’era nessuno, così si erano<br />

spostati fra pizzerie e bar f<strong>in</strong>ché era arrivata la mezzanotte.<br />

Era Capodanno e Anna aveva baciato entrambi. Sicuramente<br />

il bacio di Anna a Tiziano era solo un bacio augurale<br />

e senza malizia, ma <strong>in</strong> Adriano com<strong>in</strong>ciarono a<br />

prendere corpo i fantasmi del tradimento. Fra i due ragazzi<br />

nacque un diverbio, term<strong>in</strong>ato solo quando Tiziano<br />

decise di uscire dal locale <strong>in</strong> cui si trovavano. Rimasti soli,<br />

Adriano com<strong>in</strong>ciò a tormentare Anna, chiedendole del<br />

suo legame con Tiziano. A quel punto la ragazza, non potendone<br />

più, era uscita, <strong>in</strong>seguita da Adriano che non poteva<br />

perderla. Per lui sarebbe stata la f<strong>in</strong>e.<br />

La panch<strong>in</strong>a<br />

Erano nuovamente tutti e tre <strong>in</strong>sieme, fuori, all’aperto.<br />

Anna cercava di riportare la pace fra i due amici, ma<br />

Adriano la offendeva pesantemente, tanto che la ragazza<br />

si allontanava lasciandoli soli. Quando i due si erano accorti<br />

che non c’era più traccia di lei, avevano com<strong>in</strong>ciato<br />

a cercarla ognuno per conto proprio. Adriano aveva vagato<br />

f<strong>in</strong>o all’alba. L’aveva <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e trovata alle sei e mezza,<br />

ma era abbracciata a Tiziano.<br />

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La mente di Adriano si era affollata di pensieri che ben<br />

presto non erano più i suoi, di uno sfigato, ma di Jack, il<br />

duro. E da duro aveva reagito: non s’era mosso, era rimasto<br />

lì e si era acceso una sigaretta, li guardava. Alla f<strong>in</strong>e<br />

erano stati loro ad accorgersi della sua presenza e lo avevano<br />

raggiunto. Anna, f<strong>in</strong>almente, aveva “sciolto la riserva”<br />

sul loro amore: non sarebbero stati più <strong>in</strong>sieme,<br />

ognuno per la propria strada, la propria vita. Adriano<br />

aveva abbassato la testa, senza reagire, ma <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e l’aveva<br />

rialzata, guardando l’amico, e gli aveva detto che voleva<br />

restare, un’ultima volta, solo con Anna. Tiziano lo aveva<br />

accontentato ed era andato a casa.<br />

Rimasti soli, Anna e Adriano avevano camm<strong>in</strong>ato muti dirigendosi<br />

verso la stazione, f<strong>in</strong>ché erano arrivati a Campo<br />

Marzio, dove c’era quella panch<strong>in</strong>a sulla quale era nato<br />

il loro amore. Ed era lì che sarebbe morto.<br />

POLIZIOTTI A VERONA<br />

Se si proviene dalle sponde del lago di Garda e non si passa<br />

per l’autostrada, l’entrata a Verona è accompagnata da<br />

file di prostitute lungo i due lati della strada. Una via “storica”,<br />

decennale, che nel corso degli anni ha visto diversi<br />

“cambi di guardia” nel sesso mercenario. Dalle prostitute<br />

“nostrane” di un tempo (italiane di 20, 30 f<strong>in</strong>o a 50 anni)<br />

si è progressivamente passati alle baby-lucciole m<strong>in</strong>orenni<br />

per assestarsi <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e sulle straniere: prima <strong>in</strong> maggioranza<br />

nordafricane, poi albanesi e dei Paesi dell’Est.<br />

Anche Galyna Shafranek veniva dall’Est, esattamente<br />

dall’Ucra<strong>in</strong>a e, neanche a dirlo, era clandest<strong>in</strong>a. Arrivata<br />

<strong>in</strong> Italia grazie alle solite promesse ammalianti, era f<strong>in</strong>ita<br />

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a fare la cosiddetta “vita”, vendendo ogni giorno il suo<br />

corpo su quella strada impropriamente chiamata “dell’amore”.<br />

Era lì anche la notte del 21 febbraio 2005, l’ultima<br />

della sua vita. Quella notte, <strong>in</strong>fatti, tre colpi di pistola<br />

all’addome fermarono i suoi 29 anni.<br />

Non fu un regolamento di conti fra bande crim<strong>in</strong>ali per il<br />

controllo del territorio, ma una strage, perché sull’asfalto,<br />

alla f<strong>in</strong>e, si contarono quattro corpi e l’autore della<br />

mattanza era un serial killer, non un semplice omicida.<br />

Un massacro<br />

Sono le due di notte e due agenti di polizia sono <strong>in</strong> servizio<br />

di pattuglia lungo la statale “bresciana”. Vedono qualcosa<br />

accanto a una Panda ferma sul piazzale di una concessionaria<br />

di autocaravan e la affiancano immediatamente,<br />

illum<strong>in</strong>andola con il faro della volante. Riverso per terra,<br />

c’è il corpo di una donna. Non fanno <strong>in</strong> tempo a scendere<br />

dalla loro auto che vengono presi di mira da diversi<br />

colpi di pistola. Seppur feriti, i due poliziotti rispondono al<br />

fuoco, riuscendo ad abbattere il loro aggressore.<br />

Alla f<strong>in</strong>e, sul selciato restano trenta bossoli, sedici dei<br />

quali esplosi dall’aggressore: tre contro la donna e tredici<br />

contro i poliziotti. In f<strong>in</strong> di vita, i due agenti riescono a<br />

lanciare un disperato SOS con la radiomobile, ma, trasportati<br />

<strong>in</strong> ospedale, moriranno entrambi poco dopo. I loro<br />

nomi, Davide Turazza, di 36 anni, e Giuseppe Cimarrusti,<br />

di 26, andranno ad allungare la già troppo lunga lista degli<br />

agenti caduti <strong>in</strong> servizio. Fra l’altro, la famiglia Turrazza<br />

aveva già pianto Massimiliano, un altro figlio poliziotto,<br />

morto <strong>in</strong> un’altra sparatoria, sempre nel veronese, a<br />

Fumane. Come per quel figlio, anche questa volta i genitori<br />

di Davide autorizzeranno l’espianto degli organi. An-<br />

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che Galyna muore <strong>in</strong> ospedale, mentre l’assass<strong>in</strong>o viene<br />

trasportato direttamente nella camera mortuaria perché<br />

senza vita già all’arrivo dei soccorritori.<br />

Perché questo massacro e chi l’ha provocato<br />

Il responsabile della “strage di Verona”, come tutti i giornali<br />

la def<strong>in</strong>iranno, si chiamava Andrea Arrigoni, aveva<br />

36 anni ed era il titolare dell’agenzia di <strong>in</strong>vestigazioni private<br />

Mercuri con sede a Bergamo. Ma perché aveva ucciso<br />

la prostituta ucra<strong>in</strong>a E perché aveva <strong>in</strong>gaggiato un<br />

conflitto a fuoco con i due agenti Cosa c’è dietro azioni<br />

che paiono frutto della follia<br />

Per rispondere a questi <strong>in</strong>terrogativi, gli <strong>in</strong>vestigatori<br />

partono dalla vita dell’Arrigoni e scoprono che, pur possedendo<br />

regolare permesso di porto d’armi, era stato denunciato<br />

per aggressione alla sua ex-ragazza e al nuovo<br />

fidanzato di lei. Esclusa ogni ipotesi di rap<strong>in</strong>a f<strong>in</strong>ita male,<br />

si accerta che la prostituta era stata colpita all’<strong>in</strong>terno<br />

della vettura, come dimostrano le tracce di sangue che<br />

sporcavano la tappezzeria e i tre bossoli r<strong>in</strong>venuti sul pavimento<br />

della Panda, dove si trovavano anche gli abiti e<br />

gli stivali della donna.<br />

Il quarto uomo<br />

Dall’<strong>in</strong>chiesta filtra però un’<strong>in</strong>discrezione <strong>in</strong>quietante: i<br />

proiettili che hanno ucciso i due poliziotti, recuperati con<br />

l’autopsia, pur essendo dello stesso calibro, potrebbero<br />

essere di tipo diverso. Se ciò fosse confermato, si aprirebbero<br />

nuovi scenari nella ricostruzione del conflitto a<br />

fuoco: scenari che implicherebbero la presenza di un’altra<br />

pistola e un altro uomo.<br />

A questo punto, l’unico dato certo è quello di un violentissimo<br />

scontro a fuoco a una distanza di c<strong>in</strong>que, sei me-<br />

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tri al massimo. Insomma, se è vero – come afferma il procuratore<br />

della Repubblica Guido Papalia – che gli esiti<br />

delle autopsie eseguite sui corpi degli agenti e dell’Arrigoni<br />

confermano, <strong>in</strong> l<strong>in</strong>ea di massima, la prima ricostruzione<br />

della sparatoria, è altrettanto vero che bisogna accertare<br />

la presenza o meno di un’altra arma e, qu<strong>in</strong>di, di<br />

un altro omicida. Se così fosse, lo scenario della strage<br />

cambierebbe clamorosamente, come sostiene l’avvocato<br />

della famiglia Arrigoni.<br />

«Non è affatto confermato che la d<strong>in</strong>amica del conflitto a<br />

fuoco sia quella ricostruita f<strong>in</strong>ora. Oltre al particolare dei<br />

proiettili, resta soprattutto l’<strong>in</strong>cognita su chi ha ucciso la<br />

prostituta. Ritengo, sulla base di quanto ho appreso dai<br />

medici che hanno effettuato le perizie sui corpi delle vittime,<br />

che l’ipotesi della presenza di un quarto uomo non<br />

sia da escludere».<br />

Se i dubbi, <strong>in</strong>vece di scemare, aumentano, una cosa sembra<br />

<strong>in</strong>vece sicura: quando gli agenti si sono fermati davanti<br />

alla Panda 4x4 di Arrigoni, Galyna Shafranek era<br />

già gravemente ferita. La donna, con tutta probabilità,<br />

giaceva a terra tra rivoli di sangue e grida di dolore e sarebbe<br />

stata questa la circostanza che avrebbe sp<strong>in</strong>to i poliziotti<br />

a illum<strong>in</strong>are con il faro della volante lo spiazzo della<br />

concessionaria Bonometti Centro Caravan.<br />

Intanto da Bergamo emergono altri racconti sulla vita e la<br />

professione di Andrea Arrigoni. Testimonianze diverse e <strong>in</strong><br />

alcuni casi divergenti sulla sua personalità, ma tutte concordi<br />

nel sottol<strong>in</strong>eare le sue due grandi passioni: la politica<br />

e le <strong>in</strong>vestigazioni. Due colleghi, con i quali Arrigoni<br />

aveva spesso lavorato, raccontano che quasi certamente<br />

l’ex-paracadutista di Osio di Sotto quella notte fosse “<strong>in</strong><br />

servizio” a Verona. Due particolari soprattutto li rendono<br />

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perplessi: la Panda (un’auto che a loro dire non aveva mai<br />

utilizzato per gli spostamenti di lavoro) e la mancanza del<br />

telefon<strong>in</strong>o (ritrovato poi a casa spento, a significare la volontà<br />

di non farsi r<strong>in</strong>tracciare). Elementi che fanno pensare<br />

a una missione delicata, molto delicata.<br />

La svolta<br />

La svolta arriva improvvisa, come un fulm<strong>in</strong>e a ciel sereno,<br />

quando si accerta che Andrea Arrigoni aveva già ucciso.<br />

Aveva sparato a un’altra prostituta: Giugni Fatmira,<br />

un’albanese di 26 anni scomparsa il 16 novembre precedente<br />

<strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Bergamo e il cui cadavere era stato<br />

r<strong>in</strong>venuto nel comune di Osio di Sopra il 19 dicembre.<br />

Particolare raccapricciante, il corpo era privo di mani e<br />

testa, r<strong>in</strong>venuti due giorni dopo nel fiume Grembo, cioè<br />

a poca distanza dalla stessa abitazione di Arrigoni, che viveva<br />

proprio a Osio di Sotto.<br />

Come era stato possibile collegare questo omicidio alla<br />

“strage di Verona” A tale conclusione erano giunti gli<br />

esperti della polizia scientifica che, analizzando un frammento<br />

di proiettile estratto dalla testa della prostituta albanese,<br />

avevano accertato che il colpo era stato esploso<br />

dalla Beretta 6,35 sequestrata dalla squadra mobile di<br />

Verona nell’abitazione dell’Arrigoni subito dopo i fatti del<br />

21 febbraio. La “strage di Verona” non è qu<strong>in</strong>di un s<strong>in</strong>golo<br />

episodio, ma il tragico epilogo di una scia di sangue<br />

tracciata da Arrigoni con altri delitti. Se <strong>in</strong>fatti si ha la<br />

certezza che l’omicida della prostituta albanese era Arrigoni,<br />

gli <strong>in</strong>quirenti avanzano fondati sospetti sulle responsabilità<br />

dell’<strong>in</strong>vestigatore privato bergamasco anche<br />

per la f<strong>in</strong>e di altre prostitute scomparse e mai più ritrovate.<br />

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www.stragetreno904.it<br />

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www.bibliotecamarxista.org<br />

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www.carmillaonl<strong>in</strong>e.com<br />

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www.isole.ecn.org/lucarossi<br />

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207


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 208<br />

INDICE DEI NOMI<br />

Abbate, Antonio, 85<br />

Abel, Wolfgang, 113, 114, 116, 117,<br />

156<br />

Adlassnig, Roswita, 147<br />

Affatigato, Marco, 75<br />

Agamben, Giorgio, 29<br />

Agnoletto, Donato, 123<br />

Aiello, Claudia, 95<br />

Alasia, Walter, 9, 10, 11<br />

Albiero, Tiziano, 141, 142<br />

Aldighieri, Alfredo, 142, 143<br />

Alemanno, Antonio, 85<br />

Alessandr<strong>in</strong>i, Emilio, 54, 55, 56, 62<br />

Alibrandi, Alessandro, 106<br />

Alibrandi, Antonio, 106, 108<br />

Alliata di Montereale, Giovanni Francesco,<br />

81<br />

Altobelli, Alessandro, 42<br />

Amato, Mario, 105, 106, 107, 108,<br />

109, 110, 111<br />

Amato, Sergio, 110<br />

Andreatta, Piero, 65<br />

Andreoli, Ottavio, 121<br />

Andreoli, Vittor<strong>in</strong>o, 138, 173<br />

Andreotti, Giulio, 63, 194<br />

Aniasi, Aldo, 74<br />

Arrigoni, Andrea, 188, 189, 190<br />

Ashby, Richard, 126, 129, 130<br />

Astoul, Michel, 160<br />

Azzi, Nico, 77<br />

Balestr<strong>in</strong>i, Giancarlo, 25, 27, 192<br />

Balzerani, Barbara, 10, 46, 192<br />

Banelli, C<strong>in</strong>zia, 12<br />

Barbatella, Giuliano, 148<br />

Barizza, Gianni, 121<br />

Battagl<strong>in</strong>i, Ernesto, 99, 192<br />

Battisti, Cesare, 22, 23, 24, 192, 198<br />

Bell<strong>in</strong>i, Paolo, 95<br />

Benvegnù, Paolo, 25<br />

Beretta, Alice, 115<br />

Bergamelli, Albert, 103<br />

Berger, Denis, 29<br />

Berlusconi, Silvio, 8, 194<br />

Berna, Maria Antonietta, 21, 28<br />

Bernareggi, Aldo, 73, 74<br />

Bert<strong>in</strong>, Zeno, 120<br />

Bertoli, Gianfranco, 73, 75, 76, 77,<br />

78, 79, 80<br />

Bertolozzi, Felicia, 74<br />

Betassa, Lorenzo, 40<br />

Biagi, Marco, 8, 10<br />

Biancamano, Loredana, 50<br />

Bianch<strong>in</strong>i, Guido, 25<br />

Bigonzetti, Franco, 107<br />

Bisaglia, Antonio (Toni), 162, 164,<br />

165, 167, 168<br />

Bisaglia, Mario, 167<br />

Bison, Armando, 112<br />

Boccaccio, Ivano, 69, 71<br />

Boeto, Gianni, 25<br />

Boffelli, Giorgio, 79, 80<br />

Bollati di Sa<strong>in</strong>t Pierre, Romilda, 162<br />

Bonazzi, Edgardo, 96<br />

Borghese, Junio Valerio, 83, 84, 98<br />

Bortolato, Davide, 51<br />

Bortoli, Anna, 180, 181<br />

Bortoli, Lorenzo, 21<br />

Bortolon, Gabriella, 74<br />

Boscolo, Walter, 171, 172<br />

Bozzi, V<strong>in</strong>cenzo, 172<br />

Brambilla, Michele, 166, 194<br />

Brega, Eugenio, 127<br />

Buffi, Nicola, 89<br />

208


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 209<br />

Bulgari, Gianni, 102<br />

Burano, Damiano, 135<br />

Buzzi, Ermanno, 91, 105<br />

Caccia, Giuditta, 19<br />

Cacciari, Massimo, 91<br />

Calabresi, Luigi, 68, 73, 74<br />

Calogero, Pietro, 25, 26, 60, 62<br />

Calore, Sergio, 96, 108<br />

Calvi, Roberto, 165<br />

Campagna, Andrea, 23<br />

Campanile, Alceste, 92, 93, 95, 96<br />

Campanile, Vittorio, 93<br />

Carbogn<strong>in</strong>, Giorgio, 133, 134, 135,<br />

136, 138<br />

Carraro, Leonardo, 171<br />

Carraro, Stefano, 123<br />

Caselli, Giancarlo, 58, 197<br />

Cavallaro, Roberto, 75, 82, 83<br />

Cavallero, Pietro, 151<br />

Cavall<strong>in</strong>, Gianfranco, 3<br />

Cavall<strong>in</strong>a, Arrigo, 22<br />

Cavall<strong>in</strong>i, Gilberto, 111<br />

Cavazza, Paolo, 135, 136, 138<br />

Celli, Elena, 89<br />

Ceravolo, Giovanni, 90<br />

Ciavatta, Francesco, 107<br />

Ciliberti, Giuseppe, 76<br />

Cimarrusti, Giuseppe, 187<br />

Ciotti, Luigi, 49<br />

Cirillo, Ciro, 32<br />

Ciucci, Giovanni, 45, 46<br />

Clavo, Mar<strong>in</strong>o, 14<br />

Cl<strong>in</strong>ton, Bill, 127, 131<br />

Coiro, Michele, 99<br />

Colombo, Vittor<strong>in</strong>o, 55<br />

Concutelli, Pierluigi, 91, 101, 102,<br />

103, 104, 105, 111<br />

Corleo, Luigi, 105<br />

Cors<strong>in</strong>i, Roberto, 127, 196<br />

Cortelessa, Ippolito, 50<br />

Cossiga, Francesco, 55, 56, 57, 58,<br />

72, 164<br />

Costa, Claudio, 115<br />

Cuzzoli, Pietro, 50<br />

Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 40, 47,<br />

56, 58, 197, 202<br />

Dalmaviva, Mario, 25, 27,<br />

Dal Santo, Angelo, 28<br />

D’Ambrosio, Gerardo, 62<br />

Danesi Alfredo, 102<br />

D’Antona, Massimo, 8, 10<br />

De Claris, Guido, 76<br />

Delle Chiaie, Stefano, 63, 102, 105<br />

Del Re, Alisa, 25<br />

Del Santo, Angelo, 21<br />

De Matteo, Giovanni, 108<br />

De Mita, Ciriaco, 10<br />

De Pieri, Franco, 34<br />

Derrida, Jacques, 29<br />

Despali, Pietro, 25<br />

Diana, Calogero, 9<br />

Di Cataldo, Francesco, 9<br />

Di Cecco, Giuseppe, 123<br />

Digilio, Carlo, 65, 66, 75, 78, 79<br />

Di Leonardo, Cesare, 46<br />

Di Rocco, Carmela, 25<br />

Di Rocco, Ennio, 45<br />

Donat Catt<strong>in</strong>, Carlo, 53, 55, 56, 57,<br />

58<br />

Donat Catt<strong>in</strong>, Marco, 53, 54, 55, 56,<br />

58, 205<br />

Donat Catt<strong>in</strong>, Maria Pia, 58<br />

Donat<strong>in</strong>i, Elena, 89<br />

Dongiovanni, Franco, 67<br />

Dozier, James Lee, 38, 39, 40, 41, 42,<br />

44, 45, 46, 47<br />

Dragone, Stefano, 153, 155<br />

Dura, Riccardo, 40<br />

D’Urso, Giovanni, 31, 32<br />

Duschosal, Claudie, 160<br />

Esposti, Giancarlo, 87, 88<br />

Evangelista, Franco, 109<br />

Evola, Julius, 100<br />

209


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 210<br />

ARMI IN PUGNO<br />

Fabian, Adriano, 180, 182<br />

Fach<strong>in</strong>i, Massimiliano, 60, 63<br />

Fais, Aldo, 26, 27<br />

Falco, Leonardo, 90<br />

Fatmira, Giugni, 190<br />

Fenzi, Enrico, 9, 33, 198<br />

Ferrari Roberto, 25<br />

Ferrari Bravo, Luciano, 25, 27<br />

Ferraro, Antonio, 67<br />

Ferro, Gianfranco, 104<br />

Fianch<strong>in</strong>i, Aurelio, 90<br />

Fiasconaro, Luigi Rocco, 62<br />

Fioravanti, Cristiano, 106<br />

Fioravanti, Valerio, 107, 109, 110,<br />

111<br />

Franci, Luciano, 90<br />

Francia, Salvatore, 101<br />

Franco, Domenico, 156<br />

Frascella, Emanuela, 45<br />

Frascella, Mario, 42<br />

Freda, Franco, 60, 62, 63<br />

Fukada, Tsugufumi, 89<br />

Fumagalli, Carlo, 83<br />

Furlan, Andre<strong>in</strong>a, 52<br />

Furlan, Angelo, 48<br />

Furlan, Marco, 113, 114, 116, 117,<br />

118, 156<br />

Galesi, Mario, 11<br />

Galimberti, Ivo, 25<br />

Gallucci, Achille, 26<br />

Galvaligi, Enrico, 32<br />

Garosi, Raffaella, 89<br />

Gelli, Licio, 96, 98, 102, 103<br />

Gemmati, Antonella, 172<br />

Genova, Salvatore, 43, 44, 45<br />

Germano, Antonio, 104<br />

Ghirardi, Bruno, 9, 51<br />

Giralucci, Graziano, 13, 16, 17, 19<br />

Girard, Armando, 177<br />

Goldoni, Carlo, 30<br />

Gori, Sergio, 33<br />

Gradari, Piergiorgio, 64<br />

Granzotto, Antonio, 20<br />

Graziani, Alberto, 21, 28<br />

Graziani, Clemente, 100, 101<br />

Grillo, Manlio, 14<br />

Gucc<strong>in</strong>i, Francesco, 91<br />

Hanema, Wìlbelmus Jacobus, 89<br />

Ich<strong>in</strong>o, Piero, 8<br />

Isman, Fabio, 55<br />

Izzo, Angelo, 96<br />

Juliano, Pasquale, 60, 61<br />

Kotr<strong>in</strong>er, Herbert, 89<br />

La Barbera, Arnaldo, 153, 154<br />

La Bruna, Antonio, 63<br />

La Malfa, Domenico, 67<br />

Lat<strong>in</strong>o, Claudio, 9, 51<br />

Libera, Emilia, 45, 46<br />

Lioce, Nadia Desdemona, 8, 10, 11, 12<br />

Lissandron, Pierpaolo, 170, 171, 172<br />

Loi, Duilio, 77<br />

Loi, Vittorio, 77<br />

Lollo, Achille, 14<br />

Lombardi, Antonio, 27, 78<br />

Lorenzon, Guido, 59, 60<br />

Lovato, Giuseppe, 113<br />

Luddi, Margherita, 90<br />

Ludmann, Anna Maria, 40<br />

Ludwig, Otto, 112, 113, 114, 115,<br />

116, 117, 118, 156<br />

Madolell, Joaquim, 178<br />

Maggi, Carlo Maria, 65, 66, 75, 79,<br />

80<br />

Malentacchi, Piero, 90<br />

Maletti, Gian Adelio, 63, 79, 80, 84,<br />

85<br />

Mambro, Francesca, 107, 111<br />

Maniero, Felice, 119, 120, 121, 123,<br />

124<br />

210


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 211<br />

Marches<strong>in</strong>, Giancarlo, 61<br />

Marchetto, Franca, 53<br />

Mariano, Luigi, 101<br />

Mar<strong>in</strong>o, Antonio, 77<br />

Marongiu, Giambattista, 25, 27<br />

Mart<strong>in</strong>ese, Luigi, 101<br />

Mart<strong>in</strong>otti, Luca, 115<br />

Masala, Sebastiano, 22<br />

Masar<strong>in</strong>, Federico, 73, 74<br />

Maso, Pietro, 30, 132, 135, 138, 139<br />

Massagrande, Elio, 100, 101<br />

Massaro, Raffaele, 166, 167<br />

Massimi, Marco Mario, 108, 109<br />

Mattei, Enrico, 175, 177<br />

Mazzola, Giuseppe, 13, 16, 17, 18, 19<br />

Mazzola, Graziano, 50<br />

Mazzola, Piero, 19<br />

Mazzi, Antonio, 53<br />

Medaglia, Antidio, 89<br />

Memeo, Giuseppe, 22<br />

Merl<strong>in</strong>o, Mario, 63<br />

Meroni, Federica, 50<br />

Miceli, Vito, 84, 85<br />

Miola, Noemi, 148, 149<br />

M<strong>in</strong>garelli, D<strong>in</strong>o, 68, 71<br />

M<strong>in</strong>ghelli, Gian Antonio, 103<br />

Montorsi, Roberto, 96<br />

Morelli, Maurizio, 77, 202<br />

Moretti, Mario, 9, 15, 28, 32, 33, 202<br />

Mori, Luca, 124<br />

Moro, Aldo, 9, 13, 25, 28, 31, 40, 46,<br />

97, 98, 165, 198, 202<br />

Moro, Eleonora, 26, 28<br />

Moro, Maria Fida, 98<br />

Motagner, Piercarlo, 65<br />

Mundo, Anton<strong>in</strong>o, 22<br />

Murano, Alberto, 61<br />

Musger, Gabrielle, 145, 151<br />

Mutti, Claudio, 109<br />

Neami, Francesco, 78, 79, 80<br />

Negri, Antonio (Toni), 25, 26, 27, 28,<br />

29, 192, 193<br />

Nicotri, Giuseppe, 25, 27<br />

Nigro, Arturo, 23<br />

Niutta, Ugo, 165<br />

Occorsio, Vittorio, 98, 99, 100, 101,<br />

102, 103, 104, 111<br />

Ognibene, Roberto, 16, 17, 18<br />

Opocher, Enrico, 59<br />

Orlando, Ruggero, 87<br />

Ortolani, Umberto, 102<br />

Pace, Nicola Maria, 161<br />

Pallad<strong>in</strong>o, Carm<strong>in</strong>e, 105<br />

Palumbo, Giovanni Battista, 68<br />

Pan, Ruggero, 61<br />

Panciarelli, Piero, 40<br />

Panc<strong>in</strong>o, Gianfranco, 25<br />

Pannella, Marco, 27, 28<br />

Panz<strong>in</strong>o, Giuseppe, 75<br />

Papalia, Guido, 189<br />

Pappalardo, Antonio, 104<br />

Patrese, Giancarlo, 60, 61<br />

Pavlenko, Yuri, 178<br />

Pavlovic, Biljana, 146<br />

Peci, Patrizio, 32, 54, 55, 56, 57,<br />

202, 203<br />

Peci, Roberto, 32<br />

Pelli, Fabrizio, 16, 17<br />

Pert<strong>in</strong>i, Sandro, 27, 47, 171<br />

Peruffo, Pietro, 139, 140, 141, 142,<br />

143<br />

Petrella, Stefano, 45<br />

Pezzato, Nicolò, 60<br />

Piaggio, Andrea Maria, 84<br />

Piccoli, Flam<strong>in</strong>io, 56<br />

Pigato, Gabriele, 113<br />

P<strong>in</strong>elli, P<strong>in</strong>o, 59, 68, 78, 205<br />

Piperno, Franco, 2, 14, 25, 27, 203<br />

Pisetta, Marco, 68<br />

Porta Casucci, Giancarlo, 81<br />

Poveromo, Donato, 67<br />

Pozzan, Marco, 60, 62, 63<br />

Premoli, Mar<strong>in</strong>a, 50<br />

211


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 212<br />

ARMI IN PUGNO<br />

Profeta, Giovanni, 168, 172<br />

Profeta, Maurizio, 171, 172, 173<br />

Profeta, Michele, 172<br />

Pulejo, Claudia, 146, 147, 151<br />

Quagli, Alberto, 52<br />

Raney, William, 126<br />

Rauti, P<strong>in</strong>o, 62, 100<br />

Reagan, Ronald, 41, 45<br />

Recchioni, Stefano, 107<br />

R<strong>in</strong>aldi, Giorgio, 175, 176, 177, 178,<br />

179<br />

Rizzato, Eugenio, 81<br />

Rocca, Renzo, 176, 179<br />

Rognoni, Giancarlo, 65, 66<br />

Rognoni, Virg<strong>in</strong>io, 56, 204<br />

Romagnoli, Sandro, 79<br />

Ronconi, Susanna, 16, 17, 18, 50<br />

Rossanigo, Giorgio, 23<br />

Ross<strong>in</strong>, Valent<strong>in</strong>o, 8, 51<br />

Rossi, Walter, 106, 191<br />

Ruffilli, Roberto, 10<br />

Rumor, Mariano, 63, 73, 74, 75, 76,<br />

78<br />

Russo, Nunzio, 89<br />

Russomanno, Silvano, 55<br />

Ruzante, 30<br />

Sabbad<strong>in</strong>, L<strong>in</strong>o, 23<br />

Salvo, N<strong>in</strong>o, 105<br />

Sandalo, Roberto, 55, 57<br />

Sandrucci, Romeo, 32<br />

Santoro, Antonio, 23<br />

Santoro, Michele, 68<br />

Savasta, Antonio, 35, 39, 40, 45, 46<br />

Scalzone, Oreste, 25, 27, 203, 204<br />

Schweitzer, Joseph, 126, 129, 130<br />

Sciarelli, Tiziano, 180<br />

Scolari, Ennio, 94<br />

Scopelliti, Paolo, 76<br />

Seagraves, Chandler, 126<br />

Segio, Sergio, 48, 49, 50, 205<br />

Semerari, Aldo, 109<br />

Senzani, Giovanni, 10, 32, 46<br />

Semeria, Giorgio, 16, 17, 18<br />

Seraf<strong>in</strong>i, Mart<strong>in</strong>o, 16, 17, 18<br />

Seraf<strong>in</strong>i, Sandro, 25<br />

Shafranek, Galyna, 186, 189<br />

Siciliano, Mart<strong>in</strong>o, 64, 65, 66<br />

Signorelli, Paolo, 108, 109<br />

Simonetto, Giampiero, 8<br />

Sirotti, Silver, 89<br />

Sofri, Adriano, 68, 195, 205<br />

Sossi, Mario, 13, 14<br />

Spiazzi, Amos, 79, 80, 82, 84, 85<br />

Sp<strong>in</strong>elli, Guerr<strong>in</strong>o, 115<br />

Stagno, Tito, 87<br />

Steccanella, Alberto, 59, 60<br />

Stefano, Luciano, 215<br />

Stevan<strong>in</strong>, Gianfranco, 145, 146, 147,<br />

148, 149, 150, 151<br />

Stevan<strong>in</strong>, Giuseppe, 149<br />

Stiz, Giancarlo, 62<br />

Strizzolo, Luigi, 22<br />

Sturaro, Marzio, 25<br />

Succo, Nazario, 152,<br />

Succo, Roberto, 153, 154, 155, 156,<br />

157, 158, 159, 160, 161, 162<br />

Taliercio, Bianca, 30, 34, 37<br />

Taliercio, Elda, 30, 34, 37<br />

Taliercio, Gabriella, 35, 36<br />

Taliercio, Giuseppe (P<strong>in</strong>o), 31, 33, 34,<br />

35, 36, 38, 42, 46<br />

Tambur<strong>in</strong>o, Giovanni, 81, 82, 83, 84,<br />

85<br />

Tanassi, Mario, 63<br />

Taolotti, Giovanni Battista, 176<br />

Tartarotti, Cor<strong>in</strong>na, 116<br />

Taviani, Paolo Emilio, 75, 99<br />

Togliatti, Palmiro, 81<br />

Tommasoni, Franco, 60<br />

Tonello, Andrea, 8, 9<br />

Torregiani, Luigi, 23<br />

Toschi, Massimiliano, 51<br />

212


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 213<br />

Tramonti, Massimo, 25<br />

Tr<strong>in</strong>gali, Stefano, 65, 66<br />

Turazza, Davide, 187<br />

Tuti, Mario, 90, 91, 92, 104<br />

Vaccari, Alessandra, 148<br />

Vallar<strong>in</strong>, Lucia, 140, 141<br />

Vallanzasca, Renato, 151<br />

Valpreda, Pietro, 63, 66, 192<br />

Vanzo, Marcello, 126<br />

Vecchi, Valent<strong>in</strong>o, 35<br />

Ventura, Giovanni, 59, 60, 61, 62, 63<br />

Vesce, Emilio, 25<br />

Vettorato, Bruna, 19<br />

Vigna, Pier Luigi, 104<br />

Vimercati, Daniele, 166<br />

V<strong>in</strong>cent, Jean-Marie, 29<br />

V<strong>in</strong>ciguerra, V<strong>in</strong>cenzo, 64, 69, 70, 71,<br />

73, 75, 76, 96, 206<br />

Violante, Luciano, 91<br />

Viscardi, Michele, 50<br />

Vitalone, Claudio, 103<br />

Viviani, Bruno, 127<br />

Vol<strong>in</strong>ia, Ruggero, 42, 43, 45<br />

Vu D<strong>in</strong>h, France, 159<br />

Zaccagn<strong>in</strong>i, Benigno, 28<br />

Zagato, Lauro, 25, 27<br />

Zanussi, Livio, 174, 175, 176, 177,<br />

179<br />

Zonno, Francesco, 159<br />

Zorzi, Delfo, 65, 66<br />

213


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 214<br />

INDICE<br />

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3<br />

I rossi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7<br />

Operazione Tramonto: e il Veneto si rit<strong>in</strong>se di rosso brigatista . . . . 7<br />

“L’<strong>in</strong>cidente” di Padova: il primo omicidio delle Brigate Rosse . . 13<br />

Il feroce biennio dei PAC di Cesare Battisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19<br />

Pietro Calogero: un teorema per l’autonomia . . . . . . . . . . . . . . . . . 24<br />

Mestre cuore brigatista:<br />

il sequestro e l’uccisione dell’<strong>in</strong>gegner Taliercio . . . . . . . . . . . . . . 30<br />

J. L. Dozier: un amerikano a Verona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38<br />

La prima l<strong>in</strong>ea di Rovigo: evasione con morto . . . . . . . . . . . . . . . 47<br />

La vita spericolata di Marco Donat Catt<strong>in</strong> . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52<br />

I neri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59<br />

La pista veneta della strage di Piazza Fontana . . . . . . . . . . . . . . . 59<br />

Peteano, prov<strong>in</strong>cia di Ord<strong>in</strong>e Nuovo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67<br />

Gianfranco Bertoli, come ti plagio l’anarchico . . . . . . . . . . . . . . . . 73<br />

Il giudice padovano e la Rosa dei Venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81<br />

Italicus, treno di morte, Verona saluta con onore . . . . . . . . . . . . . . 86<br />

Occorsio, una sentenza a morte scritta sui muri di Verona . . . . . . 98<br />

Amato, da Rovereto a Roma per morire di eversione nera . . . . . . 105<br />

Ludwig e la pulizia del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111<br />

La nera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119<br />

Felice Maniero e la mafia del Brenta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119<br />

I predatori del Cermis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 215<br />

Pietro Maso, il pavone di Verona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131<br />

Pietro Peruffo: io sono un orco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139<br />

Gianfranco Stevan<strong>in</strong>, il contad<strong>in</strong>o serial killer . . . . . . . . . . . . . . . 145<br />

Roberto Succo. Anima persa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151<br />

La strana morte di don Bisaglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162<br />

Michele Profeta. Scala reale con la morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . 168<br />

La misteriosa scomparsa di Livio Zanussi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174<br />

Adriano Fabian. T’amo, t’uccido . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180<br />

Poliziotti a Verona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186<br />

Bibliografia e fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191<br />

Siti web di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 207<br />

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 208


ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pag<strong>in</strong>a 216<br />

ARMI IN PUGNO<br />

di PINO CASAMASSIMA<br />

Collana diretta da SIMONA MAMMANO e ANTONELLA BECCARIA<br />

Progetto grafico ANYONE!<br />

Impag<strong>in</strong>azione ROBERTA ROSSI<br />

©2010 <strong>Stampa</strong> Alternativa/Nuovi Equilibri<br />

Casella postale 97 – 01100 Viterbo<br />

fax 0761.352751<br />

e-mail: ord<strong>in</strong>i@stamp<strong>alternativa</strong>.it<br />

ISBN 978-88-6222-139-9<br />

F<strong>in</strong>ito di stampare nel mese di luglio 2010<br />

presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)

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