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Lavieri

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Maurizio Rossi<br />

Mare Padanum<br />

<strong>Lavieri</strong>


A quasi dieci anni di distanza da Mille<br />

non più Mille, Maurizio Rossi torna a<br />

invitarci, a nostro rischio e pericolo, nella<br />

sua minuscola valle piacentina, prodigiosa<br />

fornace di invenzioni ad alto tasso<br />

esplosivo. Nei quattro racconti di Mare<br />

Padanum, Gerbasius e Panfi lius, in fuga<br />

dall’Ufficio Pergamene per cui lavorerebbero,<br />

sperimentano la problematica<br />

arcadia delle terre del Rosello. Tra<br />

Baggini e calaie s’innescano a catena, in<br />

successioni esilaranti, galli taumaturgici,<br />

galline cubiste, velivoli spaziali, vetture<br />

Zil/Zis 110, diligenze Wells Fargo<br />

Express o vascelli fantasma. L’elegia rurale,<br />

vagheggiata ma irrimediabilmente<br />

perduta, è sottoposta a una trance ritmica<br />

e alimenta l’industria a ciclo continuo<br />

delle analogie. Eppure questa centrifuga<br />

di comicità presta al lettore, tra<br />

le pieghe del racconto, un sillabario tanto<br />

faceto quanto implacabile del sistema<br />

Italia, con la sua carovana di maghi, medium,<br />

otelmi, nuove pesti e untori, virus<br />

dell’aviaria, spin doctors e pescecani della<br />

finanza. Cosí potrà accadere anche a noi,<br />

come ai fi lologi di Pollaio di notte, di trovarci<br />

«sporti sulla storia senza muoverci<br />

di casa».


collana arno<br />

3


Maurizio Rossi<br />

Mare Padanum<br />

<strong>Lavieri</strong>


Maurizio Rossi<br />

Mare Padanum<br />

Postfazione di Claudio Vela<br />

ISBN 978-88-89312-30-8<br />

© 2006 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s.<br />

<strong>Lavieri</strong> editore - via IV Novembre, 19 - 81020 S. Angelo in Formis (CE).<br />

info@lavieri.it<br />

www.lavieri.it


Sommario<br />

Mare Padanum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7<br />

Rudo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .29<br />

Rune al pelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .53<br />

Pollaio di notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79<br />

Nelle spire della sintassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153<br />

di Claudio Vela


Desidero ringraziare i compagni di immersione, grazie ai quali i fondali di Mare Padanum<br />

consentono al lettore piú pescoso bottino: Domenico Pinto, Claudio Vela, Antonio<br />

Pane, Alessandro Fo, Anna Riva, Lucia Zanangeli e Sara Rossi.


Mare Padanum<br />

Nel pomeriggio afoso dei Baggini, a lato del Rosello, nella frescura<br />

di bardane e sambuchi cresciuti serrati a nasconderne l’acqua, disegnavano<br />

la calaia, di storti graffiti, segni serpentini di bisce nella sabbia,<br />

trascinati per traverso con le forze arse delle spire, piú larghi nelle anse<br />

dove i rettili, rilassando la pancia di sorci e di rospi indigesti, nel bussare<br />

tentoni all’uscita, formavano solchi piú netti d’impronte. Quelle<br />

strisce sbilenche di curve e tornanti, erano la traccia continua di stradini<br />

ubriachi al delineare smarrito mezzerie, dividendo carreggiate e<br />

sensi di marcia, in piste larghissime o strette, per ciclisti e pedoni, che<br />

seguirle portavano ai fossi, emergendo, piú avanti, per finire di nuovo<br />

in cunette.<br />

Le bisce della Costa di Sariano, discese a frotte per dissetarsi in<br />

quell’ora deserta, quando il sonno prendeva i contadini piú vecchi,<br />

con gli altri a figliare al riparo, inseguite ruzzoloni da galline e da<br />

tacchini di guardia, varcavano esauste la calaia del Rosello – ultimo<br />

tratto nudo a rischio elevato di cattivi incontri – prima di sparire,<br />

con guizzi veloci, nella frescura verde delle pozze, finalmente in salvo.<br />

Si vedevano ancora, dietro al loro scorrere, col tendersi di poderose<br />

ragnatele gremite di prede asseccate e di ragni alla mensa, muoversi<br />

appena razze ed erbe alte, discrete nel fruscío di spire nascoste, al rilascio<br />

di un senso di freddo, pur nell’afa dell’ora.<br />

Sopra la calaia, cortecce ferite da roncole invernali, fronde cascanti<br />

di robinia e di ciliegio distillavano resina pastosa, piovendola da foglie<br />

disposte a minuscoli condotti, raccolta in rivoli sui tronchi, in lentissime<br />

colate trasparenti, in gocce d’unto finite per terra a legarsi di<br />

sabbia e scambiate, da formiche e insetti ormai prigionieri di colle, col<br />

miele in grumi di favi pencoloni.


Era quello il momento del pericolo maggiore, che si annidava<br />

in sosta nell’ombra breve delle siepi confuso coi rovi, dove un attimo<br />

prima c’era niente; tutto quieto, tutto tranquillo, e subito dopo,<br />

chiuso un occhio solo – vigilanza e controllo sciolti nel sudore di un<br />

istante –, la guerra era già persa, il nemico accampato in casa a far<br />

festa, all’inventario delle cose, alla stima dei beni, a decidere, coi soldi<br />

altrui, sulle spese e gli acquisti massicci di mutande e accendini, di<br />

calze, tappeti e scendiletto per la notte.<br />

A Gerbasius, affondato dopopranzo nella sdraio del lamento, sul<br />

rialzo in pietra davanti a casa, faccia a faccia col Rosello – il telo gatteggiava<br />

sui legni d’appoggio simile alla placenta di una mucca lucida<br />

di parto – pareva impossibile, in quell’aria ferma che precedeva e aggrumava<br />

come caglio nel latte l’addensarsi di complotti, non dovesse<br />

capitare qualcosa di improvviso, qualche sorpresa, qualche nuovo<br />

imbroglio.<br />

Quell’attesa, che l’aveva piú volte irriso, proclamandolo sconfitto<br />

per un colpo di sonno, nel timore di nuove sortite, gli generava ora<br />

un malessere cieco nella costrizione di visceri irrequieti, di fastidio per<br />

la resa giornaliera, registrata a denti stretti come vittoria concessa per<br />

buon cuore; ma guai stavolta, lo sentiva, guai a lasciarsi prendere dal<br />

pisolo incombente, che avrebbe dilagato nuovi greci stupiti dentro<br />

Troia, presa alfine col caldo e con l’abbiocco, senza piú l’inganno macchinoso<br />

del cavallo.<br />

Ogni tanto – sembrava un ufficiale di Legione, sotto Algeri calcinata<br />

dal sole – dava una voce a Panfilius, per sentire se era sveglio o<br />

dormiente bocconi alla garitta d’ingresso sui Baggini; la punta della<br />

lingua all’infuori, assiso sbilenco sulla vecchia comoda forgiata a tronetto<br />

di gottosi, con un buco abbrunito nel mezzo, nascosto da un<br />

cuscino di cuoio, nella fossa centrale di un gorgo, per la funzione<br />

originale del seggio nel richiamo a sgravarsi.<br />

Davanti avevano entrambi – uno ritratto rispetto all’altro, nella<br />

collocazione strategica di posti di blocco – la calaia diritta dei Baggini,<br />

nel bianco di sabbie marine, contrastata alle spalle dal fondale di<br />

boschi d’agrifoglio e di castagni in ripida salita, e piú in alto ancora,<br />

solubili nella calura, dalle cime di Chiesa Vecchia, coi picchi di pioppi<br />

moai rivolti inclinati al Rosello, a scrutarne il percorso sottile. Panfilius<br />

rispondeva, con parole tronche già cotte di sonno, nel garbuglio<br />

onirico di dormiveglia interrotti a sentinelle sfinite da pugnette, che<br />

avrebbero, in quell’istante, sparsi segreti nucleari, svenduto caserma,<br />

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commilitoni e comandante insieme, per un’ora di riposo stravaccato<br />

in branda, con fucile, giberne e cartucciere addosso.<br />

A fianco delle vedette schierate in difesa, sotto il portico degli attrezzi,<br />

pieno di ruote e di cerchioni alla rinfusa, di mole e di lame<br />

arrugginite come alabarde sbrecciate di spagnoli, sul trattore Bubba<br />

a testa calda, mani strette sulle leve, il vecchio Canaja dormiva da<br />

cavallo, asciutto, aspro, senza sudori, insensibile al caldo e al freddo,<br />

che prendeva come compagni alternati di stagione, senza lodarne o<br />

lamentarne vizi che, farlo, significava sprecare inutili parole, accodarsi<br />

a commenti banali di gente comune senza niente da dire. Immobile<br />

al suo posto, era la mummia rinsecchita di un carrista al coperchio di<br />

un blindato colpito da mine e lanciafiamme, testarda ai comandi, in<br />

attesa di un ordine a partire, nonostante i danni al mezzo e le ustioni<br />

sofferte nel silenzio.<br />

Da giovane, per scommessa coi compagni coscritti, aveva sposato<br />

Mariella, la maestra del paese, tutta grazia e lusinghe, devota al Regime<br />

nel crescere bimbi guerrieri, e il giorno dopo – calzoni corti e<br />

grembiulino, colletto e fiocco azzurro stretti al collo – studiava sui<br />

banchi della scuola aperta in casa – mani in prima, mani in seconda,<br />

sulle dita la bacchetta quadrata, segnare alla lavagna buoni e cattivi,<br />

compiti e dettati, riassunti e problemi – per lacune formative da colmare<br />

in tempi brevi che, trascorso metà dell’anno in quello stato, la<br />

bocciatura sarebbe apparsa quasi certa, precludendo vacanze in colonia<br />

marina. Di pomeriggio, letture amene e marmellata di prugne per<br />

merenda, brodi magri con erbette appena sera, e la notte, prima di salire<br />

al talamo nuziale bardato di scuri e fasci del Littorio, lezioni educative<br />

sulle imprese culturali d’Oltremare; speranzoso, sulle prime, il<br />

camiciotto appuntito a naso di Pinocchio, via via zampillo spento di<br />

fontane estive, fra le risa dei compagni sul martirio dell’amico, implacabili<br />

nel rimarcare la sorte di chi s’appressava a una maestra, non<br />

essendole superiore almeno in fatto di cultura, con la quale preparare<br />

approcci raffinati, come rapporti e circolari della scuola inviati mensilmente<br />

al ministero.<br />

Quando, ormai rassegnato alla rinuncia per amore della scuola,<br />

secchione col massimo dei voti, pensando di far bene, di dare una<br />

scossa a quel pantano di studi e merendine, via di colpo il camiciotto<br />

dal luogo dei supplizi, s’era concesso di festeggiare, prendendo Mariella<br />

di sorpresa nell’imperio d’usanze coloniali – messa di spalletta,<br />

glutei al consorte e mani giunte rivolte al federale erano stati un chia-<br />

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o nullaosta a quell’impresa –, nel buio dei Baggini accanto ai fasci<br />

del letto a baldacchino s’era sentito un urlo agghiacciato per la valle<br />

del Rosello, con tassi e volpi ad annusare, dalle tane del riposo, l’aria<br />

di un contratto messo in crisi; in fuga la maestra nella notte di bauli<br />

e valigie, vessilli e gagliardetti; chiusa la scuola elementare, via le cartine<br />

d’Italia, il pallottoliere e le lavagne dalla casa; e tutti guardavano<br />

Canaja con sospetto, in partenza frettolosa, volontario per l’Africa<br />

Orientale, ancora bianco di gessi e cancellini, col sette in condotta<br />

impresso a vita per atti osceni in spregio all’insegnante.<br />

I legionari del fortino sotto Algeri, uno a sdraio e l’altro sulla comoda<br />

sbilenca per gottosi, erano immersi nei giochi d’ombra e nelle<br />

correnti fresche dei muri delle case; meglio evitare in quelle ore il sole<br />

a picco, che macchiava la pelle di tumori, sfogliandola a trucioli di<br />

betulle, scoprendo il rosso vivo delle carni.<br />

L’effetto serra, riferivano i giornali nell’allarme balneare di notizie<br />

diffuse da scienziati, percorso in un soffio la Romagna e l’Emilia<br />

troppo piatte, avrebbe sospinto entro breve il mare balcano dalle parti<br />

di Piacenza, e piú oltre ai contrafforti d’Appennino, e intanto aveva<br />

condotto Gerbasius all’agenzia immobiliare Per Piccina Che Tu Sia,<br />

e il giorno stesso da Canaja, che, possidente bonaccione, pareva ansioso<br />

di regalare case e stalle ai Baggini, raccontando mani al cuore<br />

– «le balle non son buone» – che era ormai stanco del lavoro e degli<br />

affanni del raccolto, dopo una vita intera trascorsa in mezzo ai campi,<br />

e che proprio per quello in cambio di due soldi si disfaceva volentieri<br />

della roba, degli attrezzi da lavoro, beni necessari di una volta, e<br />

ora insopportabile gravame di vecchiaia. «Non ho nessuno io; non<br />

consumo tutta nemmeno la pensione: che mi giova tribolare; a chi<br />

lascio, a mia moglie, mai piú vista dai tempi delle nozze per un guizzo<br />

regolare fra sposini Non sposate una maestra, ve’, vi raccomando!».<br />

Due soldi, una pacca e uno sputo asciutto d’accordo sulle mani – il<br />

geometro aveva ritirato le sue per tempo –, messa la firma in calce al<br />

compromesso, disattesi i consigli alla prudenza, a non fidarsi troppo<br />

di lavori intrapresi alla leggera, di bestie e di trattori, un giorno buoni<br />

e l’altro ostili, specie se capivano di poter fare voce grossa davanti agli<br />

inesperti. Massimamente, passi di piombo con Canaja, novant’anni<br />

e oltre, volontario d’Etiopia all’Amba Alagi, che sembrava un mite<br />

vecchietto bisognoso di parole buone e caramelle molli in gelatine,<br />

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e un minuto dopo compariva unto di costine di maiale sfilacciate<br />

mezzo crude per la fame da caserma, rompeva mandorle e nocciole<br />

coi denti sani di un ventenne, usati al posto di soverchi schiaccianoci;<br />

riconduceva alle stalle, esausti e perdenti nella lotta, tori fuggiti dalle<br />

greppie all’esca di giovenche in calore, stiracchiati vergognosi per le<br />

orecchie, a testa bassa come discoli in collegio, alla gogna dei compagni.<br />

Ma la notte, sicuro d’esser solo nei campi, piangeva ancora,<br />

nei ricordi di guerra; occhi neri di fanciulle infossati al passaggio di<br />

truppe, incursioni ai villaggi di donne ospitali, avvolte scalze da teli<br />

aragosta, di bimbi ricciuti in spalla alle mamme sapienti d’antiche<br />

mattanze; le capanne già in fiamme, nel fuoco di pelli e di legni riarsi.<br />

Piú d’uno l’aveva sorpreso in ginocchio, a battere coi pugni tam-tam<br />

di memorie, richieste di perdono respinte col silenzio dei boschi, e<br />

chi l’aveva scosso, pensandolo ubriaco e chiamandolo per nome, s’era<br />

trovato davanti due occhi smarriti, impensabili sul volto legionario di<br />

Canaja, costretto all’Africa Orientale, dopo violenze sponsali inflitte a<br />

Mariella, e quindi alla Scuola.<br />

Gerbasius, con la storia del mare fino ed oltre le mura romane di<br />

Piacenza, aveva atterrito anche Panfilius, il collega chino dell’Ufficio<br />

Pergamene, cui non aveva concesso tempo bastevole a riflettere; uno<br />

taciturno, che a furia di lavorare di destro con la lente, aveva ridotto<br />

l’occhio sinistro a chiocciola, nell’opercolo di pomate oftalmiche bigine,<br />

e l’altro a ingrossarsi in un grandangolo sporgente che sembrava<br />

inquisire il mondo intero in uno sguardo, ed era sempre, anche di<br />

notte, con gli occhiali neri, per la brutta impressione che faceva rimanendogli<br />

spalancato. Lui, che aveva sempre visto la terra solo nei<br />

sacchetti di plastica per fiori, e barriva incontrando un bruco o un<br />

topo di campagna, aveva fatto con Gerbasius il giro delle banche in<br />

un vortice di firme, fidi e prestiti a tasso agevolato per l’acquisto di<br />

rustici e terreni agricoli in aree depresse, presentandosi da Canaja col<br />

contante, nell’offerta a un dio agreste goloso di valuta, presa però<br />

come volgare imposizione di contratto, con lo schifo d’accostarsi a<br />

roba infetta, senza verificarne l’ammontare per la fiducia espressa ai<br />

suoi clienti: «Un regalo, un vero regalo vi ho fatto quest’oggi; mi<br />

avete colto nel momento adatto; ieri, ad esempio, che mi sentivo piú<br />

in forze, vi avrei chiesto almeno il doppio di quanto pattuito». Poi il<br />

suggello drammatico di chi d’improvviso si separa da cose cedute a<br />

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malincuore, generando la certezza assoluta, la controprova del buon<br />

affare appena fatto: «Ma se per caso non siete contenti, se siete pentiti,<br />

se ci volete ripensare, ecco i soldi – anzi, ci metto su qualcosa,<br />

perfino –, e mi ripiglio di nuovo tutto quanto, trattenendo la caparra;<br />

cosa dite».<br />

«No, no» s’erano affrettati i due aspiranti agricoltori a ricacciare<br />

verso il vecchio i soldi delle banche in piccole mazzette – la caparra<br />

copriva circa un terzo del contratto – nel gesto deciso di croupier alla<br />

paletta di consegna di fiches appena vinte, «ci mancherebbe altro!».<br />

«Allora, se siete soddisfatti come dite, in caso di bisogno» recitava<br />

accomodante Canaja, offrendosi al lavoro da garzone sottoposto<br />

«semmai vi servirà un aiuto in avvenire, un consiglio, una parola, a<br />

una paga onesta, vi darò una mano, per meglio introdurvi a questa<br />

vita, ma poi vedrete che in breve tempo sarete voi a farmi da maestri...».<br />

Dopo una vita insieme trascorsa a inventariare Carlo Magno e il<br />

Barbarossa, Goffredo di Buglione e Alberto da Giussano, bolle, anatemi<br />

e scomuniche di papi, beghe di feudatari folli per la terra e prole<br />

folle per natura, carestie, pesti bubboniche e sortite del colera, era<br />

parso ai due soci ragionevole intitolare la neonata azienda agricola<br />

All’Ospitale, con tanto di insegna rustica sopra a due pali uniti da un<br />

traverso, come all’ingresso di un ranch americano del Nevada, con<br />

disappunto di Canaja che vedeva in quel nome un’ombra di morbi<br />

medievali pieni di sfiga e pellegrini da curare, fra oli e grassi, vini e<br />

clisteri come unici rimedi.<br />

«Però, contenti loro...» borbottava il vecchio, tastando e accarezzando<br />

la sacca in cuoio, giorno e notte a tracolla nel bagaglio di un<br />

cowboy provvisto di fagioli e carne secca, abbicata a rotoli compressi<br />

coi soldi di una vita e con quelli dell’affare appena fatto, in banconote<br />

nuove da cinquecentomila a sigillarne il mucchio, come strato conclusivo<br />

di lasagne gonfie di cottura e brinate di formaggio.<br />

Il giorno dopo col passaggio di consegne – in realtà il venditore si<br />

comportava da perfetto proprietario e gli acquirenti da garzoni per<br />

timore d’irritarlo, di perderne l’aiuto – era iniziato il tour pomeridiano<br />

di strani pellegrini all’Ospitale, agricoli del luogo e commercianti<br />

d’ogni sorta d’attrezzi e di concimi, d’erbicidi dei vigneti, di mangimi<br />

per le bestie, di motoseghe e motozappe, di ricambi e d’estintori, di<br />

petroli e grassi da motrici; assicuratori di polizze del fuoco e della<br />

brina, della grandine e dei ladri, e Canaja, monarca al vaglio di pro-<br />

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poste, accoglieva tutti in parlatorio per gli omaggi della stampa estera<br />

o di potenti venuti a visitarlo, e accordava, scacciava, prometteva e<br />

acquistava, chiamando alla fine Gerbasius e Panfilius a siglare qualche<br />

assegno in doppia firma, per il controllo rigoroso delle uscite.<br />

«Ma chi è il padrone qui, insomma» chiedeva quella folla d’imbroglioni,<br />

consorziata nel lucrare sprovveduti.<br />

«A voi che importa; non basta che vi paghi Vi si deve qualcosa<br />

No allora a casa...».<br />

Diffusa la notizia di grana fresca in mano a un vecchio, erano apparsi<br />

da Canaja funzionari d’istituti misteriosi, che parlavano di briganti<br />

e soldi falsi e volevano vedere proprio quelli riscossi dai ragazzi, emessi<br />

da zecche clandestine, e portarseli tutti in sede per controlli, dietro<br />

rilascio beninteso di regolare ricevuta. Il reduce d’Etiopia – era chiara<br />

la sua buona fede, l’avevano rassicurato i funzionari, e non sarebbe<br />

incorso in nessun guaio – aveva tolto di saccoccia qualche mille lire<br />

con il volto della Montessori sgualcito, monetine da cinquanta e caramelle<br />

di pomo saldate insieme a dei bottoni per il caldo. Nella tasca<br />

del bustino, da pile di fazzoletti ingialliti nei raffreddori d’anni prima,<br />

da gagliardetti delle Squadre del Coraggio, guarniti di teschi sorridenti<br />

estratti insieme a soldi coloniali, era comparso un coltellaccio, apertosi<br />

di scatto nella presa – lama a scimitarra etiope lunga una spanna, col<br />

verso arioso dell’affondo negli addomi –, e il controllo dei soldi, pur<br />

pressante, era stato rimandato per la fretta dei bancari, pretesi in sede<br />

da questioni d’altissima finanza.<br />

«Volevano qualcosa quei signori» avevano chiesto Gerbasius e Panfilius,<br />

in tuta già lacera per l’incontro di stoppie e fili spinati. «No,<br />

no; erano pittime che volevano comprare quello che è ormai vostro di<br />

diritto; davano il doppio, pensate la scalogna, ma ormai l’affare è fatto,<br />

e indietro non si torna. Eh, mai avere fretta nel disfarsi delle cose. Lo<br />

dicevano i miei vecchi: quando hai venduto, ragazzo, sta’ sicuro d’aver<br />

fatto un brutto affare; tenetelo a mente il tesoro che vi dico!».<br />

In margine al compromesso concluso con Canaja c’era una specie<br />

di contratto-testamento a voce – garanti il prete e il geometro del<br />

luogo – e gli acquirenti si impegnavano a occuparsi tutti i giorni del<br />

vecchio venditore, a sostenerlo nel momento del bisogno, ad accudirlo<br />

come un padre ormai prossimo alla fine, visto il prezzo mite accordato<br />

ai transfughi dello Stato. Da una parte, l’uno, senza congiunti,<br />

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senza Mariella, per il brutale assalto subito dalla donna appena sposa,<br />

evitava di finire al lazzaretto – cosí Canaja chiamava le case di riposo,<br />

in mano ad aguzzine ingorde di lasciti e regali degli ospiti in parcheggio<br />

– e, dall’altra, i novelli agricoltori, alla sua morte, ne diventavano,<br />

beni e danari, gli unici eredi.<br />

«Ma sarà questione di poco, ve’...» li avevano rassicurati i garanti,<br />

a bassa voce per l’udito finissimo del vecchio, che tuttavia sentiva o<br />

non sentiva a seconda d’interessi «di qualche mese, al massimo qualche<br />

anno; al primo colpo d’aria, al secondo starnuto, cosa volete: ciao<br />

Canaja!...» e poi, occhi al cielo, avevano fatto, con le mani, il gesto di<br />

liberare una colomba, nella spinta di partenza a quell’anima.<br />

Erano invece trascorsi molti inverni, ed ora si era di nuovo all’estate,<br />

una stagione un poco strana, con freddo e caldo, pioggia e neve<br />

insieme, che sembravano i colori vorticati della pace, il temuto segnale<br />

di tempi inauditi, di ghiacci disciolti, di pianure invase dall’acqua<br />

salmastra di fiumi respinti alla foce.<br />

Canaja, con le Nazionali senza filtro, via una l’altra sempre accese<br />

in bocca, mostrava di stare molto bene, e solo la testa ogni tanto, con<br />

la memoria che andava e veniva, dava piccoli segni di stanchezza ma,<br />

come diceva il medico, era l’arterio, e avrebbe voluto vedere altri di<br />

città, con quegli anni in groppa, fare cosí il galletto tutti i giorni.<br />

Per virtú del compromesso sottoscritto e dell’aggiunta a voce,<br />

Canaja, soldi e roba, di nuovo padrone del convento cui faceva da<br />

custode, accontentandosi di un fisso tutti i mesi, rilasciava in cambio<br />

un biglietto a matita con su scritto riscosso, senza nessun altro segno<br />

che indicasse il mese e l’anno, il valore e il motivo per quanto incamerato.<br />

Gerbasius e Panfilius, di là a fare danni nei poderi – non si<br />

era mai certi di vederli ritornare, una volta partiti – uno diceva tira e<br />

l’altro molla, sballottati come fuscelli da camiazze e trattori malvagi,<br />

che decidevano loro da che parte andare (bisognava allora scendere,<br />

toccarli e accarezzarli come buoi testardi offesi dalla sferza), se procedere<br />

avanti o indietro, forte o piano, dritti verso cime asciutte, o<br />

in folle, su due ruote, ai campi molli, dove impantanarsi pachidermi,<br />

nel fresco delle mote. Poco importava cosa volesse il conducente<br />

stretto alle leve ed irto sui pedali, e Pompilio Scoppi, il meccanico<br />

del paese che lavorava ormai solo per loro a tempo pieno, era quasi<br />

ammattito nell’assistere passivo alla ribellione quotidiana delle cose,<br />

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all’avviarsi inatteso di ruote e di pulegge, di cinghie e di cinghioni,<br />

di moltipliche dentate e bilancieri; via le mani per tempo dagli ingranaggi<br />

sanguinari, smossi di colpo – ancora un istante di ritardo e<br />

avrebbe ritratto, al loro posto, spezzatino –, dove pareva che le macchine<br />

bizzarre volessero avere solo Canaja come addetto di manovra,<br />

che ne conosceva slanci e bisogni, sentimenti e tempi di riposo, e<br />

per quel lavoro non previsto, per ogni giorno passato sopra i mezzi,<br />

il vecchio avrebbe avuto la paga sindacale, esclusi i contributi, piú il<br />

dieci per cento sul totale dei raccolti a fine anno.<br />

E quando i temporali, in bilico fra i pioppi, levitanti a panna espansa<br />

su Chiesa Vecchia e Monterosso, rotolavano al Rosello per spinte di<br />

titani ai giochi estivi, Gerbasius e Panfilius riparavano, veloci guerriglieri,<br />

sotto carri e camiazze delle messi, attenti ai complotti di cingoli,<br />

di ruote e freni a cremagliera manomessi all’improvviso da fantasmi<br />

agrari, richiamando inutilmente Canaja, al centro della corte a<br />

sfidare scamiciato tuono e baleno, ridendo a venticelli, a pioggerelle<br />

da nonnulla, a chicchi di grandine benigna, che raccoglieva anzi nelle<br />

mani dal palmo a scodella, aspirandoli alla bocca come rinfrescanti<br />

confetti di granite.<br />

Sentivano, nella nebbia fitta che avvolgeva il frastuono, vento e<br />

tempesta in combutta flagellare vigneti e campi di frumento maturo,<br />

boschi profondi di querce e castagni, nello sfascio di flutti rurali<br />

agli scogli dell’Emilia Romagna, ed era prossima – s’intuiva dai fragori<br />

d’ondate alla risacca – la comparsa di galere e di triremi, piene di schiavi<br />

nelle stive, del vascello nero, vele a brandelloni, alberi rotti e lucerne<br />

accese, con la bandiera svolacchiata della Filibusta, nel ghigno nautico<br />

della morte bella.<br />

Allora Gerbasius, da coniuge timoroso di un diniego, si avvicinava<br />

a Panfilius, un poco ritirato, e mormorava all’orecchio, con la voce di<br />

un santone che conoscesse la data esatta del Diluvio imminente: «È la<br />

volta buona, sai; credo che ci siamo, senti anche tu il mare che avanza<br />

da lontano Il respiro delle onde, il canto d’uccelli marini, le voci saracene<br />

dei mercanti di cristiani A quest’ora deve avere già sommerso<br />

Piacenza, Cremona e tutta la Bassa; sepolto per sempre sott’acqua Palazzo<br />

Farnese, con quadri e carrozze, pergamene e disegni di chiese e<br />

castelli. Non senti, perbacco, lo iodio che allarga le narici e i polmoni<br />

Guarda là in fondo; non sono gabbiani grassocci rigonfi di triglie...»<br />

e perforava con gli occhi – indici delle mani a doppia mitragliera ai<br />

volatili marini – il cielo scuro veleggiato da borse della spesa, da sac-<br />

17


chetti e cartocci di agricoli insensibili all’ambiente, nei volteggi fra<br />

nubi di piccoli alianti.<br />

Panfilius, ottenebrato dal santone, osservava davvero il cielo e la<br />

calaia percorsi dai rifiuti biancacci, e fissava, balbettando nel dialetto<br />

al torrone dolce di Cremona, teli e lenzuola ad aquilone, scambiati<br />

per mezzi aerei dei pompieri della protezione civile al soccorso di bagnanti<br />

sorpresi da un’onda anomala partita dai Balcani piú irrequieti.<br />

Saltellava di qua e di là sotto carri e camiazze – «Potevano mica, la<br />

miseria, Lassú aspettare un altro poco» – occhi spiritati al precipitare<br />

degli eventi; maghi santi e profeti per una volta concordi, e si<br />

disperava, pugni in terra, a martellare di proteste il Cielo, che metteva<br />

buoni e cattivi nella stessa tinozza, per costumi dissoluti importati<br />

dall’Olanda.<br />

Trascorso un quarto d’ora di diluvio e d’arrembaggi, di marosi e di<br />

risacche, splendeva di nuovo il sole di terraferma, con l’afa di nebbie<br />

maligne, di cotture a vapore in ascesa sui boschi; sciolta la grandine a<br />

confetti, odore d’erbe rotte intorno. Il Mare Padano ritirava le acque<br />

al di là di Piacenza, e Canaja, dalla corte di casa, compatiti con gli occhi<br />

i garzoni, risparmiati per la farsa gustosa di saltimbanchi campagnoli,<br />

scuoteva la testa negriera, nel rimedio sicuro a quei mali: «Qui,<br />

se non trovano una donna, quei ragazzi sono persi!...».<br />

Dopo i campi, i boschi e i vigneti – non si sapeva chi aveva piú<br />

bisogno di soccorso e d’intervento urgente – Gerbasius e Panfilius,<br />

nell’aspetto di satiri pelosi di ritorno da un convegno baccanale, a casa<br />

verso sera, erano attesi da Canaja affamato sulla porta, che ticchettava<br />

con un dito all’orologio in mano, nella protesta per l’ora tarda della<br />

cena. Dovevano mettersi dunque, secondo la stagione – via le tute,<br />

era il momento di grembiali e grembiulini – uno alle stalle a mungere<br />

mucche, l’altro in cucina a preparare zuppe di verdure e polentine,<br />

sformati di spinaci e di carote, galletti da riempire per il brodo dei<br />

festivi, pasticci di pasta all’uovo e mozzarella, ricchi zabaioni per la<br />

fiacca estiva. Seguivano i panni da stirare, il pollaio e la gabbia dei<br />

conigli, i conti giornalieri, col quadernuccio degli incassi e quello piú<br />

grosso delle spese, a segnalare in rosso lo stato del bilancio.<br />

A notte fonda – Canaja davanti al bottiglione di Fruttano che assopiva<br />

appena storie di donne coloniali – Gerbasius e Panfilius, l’uno<br />

accosto all’altro spalla a spalla, una testa sola a doppia mela, tenevano<br />

18


consiglio carbonaro, con occhio torbido e voce roca da sicari, con<br />

la mano già pronta sull’elsa di spadoni. Si chiedevano quale scafista<br />

li avesse prelevati dai Balcani per venderli agli agricoli locali a basso<br />

prezzo, e del come uscire in fretta dall’imbroglio: disfare tutto, indietro<br />

la roba, riavere i soldi, e amici come prima; una bell’impresa,<br />

si fa presto a dirlo. Poi, superato quello scoglio, subito domanda al<br />

Ministero, di tornare in servizio senza grilli, e bussare infine all’Istituto<br />

delle Case Popolari, e forse, bontà del direttore, si era ancora in<br />

tempo a ricucire lo strappo della fuga, decisa troppo in fretta, per il<br />

business di case e di poderi, ingrandito a dismisura da Canaja, fonte<br />

di sperpero e fatiche, di pericoli e malanni, bastando appena il povero<br />

guadagno a pagare il vecchio un tanto al mese.<br />

«Domani» li complimentava Canaja, che fiutava da tempo una<br />

cert’aria di rivolta «domani ci faremo un’arrabbiata con cotiche arrostite,<br />

braciole di maiale sulla griglia, una crostata di prugne Sangiovanne<br />

per gradire, e da bere, un bianco dolce d’uve passe, un Moscato,<br />

un Malvasia; cosa ne dite, non v’attira» li interrogava, collo e<br />

faccia asciutti scavati all’Amba Alagi, sporti in avanti di continuo, a<br />

sollecitare entusiasmo alla proposta alimentare, e rimaneva in attesa,<br />

guardando sbalordito, ora Gerbasius, ora Panfilius, per la lentezza<br />

della risposta che tardava. Sapevano, quei servi della gleba, che era<br />

meglio accontentarlo il piú possibile, pena il sentirlo protestare di<br />

accordi disattesi, e che se doveva, giunto alla sua età, patire anche<br />

la fame e accogliere la morte a pancia vuota, come lamentava da<br />

solo, ben sicuro del pubblico in ascolto, pur a malincuore si sarebbe<br />

proceduto alla risoluzione del contratto, che nelle clausole piccine,<br />

a voce, a pacche e a mani sputacchiate, tra scritte ambigue sibilline,<br />

assicuravano al vecchio comunque andassero le cose, il ritorno in<br />

possesso dei suoi beni, tenendosi in quel modo soldi e roba. Conclusa<br />

l’esperienza sfortunata – s’affettava Canaja le mani messe a taglio<br />

avanti e indietro, nell’impatto dei palmi di Pilato – per carità, amici<br />

come prima, senza rancore, senza cattiverie; ciascuno a casa propria<br />

contento; in fondo non ci si era mica sposati in chiesa, mantenendo<br />

ciascuno il diritto di decidere le cose, di fare e di disfare, ovviamente<br />

pagando l’ammenda stabilita.<br />

«Come sta Canaja» chiedevano i contadini veri ai due colleghi,<br />

guardati con sospetto – traditori dell’Ufficio, di un posto al sicuro<br />

nello Stato – e tuttavia accolti come motori poderosi di ripresa, come<br />

insigni benefattori del paese, ai quali, col tempo, avevano finito con<br />

19


l’appioppare in blocco, un tanto al chilo, tutti gli aratri, gli erpici, i<br />

trattori, le macchine monumento pagate come nuove, che andavano<br />

anche loro dove volevano, ribelli o intempestive, testarde come bestie,<br />

invariabilmente rincorse da Pompilio Scoppi, dalle dita amputate<br />

alterne nelle bende brune, per le bizze di ferraglia arrugginita, alla<br />

messa in moto capricciosa di cinghie e di cilindri.<br />

«Tenetelo in gran conto, quel vecchio, ve’; che con lui se ne impara<br />

una nuova tutti i giorni; che se dovesse morire!...» e giravano la faccia<br />

rossa che scoppiava, inghiottita la tosse delle risa, gonfi come tacchini<br />

alla ronda distesa delle pite.<br />

Gerbasius e Panfilius avevano finito presto col tenersi alla larga<br />

dal paese, per sfuggire alla salacia degli agricoli arricchiti, e cosí, al<br />

tribolare quotidiano, s’era aggiunto quello del pane e della pasta fatti<br />

in casa, chiusi come in un’abbazia medievale, sufficienti di tutto, alte<br />

mura intorno, porte sprangate, con Canaja allo spioncino che faceva<br />

da padre portinaio, al presidio sicuro del convento.<br />

A suo modo, il vecchio conduceva anche discreti sondaggi d’opinione<br />

incentrati su se stesso, e l’ultima volta si era messo a barcollare,<br />

gridando braccia aperte di tenerlo, che – vero o falso, riusciva difficile<br />

saperlo con certezza – era divenuto cieco all’improvviso, avvertendo,<br />

poco prima, lo strappo di una vena che portava gasolio dritto al cervello,<br />

seguito da un gran tonfo al cuore; e la pompa, per la falla, era<br />

sicuramente andata su di giri, e c’era il rischio concreto di grippare.<br />

Steso sul divano, respiro affannoso, occhi socchiusi e parole smozzicate,<br />

osservava la preda avvicinarsi ignara. La trappola era in azione, e<br />

Gerbasius e Panfilius gli si erano fatti intorno, liberando in volto il piú<br />

largo dei sorrisi ereditieri, virato troppo tardi in pieghe di rimedio,<br />

studiandolo bocconi, mani prima focaie e infine giunte, piú nel ringraziamento<br />

al fato avverso che nella preghiera elevata per mutarlo.<br />

«Ah» si era ripreso quasi subito, puntandoli di sbieco, come avesse<br />

avvertito, nell’aria infida, fruscío di sarti e di monatti compiaciuti,<br />

prendergli precise le misure innanzitempo «a Dio piacendo,<br />

dovrebbe essere passata anche stavolta; forse ci si può mettere una<br />

pezza, ma il segnale non è bello, vuol dire che la macchina è stanca<br />

di girare, e d’altronde, raggiunto il mio tempo, nessuno, un po’ avveduto,<br />

può pensare di rimanere ancora a lungo da semente...». Però<br />

la convalescenza necessitava di un aiuto, di uno speciale riguardo<br />

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alimentare, con cibi buoni ma leggeri, sostanziosi e facilmente digeribili<br />

dai vecchi: «Mi sentirei di prendere un brodino, quello buono<br />

con la gallina piena, il manzo e una costina di maiale; non col dado,<br />

ve’, che chissà cosa c’è dentro...».<br />

Gerbasius e Panfilius, smesse le divise di sarti e di becchini, presi<br />

nella ragnatela di quelle mani che annaspavano cieche l’aria a brandelli<br />

come forconi meccanici da fieno, superata la crisi, osservavano il<br />

vecchio che mangiava di gran gusto, lodando il cuoco e il cantiniere,<br />

lusingandoli che se continuavano cosí a far del bene, lui avrebbe messo<br />

volentieri la firma, sopportando di buon grado altri cent’anni di<br />

dolori come quelli: «O volete forse ammazzarmi col mangiare». Lo<br />

guardavano, Gerbasius e Panfilius, disossare galline fatte lesse, estratte<br />

grondanti dalla pentola del brodo, con l’aprire carnoso di libri antichi<br />

in mano agli adepti, divaricandone petto e alucce, staccandone<br />

cosce nell’opporsi nervoso di snodi resistenti all’appiglio. Spolpate le<br />

ossa, sfilate sotto il naso col moto di un archetto di viola, Canaja,<br />

convalescente continuo, passava le carni alla bocca con fischi di presa,<br />

rilasciando, da un lato, ossicini puliti come pula e paglia scisse dal<br />

grano di un trebbiatoio di frumento San Pastore. Fermava ogni tanto<br />

tramoggia e trebbiatoio, per la sosta dei condotti ingolfati; la testa e<br />

gli occhi in alto, socchiusi a lama nell’aspirazione fonda dei profumi,<br />

messi insieme da cuochi sopraffini. «Eh ma ragazzi» vorticava una<br />

mano unta a mulinello nel lodare per aria tanta grazia «voi cosí mi<br />

viziate; e chi muore mai, messe le cose in questo modo...».<br />

L’ora calda passava sul pianerottolo di casa e alla garitta di presidio,<br />

trascinando obliqua di poco o nulla l’ombra di pergole e di muri<br />

sospesi sui dormienti, parendo la città di Troia, il convento, l’abbazia<br />

dalle alte mura vinti molto prima dell’inizio della pugna; inutile spargere<br />

sangue, azzuffarsi con quel caldo, con quell’afa; meglio abbozzare,<br />

formulare convenevoli ospitali, confidando nel cuore tenero di<br />

nemici dilagati in forze dalle porte aperte.<br />

Gerbasius, sfavillante di sudore, sembrava un vitello partorito sulla<br />

sdraio, col telo unto al posto della sacca lacerata delle acque; braccia<br />

riverse sui sostegni, testa penzoloni che scendeva e risaliva di colpo<br />

per l’incontro a punta del petto con il mento; e dopo una scossa, lo<br />

svegliarsi torvo d’ubriachi, ricominciava daccapo la complessa animazione,<br />

cambiando positura, radunandosi a spalletta, nel tirare fasti-<br />

21


dioso di canottiere ammollate, fuse alla schiena e alle ascelle grassocce<br />

col sudore di colle moschicide. Cosí deposto sulla sdraio, in attesa di<br />

un lenzuolo e dell’arrivo del coroner dal distretto di Chicago, era la<br />

carcassa insaponata di un boss americano, sorpreso di pomeriggio sul<br />

seggio del barbiere, traforato dai clarini della Mala; vetri infranti di<br />

bottega, damerini in fuga con torpedo.<br />

Aveva davanti a sé, infine sottocasa, le acque un poco limacciose<br />

del Mare Padanum, lo sciacquo delle onde ai piedi scalzi, nello<br />

srotolarsi intorno di reti in mano a pensionati, che avessero recluso<br />

pesciolini, per ghiotte grigliate da fare quella sera. Invano si accostavano<br />

ai suoi piedi, infilandosi tra calette di dita accoglienti, pergamene<br />

sperse e codici miniati, incunaboli, diplomi imperiali e privilegi di<br />

biblioteche e archivi padani, risospinti al largo con calci di fastidio<br />

a granchi importuni, rincorsi a nuoto da custodi e commessi, come<br />

tanti bagnini coi grembiali di sala: «Piú svelti, piú in fretta, gaglioffi;<br />

oddio, oddio, quando lo sapranno al Ministero!...». Gerbasius beveva<br />

in un ghigno il sudore del labbro condotto dal canale di mezzo alla<br />

bocca socchiusa nel sonno.<br />

Panfilius, alle spalle il cuscino di cuoio a frenarne la discesa, risucchiato<br />

pressoché per intero dal buco della comoda per ricchi gottosi<br />

– a una cert’ora l’attrezzo s’appressava da solo all’antica funzione, bisognevole<br />

o meno d’aiuto si mostrasse il paziente –, chiuso a regesto su<br />

se stesso, scivolava verso terra nel parto podalico di una sedia patrizia,<br />

e per salvarlo, per estrarlo ci sarebbero voluti forcipi seghetti e cesoie,<br />

nel pericolo concreto d’asfissia. Il nascituro, scolando con le reni e la<br />

patta a una spanna dal suolo, dato inizio al travaglio, aveva battuto al<br />

catino di raccolta escrementi, di un bianco smaltato col fuoco, aggredito<br />

nel mezzo da ruggini uriche, per l’azione congiunta dei germi.<br />

Canaja, sul vecchio Bubba a testa calda, era in Etiopia con Graziani,<br />

che gli mostrava Addis Abeba vinta grazie al suo slancio da<br />

vero legionario, e ora il generale sul palco – schierati gli onori solenni<br />

– appuntava al valoroso una medaglia sul petto, per l’ardore<br />

profuso nell’impresa, specialmente nell’attacco alle scuole – soprattutto<br />

elementari –, incubatrici e covi, secondo il decorato, di ribelli<br />

insofferenti all’ordine italiano.<br />

«No, no!» supplicava Canaja incontro allo spillone, ricalcitrando<br />

fra leve che lo saldavano al trattore, come al supplizio infernale di un<br />

contrappasso per carristi. Ma la medaglia di Graziani, con lo stelo a<br />

punta di una lancia tonnara, gli aveva già trafitto giubba coloniale,<br />

22


camicia e petto, ed era emersa ricurva ad ago di sutura, alloggiando<br />

a molla nella nicchia dello scatto, a fine corsa, la pelle raccolta a<br />

montagnola.<br />

Il medagliato gridò nel dolore del tetano introdotto in pieno petto<br />

– occhi sbarrati nel risveglio di Don Rodrigo con la peste dentro<br />

casa – arrestandosi madido allo schienale del sedile, e vide, disteso<br />

per sé, il gran mercato della casbah, le mercanzie sonagli di Dogali e<br />

Massaua: tappeti ondeggianti in dune solari di cammello, collanine in<br />

fila di pietruzze e vetrini, canottiere e mutande rinforzate sospese su<br />

fili, nell’aroma afrodisiaco di lane e di lini in naftalina; orologi e borse<br />

fasulli di marchi prestigiosi, parapioggia e ventagli, calze vinaccia<br />

per piedi giganti, lunghissime cinture in finta pelle, vasetti di pomate<br />

e d’unguenti speciali per vecchi, dove l’etichetta allusiva raffigurava,<br />

sullo sfondo di palme e minareti, l’incombenza affollata di un harem<br />

e, in primo piano, un pascià nello strizzare l’occhiolino ai clienti.<br />

Ad una spanna dagli occhi e dalle orecchie di Canaja, una donna<br />

alta e sorridente gli dondolava, aiutata dall’anziana mamma, amuleti<br />

e catenelle africane, per sciogliere o imbastire, con voce di regina, incantesimi<br />

e cantilene ipnotiche del Sud Sahara. Accarezzavano insieme,<br />

con mani colore del miele, terrecotte e sculture in cedro d’elefanti<br />

e ippopotami ritratti nel largo sbadiglio, statuine guerriere dai falli a<br />

leva piú grossi di gambe, ebani di fanciulle dai lunghi seni di salame<br />

gentile, nella scena sconveniente di giungle selvagge, per inglesi bigotti<br />

azzimati, giunti in quei posti con caschi e frustini.<br />

«Prendi Compra...» invitava la giovane donna, e sorrideva la<br />

mamma, tonda e ovale nella faccia e nel tronco, da sembrare una palla<br />

e un pallino, messi insieme nella forma del numero otto.<br />

«Sí, sí, prendo, compro tutto...» balbettava incantato Canaja, che<br />

aveva già al collo vetri e luccioli, e ai polsi bracciali di filo e perline,<br />

che perfino ragazzi, pezzenti per moda, avrebbero esitato a portare<br />

scoperti, col timore di apparire orecchioni.<br />

In braccio, la regina d’Etiopia stringeva un bimbetto ricciuto,<br />

ambrato dal secco africano, che guardando fisso quel vecchio dava<br />

segno di voler finalmente approdare a un parente di sangue reale,<br />

parlandogli adagio, da dignitario istruito in un college. La mamma<br />

lo tratteneva, baciandolo ogni tanto sollecita ai commerci, asciutta<br />

nel caldo, coperta di veli e di toghe nei pigmenti di terre bruciate, e<br />

Canaja farfugliando qualcosa di dolce, allargava le braccia nel gesto<br />

affettuoso dei nonni.<br />

23


<strong>Lavieri</strong><br />

Nella stessa collana Arno<br />

Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno<br />

Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico<br />

In preparazione<br />

Walter Kempowski, Tadellöser & Wolff<br />

Arno Schmidt, Brand’s Haide


Maurizio Rossi è nato a Piacenza nel<br />

1950. Ha esordito come poeta, pubblicando<br />

la raccolta Orme sulla terra<br />

(1979). Seguiranno le opere narrative<br />

Vanno a morire gli eroi (1980), Poi viene<br />

il vento (1981), Racconti piacentini<br />

(1985), Mille non piú Mille (1998) e Tre<br />

racconti di Maurizio Rossi (2002).


Il corrierino a trazione integrale, azzurro cielo e nubi<br />

bianche della ditta Senectus Fons Aureus – a vederlo in<br />

lontananza sembrava un cumulo di bel tempo slittare veloce<br />

sulla Parma-La Spezia – mostrava, sull’intera ancata<br />

destra, nell’ellisse ammante di una giostra spaziale,<br />

nebulose sturate nel gorgo del cosmo, con stelle e pianeti,<br />

pentacoli, banconote, monete e numeri del lotto, emessi da<br />

zecche aliene agli estremi conni dell’universo. Sull’altra<br />

ancata – sovrimpressa in oro la ragione sociale in latino<br />

– giganteggiava la Creazione di Adamo, dove cielo e terra<br />

parevano toccarsi a breve nell’incontro di due dita,<br />

cosicché il torpedone, a seconda del lato esposto – sulla<br />

corsia di destra piú lenta o su quella di sorpasso – poteva<br />

apparire come il mezzo collettivo di un circolo d’astrologi,<br />

d’astroli e occultisti in vista di un’eclisse solare,<br />

quando non d’anziani religiosi, chierichetti e catechisti in<br />

gita estiva, con merenda al sacco curata dalle suore.<br />

ISBN 978-88-89312-30-8<br />

€ 12,50 (i.i.)<br />

ISBN 978-88-89312-30-8<br />

9 788889 312308

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