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Tadellöser & Wolff

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Walter Kempowski<br />

<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong><br />

Un romanzo borghese<br />

avieri


Pubblicato nel 1971, al termine di una<br />

disperata prova mnemonica e della raccolta<br />

di testimonianze che ne hanno preceduto<br />

la stesura, <strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong> annuncia<br />

ogni successivo progetto dell’uomo-archivio<br />

Walter Kempowski, ideale custode della<br />

memoria condivisa della Germania, da<br />

quarant’anni impegnato nella rielaborazione<br />

del passato.<br />

Il romanzo, il primo della Deutsche<br />

Chronik, incide come al microsolco le voci<br />

dell’infanzia dell’autore. Negli anni fra il<br />

1938 e il 1945, la storia della sua famiglia,<br />

sensali marittimi di Rostock, è allo stesso<br />

tempo la storia della borghesia tedesca al<br />

tramonto del Terzo Reich. Sullo sfondo<br />

la guerra, i bombardamenti, i campi di<br />

sterminio. In questo scenario, gli occhi del<br />

piccolo Walter assistono al dilagare della<br />

follia collettiva: immagini e suoni del quotidiano<br />

vengono laconicamente registrati<br />

nella loro spettacolare mancanza di senso,<br />

mentre canzoni e marcette propagandistiche<br />

accompagnano il dodicennio nazista<br />

con l’insistenza di un basso continuo. La<br />

tranquilla operosità anseatica, tesa con candido<br />

cinismo verso il benessere, e la fiducia<br />

incondizionata concessa a Hitler collidono<br />

con il motto dello stemma cittadino: «sit<br />

intra te concordia et publica felicitas». Il<br />

sottotitolo dell’opera, Un romanzo borghese,<br />

graverà, allora, come una lapide sulle<br />

idee di patria, famiglia, società.<br />

Con questo racconto insieme tenero<br />

e spietato, tanto realistico quanto grottesco,<br />

il problema della trasmissione della<br />

memoria si apre a un ulteriore interrogativo:<br />

come trasmettere, del ricordo, anche<br />

l’oblio


collana arno<br />

4


Walter Kempowski<br />

<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong><br />

Un romanzo borghese<br />

avieri


Walter Kempowski<br />

<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong>. Un romanzo borghese<br />

ISBN 978-88-89312-33-9<br />

A cura di Domenico Pinto<br />

Traduzione di Diana Politano e Francesco Vitellini<br />

Postfazione di Raul Calzoni<br />

© 2007 Ipermedium Comunicazione e Servizi s.a.s.<br />

Lavieri editore - via IV Novembre, 19 - 81020 S. Angelo in Formis (CE).<br />

Titolo originale: <strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong>. Ein bürgerlicher Roman<br />

© 1981 by Albrecht Knaus Verlag<br />

a division of Verlagsgruppe Random House GmbH, München, Germany.<br />

info@lavieri.it<br />

www.lavieri.it


Sommario<br />

<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong>. Un romanzo borghese . . . . . . . . . . . 11<br />

L’«angelo della storia» e la coralità della memoria. . . . . . . 323<br />

di Raul Calzoni


Nota del curatore<br />

La scommessa tecnica di questa traduzione si alimenta dell’aiuto fornito dall’autore<br />

per l’edizione italiana. Walter Kempowski ha indicato le chiavi di passi problematici<br />

e messo a fuoco usi particolari; senza la sua autoesegesi il lavoro non sarebbe<br />

giunto al termine. La resa del testo presentava ai suoi traduttori, Diana Politano e<br />

Francesco Vitellini, problemi ardui: per il carattere di lingua segreta dell’idioletto<br />

familiare, per il sistema di ellissi su cui riposa il libro, per l’indeterminabilità dei<br />

parlanti – ottenuta con un vasto ricorso alle costruzioni impersonali – che spinge a<br />

divinare referenti e soggetti (come un cloze text da integrare, il romanzo richiedeva<br />

supplementi d’immaginazione, tripli salti logici da compiere). Un forte contributo<br />

all’intelligenza dell’originale è arrivato da Michael Herrmany, ponte prezioso fra<br />

le due lingue; Daniele Ventre ha invece restituito le risonanze formali della quasi<br />

totalità delle rime e delle canzoni intarsiate nell’opera. Consulenze e apporti sono<br />

pervenuti inoltre da Marco Berisso, Silvia Bortoli, Stefano Gallerani, Marco Grosso,<br />

Antonio Pane, Luca Gabriel Popper e Marianne Schneider.<br />

Le poche note di pronto soccorso sono per lo più adibite a sciogliere giochi di<br />

parole e alcuni acronimi. L’obiettivo principale era quello di rendere disponibile<br />

il primo pannello della Deutsche Chronik, il vasto polittico della Germania di<br />

Kempowski, lasciando aperto, al lettore italiano, il compito di commentare reticenze<br />

e lacune nelle immagini della memoria, come è nello spirito dell’«archivista<br />

della vita».<br />

D.P.


Dedicato a Detlev Nahmmacher


Tutto puramente immaginario!


1<br />

Al mattino eravamo ancora seduti su casse da imballaggio grigie nella vecchia<br />

casa, a bere caffè (è nostro quello che c’è dentro). Aloni chiari sulla carta da parati<br />

scurita. E la grande stufa, che esplosione quella volta.<br />

A mezzogiorno si sarebbe già dovuto pranzare nella casa nuova.<br />

La palma da vaso fu regalata al giardiniere, non era più possibile tenerla. Meraviglioso<br />

come si era sviluppata in tutti quegli anni. Il nerbo ce lo portammo dietro,<br />

ogni tanto «ahi ahi!» c’era da prenderle. Sarebbe stato bello nella casa nuova,<br />

incantevole. Avremmo visto: stupendo. Un panorama dal balcone – delizioso. E<br />

nessuna stufa da scaldare, anche questo meritava conto.<br />

Già da lontano, mentre tornavo da scuola, vidi il carro dei traslochi, imbottito, i<br />

cavalli con le coperte rosso ruggine sulla groppa e placche d’ottone alle briglie.<br />

Noi, s’intende, stavamo vicino a Bohrmann. Il pianoforte a coda era ancora dentro,<br />

quindi non avevo perso nulla. I facchini con le cinture intorno ai fianchi, dei<br />

ganci attaccati sotto.<br />

Svitarono i piedi; l’issarono in una slitta su per le scale. Sette quintali di peso. Gli<br />

uscivano fuori le vene.<br />

«Ragazzi», fece mia madre, «ma è mai possibile...». Proprio non si rimediavano<br />

un paio di uomini forti nel vicinato Un signore grasso sgusciò tra i facchini,<br />

guardò trasognato verso l’alto delle scale. Lassù entrava luce da una finestra a vetri<br />

cattedrale. L’uomo si chiamava Quade, lui aveva costruito l’edificio.<br />

Era una casa spaziosa, anche se: 2° piano, come aveva notato zia Silbi fin dall’inizio.<br />

Il guardaroba tutto rosso. Sopra la cassapanca in quercia già i bersagli e la<br />

sciabola di mio padre. («Poi quella verrà affilata, giovanotto»).<br />

A destra la libreria con le relazioni telegrafiche dei <strong>Wolff</strong> e – «Pesci velenosi e veleni<br />

di pesce» – innumerevoli volumetti Kosmos.<br />

Mio fratello si stiracchiò davanti allo specchio.<br />

L’appartamento era da Bonomicoli. Non pensavo anch’io<br />

«Sì».<br />

«E quindi sii felice».<br />

Per tutte le stanze erano state comprate lampade nuove.<br />

In soggiorno artigli d’aquila reggevano le plafoniere. Nelle camere da letto la luce<br />

fluiva attraverso l’alabastro.<br />

Allo smisurato paralume di carta nella sala da pranzo c’era appesa una campanella,<br />

con cui poi avremmo chiamato la domestica.


Per la cucina non erano state comprate lampade, ce n’era già una.<br />

Kröhl, un impiegato della Finanza in pensione, montò le lampade. Suonava la<br />

viola nel quartetto (violinisti ce n’erano a iosa), si rendeva utile volentieri.<br />

«Potresti accendere per favore L’interruttore di sotto. Grazie». Quando ancora era<br />

in servizio, una volta aveva detto a mio padre: «Qua è di nuovo tutto sbagliato».<br />

«Perché “qua”», aveva ribattuto mio padre. «E perché: “di nuovo” e “tutto”».<br />

Questo le garbava, disse mia, che la cucina non era piastrellata. Le piastrelle dabbasso<br />

erano così fredde.<br />

Nei lavandini l’acqua sgorgava da un buco come una sorgente. La chiusura si doveva<br />

azionare mediante un pulsante. «Fantastico».<br />

Le finestre dell’appartamento, purtroppo, si aprivano tutte verso l’interno.<br />

«Ce la caveremo», disse mia madre. Ma i vasi dei fiori doveva spostarli ogni volta.<br />

Giusto dirimpetto il macellaio, nella vetrina un’aquila fatta di sego e rose di pancetta.<br />

A fianco, il droghiere. Tutto nelle vicinanze, ottimo.<br />

Dietro l’angolo «Mode Viennesi».<br />

All’incrocio stavano sistemando un nuovo segnale stradale, c’era scritto «stop».<br />

Un balcone spazioso con un tetto di vetro e sporgenze nel muro per sistemarci<br />

sassifraghe e cactus a barba d’ebreo.<br />

Ancora gli alberi erano spogli, ma la vista sarebbe stata bella, oltre i giardini in<br />

fiore fino alla torre verde di St. Jakobi.<br />

«Ragazzi, che bello», disse mia madre, «eh, che bello», e rinsaldava i gerani.<br />

Sulla sinistra, vicino a una casa a più piani dipinta di giallo, alla cui facciata posteriore,<br />

frastagliata, era appesa una quantità di balconi di ferro con cassette di<br />

margarina piene d’erba cipollina, si poteva addirittura indovinare il piccolo campanile<br />

della chiesa cattolica, con quel suo forte scampanio.<br />

Mio padre tornò dal lavoro per sera. Indossava calzoni alla zuava sale e pepe.<br />

Cantando, attaccò il cappello da pesca a uno dei ganci rossi del guardaroba.<br />

Come ogni estinto<br />

riposa quieto...<br />

Questa era la canzone della loggia, come la chiamava mia madre.<br />

«La compenserò in miglior vita», disse a Kröhl e gli diede la mano, «per il momento<br />

mille grazie». Osservò i lampadari: «Qua è di nuovo tutto sbagliato...».<br />

Poi si sedette al pianoforte a coda, si appoggiò all’indietro e suonò:<br />

al gran Pascià inni cantate...<br />

Plink-plink! – sì, andava.<br />

14


Sopra lo strumento era appeso il quadro del porto dalla grossa cornice dorata, un<br />

regalo di nozze del console Discher.<br />

Si diceva non fosse stato a buon mercato.<br />

Mia sorella Ulla («Che belle trecce che hai, bambina mia»), sette anni più grande<br />

di me, ebbe la mansarda.<br />

«Badate!», gridava, e portava su dei vasi.<br />

Indossava un abito di lana color ruggine, con ghirlande di fiori ricamate per traverso.<br />

Io dividevo la camera con mio fratello Robert. Sei anni più grande di me. I capelli<br />

biondi molto ondulati, come le onde del Mar di Galilea, nella Bibbia illustrata,<br />

sulle quali cammina Gesù. Sosteneva che da me emanava «una puzza<br />

pestilenziale».<br />

Tirava su col naso continuamente, come se di tanto in tanto ricaricasse gli ingranaggi.<br />

Allora mia madre diceva: «Salute! Vuoi un tocco di pane». Gli piaceva<br />

indossare cravatte. Le annodava con pazienza. Dopodiché si stiracchiava ancora<br />

un poco, quasi volesse dire: «Sono proprio un bel tomo».<br />

«Allora, volpone», faceva, quando ci incontravamo nel corridoio.<br />

Mia madre discendeva, come lei asseriva, da un’antica famiglia ugonotta, i de<br />

Bonsac. Nobilitati nel XVI secolo. L’antenato, da coppiere, avrebbe saputo distinguere<br />

subito il vino buono da quello cattivo. Era pervenuto alla famiglia anche<br />

uno stemma, che adesso stava appeso a Wandsbek, dove era inciso<br />

Bonum bono, al buono il bene<br />

E sullo stemma, coppa e uva.<br />

Dandomi la buonanotte mi metteva la mano sulla fronte. («Non sembra una<br />

contessa»).<br />

Poi pronunciava lunghe preghiere, durante le quali i suoi occhi a poco a poco si<br />

riempivano di lacrime.<br />

«Oh, buon Dio, guarda quanto siamo inermi davanti a te, sii misericordioso, aiutaci<br />

in tutte le necessità del corpo e della vita, che tutto il bene in noi venga fuori,<br />

e fa’ di noi i tuoi figli. Aiuta tutti gli uomini con la tua bontà onnipotente, che<br />

tutto dis-, dis-, dis- dispone e ordina...», e così via.<br />

Durava spesso parecchio, ed io, allungandomi e stirandomi, cercavo di far capire<br />

che poteva bastare.<br />

Allora cantava<br />

Sono stanca, vo a posar...<br />

Tutt’e quattro le strofe. Aveva una bella voce.<br />

15


Alla fine si chinava verso di me, e io avevo il permesso di baciarla. «Ma non sulla<br />

bocca».<br />

Quando mio padre aveva finito di scorrere la «Abendpost» – «<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong>!»<br />

– di solito suonava il pianoforte ancora a lungo. Con la porta aperta potevo<br />

sentirlo bene.<br />

Il «Mormorio di primavera» di Sinding o le Danze della lega di Davide. «Con<br />

brio un po’ spudorato».<br />

Nella porta della nostra camera erano inserite lastre di vetro rigate. Imboccato il<br />

corridoio di fronte vedevano subito se, nonostante il divieto, stessi ancora leggendo.<br />

(«Kai fuori dal letto»). Tenevo il dito, con l’attenzione al massimo, sempre<br />

sull’interruttore. Mia madre non è mai riuscita a scoprirmi. «Sul tuo onore».<br />

Però mio fratello Robert, che talora partecipava all’avvicinamento di soppiatto,<br />

era più furbo, lui toccava la lampadina. «Di’ un po’, non ti vergogni».<br />

Lui stesso leggeva fino all’alba. Lok Myler: «L’uomo che cadde dal cielo».<br />

Al mattino si tirava su con difficoltà. («Levataque!»).<br />

E già che era di guardia alla finestra! Per mio padre, uno superstizioso, doveva fare<br />

da vedetta in cerca di ragazze giovani.<br />

«Dai papà, muoviti!».<br />

Quindi arrivava di corsa, incurvito, come se non si potesse raddrizzare, rasato a<br />

metà, trascinando le pantofole e con le braghe penzoloni.<br />

«Buono all’uovo», adesso nessuna vecchiaccia poteva più rovinargli la giornata.<br />

La colazione era sempre molto armoniosa.<br />

«Che dice la mia pelle», domandava mio padre e allungava il collo. Ad Ypres<br />

s’era beccato il gas.<br />

«Meraviglioso», bisognava dire, «niente gonfiori o abrasioni», altrimenti tutta la<br />

giornata sarebbe andata in malora.<br />

All’ultimo arrivato si gridava: «Ah, s’alza il sole!». Poi doveva cercare a lungo i<br />

suoi panini – «fuoco! acqua!» – nascosti da qualche parte (il più delle volte sul<br />

grembo di mia madre).<br />

«Chi non viene all’ora giusta<br />

il suo pasto non si gusta».<br />

Di fianco al piatto di mio padre c’era il foglio del calendario. «Calendario storicogeografico<br />

di Meyer», con i giorni commemorativi nazionali.<br />

1916 – Presa di Fort Douaumont.<br />

Per me, seduto alla fine del tavolo, aveva in serbo innocui scherzi.<br />

Che cosa significasse «Muccorretrovacche», «Sputa all’istante!».<br />

«La mucca corre dietro alle vacche», dovevo poi rispondere.<br />

16


Dunque seguiva il «buono all’uovo».<br />

Mio padre comprò per sé una bici nuova. Quella vecchia, coi pedalini per chi sedeva<br />

dietro, era arrugginita. Inoltre un impermeabile con le falde che si potevano<br />

abbottonare fino a sopra. «Così sembro proprio un francesino», diceva.<br />

Mia madre fece rifoderare tutte le poltrone, i vecchi rivestimenti di velluto non<br />

li poteva più vedere.<br />

Per il balcone – «no, che vista!» – comprò sedie di canna.<br />

Da Tillich, le «Mode Viennesi», si fece confezionare un vestito, uno azzurro chiaro.<br />

La parte superiore era tagliata come una pellegrina, con tre bottoni sul petto.<br />

Di lì si diramavano pieghe piatte in tutte le direzioni.<br />

Io ebbi un cosiddetto abito amburghese, col sopra che si abbottonava ai pantaloni.<br />

I miei due fratelli ricevettero il permesso di entrare allo yacht club, ma i vestiti<br />

bianchi non furono accordati.<br />

Al circolo di canottaggio non c’erano voluti andare. Non erano mica schiavi di<br />

galea.<br />

Se Ulla avesse avuto una fisarmonica, sosteneva Robert, ci avrebbe sicuramente<br />

torturato con le canzonette. Sull’armonica a bocca suonava<br />

Della Saal sui chiari liti<br />

son castelli alteri e arditi.<br />

Lei istigava mio fratello alle malefatte. Quando la cosa veniva alla luce c’erano<br />

arresti in camera.<br />

Non era un vero ragazzo, sosteneva lei. I veri ragazzi tornavano a casa con ginocchia<br />

sbucciate e buchi nei pantaloni. Quelli scavalcavano tutti i recinti.<br />

«Mi riveleresti, per favore, quale recinto dovrei scavalcare», domandava Robert.<br />

Dacché andavano a vela, mio padre era spesso costretto a rimanere sulla scala con<br />

l’orologio in mano.<br />

«Da dove state tornando».<br />

Da adesso in poi si cambiava musica.<br />

In più Ulla ottenne un abbonamento per l’equitazione. Nel maneggio poteva<br />

trottare intorno all’arena a 5 marchi l’ora. In tuta, per sua disperazione. Però, si<br />

lagnava, Kati Rupp aveva una tenuta da cavallerizza. «E allora ti devi trovare un<br />

altro padre, che io le palanche non le trovo mica sugli alberi».<br />

La osservavamo dall’ombra della tribuna. Quando il cavallo scorreggiava, mio<br />

padre rideva.<br />

17


In uno spettacolo era inginocchiata sopra la sella. Dopo disse che in quel giro<br />

s’era presa una fifa blu, aveva avuto le vertigini.<br />

Una volta le era arrivata una staffa contro la fronte.<br />

«Quanta segatura c’è là dentro», chiese Robert quando comparve col bernoccolo.<br />

Ulla scattava foto ai cavalli con la sua Agfa-Box.<br />

Finivano nell’album.<br />

Sotto si scriveva «il buon compagno».<br />

Tutta la famiglia venne fotografata.<br />

Mamma nel completo con la pellegrina, Robert mentre va a vela ed io nell’abito<br />

amburghese.<br />

Papà addirittura come milite delle sa ai piedi di una betulla.<br />

2<br />

Sotto di noi, al primo piano, abitava Woldemann, un commerciante in legname<br />

benestante, corpulento. Portava i capelli neri – lucidi come scarpe laccate – pettinati<br />

con una forte riga in mezzo. Al mignolo un anello dalla pietra blu.<br />

«Allora, inglesino» mi disse con voce grave, e prese una delle bottiglie di vino<br />

aperte che stavano dappertutto. Ne bevve senza bicchiere, a lunghi sorsi.<br />

Nella «camera dei signori» poltrone gigantesche con sopra cuciti dei cuscini, più<br />

comode che da noi, anche il tappeto più grande, e i quadri adatti.<br />

Accanto al tavolino da fumo un grammofono nero, simile a un comò. Sul davanti<br />

una specie di porta per far uscire la musica.<br />

Non è dolce, non è brava,<br />

non è buona, la signorina Gerda... <br />

Sul grammofono una bambola di cera nella celluloide.<br />

Indossava un abito di pizzo.<br />

«Filigrana», diceva mia madre.<br />

Al muro il dipinto a olio d’un pollaio: la cornice nera larga il doppio del quadretto<br />

rosa.<br />

Di mattina Woldemann sedeva in veste da camera al tavolino da caffè.<br />

Faceva ruotare il piatto girevole su cui stavano marmellata e miele.<br />

Mangiava l’uovo col cucchiaio d’argento. («Uovo e argento Ma fa la muffa!»).<br />

Leccava le gocce dal bricco del latte schioccando le labbra.<br />

Ognun felice, ognun orgoglioso,<br />

se l’avesse, la signorina Gerda...<br />

18


Il panino lo mangiava con forchetta e coltello.<br />

La moglie era giovane e intraprendente. «Woldi», gli diceva.<br />

Mentre il grammofono sonicchiava lei andava su e giù nell’appartamento, da una<br />

confezione di cioccolatini all’altra, si arrotolava i capelli e spolverava con un piumino<br />

le porcellane di Copenhagen.<br />

Mio padre urlava sempre così forte, ma a chi si riferiva con «moccolone»<br />

La loro figlia Ute aveva 9 anni, come me.<br />

Capelli a caschetto neri e occhi blu scuro.<br />

Tranne poche giornate di broncio rimanevamo insieme a lungo. Stavo per lo più<br />

sdraiato sul tappeto, e lei sedeva sulla mia pancia. Era bello caldo e confortevole.<br />

Io ritiravo persino le gambe, perché potesse appoggiarsi. Allora lei si dondolava<br />

un po’ e si metteva le dita nel naso.<br />

(La prima volta mi ero ribellato. La parte superiore del mio abito amburghese era<br />

saltata pure via dai pantaloni).<br />

In tal modo imparai a conoscere tutti i mobili dal di sotto: il tavolino con le gambe<br />

attaccate alla buona dal falegname, la poltrona con cinghie simili a quelle dei<br />

facchini, il cestino dei rifiuti che odorava sempre di marcio perché vi erano state<br />

gettate bucce di mela.<br />

Una volta avemmo un litigio: quale fosse più importante, il sesso maschile o<br />

quello femminile.<br />

Il padre viene superato dalla sovranità, diceva lei, enumerando con le dita; e il<br />

continente dalla terra.<br />

Ma la terra da Dio, risposi, e quello era maschile.<br />

Tutta la gente a un tratto si ferma,<br />

per guardar dietro alla bimba bella...<br />

Quando la mamma si faceva sentire nel corridoio ci allontanavamo di scatto.<br />

«... sennò v’arriva una sventola», diceva.<br />

Dietro l’edificio c’era una fabbrica d’acqua di seltz, apparteneva al nostro padrone<br />

di casa.<br />

Per i boschi o per le gole,<br />

Dr. Krause frizza-al-sole.<br />

Ci sedevamo nelle casse delle bottiglie ed entravamo col nastro trasportatore.<br />

Attraversava capannoni bui, oltrepassando insenature di bottiglie vuote. Trenino<br />

dell’orrore!<br />

Saltavamo giù in un locale piastrellato. Qui si imbottigliava la frizza-al-sole.<br />

Operai in camici di gomma erano vicini al nastro, e stavano a guardare come le<br />

19


ottiglie marciavano a scatti in fila, e come dal macchinario venivano riempite,<br />

tappate, rovesciate, etichettate e fatte rotolare nelle casse.<br />

La leva che rovesciava le bottiglie era imbottita. Da sotto ne veniva incontro una<br />

seconda che le riceveva delicatamente.<br />

Di tanto in tanto una bottiglia si spaccava con uno scoppio sordo. Allora piovevano<br />

schegge.<br />

Le casse piene erano depositate in cantina. Qua era fresco. Ute sapeva dove stava<br />

la gassosa all’asperula. La bevevamo tutta d’un sorso – «a chi finisce prima» – e<br />

ruttavamo.<br />

In ufficio c’era odore di tabacco e menta. Qui la signorina Reber, abbronzata per<br />

lo sci, siglava documenti in un lampo. «Reber», diceva che il cognome lo si poteva<br />

leggere anche al contrario. Suo fratello, aviatore nella legione, si chiamava<br />

addirittura Otto!<br />

Mi regalò un canzoniere «Sulla resistenza e sulla natura dei ragazzi». Non volevo<br />

anch’io diventare un Pimpf 1 forzuto Ute ricevette «Filatrice Lodegrazie, un nuovo<br />

libro di canzoni per ragazze».<br />

L’aurora si è levata<br />

la buia notte muore.<br />

A nuovi dì, fa’ cuore,<br />

chiama l’alba ora nata.<br />

«Voglio un litro d’acquavite», disse un ubriaco che stava giusto entrando.<br />

Al muro c’era appeso Clausewitz.<br />

Dovevamo evitare l’incontro con il dottor Krause. Lui attraversava il cortile in<br />

calzoni da cavallerizzo. Qui era rimasta una porta aperta, lì c’era della carta. Forse<br />

si potrebbero risparmiare chiodi nella fabbricazione delle cassette da bottiglia.<br />

Per dimostrare la bontà del suo pozzo fece riempire un secchio di zinco. «Chiara<br />

come cristallo». L’affiancò all’acqua di rubinetto di Rostock. Sbalorditivo! Una<br />

brodaglia marrone e argillosa.<br />

Diceva che nell’acqua di rubinetto galleggiavano veri e propri escrementi.<br />

Witschorek, il conducente della motrice, cercava sempre di scacciarci. Veniva dai<br />

Sudeti. Una volta cantai per scherzo «Quelli dell’Egerland stanno uniti...». L’uomo<br />

si mise quasi a piangere.<br />

Dal cocchiere Boldt eravamo sempre ben visti. Fischiettando allegro mescolava<br />

avena e paglia tritata, ci versava anche un po’ di gassosa alla mela. Guadagnava 36<br />

marchi alla settimana. Mio padre mi dava per lui dei sigari fumati a metà.<br />

Il cavallo bianco «Max» era un «camerata di guerra». Il dottor Krause se l’era portato<br />

dalla Galizia. Sotto il cartellino «camerata di guerra» c’era una croce di ferro,<br />

20


ma in cartone. Nella guerra mondiale anche alcune navi avevano ricevuto la croce<br />

di ferro, e i cani portaordini.<br />

Evitavamo Max perché mordeva.<br />

Invece la grossa cavalla Nora era inoffensiva.<br />

Norella, al pozzo avanti alle cancella,<br />

diceva il cocchiere Boldt.<br />

Lei tirava un po’ più forte di Max.<br />

Verso sera, quando avevamo bevuto abbastanza, tornavamo in casa. Là giocavamo<br />

a nascondino al buio, e in breve eravamo di nuovo sdraiati sul tappeto. Le<br />

luci delle macchine che passavano si spostavano sul soffitto.<br />

La pancia singhiozzava.<br />

Non è dolce, non è brava,<br />

non è buona...<br />

Ute si dondolava un po’ avanti e indietro. All’ascolto, che non venissero i genitori.<br />

«... sennò v’arriva una sventola».<br />

Cercammo di stabilire se suo padre fosse «più alto» di mio padre, o il dottor<br />

Krause, chissà se era lui il più alto. «’turalmente», diceva lei invece di «naturalmente».<br />

A cena mia madre domandava: «Ma come ti sei conciato Fritto e marinato...».<br />

E Robert, scuotendo la testa, diceva: «Quanto ti hanno potato male, albero...».<br />

Tra l’altro la Leberwurst era abbastanza buona.<br />

3<br />

Mio padre «amava la sua città natale», come veniva sempre ripetuto. Era membro<br />

dell’Associazione per le Antichità di Rostock e ne frequentava regolarmente le<br />

conferenze: «Gli esercizi spirituali della guardia cittadina» o «I soldati di Rostock<br />

nella Guerra dei Trent’anni».<br />

Nelle Fiandre se l’era cavata piuttosto bene col dialetto.<br />

La domenica, mentre mia madre irrorava l’arrosto, ci portava a fare un giro. La mano<br />

destra dietro alla schiena, tenendo con la sinistra il bastone da passeggio, avanti e indietro.<br />

Siccome conosceva molte persone, si levava di continuo il cappello.<br />

Con i commercianti parlava di parcelle, tonnellate e dividendi; alle signore diceva<br />

«mia carissima signora» e baciava loro la mano. Lui stesso era chiamato «signor<br />

21


Kempowski» o «Körling». Nel frattempo sostavamo alla cunetta e scrutavamo le<br />

finestre sbarrate del carcere, nel caso riuscissimo a individuare una faccia pallida.<br />

«Signor Kempowski! Posso venire con lei», gridava gesticolando, dall’altro lato<br />

della strada, un uomo col labbro leporino. Era il dottor Heuer.<br />

«Anche questa», disse mio padre. «Be’, come va».<br />

Una volta gli rivolse la parola un marinaio ubriaco. In quell’occasione non si tolse<br />

il guanto.<br />

«Non si sa mai cos’hanno toccato persone del genere», disse. Da giovane fu costretto<br />

a riscattare un capitano in un bordello; gli avevano levato i calzoni perché<br />

non poteva pagare.<br />

Di Rostock la gente diceva che non era Lubecca o Amburgo, ma che era pur<br />

sempre meglio di Wismar o Stralsund. Una città che da secoli veniva deturpata<br />

da cattivi architetti. Era meraviglioso che dopotutto conservasse ancora una certa<br />

attrattiva. Lo Steintor, ad esempio, che puzzava di piscio d’uomo: quando il tram<br />

passava lì sotto, doveva abbassarsi il pantografo.<br />

«Come i soldati, un tempo, sbattevano giù i ponti levatoi!».<br />

O il Kröpeliner Tor, provvisto, da uno che goticheggiava, di torri e archi, e panche<br />

su cui i vecchi giocavano a Skat. «Lo sapevo che dovevo tirare l’asso», la pipa<br />

rimaneva appesa alla bocca sdentata solo grazie a un anello di gomma.<br />

A fianco, adagiato tra i cespugli dei giardini dei bastioni, come un Goethe sdraiato<br />

in Italia, ma più campagnolo.<br />

I campanili delle chiese erano o troppo grandi o troppo piccoli.<br />

La massiccia Marienkirche, un orrore architettonico con una gigantesca ala ovest,<br />

abbastanza grande da avere tre campanili, coperta in fretta con un casco simile a<br />

una testa di gallina, conformemente agli ordini.<br />

«Come una chioccia coi suoi pulcini». E St. Petri, una chiesa che era quasi tutta<br />

campanile.<br />

Oggi la gente non potrebbe più costruire cose simili, sostenevano. Correvano<br />

strane dicerie sulla composizione della malta.<br />

Alla posta mio padre svuotò la cassetta 210. Il 210 era stato il suo numero di reggimento.<br />

(«Volete essere eroi»).<br />

Scorreva le lettere di sfuggita, – «cavoli, quanta» – e se le ficcava in tasca.<br />

Le poste in stile gotico erano vicine al Rosengarten, quel che rimaneva dei giardini<br />

dei bastioni. Un tempo vi si arrivava da un sentiero laterale. Quando quello<br />

fu chiuso, la gente scavalcava le transenne per protesta.<br />

A fianco della posta si trovava il monumento ai caduti degli anni ’90. Lì ci mostrò i<br />

cognomi «Vespa» e «Siano» che, curiosamente, stavano proprio l’uno sotto l’altro.<br />

22


«Urrà!», avevano urlato i negri senegalesi. E gli aviatori; quelli erano i più infami.<br />

Perché non si poteva sfuggire.<br />

Aveva mai ucciso dei nemici<br />

Non che lui sapesse, aveva sempre mirato più o meno nella loro direzione. Erano<br />

stati solo dei puntini neri.<br />

Dal monumento ai caduti, giù verso il porto, oltre i bastioni, per vedere se fossero<br />

arrivate altre navi. Fare una breve visita agli amici, «Brennevin». Squadrare<br />

i nemici di sfuggita.<br />

Non era permesso dire «skipper», né «carcassa» o «rottame».<br />

Di fianco al Mönchentor, in stile classico – sopra l’arcata una testa di leone con<br />

le fauci aperte e sul tetto una specie di ciotola di bronzo – c’era il nostro ufficio.<br />

Su alcune cartoline se ne vedeva un pezzo.<br />

Un tempo era stata una taverna, la cantina per la birra, con la botola, c’era ancora.<br />

Mio padre andò nell’ufficio commerciale e si mise a telefonare. Parcelle, tonnellate<br />

e dividendi. Nel frattempo noi giravamo il copialettere. «Ti metterai a ridere»,<br />

disse mio fratello, «questa cosa funziona ancora. Tienici un pollice sotto».<br />

Sulla scrivania del procuratore una lastra di pietra come fermacarte. Al muro: Hitler,<br />

Hindenburg e Bismarck l’uno sull’altro.<br />

Poi si risaliva la Mönchenstraße, in direzione del Neuer Markt. Pezzi di cannone<br />

agli angoli delle strade, in modo che gli edifici non venissero danneggiati dalle<br />

auto.<br />

«Qui un tempo aveva abitato Fritz Reuter».<br />

Case e capannoni incastrati le une negli altri. Recinti, pali per stendere i panni e<br />

comignoli di latta sugli uniformi tetti catramati.<br />

«Prima fabbrica di caramelle e zucchero a vapore sotto vuoto», screpolato e slavato,<br />

su un muro.<br />

Nelle finestre a pianterreno vasetti di cactus con piccole pagode e ponticelli. Taverne:<br />

se entri puoi guardar fuori.<br />

Di tanto in tanto un bel frontone a gradini, con finestre sottotetto e lucernari.<br />

Ma i fotografi avrebbero dovuto lavorare di fino, se volevano prenderli tutti nella<br />

lastra.<br />

Al Neuer Markt veniva mostrato il posto dove c’era stata una fontana, e sotto al<br />

municipio, ad un pilastro, un piccolo serpente, la cui provenienza e il cui scopo<br />

erano inspiegabili.<br />

Alle 12 c’era un concerto all’aperto. Si svolgeva presso il monumento a Friedrich<br />

Franz III, sotto la quercia del ’70-71. Padri con bimbi sulle spalle.<br />

23


Il direttore della banda musicale zoppicava. Quando gli ascoltatori spingevano, li<br />

rimbrottava. Sinfonia della Gazza ladra.<br />

«Accidenti, mi dia un fa!».<br />

Io osservavo i tromboni a tiro, che venivano tirati continuamente in modo diverso<br />

da come si pensava fosse giusto. L’oboista, un caporale, aveva del cotone<br />

nelle orecchie.<br />

Al battere della bacchetta i soldati mettevano via i loro strumenti e tornavano in<br />

caserma col tram.<br />

Sulla via di casa cercavamo di individuare dei «tipi», per esempio Herbig, l’amante<br />

della natura, che si diceva trottasse ogni domenica verso Kösterbek con un<br />

violino nello zaino.<br />

«Anche lui è una creatura di Dio».<br />

O il professor Totenhals, che si tappava sempre le orecchie quando attraversava<br />

la strada.<br />

Una volta ci venne incontro un uomo, camminava molto incurvito. Chiedemmo<br />

perché mai camminasse così.<br />

«A quello i figli hanno dato molti grattacapi», disse mio padre.<br />

Nelle scale c’era già odore d’arrosto, e quando era aperto il portone si sentiva tintinnare<br />

l’argenteria.<br />

«Eccuoci qua!».<br />

«Era ora, mi stavo quasi rassegnando».<br />

4<br />

La domenica c’era budino a forma di grappolo d’uva. Mia sorella, ancora a 16<br />

anni, pretendeva di avere gli acini e non le foglie: «Cacca calda!».<br />

Dopo mangiato si rendeva grazie, a questo ci pensava la mamma.<br />

Mio padre diceva: «Amin-amehn» e faceva pressione più volte sul tavolo, con<br />

forza.<br />

«Gesù, Karl...».<br />

«Che c’è».<br />

Si alzava e correva piegato alla credenza. Lì c’era il barattolo, afferrava un pugno<br />

di biscotti e li infilava in bocca come talleri. Che non lo capiva, diceva mia madre,<br />

ma non aveva appena mangiato bene e in abbondanza<br />

«Non parlare, donna!». I biscotti tappavano gli spiragli e le fessure finali dello stomaco,<br />

e se li conteggiava in bocca.<br />

24


Ci demmo una mossa per andare al cinema. Stanlio e Ollio venditori di elettrodomestici.<br />

Mio fratello sempre un paio di passi avanti. Ulla mi prendeva per il<br />

collo e mi girava la testa verso destra o sinistra, a seconda del percorso da seguire.<br />

Era necessaria una certa fretta, perché prima bisognava riscuotere i soldi dal<br />

nonno.<br />

La casa del nonno era nei pressi della porta cittadina, tra le ville dei consoli Böttcher<br />

e Viehbrock decorate da mascheroni ilari e tristi.<br />

I fattorini si servano dell’entrata posteriore.<br />

Per la sua sedia a rotelle venne posto sulle scale un piano inclinato.<br />

La casa era molto spaziosa, due livelli, tutte stanze immense, un tempo vi si erano<br />

tenute feste.<br />

Nell’ingresso una vetrina di mogano con le ceramiche. Una tazza dorata da cui<br />

una volta avrebbe bevuto la regina Luisa. Ma anche il piccolo domatore di tori in<br />

porcellana di Copenhagen.<br />

Di fianco alla vetrina lo sgabello col catetere. Di tanto in tanto il direttore del<br />

museo veniva a chiedere dei piccoli acquerelli di Rostock.<br />

Il vecchio era seduto nel bovindo e leggeva. Sulla pancia una bottiglia di Steinhäger<br />

piena d’acqua calda. («Il buon vecchio»). Se fuori passavano conoscenti, li<br />

salutava amichevolmente e bofonchiava: «Anche tu sei un bello stronzo».<br />

Ci mettemmo davanti a lui.<br />

Come segnalibro fece uno strappo nella pagina: Gli ultimi giorni di Pompei.<br />

Quindi strimpellava al violino canzoni popolari e raccontava barzellette della<br />

Prussia Orientale, per cui la dentiera gli cascava. (Avevamo paura di non capirle<br />

e ridevamo troppo presto).<br />

Qualche anno prima andò a sbattere contro il bidone dei rifiuti, per questo adesso<br />

era paralizzato.<br />

Dopo si toglieva di bocca il tabacco biascicato e mio fratello, quella canaglia, doveva<br />

tendere la mano.<br />

«Nonno, ora dobbiamo andare».<br />

«Allora dammi il borsellino...».<br />

Le deboli dita aprivano il portamonete a fisarmonica e cercavano gli spiccioli.<br />

«Ti bastano», e posava 5 pfennig sul bracciolo, come se non li avesse mai visti.<br />

«Noo, nonno».<br />

«Ti potesse venire un po’ di bene...», e posava ancora una moneta. A volte anche<br />

una scaglia di pesce, ficcata nel portafoglio a capodanno perché non restasse mai<br />

vuoto.<br />

Quando bastavano afferravamo i soldi e scappavamo via. Saltare giù per i gradini,<br />

sbattere le porte. «Scommettiamo che non ce la faremo».<br />

25


«Invece ti do la mia parola».<br />

Il vecchio colpiva la finestra con il bastone da passeggio e agitava il pugno.<br />

Ce la facevamo sempre. Pochi minuti prima delle 2 raggiungevamo il Ka-Li-<br />

Sonne, un cinema cui era annessa una sala da ballo. «Vietato ballare lo swing»,<br />

stava scritto su un cartello.<br />

Ressa di bambini. Un gong suonò e il sipario si tinse di verde, rosso e arancione.<br />

Stan Laurel e Oliver Hardy, fra gli acuti fischi dei bambini, gettavano uova sulla<br />

testa di un droghiere. E quello, in cambio, prendeva i loro orologi da taschino e<br />

li ficcava nella centrifuga.<br />

Con Robert a fianco non si rimaneva mai in pace. Ti dava continuamente dei<br />

colpetti per chiedere se avessi visto quella scena.<br />

Poi si diceva che il film era stato epocale oppure «superbo».<br />

Una volta diedero il film «Aurora», con Adele Sandrock. Era stata una fregatura.<br />

Noi volevamo sempre ridere, ma quella volta non c’era niente da ridere.<br />

Dopo il cinema si andava al caffè letterario. Lì erano seduti gli amici dello yacht<br />

club.<br />

Ebrei indesiderati!<br />

Heini, maglione a collo alto, monete di rame sul cinturino dell’orologio, forte da<br />

morire; Michael, con i suoi atteggiamenti da aristocratico annoiato, del quale si<br />

diceva che il padre avesse un autentico Rembrandt, tutto nero, senza niente da<br />

vedere; e Bubi, un «vero ragazzo», come asseriva mia sorella.<br />

Presto si sarebbe dovuto andare di nuovo in barca.<br />

Mio fratello disse di aver fatto una scoperta orrenda e si palpò le tasche: nulla<br />

più da fumare!<br />

r6, a doppia fermentazione,<br />

Domandai se non potessi avere la scatola vuota.<br />

Ero forse sopraffatto dalla pazzia Dovevo chiudere il becco e svignarmela.<br />

Nei giardini anteriori campanule appassite, bossi su sentieri che nessuno percorreva,<br />

ringhiere di ferro arrugginite, un cane che piscia.<br />

È vietato appoggiare biciclette.<br />

26


Se in lontananza spuntava un ragazzo si cambiava percorso. Verso il terrapieno<br />

inferiore, su cui ancora non erano state collocate le panchine. Attraverso la<br />

Schröderstraße, lungo il muro diroccato di una fabbrica di conserve alimentari.<br />

Oltre la finestra della cantina del vasaio Wernike, dove c’erano i forni e un gufo<br />

verde di maiolica. Quello l’avrebbe un giorno comprato e scassato a terra, diceva<br />

mio fratello ogni volta che ci passava davanti.<br />

Per i boschi o per le gole,<br />

Dr. Krause frizza-al-sole.<br />

La fabbrica chiusa, il cancello assicurato con una catena.<br />

Nelle scale la luce a tempo: scattava.<br />

Ute era di nuovo dai suoi nonni.<br />

Estrassi con cautela la chiave del nostro appartamento dalla buca per il latte. Per<br />

aprire ci voleva tempo. Doveva avvenire senza rumore. Se cigolava appariva mia<br />

madre con l’impronta del cuscino sulla guancia: «Titolo: il silenzio pomeridiano!».<br />

E poi magari si svegliava anche papà: «Moccolone!». Nel guardaroba era appeso<br />

il suo cappello da pesca. A fianco c’era quello di mia madre, con l’uccello finto<br />

sopra, sembrava sempre dovesse cascarle a terra.<br />

Bastoni da passeggio nell’entrata: uno si apriva come un bizzarro ombrello e ci<br />

si sedeva sopra.<br />

Strisciai attraverso l’appartamento. Sulla pendola s’era ritrovata, durante il trasloco,<br />

una pantofola che anni prima fu cercata invano.<br />

Le pere incollate alla credenza, dentro c’erano cristalli e una coppa di Meißen.<br />

L’orlo del tappeto, che si poteva usare come strada per le macchinine Märklin.<br />

Se si era fortunati, il Graetz trasmetteva ancora delle favole. «Lascia, mio servo!».<br />

Il più delle volte, però: poemi sinfonici di Sibelius.<br />

Nella libreria a sinistra Lutero e la Storia del Rauhes Haus.<br />

In mezzo Wiechert, Hesse e Ruth Schaumann. Ma anche «I Buddenbrook» e<br />

«Professor Unrat» («crediatelo bene»). Proprio in fondo, libri d’arte con le intramontabili<br />

opere dei grandi maestri. Le avevo provviste di bigliettini per non incappare<br />

nelle immagini della crocifissione.<br />

Giuditta con la testa di Oloferne.<br />

Nella libreria a destra le storie di reggimento; Chamberlain, Stegemann e Lilly<br />

Braun.<br />

Lo scaffale con gli spartiti non c’era neanche bisogno di vederlo da vicino. A tal<br />

punto attraenti erano le copertine: flauti e violini inghirlandati di fiori, all’interno<br />

regnava la scrittura segreta dei pianisti, tenuta insieme da grandi legature.<br />

27


Sulla scrivania una cartellina intarsiata con un calendario francese. Tutte le lettere<br />

franavano. E i depliant dei sigari della fabbrica Loeser & <strong>Wolff</strong>. Con l’aiuto di<br />

questi depliant mio padre sceglieva quali sigari ordinare solo per lui, ancora solo<br />

per lui e quali invece per i fornitori.<br />

Sotto, nella scrivania, una scatola piena di foto. Di mio nonno, grosse e scure:<br />

1905, ai cari genitori per le nozze d’oro,<br />

ma anche sottili e più recenti, di carta artigianale, da un allegro picnic: bottiglie<br />

di vino su una coperta stesa. Si raccontava che il cane avesse pestato il<br />

burro.<br />

(Mia madre con pettinatura alla maschietto).<br />

«Ci vogliono andare con il cavallo, a Rostock».<br />

Cartine delle Fiandre. Mio padre se le portava volentieri in bagno, per «chiarire<br />

la situazione», come diceva.<br />

Caggia, caggia, lieta saggia...<br />

«La mia prima pattuglia ce l’ho gia alle spalle», aveva scritto, «Ma poi la mia uniforme<br />

aveva un aspetto! Ho camminato in un fossato...». Non gli piaceva che<br />

qualcuno uscisse dal bagno proprio mentre lui arrivava. Perché la tavoletta era<br />

ancora calda.<br />

Dopo il caffè di solito veniva Manfred, un compagno di scuola silenzioso. Uno<br />

con occhiali di nichel, che mangiava sempre panini al formaggio.<br />

«Che zazzera rossa, no», diceva mio fratello.<br />

Doveva prima chiedere ai suoi genitori se poteva giocare con me, aveva detto<br />

quando l’avevo invitato la prima volta; non sapeva mica che gente eravamo.<br />

Aveva la pelle spessa e piena di lentiggini; poteva infilarci degli aghi senza sentire<br />

niente.<br />

Aveva ereditato statuine di stagno da uno zio: aztechi e spagnoli, con una verniciatura<br />

di prima qualità.<br />

Stavano dentro scatole di sigarette, una di fianco all’altra. Guerrieri giaguaro e<br />

guerrieri con lo spadone, fanteria all’assalto e in fuga, portatori dell’insegna del<br />

sole; caduti, morti.<br />

Mia madre, che teneva le statuine lontane da sé, sosteneva che gli Aztechi erano<br />

persone senza un vero mento, un popolo con quelle teste da uccello.<br />

Nella biblioteca pubblica Manfred aveva preso in prestito un libro: «La conquista<br />

del Messico».<br />

«Tienimi pulito», diceva il libro.<br />

Era illustrato.<br />

Divinità di pietra, ravvolte all’infinito su se stesse. Piramidi a gradoni, templi ri-<br />

28


volti verso il sole. Cuori dipinti nelle fauci della divinità Quetzalcoatl. Sacerdoti<br />

incrostati di sangue con lame di ossidiana davanti a vittime che si inarcano.<br />

Huitzilopochtli, un nome difficile.<br />

Quando finalmente riuscii a pronunciarlo mi meravigliai del fatto che nessuno<br />

se ne meravigliasse.<br />

I criminali pericolosi venivano legati ad un’impalcatura di legno e gli si strappava<br />

la pelle del viso, per attirare gli uccelli predatori.<br />

Di mattina combatteva sempre con i suoi cuscini, diceva Manfred. Li prendeva<br />

a pugni e ci si metteva sopra a cavalcioni. Si lasciava sempre sconfiggere dal piumone.<br />

Quando non eravamo disturbati inscenavamo delle storie. Una si chiamava «Chi<br />

la fa l’aspetti». Lui era Cortés, sdraiato sul divano e mi tirava calci. Io dovevo liberarmi<br />

delle catene, buttarmi su di lui, gridare «libertà» e legarlo al modo degli<br />

Aztechi. («Ma stringi di più!»).<br />

E allora dovevo gridare con disprezzo: «Chi la fa l’aspetti!».<br />

La prima volta disse: «Chi la fa l’aspetti» – pensava di non poter sopportare questo<br />

disprezzo. Ma potevamo tranquillamente provare, era proprio curioso di vedere<br />

se l’avrebbe sopportato.<br />

«Chi – la – fa...»: ogni singola parola sembrava annientarlo.<br />

O Dio no, diceva, non lo sopportava, e roteava gli occhi, era proprio difficile da<br />

sopportare, questo disprezzo! Ma io dovevo lo stesso continuare a parlare lentamente.<br />

Era curioso di sapere se ce l’avrebbe fatta.<br />

Allora lo dovevo picchiare sulle cosce con un righello, leggermente, delicatamente<br />

finché non si arrossavano, sempre di più. Riusciva ancora a resistere<br />

Sì, continua, continua.<br />

Infine voleva essere spinto sotto il letto. Gli dovevo lanciare dietro del pane che<br />

afferrava con i denti.<br />

Il pensiero che magari io me ne andassi lasciandolo lì era terrificante, diceva.<br />

Che io andassi fino alla porta.<br />

Chissà se l’avrebbe sopportato.<br />

Una volta lo spinsi nel ripostiglio e chiusi la porta.<br />

Presi il nerbo dal guardaroba e diedi più volte dei colpi brevi e forti. La paletta di<br />

metallo sferragliò e la scopa cadde a terra.<br />

Gridò che era orribile.<br />

Come m’era venuta quell’idea<br />

La cosa, però, lo sorprese molto!<br />

29


«Allora, Huitziloportlo», disse mia sorella a cena. «Sei proprio bollente».<br />

Mio fratello le dava la sua parola che avevamo di nuovo fatto il diavolo a quattro.<br />

Io ero una piaga dell’umanità.<br />

Ma che gli Aztechi avessero avuto teste da uccello lo ascriveva al regno della fantasia.<br />

Cosa significasse Muccorretrovacche, volle sapere mio padre da me e: «Ulla, bambina<br />

mia, imita ancora la testa di bufalo del Meclemburgo».<br />

Comunque la Lebenswurst aveva un ottimo sapore.<br />

5<br />

Quando poi fummo alle scuole superiori, Manfred mi veniva a prendere ogni<br />

mattina.<br />

Il campanello suonava, al solito, nel momento in cui eravamo già tutti seduti intorno<br />

al tavolo della colazione.<br />

(«Che dice la mia pelle»).<br />

La grande ceramica di Bunzlau e la caffettiera variopinta comprata al mercatino<br />

di Pentecoste. Ognuno aveva le sue posate, le altre erano «velenose».<br />

«C’è Valte», chiedeva Manfred da fuori.<br />

«Sicuramente», rispondeva la domestica e lo faceva entrare.<br />

Mentre imburravo i miei due panini – papà arraffava sempre i più croccanti –<br />

Manfred sedeva in una nicchia, parte della sala da pranzo da cui il costruttore<br />

Quade aveva ricavato la tromba delle scale; le gambe avviticchiate intorno alla<br />

sedia.<br />

Di fianco a lui i sei tavolini inseriti l’uno nell’altro, sopra la testa un quadro<br />

delle dune del Mar Baltico presso Graal. A Graal si erano conosciuti i miei genitori.<br />

(«Mi voleva baciare di continuo, e io pensavo che sarei rimasta incinta.<br />

Che scemi»).<br />

Religione l’avevo fatta<br />

Affida la tua via e ciò che opprime il cuore<br />

Alla fidata cura di Lui che il cielo muove.<br />

Ieri erano usciti i francobolli per la mostra di fiori e piante.<br />

Verde scuro e porpora.<br />

Io di certo non sarei più riuscito a trovarli.<br />

30


Un blocco di München-Riem oggi valeva già 15 marchi e non avevo neanche<br />

quello.<br />

Com’è che si chiamava volle sapere mio padre, il tuorlo dell’uovo gli colava sulle<br />

dita.<br />

«München-Riem e che vorrebbe dire».<br />

Mi piaceva mangiare uno spesso strato di burro e uno sottile di marmellata ai<br />

mirtilli. Era permesso inzuppare nel caffellatte.<br />

Dov’è che il suo vecchio aveva prestato servizio, si informò miò padre. Ma guarda,<br />

nell’artiglieria. (La Cavalleria sarebbe stata meglio, la Marina notevolmente<br />

peggio, visto che: «Quelli all’epoca ci hanno traditi»).<br />

Nell’artiglieria dovevano essere bravi a fare i calcoli. Ammirava da sempre quelle<br />

persone, mica potevano vedere dove sparavano. – Avevano anche elmetti diversi.<br />

A mia madre diceva qualcosa di St. Quentin. «St. Quentin», lo pronunciava come<br />

era scritto.<br />

Mia sorella mangiava cetriolini e ci beveva sopra acqua tiepida. Rimise la gomma<br />

nella custodia della penna stilografica e chiuse la cerniera.<br />

«Ora fammi il favore e lasciati sentire per bene», disse mia madre e le porse il quaderno<br />

in ottavo, quello blu, dove prima aveva scritto delle osservazioni divenute<br />

indispensabili.<br />

Io dovetti prendere le mie pillole di calcio e un cucchiaio d’olio di fegato di merluzzo.<br />

Mio padre era seduto di nuovo davanti al foglio del calendario.<br />

1689, i francesi devastano Heidelberg.<br />

«Hm, hm». Il panino lo dovevo finire di mangiare, buttarlo era malacreanza.<br />

La gente povera pativa la fame e io buttavo la mia merenda, per Robert queste<br />

cose erano assolutamente inconciliabili.<br />

Sulla via per la scuola – «Casetta del sapone» – si passava vicino a una casa molto<br />

stretta. Sulla porta c’era scritto Anno 1903.<br />

Alla finestra stavano sempre due pechinesi, quando ci vedevano latravano come<br />

impazziti.<br />

Proprio a fianco la sinagoga bruciata, con una stella di Davide rotta al cancello<br />

di ghisa.<br />

«Ci vivono ancora ebrei veri», disse Manfred. Aveva controllato nell’indirizzario,<br />

«Abraham Glücksmann, custode della sinagoga».<br />

In Patriotischer Weg erano state ritrovate delle dita mozzate, opera di Israele.<br />

Quelli uccidevano i cristiani, li facevano a pezzi e se ne sbarazzavano. Per loro<br />

era una buona azione. In ogni sinagoga esisteva una cantina incrostata di sangue.<br />

Così sarebbero andati in cielo.<br />

31


E al macello ebreo gli animali venivano prima dissanguati e poi torturati a morte,<br />

lentamente.<br />

All’altezza della scuola di recupero, il «Ginnasio Margarina», 2 ci sorpassava Robert.<br />

Perciò si spostava sull’altro lato della strada. Già da lontano lo si poteva sentire<br />

mentre dava la corda all’orologio.<br />

Portava una minuscola ventiquattrore, una borsa da barbiere, come la chiamava<br />

lui. Se ci si rideva sopra, diceva: «Il riso abbonda sulla bocca degli stolti».<br />

Toni Leo, fisioterapeuta.<br />

Vicino al Café Drude gettava la sigaretta dietro alla cassetta dei telefoni. Là era<br />

troppo vicino, poteva anche imbattersi in un insegnante.<br />

Il nostro ginnasio ora si chiamava «Scuola dei sette tigli».<br />

«Che stupidità», diceva mio padre.<br />

Invece di prima, seconda, terza, si doveva dire uno, due, tre.<br />

Portare berretti da scolaro era proibito.<br />

Nell’atrio il gruppo del Laocoonte imbrattato d’inchiostro. Le giacche dimenticate<br />

venivano messe sulle spalle dei due figli.<br />

«Tira su quella carta».<br />

Al muro un rombo della gioventù hitleriana fatto di chiodini colorati.<br />

Adunata mercoledì ore 15, palazzetto dello sport.<br />

«Togli le mani dalle tasche, ragazzo».<br />

Durante l’esame d’ingresso alla scuola superiore avevo scritto «ha» senza la «h».<br />

Anche le bamboline di porcellana, di cui si parlava nel dettato del whw, 3 non mi<br />

erano riuscite bene.<br />

Ma, ovviamente, venni ammesso.<br />

Ero pur sempre il figlio di «Körling».<br />

(85 dozzine di uova costano 51 marchi del Reich; quanto costano dunque 3 decine).<br />

Che mestiere facevano i nostri padri.<br />

Direttore di banca, consigliere regionale, ingegnere capo dell’Aviazione.<br />

«Sensale marittimo e armatore», dissi io.<br />

«Una cosa sola non è sufficiente», fu chiesto al di sopra degli occhiali.<br />

Caporeparto in un’impresa comunale, la cosa non era molto attraente.<br />

La scelta era fra due insegnanti: uno grassottello e pelato ed uno più alto e torvo<br />

con la testa da gufo. Il grassottello, così m’immaginavo, era molto simpatico.<br />

Speriamo di non finire col gufo!<br />

32


Note al testo<br />

1 Nella gioventù hitleriana venivano così chiamati i ragazzi fra i 10 e i 14 anni.<br />

2 Le scuole di recupero erano frequentate per lo più da bambini di famiglie povere, che mangiavano<br />

margarina al posto del burro.<br />

3 Il Winterhilfswerk des Deutschen Volkes (Istituto di assistenza invernale per il popolo tedesco)<br />

venne fondato nel 1933 nell’ambito dell’Assistenza Sociale Nazionalsocialista. Le collette raccoglievano<br />

denaro, generi alimentari, carbone.<br />

4 La paronomasia si basa su Bär («orso»), la successiva su Blut («sangue»).<br />

5 Corona di spighe di grano e foglie che, secondo l’usanza, viene appesa in occasione dell’Erntedankfest,<br />

la festa di ringraziamento per il raccolto.<br />

6 Epiteto con cui si indicavano i combattenti francesi nella prima guerra mondiale (propr.<br />

«peloso»).<br />

7 Nella lingua del Terzo Reich la perifrasi definiva il periodo della Repubblica di Weimar<br />

(1919-1933).<br />

8 Lo Julklapp è un regalo, chiuso in tanti involucri, consegnato con un lancio da una persona che<br />

rimane nascosta. Si riceve per la festa del solstizio d’inverno.<br />

9 Gioco di parole modellato su Siebengestirn («Pleiadi»). Siebenkäs («Setteformaggi») è il protagonista<br />

di un romanzo di Jean Paul (1763-1825).<br />

10 Nella gioventù hitleriana le ragazze fra i 10 e i 14 anni.<br />

11 Pierd è basso tedesco per «cavallo»; Knüppel, anche in tedesco standard, «bastone». Bonaria<br />

canzonatura fra città vicine.<br />

12 Ovvero «sacco di fagioli».<br />

13 Il corrispettivo dello Jungmädel per i ragazzi 10 e 14 anni.<br />

14 Der Blanke Hans («il fulgido grigio»), è una metafora del mare del Nord in tempesta. Detlev<br />

von Liliencron (1844-1909) scrisse una poesia dal titolo Truzt, Blanke Hans.<br />

15 Gruppi giovanili, attivi fra il 1939 e il 1947, che opposero al nazismo forme di resistenza.<br />

16 Reichsstelle für industrielle Fettversorgung: uno degli uffici che controllava la distribuzione di<br />

beni di prima necessità. La RIF imprimeva la sua sigla anche sul sapone.<br />

17 Del Bund Deutscher Mädel facevano parte le ragazze tra i 14 e i 21 anni.<br />

18 Viene tradotto liberamente Hängolin, il nome di un medicinale che, così si supponeva, era<br />

somministrato ai soldati per far calare la libido.<br />

19<br />

Gli uffici della Kinderlandverschickung mettevano al riparo madri e bambini dai bombardamenti.<br />

20 Verein für Deutsche Kulturbeziehungen im Ausland (Società per le relazioni culturali tedesche<br />

all’estero), fondato nel 1881.


Walter Kempowski, nato a Rostock nel<br />

1929, è fra i maggiori scrittori tedeschi<br />

contemporanei. Ha acquisito grande notorietà<br />

con il ciclo di romanzi fortemente autobiografico<br />

Die deutsche Chronik (La cronaca<br />

tedesca, 1971-1984) e grazie al progetto<br />

Das Echolot (L’ecoscandaglio, 1993-<br />

2005), gigantesca ricostruzione documentaria<br />

del secondo conflitto mondiale.<br />

Nella parabola letteraria e personale di<br />

Kempowski – che dal 1948 al 1956 ha<br />

scontato, nella DDR, una condanna per<br />

spionaggio – la comprensione del passato<br />

e le cause profonde del nazismo vengono<br />

elaborate con una estrema lucidità.


«<strong>Tadellöser</strong> & <strong>Wolff</strong> Ma che cosa signica». Be’,<br />

buono all’uovo, nient’altro. Si parlava così in città.<br />

«Bonomicoli», c’era anche questo modo di dire. Quando<br />

qualcosa piaceva si diceva semplicemente «Bonomicoli».<br />

Oppure «Cattivicoli», o «Malanova & Jenssen».<br />

Era così in città. A Berlino avevano modi di<br />

dire del tutto diversi. Non ci si arrivava tanto<br />

facilmente.<br />

ISBN 978-88-89312-33-9<br />

€ 18,00 (i.i.)<br />

ISBN 978-88-89312-33-9<br />

9 788889 312339

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