29.Ormai il dardo era lanciato e il veleno era entrato nella mia carne. Le stelle dicevano che,davanti a me, c’era un grande destino. Io non capivo niente di stelle e la bassissima stimache avevo di me stessa, a parte le disgrazie, non mi aveva fatto immaginare niente digrande. Tuttavia quelle scarne parole mi avevano messo in uno stato di grandeinquietudine.L’idea che mi avesse preso in giro non mi sorò neppure per un istante, non era unburlone e poi, perché mai avrebbe dovuto farlo? Poteva piuttosto aver preso un granchio.Sì, forse si trattava di un granchio; per questo, con le sue minuscole chele, quell’ideacontinuò a tormentarmi per giorni, per mesi.Non siamo più abituati a provare stupore davanti alla metamorfosi di una farfalla.Accecati dalla straordinarietà dell’elettronica, questo incredibile mutamento ci sembraormai solo il povero bagaglio di una vecchia maestra a corto di argomenti. Dal bruco nascela farfalla e la farfalla è innitamente più bella del bruco. Peccato non fermarsi a rietteresul tempo innito e sulla complessità che questo cambiamento comporta in ogni sua fase:materia che si forma, si disfa, si trasforma; parti si liquefanno e altre si solidicano. Ciò cheesce, alla ne, non sembra molto diverso dal risultato di un gioco di prestigio: il fazzoletto èentrato nel cilindro del mago e ne è uscito un coniglietto. Voilà!Ripercorrendo in queste pagine tutte le strade che mi hanno portata a scoprire lascrittura, mi rendo conto che il processo non è stato poi molto diverso da quello cheaccompagna le trasformazioni dei lepidotteri: ricambio di pelli, costruzione di serici bozzoli,visceri che si liquefanno nella penombra della cris<strong>ali</strong>de e nuove parti che iniziano aformarsi, antenne che spuntano, enormi <strong>ali</strong> raccolte e bagnate, ancora incapaci di aprirsi espiccare il volo.Senza essermene resa conto, nel corso della mia complicatissima vita avevo attraversatotutte queste fasi. In modo imprevisto, la profezia astrologica aveva squarciato la cris<strong>ali</strong>de e,con la cris<strong>ali</strong>de, il velo che fino ad allora era stato davanti ai miei occhi.Il corpo era formato, ma le <strong>ali</strong> erano ancora appesantite dall’umidità del bozzolo.Prigioniera di quella momentanea immobilità, avevo dalla mia parte il potere delleantenne.Erano loro il grande dono della mia vita; erano loro a permettermi di vedere ciò che nonsi vedeva, di sentire ciò che era impossibile percepire.Brusca ne della vacanza, rientro tra i ranghi della soerenza. A un tratto sapevo chedovevo mettermi alla ricerca, non sapevo di cosa e non sapevo dove. Sapevo soltanto chedovevo muovermi.
Il furore divenne all’improvviso il motore dei miei giorni. Ovunque fossi, qualsiasi cosafacessi, mi sentivo fuori posto. C’era un altrove da qualche parte e quell’altrove, ero certa,sarebbe stata la mia terra, ma non intravedevo alcuna indicazione, alcun segno sulladirezione verso cui muovermi.Ero come una volpe dalla coda infuocata, correvo veloce per liberarmi dall’incendio; mirotolavo nella sabbia, mi tuavo nei umi, ma l’incendio continuava a inseguirmi. Il suobagliore mi teneva sveglia anche di notte. Non c’era più sonno per me, non c’era più riposo.Le mie notti tornarono a essere quelle degli scheletri, dei fantasmi, delle canocchie.Nel buio dei miei vent’anni, però, non erano più loro a comparire – in fondo sarebberostati dei vecchi e cari amici – ma l’immagine molto più sobria e spaventosa del nulla che, inquieto silenzio, divorava le esistenze. Sentivo il suo vortice opaco nascosto in ogni istante,vedevo la vita intorno come una commedia recitata piuttosto male; alla ne nessunoavrebbe applaudito e dunque non si capiva la ragione di tanto movimento.La morte era la maestra di ogni istante e questa per noi uomini, pensavo – e pensotutt’ora – è l’unica certezza.Eppure…Eppure cominciavo a rendermi conto che la realtà, a un tratto, era capace di sollevare ilvelo – una mimosa, con la sua luce solare, può esplodere davanti a un muro di periferia –mostrando ai nostri occhi increduli un altro livello. Quello della sorpresa, del ato cherimane sospeso.Sì, c’è dell’altro, tra le sue pieghe la quotidianità nasconde tesori; l’artista è il minatore, ècolui che li cerca. È lui che deve calarsi nelle profondità della terra; lui che deve perdersi trai cunicoli, annaspare, disperarsi e poi prorompere nell’Ah! della scoperta. È sempre lui,l’artista, che deve ris<strong>ali</strong>re con la gemma in mano, orendo la visione del suo splendore acoloro che sono rimasti in superficie.Accompagnata dal mio fuoco, quell’estate tornai sul Carso e, a una sagra, incontraiMarko. Aveva un anno meno di me e studiava regia cinematograca alla scuola diZagabria. Stesso mondo, stesse passioni, stesso furore.Ci siamo riconosciuti in un istante e diventati compagni inseparabili di percorso. Moltedelle cose che racconto in Anima Mundi sono ispirate alla nostra amicizia. Trascorrevamoore al bar, a osservare i camion di bestiame che, con il loro carico dolente, si avviavano almacello. Restavamo lì a inalare i gas tossici di quella lunga sequela di Tir provenientidall’Est Europa che, ogni giorno, attraversava l’arteria principale del paese. Frequentavamotutte le osmizze. Tutte le alture del Carso, l’Orsario, il San Leonardo, erano nostre.Con le braci dentro, camminavamo senza sosta, il mistero dell’arte era il centro di tutti inostri discorsi. Varcavamo il conne per andare in pellegrinaggio alla casa di Kosovel; inquella casa modesta, in cui era ancora presente l’ombra della morte, recitavamo la nostrapoesia preferita:Io sono l’arco spezzatodi un cerchio.
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