“Tagliare tutto,” risposi decisa, “tagliare corto.”Pur dovendo essere il suo aspirante clone, nessuno mi aveva detto come era morta la ziaMarisa. Fumi, mezze parole, gelidi sorrisi. Fat<strong>ali</strong>tà. Un morbo misterioso. Un errore delmedico. “Era debole?” chiedevo allora. “Era malata? Aveva la tubercolosi?”“Ma no,” mi rispondevano, “era sana, sportiva, andava sempre in montagna con il suocane lupo. Stava a letto, sembrava dormisse, e invece era morta.”Di colpo, quando ero in quinta, non andammo più a pranzo dalla nonna. La sua casa, lesue palacinche, le sue cinquecento lire smisero di esistere. Il pavimento aveva ceduto eanche lei era scomparsa.Per nove mesi nessuno mi disse niente.In giugno comparve mio padre e così io, raccogliendo tutto il mio coraggio, diedi atoalla domanda che da mesi avevo dentro.“Ma la nonna è morta?”“Morta o viva, che importanza ha?” Poi, con fare aettuosamente condenziale,aggiunse: “Vedi, in realtà, siamo tutti già morti, siamo soltanto polvere che si trasforma. Ilvuoto ci genera e al vuoto – vuoti – torniamo. Per questo, avere sentimenti è una cosainutile, tutto sommato.”Da lì a pochi giorni la scuola sarebbe nita, l’aria tiepida di giugno portava l’odoresalmastro del mare. Eravamo fermi davanti al cartellone di latta di un bar che mostrava igelati della mia marca preferita, quella con i due orsetti. C’erano ghiaccioli multicolori,ricoperti, coppette, meravigliosi coni.Ricordo di averlo ssato intensamente e di avere poi abbassato lo sguardo sui mieisand<strong>ali</strong>, quelli sì sporchi di polvere. Poi dalla profondità del mio iceberg salì un pensieroche era come un grido. Io non sono il vuoto! Io voglio vivere! Voglio tuarmi, nuotare!Voglio mangiare tutti, ma proprio tutti, questi gelati!
7.Che cosa sappiamo davvero di ciò che si trasmette, attraverso i geni, da una generazioneall’altra? Apparentemente molto, sempre di più, ma in realtà ancora quasi niente.Quando penso alla mia linea di discendenza paterna, al gelo che usciva da quel portone ea quello anaettivo che usciva da tutte le gure a me note, non posso pensare ad altro chea qualche micron di filamento trasmesso devotamente di generazione in generazione.Il gelo dei Carpazi, il gelo degli Ur<strong>ali</strong>, il gelo dei Kurgan, popoli scesi dalle steppeassieme al vento a colonizzare le miti sponde dell’Adriatico, il gelo della Transilvania, deivampiri addormentati nelle segrete dei castelli, dei morti viventi che, di paese in paese,attraversavano i Balcani bevendo slivovitz e raccontando storie.La verità sulla morte della sorella di mio padre la conobbi soltanto intorno ai trent’anni,in modo piuttosto casuale.Ero a Roma, durante una cena a casa di amici, e la mia vicina di tavolo, una signora diuna certa età – allora non ero ancora una persona nota – vedendomi prendere il tovagliolo,esclamò:“Le mani di Marisa!”“Probabilmente sì,” le risposi, “dato che sono sua nipote.”Allora la signora mi raccontò la storia che, da più di vent’anni, aspettavo di conoscere.Marisa era infatti la sua migliore amica, avevano fatto il liceo insieme, e con lei avevatrascorso gli ultimi giorni della sua vita. Mia zia allora viveva a Firenze, dove studiavaScienze natur<strong>ali</strong>. La mia vicina di tavola invece si era trasferita a Venezia da Trieste.Tornando a casa per le vacanze di Natale, Marisa si era fermata un paio di giorni atrovare la sua vecchia amica. Lì, vuoi per il freddo, vuoi per la stanchezza del viaggio, leera esplosa una brutta inuenza, così aveva chiamato il padre chiedendogli di poterrimanere a Venezia no a quando non si fosse sentita meglio. Ma il padre, uomo inessibile– nuca rigida e baetti stretti –, non ne aveva voluto sapere. “Il Natale si deve passare infamiglia! A questa regola non esistono eccezioni!”Così, seppure molto malata, Marisa dovette mettersi in viaggio da Venezia a Trieste conla bora, con il ghiaccio, con i treni del 1936. Arrivata a casa, prese parte al pranzo nat<strong>ali</strong>zio– che cosa festeggiassero non mi è chiaro, visto che erano tutti dei feroci anticleric<strong>ali</strong> – e simise a letto. Qualche giorno dopo, in quello stesso letto, passò dal sonno alla morte.Era sola a casa, il padre era uscito per andare al caè e la madre a incontrare delleamiche. Rientrati all’ora di pranzo, trovarono il suo corpo ormai freddo. Il morbomisterioso, il fato m<strong>ali</strong>gno, alla fine, non fu probabilmente altro che una polmonite.Dall’amica, poi, avevo saputo che Marisa era una persona libera, indipendente, ribelle e
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