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Ogni angelo è tremendo - Su ali d'aquila

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Con una testa così, ogni giorno di scuola era un Everest da scalare, un deserto delKalahari da attraversare, sfuggendo a feroci formiche rosse. Le rare volte in cui osavolanciarmi, mi accadeva come ai paracadutisti a cui, in volo, non si apre il paracadute.Ricordo che, una volta, avevo da giorni una parola in mente di cui non conoscevo ilsignicato, così quando la maestra ha chiesto: “Avete qualche domanda?” ho alzato subito ilbraccio, scattando in piedi accanto al banco e, scandendo bene le parole, ho detto: “Signoramaestra, che cosa vuol dire castrare?”Per questo la ne delle elementari – con l’abbandono di quel cupo edicio di mattonirossi nel cui atrio erano esposti tutti i tipi di bomba e di mina su cui avremmo potuto saltarein aria – mi sembrava la liberazione da un carcere che, per troppo tempo, mi aveva tenutaprigioniera.La scuola media non era molto distante e aveva un nome che mi faceva sognare: CampiElisi. Completamente all’oscuro di cosa fossero i campi elisi, ero convinta che avesserosbagliato la trascrizione e che si trattasse in realtà di campi di ord<strong>ali</strong>si. Amavo e amomoltissimo i ord<strong>ali</strong>si e così l’idea di frequentare un tale istituto mi dava un sensod’insperata leggerezza.L’edicio che ospitava la nuova scuola, anch’esso di mattoni rossi, era stato costruitodurante il protettorato degli americani e, con le sue nestre incorniciate di bianco, il suotetto con le tegole, i suoi alberi e i suoi cortili interni, sembrava uscito direttamente daquell’oasi di felicità che ritenevo essere gli Stati Uniti d’America.Nella scuola dei campi di ord<strong>ali</strong>si, gli insegnanti non avrebbero potuto essere altro cheeternamente sorridenti e quella loro felicità, pensavo, si sarebbe senza dubbio riversata sunoi alunni. Per raggiungerla, avrei dovuto fare lo stesso percorso della vecchia scuola,imboccando però, pochi metri prima, una strada in discesa che, in lontananza, lasciavaintravedere il mare e le gru dei cantieri. Dopo un paio di curve e l’attraversamento di unazona sterrata e incolta – ora occupata da palazzi – avrei raggiunto l’oasi della mia felicità.A sancire questo cambiamento, ci sarebbe stato anche l’abbandono della fedele cartella afavore della cinghia per i libri, segno evidente di una nuova leggerezza che mi avrebbetraghettato verso l’età adulta.Da mesi insomma, quelle due curve in discesa stavano lì sospese nella mia mente. Erotroppo piccola per sapere che immaginare di fare una cosa non è sempre preludio perriuscire poi a farla per davvero.Ancora non sapevo che, sui nostri desideri e sui nostri sogni, veglia costantemente ildestino, che le sue curve non sono le nostre, e che, tra una svolta e l’altra, il nostro bene èprobabilmente l’ultimo dei suoi pensieri. Fino a quel giorno, infatti, ero stata convinta cheesistesse una certa ritmica consequenzi<strong>ali</strong>tà nello scorrere dell’esistenza – i giorni di scuola equelli di festa, i sabati dalla nonna paterna, le domeniche dagli altri nonni, il Natale e laPasqua, con tutta la famiglia riunita dai bisnonni, i pomeriggi d’inverno a pattinare e quellid’estate al bagno Ausonia o a Grignano, a Sistiana, se non addirittura a Grado, raggiuntomagari con la vecchia motonave Ambria Bella, sembravano costituire un’ossatura stabiledella ritmicità del tempo, capace di contenere e smorzare tutte le follie, le incapacità, le

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