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CANNES 65<br />
bili da risultare irrimediabilmente artificiali, finti e<br />
sfiniti, spenti e asfittici. In una parola, morti. All’inseguimento<br />
di un’assurda “perfezione” del cinema,<br />
Amour e Reality si rinchiudono in un’insopportabile<br />
teorema e mancano clamorosamente<br />
proprio ciò che vorrebbero raccontare: la verità di<br />
una condizione, particolare, universale. Alla fine,<br />
quel che resta è la paura di lasciarsi andare, l’horror<br />
vacui, per cui si preferisce chiudere un piano<br />
sequenza, una carrellata, portare alle conseguenze<br />
(ben poco) estreme un racconto, piuttosto che<br />
fermarsi a raccogliere una battuta sfuggita per<br />
caso, un imprevisto. Haneke e Garrone trionfano<br />
e non meraviglia più di tanto. In un mondo<br />
che ha bisogno di certezze, il Cinema è il Grande<br />
Fratello.<br />
Ma gli autori sono ben altro. Kiarostami, Wes<br />
Anderson, Mungiu, apparentemente rinchiusi nel<br />
loro mondo, nella riconoscibilità (conforme) di<br />
uno stile, lavorano stretti in confini minimi: un’isola,<br />
un convento, un appartamento, una tenda,<br />
l’abitacolo di un auto. Eppure, a un certo punto,<br />
avvertono l’esigenza e la responsabilità di rompere<br />
l’isolamento, di scartare a lato. Si sentono,<br />
finalmente, generosamente, costretti a frantumare<br />
la campana di vetro, il velo (di Maya) dell’ipocrisia<br />
autoriale, per aprirsi agli interrogativi irrisolti<br />
di cui siamo fatti tutti. Fuori e dentro una sala.<br />
Fuori e dentro lo schermo.<br />
I nostri autori, sempre e comunque, saranno Wakamatsu<br />
e Hong Sang-soo, che sembrano chiudersi<br />
in un loop asfissiante, ma solo per raccontarci<br />
l’impasse dei nostri desideri e la solitaria<br />
disfatta dei nostri ideali. Per poi mostrarci, magicamente,<br />
due mani aperte a raccogliere ancora<br />
la possibilità dell’utopia o la gioia e la malinconia<br />
segrete di un’irrinunciabile giostra dei sentimenti.<br />
O ancora Gondry, che abbraccia la magica imperfezione<br />
di un cinema sporco per raccontare<br />
un’età e una generazione, tutto un mondo, senza<br />
mai muoversi da un autobus. Stretto, affollato,<br />
eppur vitalmente caotico. Mezzo in perpetuo movimento<br />
tra le teneri goliardie e le spine nel cuore.<br />
C’è, ancora, un cinema che pulsa (Kaufman), mostra<br />
le sue fratture, nel cuore, nei nervi. Rinuncia<br />
a funzionare e continua a vivere amputato (Audiard).<br />
Un cinema che non è stasi, ma passaggio.<br />
E per questo forse, il film che racconta questa<br />
Cannes, più di ogni altro, è Holy Motors, è<br />
quel fluire ininterrotto di passaggi, trasformazioni<br />
e perdite che è il Tempo, vale a dire il Cinema e il<br />
Mondo. Spazi chiusi, spazi aperti. Vite fallite. Altre<br />
vite possibili. Carax incrocia tutto e ricongiunge,<br />
in un gesto solo, il cinema che odiamo e quello<br />
che amiamo. La pretenziosità di Dominik e l’amore<br />
assoluto di Bertolucci, che rinnova due vite nel<br />
buio di una cantina, apre gli interni come fossero<br />
cieli infiniti, blocca il cinema in un fermo immagine,<br />
ma solo per mostrarci il suo sorriso segreto,<br />
nascosto. E così il cinema può riscattare la propria<br />
Storia di solitudini, liberare, finalmente, i suoi piccoli<br />
Doinel.<br />
Il cinema passa e libera. Come Lee Kang-sheng,<br />
che cammina per Hong Kong a un’ altra velocità:<br />
l’immagine che attraversa il mondo e ne riforma i<br />
tempi. Walker di Tsai Ming-liang: venticinque minuti.<br />
Cannes è tutta qui.<br />
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