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Bufanda

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

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Racconti e illustrazioni avvolgenti


Considerate Bufanda come una

sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni

per quindici racconti o,

specularmente, quindici racconti

per quindici illustrazioni: un intreccio

variegato di trama e ordito,

inorganico, forse sbilenco e

inelegante, ma di certo non casuale.

Una sorta di sciarpa della nonna

sferruzzata. Una sciarpa da portarsi

sempre appresso, valido rimedio

contro il fastidioso vento

gelido che sferzerà il vostro umore.E,proprio

come una sciarpa,assorbirà

odori, profumi, pensieri.

Ogni volta che la prenderete in

mano sarà, sì, tanto familiare, ma

sempre diversa, sfumata, ricca di

sensazioni e particolari che magari

non avevate notato prima.


Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it


Bufanda

Andrea Burlini

Alberto Calorosi

Luca Cantarelli

Enrico Cantino

Mariagrazia Di Stasi

French

Cristiano G. Gozzini

Ludovica Mazzuccato

Antonio Mele

Vito Nicassio

Michele Prosperi

Luca Pozzoli

Andrea Rivieri

Maddalena Selis

Roberto Stradiotti

15 scrittori


Margherita Allegri

Claudio Arisi

Luca Bonardi

Linda Cavallini

Anna Cigoli

Daniele Fabbri

Andrea Gualandri

Fabio Iaschi

Roberto Meli

Rosanna Mezzanotte

Josè Monti

Andrea Pecchia

Silvia Pizzi

Elena Prette

Noemi Russo

Prefazione di: Topus

15 illustratori


Bufanda

© 2008 Associazione Culturale Tapirulan

Contatti

www.tapirulan.it

redazione@tapirulan.it

racconti@tapirulan.it

Coordinatore editoriale

Alberto Calorosi

Progetto grafico

French

Stampa

Tipocrom s.n.c., Baganzola (PR), marzo 2008

Progetto realizzato con il contributo

dell’Università degli Studi di Parma

Edizioni Tapirulan

ISBN 978-88-902767-3-6


Indice

8 Prefazione

di Topus

14 Smarrimenti & Ritrovamenti

racconto di Antonio Mele

illustrazione di Elena Prette

18 Ottavo

racconto di Roberto Stradiotti

illustrazione di Margherita Allegri

24 Scena madre

racconto di Enrico Cantino

illustrazione di Rosanna Mezzanotte

30 Numero 7

racconto di Ludovica Mazzuccato

illustrazione di Andrea Pecchia

34 Titino l’invincibile

racconto di Mariagrazia Di Stasi

illustrazione di Silvia Pizzi


40 Il gatto e l’ingegnere

racconto di Maddalena Selis

illustrazione di Daniele Fabbri

44 Fiori d’arancio

racconto di Andrea Rivieri

illustrazione di Linda Cavallini

48 Non ho sonno

racconto di Michele Prosperi

illustrazione di Josè Monti

52 Il grassone

racconto di French

illustrazione di Luca Bonardi

58 Arrestate UosdwiS ’f JewoH

racconto di Alberto Calorosi

illustrazione di Claudio Arisi

64 Inno

racconto di Andrea Burlini

illustrazione di Fabio Iaschi

68 Lo spazzino, il cammello e lo spazio profondo

racconto di Cristiano G. Gozzini

illustrazione di Roberto Meli

76 Il miracolo del santo barbiere

racconto di Vito Nicassio

illustrazione di Noemi Russo

80 Incroci

racconto di Luca Pozzoli

illustrazione di Anna Cigoli

84 La notte prima

racconto di Luca Cantarelli

illustrazione di Andrea Gualandri

89 15 scrittori e 15 illustratori - Note biografiche


Ringraziamenti

In primo luogo riteniamo doveroso ringraziare l’Università degli

Studi di Parma che, per il secondo anno, ha creduto nel nostro

progetto editoriale. Molto preziosi sono stati anche i contributi di

Enrico Cantino, Sara Mazza, Daisy Vanicelli, Cristiano Ciaravolo e

Laura Bonomini per il supporto fornito nella fase di revisione dei

testi. Ogni singolo errore contenuto in Bufanda è da attribuirsi

esclusivamente alla loro eventuale negligenza. Ringraziamo altresì

l’amico Angelo Rossi per i consigli e la consulenza. Ringraziamo naturalmente

tutti gli autori e gli illustratori che hanno partecipato attivamente

al progetto inviandoci le loro opere. Ringraziamo anticipatamente

tutti i lettori, sia quelli che apprezzeranno la nostra Bufanda,sia

quelli che non gradiranno i suoi effetti avvolgenti.Ringraziamo

per ultimo, ma proprio ultimo, l’insigne Topus per avere finalmente

prestato il suo sommo ingegno alla causa di Tapirulan.



Prefazione

di Topus

Questo libro è una sciarpa.

Con questa affermazione, assai discutibile dal punto di vista logico-formale,

non voglio certo invitare i nostri lettori ad uno scorretto

utilizzo delle pagine del libro, a protezione delle proprie fragili

laringi, scatenando così virulente epidemie e scatarramenti iridescenti.

Coprite le vostre vere gole con vere sciarpe, certo, ma considerate

Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni

per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici

illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico,

forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale.

Ogni racconto si lega a un’illustrazione, frutto di un accordo fiduciario

tra scrittore e illustratore, che vede l’autore dello scritto

scegliere un artista e mettersi letteralmente nelle sue mani, affidarsi

ai suoi polpastrelli, per fissare sulla carta un frammento del proprio

racconto, quando non l’essenza stessa. Un forte intreccio tra il

racconto e l’illustrazione, dunque, da un lato; dall’altro nessun legame

tematico tra i racconti, così da permettere agli autori la massima

libertà creativa.

Unico comune denominatore, forse, la risata che si cela in ciascuno

dei quindici racconti che compongono Bufanda. O meglio,

le risate, perché diversi sono i moti dell’anima che sgorgano in su-

11


perficie con un sorriso.

Potreste trovarvi sdraiati in una stanza d’albergo, osservare il

soffitto e sorridere pensando al microcosmo di umanità, alla mascherata

di personaggi, e di ruoli, che si sono avvicendati all’interno

di quelle mura. E, chissà, buttando l’occhio sulla porta, potreste

scorgere proprio il numero 7 (1) .

Il numero otto, invece, è particolarmente importante per Ottavo,

alias Ottavio, un piccolo ometto, quasi un epigono dei sette nanetti

che adornano il suo giardino, innamorato in modo surreale

della florida e corpulenta moglie, Vladimirka. Una strana e, in un

certo qual modo,tenera coppia,immersa in una realtà-immaginazione

fatta di lunghe assenze, seni a mappamondo, glutei a mongolfiera

e sugose bistecche in grado di sfamare interi quartieri. E un cane,

Briciola, assolutamente cinico, che sembra essere l’unico componente

della famiglia che non vive sotto un tendone da circo (2) .

Se per Ottavo l’antagonista è rappresentato dal tignoso cane,

per Tano ‘u Curtu la nemesi è rappresentata da un gallo.Titino.Titino

l’invincibile.Siamo in un piccolo e assolato paesino del profondo

Sud, dove assistiamo alle divertenti beghe di quartiere tra il rozzo

Tano, detto ‘u Curtu, e l’artista Saruzzo Sarcinello detto ‘u Pitturi.

Motivo della disputa, il rumoroso gallo Titino, amante del buon

canto e disturbatore della quiete di Tano (3) .

Tra galli e cani c’è posto anche per i gatti,anche se in questo caso

diventano una metafora per parlare del rapporto fra uomo e donna

nonché dell’annoso problema del corteggiamento e di quanto,

in sostanza, la donna sia avvantaggiata. Divertenti chiacchiere da

pausa pranzo, da ingegnere a ingegnera (4) .

Passando dalle chiacchiere ai fatti potremmo trovarci nella tragicomica

situazione di crollare, letteralmente, dal sonno, giusto alla

conclusione di una serata perfetta, proprio mentre la nostra divina

ancella ci invita all’interno del suo regno dei cieli. In questo caso la

volontà di ferro e l’ossessivo mantra del non ho sonno potrebbero

non bastare (5) .

E poi c’è il lato oscuro del corteggiamento: per puro e diabolico

divertimento, spacciarsi per una donna e instillare vane speranze

di conquista in un uomo dalla libido a briglie sciolte. Ovviamente

grazie all’ingegno umano che ci ha dispensato il tacchinaggio virtuale

tramite chat. Utilizzando un nickname improponibile, come

UosdwiS ’f JewoH (6) .

Però c’è anche chi, per forza di cose, è costretto a saltare ogni

fase di corteggiamento e a maturare immediatamente una certa in-

12


timità nei confronti dell’altrui corpo. Immaginatevi sul set di un

film, con un regista che sbraita e che chiede più passione, alla ricerca

della scena madre, e capirete l’imbarazzo che comporta una tale

situazione (7) .

Continuando a percorrere il sentiero del corteggiamento, evitando

il baratro sottostante,arriveremo infine a una strada profumata

di fiori d’arancio.I pensieri di un uomo alle soglie di un matrimonio

comprendono ricordi, rimpianti, aspettative, fantasie. Ma ciò

che è stato è stato e ciò che importa, ora, è che ci sarà un matrimonio.

O non ci sarà mai (8) .

Un’altra faccia del corteggiamento: la negazione, la delusione. Il

Toni, ragazzo allegro e gioviale, subisce il dolore del rifiuto in amore,

chiudendosi in un preoccupante e sterile silenzio. Ne uscirà attraverso

una curiosa catarsi che passerà dal Santo Padre al barbiere

di paese (9) .

Comunque, tra amore, bellezza, passione, corteggiamento, trova

spazio anche un appassionato inno alle donne, una totale e devota

inclinazione al genere femminile tutto. E a tutto il loro corpo.Tutto.

Quasi fosse una leccornia da assaporare con misurata voracità (10) .

A proposito di voracità, c’è chi non cerca la felicità negli occhi

di un’altra persona ma, piuttosto, in un’abbondante porzione di gulasch.

Mangiare, sublime piacere che assolve egregiamente al compito

di riempire la vita di un uomo. O meglio il girovita. Perché la

vita, quella fatta di emozioni e relazioni, è un pozzo senza fondo,

una costante fame di esperienze, mai saziabile. Siamo tutti dei grassoni

affamati nei confronti della vita.Tutte queste riflessioni passano

attraverso un bizzarro incontro notturno, fra un vorace ciccione

e uno stralunato smilzo (11) .

E forse è proprio questa fame che ci porta a sognare, a fantasticare,

a guardare alle stelle, in cerca di un improbabile frutto spaziale

che possa soddisfare il nostro bisogno di trovare un senso, di vivere

per sempre. Ma in fondo siamo animali e la nostra ricerca viene

ben rappresentata da uno spazzino con un cammello in giro per

il cosmo, sempre in cerca di una nuova alba (12) .

Alba, simbolo di speranza, che può assumere i contorni della disperazione

per chi sta passando la sua ultima notte prima di una

condanna. Come Faust, che chiede ai cavalli della notte di rallentare

per concedergli qualche ora di vita in più prima della dannazione

della sua anima, così abbiamo uno sventurato sconosciuto, solo

con i propri spaventevoli pensieri, che troverà alla fine la forza e la

dignità per affrontare il suo destino (13) .

13


Destino che spesso non è come lo si immagina; non si trova, già

scritto, dietro le carte di una zingara, ma si altera e contamina in

continuazione, come un essere vivente creato dagli incroci e dai

contatti, dai rumori confusi, dalle facce sfuocate, dagli incontri fugaci.

Dagli sguardi torvi e dai sorrisi solari (14) .

E se proprio non riuscite a trovare il motivo per ridere potete

sempre rivolgervi all’improbabile Ufficio Smarrimenti & Ritrovamenti.

Magari, oltre al sorriso, troverete anche il coraggio di fare

una scelta o, più semplicemente, il giocattolo che avete perso durante

il trasloco, quando eravate piccoli... (15)

Bufanda, dunque, lo avrete capito, è un prodotto estremamente

eterogeneo,una maglia ben strana,composita,sfilacciata,una sorta

di sciarpa della nonna sferruzzata; lana grezza, taffetà, seta cotta,

cotone, cashmere, probabilmente canapa, fili argentati, panno grosso

bergamasco e via discorrendo. Una sciarpa impregnata di odori,

o profumi, avvolgente e calda, in grado di sprigionare calore in forme

variegate: il caldo bruciante di una lacrima nostalgica, il calore

di un momento (come cantava De André), la fragranza da forno di

una brioche, la timida brace di una sigaretta invernale, la calura di

un piccolo paese del Sud, il caldo confortante di una risata.

Tutto questo fa di Bufanda una sciarpa da portarsi sempre appresso,

valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà

il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi,

pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare,

ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari

che magari non avevate notato prima.

In ogni caso, per chi se lo stesse chiedendo, Bufanda non è una

parola senza senso: bufanda vuol dire sciarpa, in spagnolo.

Dopo una pubblicazione dal titolo francofono, Cyclette, e una

anglofona, Star, abbiamo optato per una terza lingua, vuoi per menare

vanto della nostra cultura, vuoi per dare un carattere ecumenico

e internazionale alle nostre pubblicazioni.Va da sé che con tutte

le lingue, vive o morte, i dialetti, gli idiomi, gli slang, i codici alfanumerici,

i borborigmi presenti sulla Terra, abbiamo agio per un altro

migliaio di pubblicazioni almeno.

E ora lasciatevi avvolgere dalla nostra Bufanda.

14


Note

(1)

Ludovica Mazzuccato, Numero 7, p. 30.

(2)

Roberto Stradiotti, Ottavo, p. 18.

(3)

Mariagrazia Di Stasi, Titino l’invincibile, p. 34.

(4)

Maddalena Selis, Il gatto e l’ingegnere, p. 40.

(5)

Michele Prosperi, Non ho sonno, p. 48.

(6)

Alberto Calorosi, Arrestate UosdwiS ’f JewoH, p. 58.

(7)

Enrico Cantino, Scena madre, p. 24.

(8)

Andrea Rivieri, Fiori d’arancio, p. 44.

(9)

Vito Nicassio, Il miracolo del santo barbiere, p. 76.

(10)

Andrea Burlini, Inno, p. 64.

(11)

French, Il grassone, p. 52.

(12)

Cristiano G. Gozzini, Lo spazzino, il cammello e lo spazio profondo, p. 68.

(13)

Luca Cantarelli, La notte prima, p. 84.

(14)

Luca Pozzoli, Incroci, p. 80.

(15)

Antonio Mele, Smarrimenti & Ritrovamenti, p. 14.

15



Smarrimenti & Ritrovamenti

racconto di Antonio Mele

illustrazione di Elena Prette

All’Ufficio Smarrimenti & Ritrovamenti c’era molta folla, quella

mattina, e i due Impiegati facevano una gran fatica a esaudire le

numerose e pressanti richieste del pubblico.

Uno Strano Signore, completamente decapitato, agitava freneticamente

verso lo sportello una fotografia che riproduceva un volto

a grandezza naturale, e di tanto in tanto l’avvicinava a sé, ponendosela

sul collo.

Il Maggiordomo che l’accompagnava cercava di spiegare all’Impiegato

dietro lo sportello: «Vedete? Il Signor Conte ha perso la testa

per una Ballerina... Osservate bene la fotografia e controllate

cortesemente se la testa del Signor Conte è stata ritrovata!»

Alle loro spalle, tra sbuffi e spintoni, un Uomo col Cappello sulle

Ventitré farfugliava confusamente che qualcuno (non ricordava

chi) l’aveva indirizzato in quell’Ufficio perché aveva perso la memoria.

In quel mentre un Celebre Oratore seguitava a urlare: «Insomma!

Sono due settimane che vengo qua, e domani ho la conferenza...

Allora, l’avete trovato il filo del mio discorso?»

La confusione cresceva, finché sul posto intervenne un Baldanzoso

Gendarme, con tanto di mustacchi scuri e di sciabolone alla

cintola, che con voce poderosa ordinò: «Silenzio, o faccio sgombrare!»

Poi, con tono sarcastico, aggiunse: «Ci mancherebbe che, oltre

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al resto, perdiate pure la calma!»

La folla zittì, e sotto lo sguardo severo del Gendarme ripresero

sommessamente le richieste.

«Io» disse una Signora Corpulenta «vengo dalla stazione ferroviaria.

Ho appena perso il treno per Modena. Che, per caso, l’avete ritrovato?»

L’Impiegato allo sportello chiese al Collega di controllare in magazzino,

ma dopo qualche minuto il Collega ritornò a mani vuote,

spiegando che di là c’era soltanto un treno locale per Castrovillari

e una vecchia littorina in disuso, sicché la Signora Corpulenta se ne

andò via, sbuffando come una locomotiva.

«Lei, dica: che cosa ha perduto?» fece duro l’Impiegato a un Signore

Calvo.

«Mi sembra chiaro» disse quello «ho perso i capelli! Vede? Li portavo

giustappunto come ce li ha lei!»

L’Impiegato si passò d’istinto la mano sui capelli unti di brillantina,

poi bruscamente soggiunse: «Che vuole insinuare?»

«Oh, niente, per l’amor del cielo!» esclamò il Signore Calvo piuttosto

intimorito. «Cercavo solo di fornire qualche indicazione più

precisa...»

«Capelli persi, è raro ritrovarli!» sentenziò l’Impiegato. «Avanti

un altro...»

Si presentò un Ometto, ingessato dalla testa ai piedi, con garze

e cerotti dappertutto: «È già la terza volta che mi succede» spiegò

l’Ometto «ho perso l’equilibrio...»

Tutti si misero a ridere, e così forte che il Gendarme dovette intervenire

di nuovo per ristabilire l’ordine.

Intanto,cominciava a farsi tardi,e qualcuno dal fondo urlò:«È incredibile!

In quest’Ufficio non si ritrova mai niente, ma in compenso

si perde sempre del tempo!»

Giù altre risate. Il Gendarme questa volta sguainò minaccioso la

sciabola: «Vi avverto, signori, che io non ho mai perso niente perciò

guai a voi se mi fate perdere la pazienza!»

Arrivò il turno del Tifoso della Squadra del Cuore: «Dica un po’»

esordì con tono arrogante, poggiando i gomiti sullo sportello e alitando

forte in faccia all’Impiegato, «io ho perso la bussola perché la

mia Squadra del Cuore ha perso la partita... Adesso chi me li ridà i

punti in classifica che abbiamo perduto?»

L’Impiegato neanche gli rispose. Prese dal cassetto della scrivania

un grosso martello e glielo batté violentemente sul cranio:

«Adesso i punti se li faccia dare dal suo medico di famiglia!» sibilò,

18


con un sorriso sinistro.

«Ha fatto bene!» disse a quel punto un Vecchietto che si reggeva

a malapena sul bastone. «Quel giovinastro aveva perso le buone

maniere,altro che la partita! Comunque,figliolo,io sono qui perché

ho perso la fiducia nelle Autorità,e specialmente nei Militari,che mi

hanno fatto perdere la guerra... A dirla tutta, io i Militari non li posso

proprio soffrire, ha capito?!»

Fu a questo punto che il Gendarme, ferito nella propria dignità

di soldato, perse la tramontana. E cominciò a roteare furiosamente

il suo sciabolone, facendo scappare tutti a gambe levate.

Dietro l’angolo del palazzo, acquattato e ben al sicuro, il Vecchietto

che aveva provocato tutto quel pandemonio sghignazzava

compiaciuto.

«Allora,hai visto?» diceva a un Altro Vecchietto più vecchio di lui

«Hai visto che sono riuscito a fare sgombrare l’Ufficio? Hai perso la

scommessa, mio caro, ma adesso che non c’è nessuno puoi entrare

tranquillo e chiedere con tutta calma se hanno ritrovato la tua dentiera.»

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Ottavo

racconto di Roberto Stradiotti

illustrazione di Margherita Allegri

«È arrivato Ottavo!»

Briciola ringhiò puntando le zampe, faceva piccoli saltelli come

un cagnolino di pezza caricato a molla.

In realtà il marito di Vladimirka si chiamava Ottavio, tuttavia,

poiché la famiglia stabile comprendeva già sette nani da giardino,

Ottavio,che era piccolo come loro e si presentava puntuale ogni sei

mesi, come un parto prematuro, era detto Ottavo, e rispondeva solo

chiamandolo in quel modo. Vladimirka ormai era convinta che

quello fosse il nome di battesimo, nessuno le avrebbe fatto cambiare

parere.

«Briciola, attacca!»

Il cane si precipitò sul vialetto d’ingresso, mostrando denti più

grossi di lui, ma quando Ottavo estrasse dal secchio la pennellessa,

agitandola come un aspersorio,il satanico quadrupede mugolò sconfitto

e corse in casa, sotto il tavolo, nell’inferno da cui era venuto.

«Ciao,Vladivostok.»

Quando Ottavo chiamava la sua donna con l’allungativo significava

che ne sentiva la mancanza, pari a centottanta giorni, e che

dentro di sé rivangava i bei tempi,quando mano nella mano percorrevano

la discarica comunale e si fermavano a fare pic-nic e, all’ombra

di un cumulo di batterie esauste, anch’essi si esaurivano di baci,

e il figliolo Piero era ancora nei sogni dell’amore.

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«Cosa vuoi?» disse Vladimirka.

«Sono passato a trovarti.»

«Cosa vuoi da mangiare, voglio dire.»

Ottavo arrivava all’ora di pranzo o di cena e, dopo sei mesi di

scatolette, quel pasto frugale era un Natale, una Pasqua e un Giorno

del Ringraziamento tutti assieme.

«Non so, hai una bistecca?»

Vladimirka ringhiò, e significava che avrebbe preso una fetta di

carne, l’avrebbe battuta e messa in padella con l’olio d’oliva. Briciola

ringhiò, e significava che avrebbe usato ogni sotterfugio per impossessarsi

della fettina e andare a condividerla con i quadrupedi

vagabondi del quartiere. Dopo sei mesi di scatolette anche per lui

era tempo di bisboccia.

«Allora?» disse Ottavo. Quella parola, sussurrata con timidezza,

era gravida di significato.Con quella domanda chiedeva cosa ne fosse

del loro passato, presente e futuro. Un po’ come interrogare una

maga.

Vladimirka si voltò a squadrare il suo uomo. Era vestito di bianco,

come un bambino alla prima comunione, girava sempre in bicicletta,

vestito di bianco, sporco di pittura bianca, e nel secchiello

aveva chiavi, pennello, portafoglio e un paio di scatolette di tonno

e fagioli per l’indomani.

«Allora niente.»

La risposta,urlata con decisione,era priva di sottintesi.Lei non si

chiedeva nulla: solo il presente meritava attenzione, e non sempre.

«Ti sei snellita.»

Briciola mise fuori il muso da sotto il tavolo e squadrò la padrona,

perplesso.

«Sono aumentata di due chili» corresse secca la donna.

Le pareti domestiche e il profumo della bistecca ispiravano a

Ottavo teneri quadretti familiari, dall’infanzia ai giorni nostri.

«Si sta bene qui» disse rivolto al mastodontico deretano della

moglie, la quale, dopo aver apparecchiato, era sempre rimasta girata

verso il fornello con una certa forzata insistenza, anche prima di

metterci la bistecca.

«Vero. Un paradiso!»

«Il paradiso piace anche a Briciola.»

I lombi di Vladimirka tremarono di stizza.

«Non dire mai una cosa simile. Briciola è tutto, il compagno della

mia vita, il bastone della mia vecchiaia, non augurargli mai niente

del genere.»

22


Il cane confermò con un bau, seguendo con attenzione l’evolversi

della bistecca.

«Lo sai che io a Briciola voglio bene.A proposito,questo fine settimana

tocca a me tenerlo.»

«Non se ne parla. Devo portarlo per negozi a comperare la mantellina

nuova.»

«Fammelo portare fuori per la passeggiata, allora.»

La donna si voltò paonazza, tenendo la bistecca fumante fra due

dita, senza provare dolore.

«Dovete rientrare alle venti e trenta, sennò mi preoccupo.»

Ottavo annuì, allungò il piatto e la bistecca cadde con un rumore

di obolo.

La carne rossa e sugosa nel piatto, invece che attirarlo verso di

sé, lo scaraventò in una dimensione onirica. La donna rassettava,

portando a spasso quelle due mongolfiere posteriori che veleggiavano

e facevano come un delizioso fruscio di seta ad ogni passo:

Vladi-mirk, Vladi-mirk, avanti, marsch. Vladimirka si chinò e Ottavo

vide l’Africa da cinquemila metri, e fu invaso dalle correnti

ascensionali, e provò l’ebbrezza dell’ossigeno rarefatto e della tempesta

di uccelli, e la pressione gli catapultò il cuore a ridosso della

lampadina a incandescenza sopra il tavolo e il muscolo prese un lieve

sentore di bruciato e quando tornò nella cassa toracica fumava

come un’omelette abbandonata.

Bevve un bicchiere di rosso per prendere coraggio.

«Vlad...»

Quando diceva Vlad, ecco, era cotto a puntino. Gli vennero gli

occhi umidi e le labbra si atteggiarono a broncio infantile. Giocava

con la forchetta, faceva le righe sulla tovaglia, poi il coltello si avvicinava

alla forchetta e la carezzava con il manico e poi entrambi cadevano

sulle righe, avvinghiati in un amplesso metallico.Vlad, sentendo

nell’aria che non le avrebbe chiesto semplicemente il sale,

ma che quel nome mozzo, sussurrato con voce tremante, era il

preambolo di un’arringa, di un’omelia e una preghiera messe insieme,

si mise a sbattere pentole e piatti, producendo un clangore infernale.

E quando ebbe finito tolse il tutto dalla credenza e cominciò

daccapo, con rinnovato frastuono.

«Vlad!» urlò Ottavo con tutta la sua voce baritonale, che un tempo

aveva deliziato il vicinato quando si faceva la barba e un po’ meno

quando litigava.

Lei si girò di scatto, rossa in viso, con un coltello da filetto stretto

nella destra, nascondendo le mongolfiere e puntandogli addosso

23


i mappamondi. E di nuovo Ottavo non seppe che dire, perché non

era certo di essere lì, fra i satelliti della Via Lattea, in un mondo di

sfere celesti, nuotando tra spazzatura spaziale, pentole e tegami.

Guardalo lì, rosso in viso e imbambolato. Faceva quasi tenerezza.

«Vuoi un’altra bistecca?» Più che un invito, una minaccia.

«Fammi mangiare questa» rispose Ottavo, ancora un po’ perso

nei muliebri mondi rotondi, cosicché il piatto dapprima era una

bianca luna e non c’era nulla di male. Poi la mesta realtà con fatica

prese il sopravvento. Il piatto era vuoto.

«È finita nell’altra dimensione» mormorò incredulo.

«Si chiama stomaco.È il tuo solo organo,dovresti conoscerlo bene.»

Forse fu il bicchiere di vino, forse la passione accesa, la testa

viaggiava con sola andata.

«Non sapeva di niente.»

Vladimirka preparò il cibo per Briciola, consistente in carbonara,

fette di salame e torta Saint Honoré, poi lo chiamò con una voce

così melliflua che la stessa Circe si sarebbe trasformata in scrofa.

Il cane non era sotto il tavolo, ma da lì partiva una costellazione

di burro e sangue cotto sul pavimento, una bella curva che portava

alla finestra aperta.

E a Ottavo sovvenne che, mentre galleggiava nei mondi paralleli,

un essere peloso gli era salito sulle gambe e aveva appoggiato le

zampe sul tavolo, come ai bei tempi, quando tutti i giorni si rizzava

sul manubrio della bici e veniva portato a spasso. E poi aveva infilato

il muso nel cestino della bici, cioè nella luna, mi correggo, nel

piatto e il respiro pesante che Ottavo aveva attribuito a se stesso

durante il giro del mondo in pochi secondi, era quello sottostante

del cane alle prese con la sua bistecca. La sua bistecca!

Con un balzo Ottavo iniziò l’inseguimento della costellazione

sugosa, attraversò l’orto con il cipiglio di un orco bianco, sotto gli

sguardi attoniti dei nani.

«Bri! Bri! Dove sei!» gli sembrò di urlare,in realtà smorzava le vocali

per non farsi sentire dalla ex, e così gridava «br br», come una

cicala. Mariasole, che stava prendendo la tintarella, agitò la mano in

segno di saluto, e con il dito indicò il campo. Che ragazza perspicace,che

ragazza solidale,che ragazza coraggiosa.Che ragazza,insomma.Non

le sfuggiva niente,capiva sempre tutto al volo,capiva le cose

ancor prima che le cose fossero, capiva anche dove non c’era

niente da capire. Era una ragazza dai nove sensi.

Dopo una corsa forsennata, ecco il buon Briciola, con la bistecca

fra le fauci, vicino a Bauhaus, un cane venti volte più grosso, che

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aspettava paziente il suo assaggio.

Ottavo si mise carponi e si avvicinò sbuffando ai musi dei quadrupedi

in festa.

«Ehi, Bri, quella fetta è mia.»

Bauhaus, composto e altezzoso, lo guardò con un’aria mista di

rimprovero e compassione. Bri, per tutta risposta, strappò un pezzo

di carne, poi la passò al compare.

L’uomo rimase ad aspettare, con un filo di saliva all’angolo della

bocca. Bauhaus emise un sordo grugnito, che poteva significare

buona questa carne o che schifo questa carne, ma valli a capire i

cani, e il suo muso era una maschera impenetrabile. Il pezzo tornò

al primo cane.

«E io?»

Briciola gli porse le terga, in atto apertamente ostile. Non si

scende a patti con i disgregatori di famiglie,sembrava dire,ma valli

a capire, i cani.

Ottavo pensò bene, prima che fosse troppo tardi, di barattare la

scatoletta di tonno e piselli che aveva lasciato sulla bicicletta.Sarebbe

piaciuta? E soprattutto, avrebbe convinto i due gaglioffi?

Passò correndo davanti a Mariasole, che tutta sorridente gli indicò

la strada per la bicicletta e al ritorno era ancora lì in piedi che

si stava sistemando il costumino. Con il dito puntato verso il campo

gli strillò: «Buona fortuna!»

Ottavo con un tuffo tornò nella società canina, portando la scatola

stretta in bocca. Guardate cosa ho qui, voleva dire, ma le parole

gli morirono in gola quando vide i due cani coricati nell’erba

passarsi la lingua sul muso, soddisfatti e in pace col mondo. Della

carne non c’era più traccia.

Ottavo si sedette accanto a loro, e sotto gli sguardi vagamente

annoiati aprì la scatoletta,raccolse un po’del contenuto con due dita

e lo portò alla bocca. Si trattava di pazientare per altri centottanta

giorni.

Bauhaus guardava un insetto volare.

«Wof» borbottò Briciola. Sembrava sorridesse.

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Scena madre

racconto di Enrico Cantino

illustrazione di Rosanna Mezzanotte

Padre mio, io son qui venuta per servire

a Dio e non per istare oziosa; andiamo a

rimettere il diavolo in inferno.

Giovanni Boccaccio

Va tutto bene, ragazzi. Non dovete preoccuparvi. In fondo, cos’è

successo? Niente di grave. Lo pensereste anche voi, al mio posto.

Però siete lì, non qui. Siete dove è previsto dobbiate essere. Dove

io ho voluto che foste. E questo dovrebbe suggerirvi qualcosa...

Ma forse non siete ancora pronti. No. Lo vedo dalla vostra

espressione. Devo aver preteso troppo. Sia. Facciamo un passo per

volta. Piano piano. Non vorrei mai si dicesse di me che non vado incontro

a nessuno. Le cose procedono, sebbene lentamente. Non

stanno ferme. Scorrono. Ranta Pei.O Panta Rei. Come diceva quel

greco là.Vigliacco se mi ricordo il suo nome... Credo cominciasse

per E. Io però, se non ve ne siete accorti, non sono un filosofo. E

non intendo diventarlo, per lo meno nell’immediato futuro. Ho altri

pensieri, altre preoccupazioni. Altro che scorrimento. Adesso ho

un disperato bisogno della vostra attenzione. Concentratevi. Così,

bravi. Adesso guardatemi. Fissate i vostri occhi nei miei. Fate che diventino

una cosa sola. Ho una comunicazione della massima importanza

per voi. Per cui mobilitate anche i vostri padiglioni. Le riprese

sono a buon punto. Così, almeno, dicono i miei collaboratori.

E non c’è ragione per cui io non debba credere alle loro parole.

Però, da questo preciso momento mi occorre tutto l’impegno di

cui siete capaci.

Allora: siamo arrivati al momento clou. E se non sapete cosa si-

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gnifica ve lo dico in moneta spiccia: dobbiamo girare la scena madre.

Senza di essa, tutto il lavoro svolto finora mancherebbe di senso.

Quindi me la dovete capire non bene, ma benissimo. Tu, che sei

il protagonista maschile, devi far capire a lei, che è la protagonista

femminile, cosa ti succede ogni volta che te la trovi davanti. E non

fate quella faccia, per cortesia. È una cosa e-le-men-ta-re. La capirebbe

chiunque. Così come chiunque sarebbe in grado di tradurla in

pratica.

Voi due siete intimi. Molto intimi. E, come tali, sopraffatti da una

passione raccapricciante. Io questa passione voglio vederla e sentirla!

Insieme a me, dovrà vederla e sentirla anche il pubblico. Anzi:

soprattutto il pubblico. Mi sono spiegato?...

«Cos’ha detto?»

«Bella domanda... tu hai capito qualcosa?»

«Sì e no.»

«Spiegati meglio.»

«Sono riuscito a intercettare due sole parole.»

«Quali?»

«Scena madre.»

«Secondo te di cosa si tratta?»

«Difficile dirlo. Questo è il mio primo film. Però, a giudicare dal

tono di voce del regista, sembrerebbe qualcosa di fondamentale.

Dovremmo cercare di seguire le sue indicazioni.»

«Ma quali indicazioni, che qui non si capisce niente!...»

«Eppure qualcosa dovremo pur farla.»

«Mi sento molto imbarazzata...»

«Per forza. Siamo nudi.»

Allora? Siete sordi? Vi volete muovere?!...

Noi siamo pronti. E da un pezzo. Aspettiamo solo i vostri comodi.

Temo non vi siate resi conto dell’importanza che questa scena

riveste nell’economia della vicenda. È fondamentale. Più che dirvi

questo... Dovrò arrendermi all’evidenza.Voi due non siete in grado

di cogliere la vera essenza del film, ciò che lo rende unico nel suo

genere...

È questa la riconoscenza per la straordinaria opportunità che

vi è stata concessa?...Vi sembra morale buttare al vento un simile

privilegio?... Sto sprecando il mio fiato, con voi. Lo capisco dai vostri

sguardi.

Eppure io non posso arrendermi! Non devo! Vi renderò consa-

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pevoli della sacra missione che vi è stata affidata. Costi quello che

costi! E smettetela di guardarmi così...

«Ma tu sapevi delle scene di sesso?»

«Per niente.»

«È stata una sorpresa anche per me.»

«Se l’avessi immaginato, me ne sarei rimasta a casa.»

«Nemmeno tu hai letto il copione?»

«Quale copione? Io ho solo fatto un provino.»

«E non ti hanno detto...?»

«Scherzi? Mi presento, faccio quello che mi chiedono, poi mi

fanno: ti chiameremo noi. Li sento dopo due giorni. Presentati all’ora

tale nel posto tale. Arrivo. Non mi dicono nulla. Finalmente,

uno mi fa: spogliati. Lo faccio. Un altro dice: entra lì. Faccio anche

quello. Aspetta qui. Aspetto. Dopo un po’, entri tu.»

«La stessa cosa che è successa a me! Con una differenza. Io non

ho dovuto aspettare.Tu eri già nella stanza. Nuda.»

«Mi sento morire dall’imbarazzo...»

«Poteva capitarci di peggio.»

«E cosa?»

«Qualcosa dovrà pur esserci.»

Ragazzi, mi fate cadere le braccia... e non solo quelle! Sembrate

due manichini! Allora non mi avete capito! Come devo dirvelo? In

quale lingua? Sanscrito? Persiano antico? Gaelico? Questa è la scena

madre! Voglio passione! Voglio impegno! Voglio concentrazione!

Voglio convinzione. Invece io non vedo nessuna di queste tre

cose! Siete due a-man-ti! Vi desiderate! Impazzite l’uno per l’altra!

Se non foste già senza, vi strappereste i vestiti di dosso! Coi denti,

per giunta!

Guardatevi:avete lo stesso trasporto di un treno sul binario morto,

di una nave in disarmo, di un bradipo tetraplegico! Mi state deludendo

profondamente... Pensavo foste professionisti, persone serie!

Si può sapere qual è il problema?...

«Posso farti una confessione?»

«Penso di sì.»

«Sicuro?»

«Non farti problemi.Già siamo nudi.Non sarà certo più imbarazzante

di così.»

«Meno male...Senti,io non ho nulla contro di te. Al contrario.Mi

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sei pure simpatico. Però, la sola idea che tu mi tocchi...»

«Ti capisco.»

«Davvero?»

«Al cento per cento.»

«Grazie.»

«Io, invece, posso farti una domanda?»

«Non farti problemi nemmeno tu. Capirai. Impossibile essere indiscreti

in queste condizioni...»

«Sei fidanzata?»

«Non proprio. Frequento uno conosciuto la settimana scorsa.

Niente di che. E tu?»

«Mah... sto valutando una nuova conoscenza. Però non lo so.»

«Perché?»

«È gelosa.»

«Molto?»

«Be’, mi ha detto che se ci mettiamo insieme e mi becca anche

solo a parlare con un’altra, me lo taglia con il trinciapollo...»

«Scherzi?»

«Magari.»

«Roba da matti...»

«Eh, c’è gente strana, in giro.»

«Chiamala strana.»

«Intanto il regista continua a parlare. E io continuo a non capire

cosa dice.Tu come fai?»

«Vado a orecchio.»

«E funziona?»

«Poco. Afferro una cosa su cinque. Quando va bene. Ma devo

concentrarmi al massimo.»

«Hai la pelle d’oca.»

«Vorrei vedere te.»

«Guarda che ce l’ho anch’io...»

Ma vi volete decidere?... Sono stanco di sgolarmi. Mi state facendo

ripetere la stessa cosa da ore. Ve lo dico per l’ultima volta:datevi

una mossa!

State bloccando la lavorazione del film. Manca solo la scena madre.

Se non vi decidete, non se ne fa più nulla. Anche perché dura

novanta minuti... Non so più cosa dirvi. Non so più come dirvelo. I

responsabili dei provini mi avevano parlato così bene di voi! Ragazzi

seri, educati, gentili, con voglia di fare... A vedervi non si direbbe.

O si sono sbagliati, o mi hanno raccontato delle gran balle, o li ave-

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te imbrogliati.Non avete nerbo.Siete molluschi.Creature senza spina

dorsale. Dove l’avete nascosta, eh? Io, intanto, sono qui che cerco

di convincervi a darmi una mano. E perdo tempo.Tempo e denaro.

Specialmente denaro.

VI DECIDETE, SÌ O NO?!?...

«Senti come urla.»

«Si sarà arrabbiato.»

«Lo credo anch’io.»

«Mi è sembrato di sentire la parola denaro.»

«Secondo te, che c’entra?»

«Forse sta dicendo che,se non ci decidiamo a fare qualcosa,non

verremo pagati...»

«Non mi va molto l’idea d’essere venuta qui per nulla.»

«Figurati a me.Temo che dovremo...»

«... toccarci, anche se la cosa non ci va.»

«Pazienza. Cominci tu?»

«Prima le signore.»

Ormai non ci credevo più... Siete stati magnifici! Vi amo! Vi adoro!

Vi devo la vita. E le mie scuse, naturalmente. Lo ammetto: mi ero

sbagliato.Vi avevo giudicato male. Mi spiace di avere urlato prima.

Ma voi dovete mettervi nei miei panni: l’empatia artistica... gli interessi

economici... le pressioni esterne... Non importa. Non più, ora.

Sarà un capolavoro! E se ve lo dico io, potete fidarvi. Sono un veterano.

Ho l’occhio clinico. Riconosco il talento appena lo incontro.

Farò di voi dei grandi attori.

Adesso potete smettere. Stop. Ho detto... stop! STOP! STOOP!!

BASTA!! SMETTETELA!! AIUTO REGISTA, STACCA QUEI DUE IM-

BECILLI!!

«Sta... urlando di nuovo...»

«Quell’uomo... non è mai... contento...»

«Non... avremo... esagerato?...»

«Ma no...»

«Devo... ricredermi... sul tuo conto...»

«E io... sul tuo...»

«Senti...»

«Dimmi...»

«Cosa fai... dopo?...»

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Numero 7

racconto di Ludovica Mazzuccato

illustrazione di Andrea Pecchia

Mi guardo riflesso nella specchiera all’entrata della stanza. La

mia chioma di treccine bordeaux è ancora fluente e il mio incarnato

color ottone risulta piuttosto brillante per la mia età. I miei due

tatuaggi, il 7 sulla nuca e le iniziali HB sulla fronte, non mi sembrano

poi così sbiaditi.

Allora perché mi vogliono mandare in pensione?

Se solo potessi raccontare tutto quello che ho visto in questi

dieci anni di servizio. Sicuramente avrei l’esperienza necessaria per

essere un direttore d’albergo, forse anche più preparato del signor

Rodolfo, il quale è fermamente convinto che i miei 99 colleghi ed

io siamo obsoleti, passati di moda.

Se fosse un uomo saggio capirebbe che noi facciamo parte di

questo albergo e siamo indispensabili quanto lui.

Cosa penserebbe la piccola Carlotta,che viene ogni estate a passare

qui le ferie con la sua famiglia, se non mi trovasse? L’ho vista

crescere, quella frugoletta, e spesso mi mettevano nelle sue tenere

manine per distrarla e convincerla a mangiare la pappa; ora che è

più grandicella mi mette a testa in giù e durante il tragitto in ascensore

inventa un sacco di storie divertenti.

Cosa direbbero i coniugi Rossi, che trascorsero qui la loro prima

notte di nozze, e ogni anno ritornano e chiedono sempre la 7

per festeggiare il loro anniversario di matrimonio? Ogni volta che

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mi prendono in mano si guardano e sorridono; vedete questa treccia

un po’ sciolta? Sì, proprio quella! È stato il signor Rossi a rovinarla

perché era nervoso mentre aspettava che la sua neo sposa

uscisse dal bagno per la loro prima notte d’amore. Non vi nego che

qualche volta litigano, ma sono una bella coppia perché li lega una

sana e naturale complicità.

La complicità, una dote indispensabile anche per il mio lavoro.

Per fare un esempio, sono stato complice del fidanzamento tra un

uomo d’affari, sempre in giro per il mondo, e una ragazza che lavorava

come cameriera stagionale. Lui ha iniziato a corteggiarla subito

ma lei non cedeva; così, una sera, sono scivolato sotto il tavolo

del ristorante senza che nessuno se ne accorgesse e, mentre la cameriera

e il manager mi cercavano, si sono scontrati e, inevitabilmente,

baciati.

Per capire un cliente mi basta vedere come mi tratta. L’artista

francese, che viene durante gli allestimenti dei suoi vernissage,mi

perde puntualmente; una volta mi aveva dimenticato in bagno, sul

bordo del lavandino.

C’è la categoria di clienti, invece, che mi tiene sempre con sé,

come una specie di ossessione. Solitamente si tratta di persone che

soffrono di solitudine e di insicurezza.

Altri giocano con me mentre dicono bugie alla moglie usando il

telefono sul comodino.Altri ancora, appena entrano in camera, mi

gettano sulla scrivania con poca gentilezza, manifestando il loro

istinto sgarbato.

Dentro di me conservo un’infinità di segreti e confidenze, un

po’ come il barista del turno di notte.

Voi non avete idea di quanti, con l’orologio d’oro al polso, bevano

la grappa mignon del frigobar e poi si ingegnino per riempirla

d’acqua e ritapparla in modo che la cameriera non se ne accorga e

non segni la consumazione. E quanti ancora nascondano in valigia

saponette e cuffiette per la doccia dell’albergo; qualcuno persino si

porta a casa un asciugamano per souvenir.

Eppure anche questi piccoli aneddoti paradossali fanno parte

del clima familiare che si respira in questo albergo.

Gianna, ad esempio: il direttore pensa sia una ballerina e invece

fa il mestiere più antico del mondo. Ogni tanto, quando prende bene,

si concede una notte qui, a cento chilometri da dove lavora, per

staccare da tutto e sognare, tra le morbide e profumate coperte di

questa stanza, di farlo per amore, almeno per una volta. Mi fa tenerezza

la mattina, quando si sveglia, e guardando sul comodino sbar-

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ra gli occhi, scambiando per un attimo il mio profilo per il compenso

arrotolato che le lasciano i clienti.

Io condivido ogni attimo del vostro soggiorno; ricorderò sempre

il bacio che mi schioccò la signora Lia, venuta qui per far operare

il figlio da un noto specialista della zona: mi stringeva, nervosamente,

tra le dita, quando le giunse la buona notizia che suo figlio

sarebbe tornato a camminare.

Guardo il cioccolatino di cortesia appoggiato a pochi centimetri

da me; solitamente sono gli ospiti femminili che lo mangiano, gli

uomini spesso nemmeno lo notano intenti come sono a controllare

subito se i programmi satellitari funzionano.

Questo è un signore sulla quarantina, mani calde, vestito elegantemente

e abituato a viaggiare perché il suo equipaggiamento non

è quello del vacanziere improvvisato. Ora sta sistemando le sue cose

e lo vedo passare dall’armadio al bagno.

Ogni volta che arriva un nuovo ospite sono emozionato,non vedo

l’ora di conoscerlo meglio, attraverso i suoi gesti e le sue abitudini,

proprio come fossi uno psicologo.

No, credo non ci sia un mestiere più bello del mio: ambasciatore

della chiave di un spazio tutto vostro, ugualmente confortevole,

indipendentemente da chi siate o da che cosa facciate!

Chissà quante volte anche voi avete stretto me, o uno dei miei

colleghi fra le vostre mani, con fiducia e affetto. Magari, da qualche

parte, ho ancora una vostra impronta.

Allora, ditelo voi al signor Rodolfo, deciso a sostituirci con quelle

asettiche tesserine elettroniche a banda magnetica, che senza di

noi,gli insostituibili portachiavi di ottone con il ciuffetto bordeaux,

questo albergo non sarebbe più lo stesso!

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Titino l’invincibile

racconto di Mariagrazia Di Stasi

illustrazione di Silvia Pizzi

Saruzzo Sarcinello, detto ‘u Pitturi, possedeva un gallo.

Veramente possedeva anche svariate galline, ma il gallo Titino

era il suo preferito. Un galletto corto, nero e furbacchione, dai barbagli

cremisi e dagli occhietti vispi.

Lo teneva con tutti gli onori come un fratello e meglio di un figlio,

nel pollaio dietro la casa. Ma il gallo Titino aveva un’anima gitana

e proprio non ne voleva sapere di farsi i fatti suoi nella sua iaddinara,

e se ne andava a curiosare qua e là per la via, col permesso

del suo padrone. Dirimpetto alla casa di Sarcinello stava l’abitazione

di Tano Raccuia, detto ‘u Curtu, con il quale questi aveva una serie

infinita di contrasti e rancori che risalivano alla notte dei tempi

e coinvolgevano le rispettive famiglie da generazioni e generazioni.

Ora, poiché il gallo Titino era d’animo buono e generoso, si mise

in testa di mettere pace fra i due e così prese l’abitudine di passare

e spassare sotto la finestra del Raccuia, di giorno e di notte, per

omaggiarlo di sontuose e interminabili serenate, nelle quali si produceva

a gola spiegata.

Tano Raccuia era però uomo dai gusti semplici, che si spezzava

la schiena a campare la numerosa famiglia, e poco avvezzo a gustare

i piaceri dell’arte.Non gradiva affatto le attenzioni canore del gallo

Titino e così, come fu come non fu, decise di rivolgersi alla legge

per risolvere una volta per tutte la questione. L’avvocato che inter-

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pellò, uno sbarbatello alle prime armi (l’unico però che poteva permettersi),

gli consigliò di preparare documenti e certificati medici

attestanti il grave stato di nocumento in cui il tapino si trovava a

causa delle molestie del gallo in questione. Pressione alta, crisi di

collera, impossibilità a lavorare per la grave stanchezza fisica dovuta

alle nottate in bianco...Tutto questo avrebbe dovuto convincere

il giudice senza ombra di dubbio della giustezza delle sue lagnanze.

In un paese piccolo tutti sono imparentati fra di loro più o meno

alla lontana,e fu cosa naturale che si formassero due fazioni:una

a favore del gallo Titino e del suo padrone ‘u Pitturi, e l’altra che tifava

per Tano Raccuia. Nella strada dov’era il domicilio del gallo

canterino però,la maggioranza s’era schierata con Saruzzo Sarcinello.

Si giunse così al processo davanti al giudice di pace dottor Randazzo

il quale, dopo aver cercato di addivenire a una conciliazione

tra le parti – conciliazione resa impossibile dal carattere cocciuto

del Raccuia che ad ogni costo voleva conto e ragione – dovette

prendere atto dei fatti.

Il giudice Randazzo, uomo prestante e giovanile, amante del bel

vivere e delle belle donne, istintivamente provava simpatia per Saruzzo

Sarcinello piuttosto che per il suo avversario, essendo il primo

uomo colto, interessato all’arte, con la passione della pittura e

della buona musica; tuttavia la legge è legge e a malincuore emise

la sua sentenza. Il gallo Titino fu condannato all’esilio e al conseguente

domicilio coatto presso un allevatore di polli in un paese vicino.Venne

disposto altresì che il maresciallo della locale stazione

dei carabinieri si recasse personalmente a casa del Sarcinello per

accertarsi che la sentenza venisse prontamente eseguita.

La cosa fece scalpore, soprattutto nella strada dove vivevano i

due contendenti. L’idea di non sentire più le prodezze canore del

gallo Titino, che a voce spiegata salutava il sorgere dell’alba, disturbava

coloro che avevano una profonda simpatia per ‘u Pitturi,ritenuto

onore e vanto du paisi, mentre al contrario non digerivano Tano

‘u Curtu e il suo carattere selvatico e lupigno.

Perfino la televisione locale,Tele Perla del Mediterraneo, mandò

in onda svariati servizi e interviste riguardanti la faccenda.E in quella

situazione si arrivò al giorno dell’esecuzione della sentenza.

Sul luogo venne mandato il primo giornalista di Tele Perla del

Mediterraneo,Fabio Scalise,il quale per riprendere la scena andò ad

ammucciarsi armato di telecamera,nella stanza da letto della vedova

Gelsomina Diotiguardi.

Sicuramente lo Scalise fu il primo uomo a varcare quella soglia

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dal giorno in cui, dieci anni prima, ne era uscito, piedi in avanti, il

benemerito Ignazio Diotiguardi, detto ‘u Zu Gnazio, la cui foto faceva

bella mostra di sé in una cornice d’argento sul comodino della

vedova.

Zu Gnazio era un omone dall’animo sensibile, morto per lo

shock di aver visto sua moglie nuda la prima notte di nozze.Da quel

momento non si era più ripreso e dopo vent’anni di tribolazioni il

suo cuore non aveva retto.Tanto fu lo stupore del de cuius nel vedere

un altro uomo varcare la soglia della stanza della consorte che

la cornice con tutta la foto rovinò rumorosamente sul pavimento

senza causa apparente.

«Cosa tinta è» mormorò la vedova sturciuta, vedendo nel fatto

un cattivo presagio.

«Sciocchezze!» esclamò lo Scalise, prendendo posizione dietro

la finestra.

In quel mentre, all’imbocco della strada fece la sua apparizione

il maresciallo dei Carabinieri Salvo Lo Presti insieme all’appuntato

Gargiulo.

Aveva l’espressione dei momenti peggiori. Divisa inamidata, sopracciglio

folto di ordinanza,sapientemente corrucciato,labbra sottili,

espressione dura, andatura militaresca adatta all’occasione.

In realtà era infuriato nero e mentalmente santiava contro tutti

i santi e pure contro il giudice che aveva avuto l’insana idea di

spedirlo ad arrestare un pennuto, mettendolo in ridicolo davanti al

paese intero. Giunto che fu davanti alla porta del Sarcinello, tuppuliò

così forte da scorticarsi le nocche.

«Carabinieri! Aprite immediatamente!» urlò il Gargiulo.

La porta si aprì dopo qualche istante. ‘U Pitturi non aveva l’intenzione

di fare resistenza.

«Unnè?» chiese il maresciallo, alludendo al gallo Titino.

«E io chinni sacciu?» Rispose il Sarcinello. Si guardarono torvi.

Intanto l’appuntato Gargiulo si mise a cercare dentro e fuori la

casa, ma del gallo Titino neanche l’ombra. Nel frattempo in strada si

era formato un capannello di persone, e ognuno diceva la sua.

«Sinni fuìu!»

«Macari iddu l’ammucciò.»

Intanto il tempo passava e il gallo non si trovava.

«Cosa tinta è» continuava a mormorare la vedova Diotiguardi, e

non si capiva se alludesse alla cornice del marito a cui si era frantumato

il vetro, o al pennuto latitante.

All’imbrunire la forza pubblica decise di sospendere le ricerche

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e se ne tornò in caserma.Tano ‘u Curtu si mise a fare vuci dalla finestra,

minacciando sconquassi contro il Sarcinello e contro quel

grandissimo babbo del maresciallo, incapace perfino di trovare un

gallo, figuriamoci il resto.

Fabio Scalise raccolse la sua telecamera santiando sulle ore perdute

inutilmente e sugli stramaledetti galli che non si fanno l’affari

loro,mentre la vedova continuava a ripetergli:«Sempre a disposizione

di Vossia!»

«Speriamo mai» pensava quello in mente sua, ché la vedova era

di una bruttezza infernale e temeva di sognarsela la notte.

E per quella sera la faccenda sembrò risolversi così. La notte

passò tranquilla, e pure la successiva. Ma nella mattinata del terzo

giorno, il gallo Titino s’apprisintò sotto la finestra dell’amico suo e

si produsse nella migliore serenata della sua vita.

Ci mise ‘u cori, carusi, che pure i sassi piangevano. Ma Tano ‘u

Curtu, lui no, non si commosse affatto. Cogli occhi fuori dalle orbite

si precipitò in strada, ma del gallo nessuna traccia, ché il dovere

suo ormai l’aveva fatto. Facendo vuci che svegliò tutta la strada e

macari la vedova Diotiguardi che pure era dura d’orecchi, si recò

alla caserma dei Carabinieri a svegliare il piantone che avvertisse il

maresciallo che il gallo era tornato.Ma quale! Un’ora più tardi quando

il maresciallo si presentò a casa del Sarcinello, si ripeté la medesima

scenetta. Del gallo Titino manco la fotografia.

Mancò poco che il maresciallo arrestasse Tano ‘u Curtu, tanta fu

la rabbia per la seconda magra figura.

«Tu non mi chiamare più.» Si mise a urlare. «Arrangiati, trovatelo,

mangiatelo, fai quello che vuoi. Ma che stiamo a babbiare? Noialtri

abbiamo di meglio da fare che correre dietro a questo pollo.»

«Minchia che idea!» Pensò il Raccuia. «Si t’incagghiu nun ti salva

nuddu» e pensava al pennuto.

La quarta notte, ‘u Curtu si appostò con una mazza e un sacco

nelle mani dietro l’uscio di casa sua,pronto a ogni evenienza. Ad un

certo punto gli sembrò di sentire un rumore sotto la finestra e si

precipitò fuori, ma era buio fitto e vide solo un ombra. Gli diede

una gran randellata e la “cosa” stinnicchiò. Lesto la infilò nel sacco

e tornò in casa.

Sua moglie gli andò incontro e fece per parlare.

«Muta» esclamò il marito «e nun addumari a luci, ca nuddu n’ava

vidiri.»

Pollo era pollo, pure al buio, e al buio fu spennato, lavato e ma-

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cari cotto.

E se lo sarebbero anche mangiato, ma un pollo a colazione era

troppo anche per Tano ‘u Curtu.

L’avrebbero mangiato a pranzo.

Il giorno dopo nessuno parve accorgersi della sparizione del

gallo Titino. Ognuno nella strada era intento alle sue solite attività.

Verso la tarda mattinata, però, si levò alta la voce della vedova Diotiguardi:

«Amara me, l’avia dittu io che era cosa tinta. Quacchiduno

si futtiu u jaddu miu!»

«Come come?» Attisò le orecchie Tano ‘u Curtu e macari tutta

la sua famiglia, che era già assittata a tavola per mangiarsi il pollo.

«Pigliasti quello della vedova,mischina!» Disse la moglie del Raccuia.

«Muta Saruzza, e cu ci u dissi a iddu di veniri sutta la finestra

mia? Colpa sua fu. Con quel buio fitto non vitti nenti.»

Il pollo, cotto e profumato, fumava nel piatto di portata, ma ai

commensali si era chiuso lo stomaco e nessuno si azzardava a toccarlo.

Silenziosi, gli occhi sgranati, non sapevano che fare.

In quel mentre fuori, sotto la finestra, si levò alto e cristallino un

canto.

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Il gatto e l’ingegnere

racconto di Maddalena Selis

illustrazione di Daniele Fabbri

«Voi ingegneri siete dei coglioni» disse Marco infilandosi in bocca

l’ultimo pezzo di macedonia.

«Anche tu sei un ingegnere» rispose Angela,abbassando lo sguardo

sul proprio caffè e sorridendo a mezza bocca.

«Tu sei di sicuro più ingegnere di me» ribatté Marco.«Sei di quelli

che usano il teorema di Pitagora persino per scegliere una strada

e non tagliano per la scorciatoia perché tanto la somma del quadrato

sui cateti è uguale al quadrato sulla scorciatoia.»

Angela scoppiò a ridere e il caffè le andò di traverso.

Poggiò la tazzina sul tavolo della mensa e si protese in avanti per

ascoltare.

«Siamo dei coglioni, è così...» proseguì Marco, allontanando da

sé il vassoio. «Ci hanno fregato. Ci abbiamo messo un’eternità a laurearci

e adesso siamo rinchiusi qui, dentro a un cubo di vetro nero

per il resto della vita, assuefatti alle tossine delle stampanti, alla polvere

della tastiera e all’odore dei processori surriscaldati, che The

Cube in confronto sembra un villaggio Valtur!»

Fece un gesto vago verso l’edificio scuro che li sovrastava.

«Abbiamo le nostre stanze» continuò, agitando la bustina di zucchero

prima di versarla nel caffè, «con il numero sulla porta e la finestra

in fondo come le cabine di una nave. E stiamo lì, tutto il giorno

a programmare perché la baracca vada avanti,perché se non fos-

43


se per noi del primo piano gli altri sei crollerebbero all’istante.»

Angela si appoggiò allo schienale della sedia e si guardò intorno.

Il muro che dava verso l’esterno era una successione di finestre

scure e opache. Attraverso lo strato millenario di polvere e gocce di

pioggia incrostati sul vetro, il colore del cielo perdeva la sua lucentezza.

Era grigio come lo schermo di un televisore rotto.

«Un’eternità? Io l’università l’ho finita in cinque anni» osservò.

«Ovvio» replicò Marco annuendo.«La donna ingegnere non è mica

come l’uomo ingegnere. Ma certe cose tu non le puoi capire...»

Sospirò. «Mi spiego. Una donna si mette e studia quanto le pare. Si

mette sui libri. Ci sta un mese, due mesi. Poi va e passa l’esame. Un

uomo si mette sui libri. Magari studia un mese di fila, ma poi deve

scopare... E per scopare deve uscire. E anche per un bel po’ di tempo.

Deve uscire una sera, due sere, tre sere. Perché non è che scendi

sotto casa, vai al pub, trovi una donna e scopi. Una donna, invece,

mettiamo anche il caso che le venga lo sghiribizzo di scopare,

non le viene eh, ma supponiamo che le venga, s’infila una minigonna,

scende al bar sotto casa e scopa. O, al limite, se non ha neanche

voglia di uscire, telefona a un amico e gli fa ciao, oggi si scopa.E

quello corre.»

Marco si accese una sigaretta e lanciò un’occhiata ad Angela.

Aspirò.

«Per farti capire ancora meglio qual è la condizione dell’uomo,

ti faccio un esempio: l’altro giorno ho visto un gatto. E ho provato

proprio un senso di solidarietà maschile. Si può provare solidarietà

maschile anche tra razze diverse, lo sapevi? Insomma, c’era una gatta

sul cornicione di un palazzo.Sdraiata all’ombra,bella comoda.Lei

se ne stava lì,distesa proprio sul bordo del cornicione.E c’era il gatto

che cercava di montarle sopra. Quello tentava di mettere il piede

dall’altra parte ma non trovava l’appoggio, perché la gatta stava

proprio in filo al cornicione. E quel disgraziato del gatto non si rassegnava:

le montava sopra, non trovava l’appoggio e cercava di stare

in equilibrio su tre zampe e... ops, adesso cado, dopo cado...»

Marco spense la sigaretta nel portacenere e appoggiò i gomiti

sul tavolo.

«E quella stronza della gatta non si spostava neanche di un centimetro.

Se ne stava tutta bella spaparanzata. Bastava che si muovesse

un po’, neanche che si alzasse. Come a dire io non ti ho detto di

no, però neanche di sì. Quindi sono cazzi tuoi! E ho pensato eh,

povero disgraziato, come ti capisco. Siamo tutti nella tua stessa

situazione.»

44


Ridendo,Angela si asciugò le lacrime con l’angolo del tovagliolo.

Attraverso le ciglia abbassate, scoccò un’occhiata a Marco.

Un’occhiata molto, molto felina.

«In definitiva» terminò Marco, fissando con insistenza la tovaglia,

«ci devo stare ancora molto su tre zampe? Stasera esci con me,

sì o no?»

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Fiori d’arancio

racconto di Andrea Rivieri

illustrazione di Linda Cavallini

Cammino velocemente lungo il viale. La mia immagine si riflette

sulle vetrine dei negozi e subito scivola via mentre le commesse

scrutano i passanti e anche l’orologio nell’attesa di tornarsene presto

a casa. È tutto il giorno che mi affretto avanti e indietro per la

città eppure non ho ancora finito. Per fortuna il tempo è stato mite

anche se non durerà ancora molto. Il cielo, infatti, è nuvoloso e sta

per piovere, proprio come allora. Di nuovo quella sera affiora nella

mia mente come troppe volte in questi giorni. Certo nemmeno tu

l’avrai dimenticata.

Ti passai a prendere per andare in discoteca. Non era la solita

serata, credo fosse la prima volta che incontrassi i miei amici e sicuramente

fu la prima volta che vedendoti scendere dalla macchina,

davanti al locale, provai paura. Paura per quella tua bellezza così delicata

e terrificante che mi sapeva paralizzare e che non sapevo come

giustificare agli occhi di tutta quella gente che ci guardava e ti

guardava.

Quella notte ti abbandonai senza una scusa, lontana da casa,

con la pioggia che infuriava e fu fortuna che potesti passare la notte

da lui.

Da allora sono passati anni e il tempo,si sa,ha la capacità di cancellare

ogni cosa. Se vuoi saperlo, però, i giorni li ho contati e seppure

non siano pochi, molte più furono le lacrime che versai cer-

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cando di scusarmi, di spiegarti, di capire. Ancora oggi mentre cammino

schivando i passanti e le prime gocce di pioggia non posso fare

a meno di pensarci. Molte sono le domande cui non so dare una

risposta, ma ecco: per fortuna la gioielleria è ancora aperta.

«Buonasera, sono venuto a ritirare due fedi.»

Queste, d’oro, che osservo ora nella mia mano non sono poi

molto diverse da quelle che disegnammo al mare, sulla spiaggia.

Due anelli incrociati scavati sul bagnasciuga e noi che osservavamo

le onde infrangersi su di loro. Nonostante il flusso dell’acqua scavasse

e insistesse, quei semplici cerchi sembravano resistere e non

cancellarsi mai. Così il nostro amore era in grado di sfidare tutte le

intemperie, dalle onde del mare alla pioggia di quella sera, e mentre

ricordo il tuo volto squilla il telefono: sei tu.

«Pronto? Dimmi... sì gli anelli li ho già ritirati, sono molto belli.

Anche il mio vestito è già pronto, ho telefonato all’ora di pranzo.

Ora passo a prenderlo e poi arrivo. Ci vediamo tra poco, ciao.»

Accelero di nuovo il passo per fare più in fretta. Con tutte queste

faccende da sbrigare saranno già due giorni che non ci vediamo

e ormai non sono più abituato a una tale assenza. Ci sentiamo spesso

ma non mi basta. Ora come mai sento il bisogno di averti vicina,

di osservare il tuo sguardo così pieno di gioia e sentire il tuo battito

che aumenta all’impazzata nel pensare al 23. Non ti ho mai vista

così radiosa come in questo periodo. La vita ti ha sorriso e ha voluto

che ora fossimo qui e affrontassimo questo passo insieme infondendoci

coraggio come un tempo, come sempre. Dopotutto noi siamo

uguali e nessuno sa leggere nei miei pensieri come sai fare tu,

senza dover pronunciare una parola. Tutto questo non l’ho trovato

in nessun’altra e poterci contare mi rende felice. Ma allora perché

continuo a pensare al passato? Perché quest’insicurezza non se ne

vuole andare dalla mia mente? Perché continuo a chiedermi se...,se

le cose fossero andate diversamente? Forse è ingiusto nei tuoi confronti

che io pensi a queste cose, perché tutto ciò che ora stringi

forte tra le mani non può essere solo il frutto del destino o di un capriccio.

Alla vita hai sempre creduto e quello che hai ottenuto l’hai

voluto intensamente. So che ti sembrerà sciocco ma tempo fa sono

tornato di nuovo su quella spiaggia e, così come quella volta, ho disegnato

due cerchi sulla sabbia e li ho lasciati in balìa delle onde che

si abbattevano su di loro. Confesso che dopo pochi minuti non ero

più in grado di scorgere le loro sagome. Ma non è questo il momento

di lasciarsi prendere da strani pensieri o semplicemente dal timore

del futuro e dell’ignoto. Entrambi abbiamo incontrato molte dif-

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ficoltà e non è certo un caso se siamo giunti fino a questo punto.

Per questo non ci penserò più e sarò come tu mi vuoi. Ci fotograferanno

insieme ed io avrò quel sorriso che ti ha sempre donato

il buonumore, e tu quello sguardo che mi ha tenuto sveglio tante

notti. Indosserò il mio bell’abito scuro e sarò impeccabile, gentile

ed elegante.Tutto sarà perfetto com’è stato programmato e a tavola

farò anche un bel discorso. Dopotutto è questo che ci si aspetta

da un bravo testimone.

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Non ho sonno

racconto di Michele Prosperi

illustrazione di Josè Monti

Non ho sonno! Non ho sonno!

La tua prima serata con Chiara, costruita con pazienza e abnegazione

in settimane di messaggi, telefonate e aperitivi vari. Prima una

passeggiata sul lago al tramonto,quell’intimità crescente,l’istante in

cui lei ti ha abbracciato e detto:«è bello trascorrere il tempo con te.»

E poi la cenetta tête à tête al ristorante, consumata su un incantevole

terrazzino vista lago. Una cena deliziosa, memorabile. Peccato

soltanto per quella piccola crepa insinuata dal destino in una serata

impeccabile: l’incontro con Riccardo, il suo ex, che in quel ristorante

ci lavora. Ma s’è trattato di un singolo istante d’imbarazzo,

dopodiché soltanto sorrisi di circostanza e «come stai», «bene», «ti

trovo in forma», «pure io». Per il resto della serata il servizio di Riccardo

al vostro tavolo è stato ineccepibile.

Non ho sonno! Non ho sonno!

Parcheggi l’auto e spegni il motore. S’è fatto tardi, tardissimo. La

serata è stata tanto piacevole quanto impegnativa. La tensione continua

per la necessità di trovare in ogni istante qualcosa di carino

da dire, in modo che la conversazione non stagnasse mai, ti ha fiaccato

più di quanto potessi immaginare. Forse non hai più il fisico

per certe cose,o forse è davvero da troppo tempo che non esci con

una ragazza.Però le palpebre,ora,sono pesanti come tegole.E se lei

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non fosse qui, appoggeresti volentieri la testa sul volante, giusto un

paio di minuti, il tempo sufficiente per recuperare il cervello dall’oblio

in cui sta precipitando.

Non ho sonno! Non ho sonno!

Guardi avanti pensieroso. Sulla strada non c’è niente e nessuno,

tranne una fila di auto senza conducente che si perde nell’oscurità

della notte.

«Eccoti arrivata, sana e salva.»

Lo dici annegando uno sbadiglio dietro un sorriso. Un sorriso

per la tua prima serata trascorsa con Chiara, ma soprattutto perché

tra poco riassaporerai la morbidezza delle tue coperte e il rassicurante

abbraccio del cuscino. Ora tutto sta per finire. Uscite dall’auto;

ancora un saluto, un bacino su guancia destra, guancia sinistra e

ancora destra, e poi via, a letto.

Non ho sonno! Non ho sonno!

«I miei non sono in casa. Dài, perché non entri un attimo?»

Chiara te lo domanda così. Inaspettatamente, come fosse la domanda

più semplice cui rispondere. E lo fa con quella sua voce fresca

e leggera che ti ricorda la brezza che s’insinua dalle finestre

aperte per rendere piacevole il riposo nelle notti d’estate. Ma non

è estate e certamente non è per riposare che Chiara ti ha chiesto di

salire da lei. Dovresti saltare di gioia, gridare la tua felicità, fare piroette

e capriole per questa inattesa evoluzione del vostro primo

appuntamento, eppure le tue labbra non si muovono da quella indecifrabile

linea rossa dietro la quale rimane asserragliato il più assurdo

e martellante dei pensieri.

Non ho sonno! Non ho sonno!

Te lo ripeti alla nausea.

Una litania che non ha proprio niente di eroico,e la tua resistenza

al bisogno primario di cadere in letargo, più che strenua, è ridicola;

e quando il torpore ti scioglie definitivamente le ginocchia, risucchiandoti

le gambe al suolo come se la gravità in quel angolo di

marciapiede fosse improvvisamente triplicata, eviti lo schianto solo

perché Chiara è sulla traiettoria di caduta. Ti aggrappi a lei, la abbracci

con le stesse movenze di un pugile suonato.

Non ho sonno! Non ho sonno!

Si dice che i gesti a volte siano più importanti delle parole, e

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quel tuo abbraccio così insistente, così prolungato, è proprio quella

risposta che Chiara attendeva.

«No... non qui...» ti sussurra con malizia all’orecchio, prima di liberarsi

dalla tua stretta e prenderti per mano, diretta probabilmente

verso quella verandina di cui ti ha sovente parlato e all’interno

della quale hai dato sfogo alle tue fantasie più lubriche.

Potresti dire qualcosa. Dovresti dire qualcosa. Una cosa qualunque,

anche la verità: «Davvero non ce la faccio... meglio che vada a

dormire... è stata una giornata pesantissima...»

Non ho sonno! Non ho sonno!

Invece resisti e non dici niente, la guardi e basta, cercando di ricambiare

la sua crescente eccitazione con uno sguardo altrettanto

carico di passione ma che ora, irrimediabilmente ispessito dal sonno,

assomiglia sempre più a quello del branzino al sale con cui avete

cenato una manciata di ore prima.

Non ho sonno! Non ho sonno!

Te lo dici all’infinito.

Non ho sonno! Non ho sonno!

E poi l’epifania:l’ultimo pensiero di senso compiuto che ti attraversa

il cervello prima di venire inghiottito dal vuoto, prima di perdere

i sensi proprio davanti alla verandina.

Lexotan. Ecco cos’era quel sapore strano nel caffè.

Maledetto stronzo d’un cameriere!

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Il grassone

racconto di French

illustrazione di Luca Bonardi

L’indomani avrei festeggiato il sedicesimo anniversario di matrimonio.Vagavo

per la città,turbato,speranzoso di trovare un’idea,l’idea

giusta: dovevo pensare a un regalo per mia moglie, che è di gusti

difficili. È quasi proibitivo riuscire a soddisfarla.

Erano da poco passate le tre di notte, l’aria odorava di broccolo,

tanto da augurarsi di non possedere l’olfatto. Mentre mi chiedevo

chi, a quell’ora, potesse mai cucinare tale ortaggio aromatizzando

l’ambiente in modo così profondo e sgradevole, vidi sul ciglio

del ponte un uomo. Alcuni fatti incontrovertibili mi indussero a credere

che si stesse suicidando: per esempio si trovava oltre la balaustra

del ponte, alla quale nervosamente si aggrappava con le mani.

Per un attimo temetti che il ciglio sul quale sostava stesse per crollare

a causa della sua considerevole massa. Non possiedo la capacità

innata di stabilire ad occhio nudo il peso di persone e oggetti,ma

se una bilancia avesse segnato per quell’individuo un peso inferiore

ai duecento chili avrei certamente sospettato un guasto. Quell’uomo

infatti era grosso come un bidone dell’immondizia, e probabilmente

ne aveva la stessa recettività alimentare. Nel buio di quella

sera, inquinato solo da qualche lampione, poche stelle e nessuna

luna, osservavo la sua sagoma cogitabonda: immagino si stesse domandando,

per l’ultima volta, se fosse proprio il caso di buttarsi. Mi

avvicinai a lui lentamente,cercando nel mio ridotto dizionario men-

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tale qualche parola, la più ottimistica possibile, per dissuaderlo da

quel gesto sconsiderato. Sicuramente, pensai, sarà frustrato per l’ennesima

dieta fallita o per il rifiuto di una donna.

Quando arrivai da lui trasse di tasca una brioche,la scartò e l’addentò

avidamente.Vedendomi, chiese se ne volevo un boccone. Rifiutai.

Pareva sereno, ma sul volto erano evidenti le tracce di un recente

pianto.

«Mangiare» disse «è uno dei piaceri più grandi che siano concessi

all’uomo! Spero che lei, al pari di tutte le persone che possiedono

papille gustative funzionanti, ne convenga...»

«Direi che sono perfettamente d’accordo. Se non sono indiscreto,

posso rispettosamente domandare le ragioni che la inducono a

una sosta quanto mai sconveniente sul ciglio del ponte?»

«Non è forse abbastanza evidente il mio intento di lanciarmi?»

«Direi di sì...ma perché? Qualche dottore le ha forse negato l’eccelso

piacere della tavola? Per questo vuole gettarsi dal ponte?»

L’uomo trasse di tasca un’altra brioche, identica sostituta di

quella che aveva già ingurgitato.

«Un boccone?»

«No grazie.»

«Guardi che è di quelle buone, l’ho comperata dal pasticcere

quest’oggi, mica di quella roba confezionata... Come non detto. Il

problema è un altro» continuò «nessuno mi ha proibito di mangiare,

e se anche fosse sarebbero proibizioni inutili, continuerei tranquillamente

a farlo senza curarmi di loro... è una storia lunga e per

lei sarebbe noiosa. Non vorrà certamente ascoltare le mie lamentazioni.»

«Sono tutt’orecchi...» dissi.Un’affermazione che,anche anatomicamente,

non è del tutto falsa.

«Allora, dal momento che le interessa, le racconterò la mia infelice

situazione,forse servirà anche da sfogo per i miei patimenti.Fin

dalla puerizia, niente mi rendeva felice e appagato al pari di farmi

una bella mangiata in compagnia, stare a tavola per ore chiacchierando

tra una portata e l’altra, fare considerazioni su ciò che si era

degustato e bevuto. Essendo di famiglia molto ricca, non ho mai

avuto problemi a soddisfare questa inclinazione. Ho trascorso la

mia vita banchettando e bevendo senza avere altri pensieri per la

testa che le gozzoviglie.»

«Ho capito: ha raschiato il fondo della cassa e non può più permettersi

di banchettare come vorrebbe.»

«No di certo! Le mie disponibilità sono tuttora ingenti, nono-

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stante le immense cifre spese per la soddisfazione della gola mia e

altrui.»

Scartò un’altra brioche.

«Un boccone?»

«No, grazie.»

«Qualcosa in me cambiò circa quindici anni fa... Avevo venticinque

anni. Cominciai a sentire un bisogno nuovo e incomprensibile.

Poi capii: desideravo una donna da amare e dalla quale essere amato.

L’amore insomma, un sentimento sino ad allora sconosciuto per

me. Come sconosciuta era la gelosia, se non per chi stesse mangiando

una fiorentina più grande della mia; e sconosciuta anche l’apprensione,

se non di sapere quale pietanza vi fosse per cena. Iniziarono

le mie ricerche del grande amore,della cosiddetta donna della

mia vita, quella con cui avrei condiviso una grande passione culinaria.

Frequentai dapprima alcune cuoche: se c’è qualcuno che

ama cucinare, mi dissi, probabilmente amerà anche mangiare. Mai

una deduzione fu così falsa! Feci altre conquiste. Può sembrare strano,

data la mia corpulenza, ma questa non mi intralciava affatto:

molte donne forse non mi consideravano bello ma, se non altro, allegro

e brillante. Probabilmente alcune erano interessate anche alle

mie ricchezze, magari si attendevano grandi e costosi regali, ma

saranno rimaste deluse vedendo che genere di regali facevo loro...»

«Che genere di regali?»

«Generi alimentari: salumi, formaggi, volatili...»

Dato che l’argomento regali m’interessava parecchio, pensai alla

reazione di mia moglie se per il nostro anniversario le avessi regalato

un salame... sarebbe stato di certo uno dei modi più efficaci

per avviare le pratiche del divorzio!

«Molte trovavano in me l’uomo da accudire, da portare sulla retta

via, da cambiare. Quasi sempre volevano farmi dimagrire. Io, invece,non

solo cercavo una donna che non fosse interessata alla mia

linea e, in fede mia, alcune ne ho trovate, ma che non fosse interessata

neppure alla propria! Desideravo una donna che fosse avvinta

soltanto da me e dal buon companatico. Per anni le mie ricerche

non sortirono alcun esito.

Un giorno, esattamente otto anni fa, capitai per la prima volta a

cena da alcuni amici. C’era anche la figlia, Laura. Che viso delizioso

e incantevole aveva! Non mi dilungherò oltre nel descriverla, perché

troppo grande è il dispiacere nel ricordare la sua bellezza. Dico

soltanto che mi stupì la sua incredibile voracità durante la cena.

Chiesi se si trattasse di un caso, mi confermarono che Laura si ciba-

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va sempre con indicibile ingordigia e che adorava alla follia i dolci.

Al termine della cena trascorsi un po’ di tempo con lei. Ci divertimmo

come matti divorando un intero vassoio di pasticcini, e avremmo

continuato se non fossero finiti! Mi piace mangiare mi confessò

Laura, voglio mangiare sempre tantissimo! Quelle affermazioni

così sicure e determinate, quella serata così speciale, non mi passarono

più di mente. Da quel momento continuai a pensare a lei, mi

ero finalmente innamorato! Ma c’era un problema... Laura era una

bambina di dieci anni! Avevo perso la testa per una bambina vorace

e sorridente di appena dieci anni!

La rividi ancora. Sempre più spesso. Ne seguii la crescita veloce;

di quelle mangiate ci siamo fatti! Più cresceva, più i suoi sentimenti

nei miei confronti si trasformavano da affetto infantile in amore

vero e proprio. Quando compì diciotto anni le chiesi di sposarmi.

Accettò entusiasticamente, senza indugiare, come se l’avessi soltanto

preceduta in una proposta che avrebbe altrimenti fatto lei.

Dopo qualche mese di matrimonio Laura cominciò a ingrassare.

E più ingrassava meno mangiava. Nulla poterono le mie parole di

conforto.La rassicuravo continuamente,le dicevo che per me la sua

bellezza risiedeva in ciò che aveva dentro. Sì, dentro allo stomaco.

Tu non capisci mi diceva, non riesco nemmeno più a entrare nei

miei vestiti! Risposi che poteva stare tranquilla, perché gliene avrei

comprati di nuovi e di taglia superiore. Tuttavia la mia disponibilità

non fu assolutamente apprezzata:s’infuriò e io venni accusato di insensibilità

senza apparente motivo. Ma va da sé che gli uomini,

quando non capiscono le bizzarrie delle donne, sono sempre considerati

insensibili... Allora ho realizzato che nemmeno Laura è la

donna della mia vita e che non esisterà mai una donna della mia vita.

Ed eccomi qui. Ho sempre desiderato di morire all’improvviso,

mentre degusto un piatto di escargots à la bourguignonne: anche

questo sogno non si avvererà mai...»

A quel punto iniziò una lunga critica nei confronti delle moderne

costumanze, che temetti seriamente non sarebbe mai terminata.

Invece così si concluse: «Perché, mi chiedo, perché a questo mondo

non siamo tutti grassi?»

«Ma certo! È proprio per questo che lei non si deve buttare di

sotto! Lei deve farsi promotore di una nuova tendenza, quella di essere

tutti grassi!»

Forse non era un’idea nuova e originale, ma dovevo pur dargli

qualche ragione per non buttarsi.

«E poi guardi che acquaccia sporca!»

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«Ma io devo annegarci, mica farci il bagno!»

«Appunto, quando si annega è perché si beve parecchia acqua,

e io quell’acqua non la berrei neanche morto! Una persona come

lei, abituata a bere buon vino... Andiamo, dia retta a me: si trovi un

altro scopo nella vita, che so, faccia lo stilista rivoluzionario!»

Era pensoso. Forse l’avevo convinto.

Guardò l’acqua, poi guardò me.

«Lei ha ragione: quest’acqua è davvero zozza! Credo che per

adesso rinuncerò al suicidio e... sì, farò lo stilista. Prima però vorrei

mettere qualcosa sotto i denti, per esempio del gulasch, un tipico

piatto ungherese che non ho mai assaggiato. Oggi è stata una giornata

carica di emozioni e le emozioni mi fanno venire fame...»

Poi sfilò di tasca l’ennesima brioche.

«Un boccone?»

«Ma sì! Avevo proprio voglia di una brioche...»

L’uomo cominciò le difficili operazioni per trasbordare se stesso

al di qua della balaustra in modo da togliersi dal ciglio del ponte

che, stremato da tanto peso, crollò inesorabilmente. L’uomo precipitò

nel fiume generando schizzi talmente alti che persino io venni

completamente bagnato, come se in acqua fossero stati gettati almeno

dieci chili di tritolo. Annaspava biascicando che non voleva

morire, almeno non prima di aver assaggiato il gulasch. Io non riuscii

nemmeno a urlare per chiedere aiuto, perché avevo la bocca

occlusa dalla brioche, così le torbide acque e l’oscurità s’inghiottirono

quel povero disgraziato in un sol boccone.

Tornai a casa che era quasi l’alba. Diversamente da prima, avevo

una solida certezza: sapevo che genere di regalo fare a mia moglie

per il nostro anniversario. L’avrei portata al ristorante, a mangiare il

gulasch.

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Arrestate UosdwiS ’f JewoH

racconto di Alberto Calorosi

illustrazione di Claudio Arisi

Alla quinta puntata consecutiva dei Simpson spensi annoiato il

televisore. Non sapevo che cazzo fare. Chiamai il Sacco.

«Che stai facendo?» chiesi.

«Sto chattando.»

«Stai... che?»

«Chattando. Sai quella cosa...»

«Sì, sì, so cos’è. Non sapevo chattassi. Ok, allora, ci vediamo lì fra

dieci minuti.»

«Ma...»

Riattaccai. Era evidente che anche il Sacco non sapeva che cazzo

fare. Gli serviva supporto.

Poco più tardi salii da lui e mi sedetti davanti al computer. Di

fronte a me, una finestrella colorata grande quasi quanto il monitor.

E frasi che scorrazzavano dappertutto, in assoluta libertà. Quest’affare

farebbe la gioia di Marinetti, pensai. In basso, una cornice rossa

racchiudeva la scritta drago72 e un cursore lampeggiante.

«Ora li mando tutti quanti affanculo» esclamai, e digitai qualcosa

di ingiurioso.

«Aspetta!»

Il Sacco mi strappò il mouse di mano e cliccò su un rettangolone

rosso anch’esso,con la parola logout.La finestrella piccola scomparve.

Quella più grande continuò a eruttare vocaboli. Le scritte

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scorrevano verso l’alto simili a scontrini della spesa.Le conversazioni

si intrecciavano superficiali come volute di fumo: la sceneggiatura

virtuale di una nuova perniciosissima forma di idiozia umana.

«Beh?» domandai perplesso.

«Non si possono scrivere insulti qui dentro» spiegò.

«Perché?»

«Mai sentito parlare di netiquette?»

In effetti, no. Ma la parola mi suonò autoesplicativa.

«Ma che ti frega? Lì sei soltanto un soprannome, no? Chi ti conosce?

Sei indistinguibile. Sarebbe come se ti proibissero di scoreggiare

in ascensore.Voglio dire: è il suo bello, non trovi?»

«Sì ma...mi conoscono in molti,lì dentro,con quel nickname,e...»

Non terminò la frase. Gli chiesi se per caso stava scherzando.

Guardò in basso. Mi rispose che no, non stava affatto scherzando.

«Comunque possiamo crearne un altro» aggiunse «ci vuole un

istante.»

Trafficò qualche secondo. S’aprì un’impertinente finestrella che

non la smetteva di farsi i fatti miei: nome, cognome, titolo di studio,

occupazione, età e sesso. Eccoli, dunque: Milena Bertolini, diploma

superiore, studentessa, 21 anni, femmina. Finito? Macché: domande

sui miei hobby,letture,viaggi,amicizie,film canzoni libri e sport preferiti,

perfino gusti sessuali. Infine mi chiese di inserire il nickname.

Scrissi la prima cosa che mi passò per la testa: UosdwiS ’f JewoH.

«Ma che accidente di nick ti sei...»

«Taci, va’, drago72.»

C’erano centinaia di stanze di conversazione divise per argomenti.

Scelsi la più popolosa: 346 utenti. Argomento: sesso. Lo schermo

si sovraffollò di soprannomi che spaziavano dai banali sperminator,

ingooooooio e il quarto porcellino per arrivare a veri e propri

colpi di genio, come cappuccetto rotto e mary pompins. C’era persino

un tizio o il cui nick era qualcosa come 8=====D~.Mi domandai

quanto dovesse esserci stato su a pensare.

Dopo pochi minuti ne avevo già a sufficienza: decisi di cambiare

stanza. Scelsi amici tra amici: 19 utenti soltanto. Entrai. Per qualche

minuto rimasi silenzioso ad ascoltare le ciance degli altri. Esiste

anche un termine apposta: lurkare. Si parlava di amicizia, sentimenti,amore,dolore,morte...

il tutto corredato da una folta coltre di micragnosa

pedanteria: parole pesanti come macigni, concetti solenni

come piramidi. Neanche un briciolo di ironia. C’era un tizio, un certo

Amico Fragile, che starnazzava della sua insopportabile solitudine.

Sosteneva di essere talmente solo da non trovare nessuno con

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cui chiacchierare neppure in chat. Mi feci avanti.

UfJ: Ciao amico fragile, se vuoi potrò occuparmi un’ora al

mese di te.

AF:Il tuo saluto è un’emozione intensa, caro Uosdwis ’f JewoH.

A proposito: caro o cara?

UfJ: Puoi leggere i miei dati anagrafici: non sono riservati.

Qualche secondo, poi:

AF: Allora... ciao, Milena, io sono Raffaele.

Raffaele. Guarda il caso: mi balenò un’idea.

UfJ: Un saluto a te pure... uomo sceltissimo e immenso...

AF: Uomo sceltissimo e immenso? Non capisco...

UfJ: ... A quell’uomo sceltissimo e immenso io chiedo consenso:

a Don Raffaè.

Altro silenzio: me lo immaginai pensoso davanti al monitor.

AF: Ah! Anche tu devota al grande Faber?

UfJ: In maniera ostinata e contraria: sì.

AF: Stai... ho capito! Questa è... è... Smisurata preghiera!

Studiai il suo profilo: Raffaele Cervetto, geometra, rappresentante

di laterizi, 36 anni, maschio. Interessi: il calcio, il bricolage, pescare,

la musica, i film di Spielberg e i libri di Richard Bach. Eterosessuale.

Chiaro che se Milena Bertolini, 21 anni, in realtà era Alberto

C., anni 28, allora poteva benissimo darsi che Raffaele Cervetto, 36,

fosse una qualunque Eleonora X, quindicenne, intenta a divertirsi

nel medesimo modo. Ci riflettei: dal modo in cui si poneva mi parve

improbabile. Ritenni la cosa insignificante per i miei scopi.

Attaccò piagnucolando della moglie che lo aveva lasciato.

Scrissi: Illuditi ancora che lei ritorni, libro di dolci sogni d’amore,

apri le pagine sul suo dolore. La solitudine: ora, senza di lei,

era dura... E io: Tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo,

e una lettera vera di notte falsa di giorno.

L’alienazione, il lavoro, nessuna soddisfazione.

Tagliai corto: Quello che non ho è quel che non mi manca.

Quando non mi veniva in mente di meglio, piazzavo una strofa

a caso tratta da Via della povertà o,in alternativa,da Via Paolo Fabbri

43 di Guccini. Funzionava comunque.

Gli diedi tutta la corda di cui ero capace: in breve tempo, Amico

Fragile si rivelò l’essere più noioso, pesante e superficialmente

pessimista che avessi mai avuto la ventura di conoscere.

AF: Milena, sei fidanzata?

Era giunto il momento di scaldarlo un po’.

UfJ: Sono la pecora sono la vacca che agli animali si vuol gio-

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care sono la femmina camicia aperta grosse tette da succhiare.

AF: Piccole tette...

UfJ:Grosse, grosse, fidati.E al dio degli inglesi non credere mai.

AF: Cosa darei per vederle...

UfJ: Vederle? Perché invece non carezzare questo mio presente

di seni enormi?

AF: Dài... raccontami come sei fatta fisicamente.

La bava sgocciolava dal monitor...

UfJ: Tutti s’accorgono con uno sguardo che non si tratta d’un

missionario.

Non ci stava più dentro. Ancora qualche scambio così poi, naturalmente,

si fece avanti.

AF: Sei la ragazza più straordinaria che io abbia mai incontrato.

Devo conoscerti assolutamente...

UfJ:Regina senza corona e senza scorta busserò un giorno alla

tua porta.

AF: Ti prego sii presto quella regina.Ti seguirò senza una ragione

come un ragazzo segue l’aquilone.

Finalmente una scintilla. Era ora.

UfJ: Corri. Quel che ancor non sai tu lo imparerai solo qui fra

le mie braccia.

Insomma, per farla breve: Amico Fragile si congedò e si catapultò

lesto in auto. Ravenna-Parma, partenza una di notte, arrivo

previsto ore tre. Appuntamento in piazza Garibaldi, sotto il monumento.

Non una sciarpa, né un giubbotto di un qualche colore: per

farsi riconoscere avrebbe tenuto in mano una foto di De André. Era

una mia idea, naturalmente...

Il Sacco disattivò la connessione e chiacchierammo d’altro.

Improvvisamente tornò alla carica:

«Mi vuoi dire che razza di nick è UosdwiS ’f JewoH?»

«E dàgli.»

«No, davvero: non ho mai sentito...»

«In una delle puntate dei Simpson, Winchester deve arrestare

Homer. Parla nel cellulare, impartisce qualche ordine.Tentenna. Rivolto

a Selma:“Chi è che devo arrestare?” Selma:“È scritto lì”.Winchester

legge la scritta, ma il foglio è rovesciato. Dice:“Arrestate UosdwiS

’f JewoH. Sì, sì...”»

Sbadigliai: «Ma che ora è?» chiesi.

«Le tre passate.»

«Le tre passate? E sono pure in bici, maledizione...»

Mi congedai in fretta.

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Svoltai in via Repubblica diretto verso casa. Mi fermai. Guardai

l’ora: le 3 e 39. Un pensiero: vuoi vedere che... Invertii la marcia.

Avvolta nella foschia, una sagoma scura percorreva con nervose

falcate la piazza deserta. Stringeva in mano qualcosa. Appoggiai la

bici lì vicino e mi comprai un pacchetto di sigarette all’automatico

dietro la statua. Poi m’avvicinai al tizio e gli chiesi da accendere.

«NON FUMO!» barrì.

«Scusa. Non volevo.»

«No, scusa tu. È che...» Pausa sofferta. «Che... che... che puttane!

Che le donne sono tutte puttane, ecco! PUTTANE!»

Inutile precisare che aveva in mano una foto di De André.

La infilò rapido in tasca.

«Perché, che ti è successo? Se non sono troppo indiscreto...»

Mi soppesò con lo sguardo. Aprì la bocca. La richiuse. La riaprì:

«Niente... lasciamo perdere... Non è che avresti una sigaretta?»

«Hai mica detto che non fumi?» e gliela allungai.Accesi la sua e

pure la mia. Inspirò.Tossì.

«Troie maledette! Tutte le donne!» ringhiò.

Annuii: «Eh, già, come darti torto? Ma non solo loro. Eh no. Credimi,

non solo loro...»

Non disse più nulla: continuava a camminare su e giù per la

piazza vuota fendendo la nebbia come un tergicristallo, scuotendo

il capo, fumando e tossendo.

«Beh... ciao.» Mi allontanai verso la bici fischiettando la melodia

de La ballata dell’amore cieco.

Mi sentì. Pochi secondi, poi: «Ehi, ehi!» disse.

Flapp, flappp. Rumore di passi sul lastricato bagnato. Salii lesto

in bici. Mi girai a guardarlo: correva verso di me. Mi issai sui pedali

e presi a mulinare più forte che potevo.

Il rumore dei piedi che sbattevano al suolo. La bici prendeva velocità.I

passi più vicini.Stava guadagnando terreno.Schiaffeggiò l’aria

diverse volte. Non riuscì ad afferrarmi per pochi centimetri.

«VIENI QUI! Grandissimo figlio di PUTTANAAAAAAAAAAAA!»

Il grido strozzato risuonò alto lungo la strada deserta, incanalandosi

veloce tra le mura dei palazzi, rimbalzando contro le saracinesche

dei negozi, le persiane serrate, gli usci chiusi, fino ad avvilupparmi

completamente con invisibili dita sonore.

Arrivai a casa madido di sudore. Erano le 4 e 12. Lacrimavo dal

ridere.Estemporaneamente,così come avevo cominciato,quel giorno

smisi per sempre di chattare. Ho fondati motivi per credere che

Raffaele Cervetto abbia fatto altrettanto.

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Inno

racconto di Andrea Burlini

illustrazione di Fabio Iaschi

Tell me lies,

tell me sweet little lies.

Fleetwood Mac

Ho una passione.

Anzi, no, scusate... io ho la passione.

Io ho la passione per la femmina. Mi piacciono tutte, sia quelle

belle sia quelle brutte.

Perché per me tutte sono belle, soprattutto quando sorridono.

Ma anche quando fanno il broncio,quando piangono,quando riflettono,

quando comprano le carrube al mercato, quando si rimirano

nelle vetrine fingendo di osservare gli abiti e i vestitini esposti,

quando vanno a prendere i loro figli all’asilo,quando cinguettano al

telefonino con l’amica del cuore che sciorina le solite paturnie esistenziali.

Ma soprattutto... quando si toccano i capelli. Quando se li

aggiustano con un gesto tanto magico quanto umanamente naturale,

che le tramuta da troll spettinato a... divinità della bellezza.

Io ho la passione per la voce femminile.

Per il modo in cui parlano.Quel modo cantilenante di dire le più

interessanti banalità. Quel tono stentato e traballante, da funambole

verbali.Di chi sa che può dire solo ovvietà.Mi piace quando chiamo

la mia ragazza e lei mi parla. Mi parla. Si parla. Ci parla. Sento il suo

fiato nel microfono. E l’alito pesante da torta al cioccolato e aglio

passa nella cornetta e mi pervade. Mi inebria tutto. Adoro la dolcezza

di ogni parola sentita al telefono. Ho la certezza che chi ha inven-

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tato il telefono lo ha fatto per chiamare la sua amata.

Io ho la passione per il cuore delle donne.

Una donna prova sensazioni che non potrò nemmeno sognarmi.

Io non sarò mai triste se la mia ragazza non mi chiama (anche

perché la chiamo sempre e solo io). Io non verserò mai lacrime per

un film. Io non ballerò mai a un concerto. Io non bacerò mai mio figlio

in pubblico. E non mangerò mai una banana in pubblico.

Io non manifesterò mai la mia sensibilità.

Invece, le donne hanno un cuore grande. Tanto grande che ci

affogano sempre,come un biscottino nello yogurt,e hanno bisogno

dell’affetto maschile per salvarsi nel mare dello sconforto. Lo sconforto

di non essere adeguate alla loro natura di dee generatrici della

vita. Ma le invidio. Se fossi una donna sarei migliore della migliore

delle donne.

Io ho la passione per il corpo delle ragazze.

Quei capelli, quegli occhietti da cerbiatta, quelle orecchiette,

quella boccuccia, quel nasino un po’ così...

Mi ci perdo, dentro la bellezza del corpo delle ragazze. Una volta,

quando ero giovane, andai in discoteca nel giorno di massima affluenza

e – scivolando come una vipera in una nidiata di sorci – penetrai

nella massa danzante. Ma io non ballai. Scorrevo accanto alle

ragazze strusciandomi rapido contro i loro corpi sudati per la fatica

e la calura. Avanzavo a mani basse per saggiare il grado di turgore

delle loro cosce e dei loro glutei.

Che sommo gesto d’amore. Che inno alla loro immatura beltade.

Che corsa per sfuggire alle più inviperite.

Amo il volto delle ragazze. Amo gli zigomi alti. Amo i peli nelle

narici. Amo i baffetti. Amo l’attaccatura dei capelli e le uova di pidocchio.Vado

matto per le mani. Per le carezze. Per le unghie che

affondano nella carne e che strappano via lembi della mia pelle viva.

Per i polpastrelli. Forse vado più matto per i piedi. Perché li vedo

poco. Quasi mai. Ma quando li vedo non posso che sgranocchiare

quelle ditina tenere e succulente. Specialmente dopo che le ragazze

hanno fatto la maratonina. L’aroma ne guadagna decisamente.

Lo devo dire che mi piace quello che hanno in mezzo alle gambe?

No? Non lo dico.

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Ma, più di tutte, tre sono le cose che piacciono a me.

I lobi delle orecchie, i capezzoli e la parte di pelle che sporge

dal gomito quando il braccio è teso.

Io mangerei queste tre leccornie a pranzo, colazione, merenda e

cena... e non avanzerei nulla, credetemi. Chi abbisogna di caramelle

gommose, quando Madre Natura fa maturare tali succulenti frutti

sull’albero della donna? E poi cos’altro mi piace? Ah, mi piacciono

le spalle.Mi piace stringerle.Mi piace appoggiare il mento sulle spalle

di Daniela, la mia ragazza, e guardare oltre lei. Guardare altre donne.

Mi piace quando lei si fa stringere forte da me. Quando si addormenta

mentre la stringo. Sembra proprio che lei si fidi di me.

Io la amo.

Amo tutto di lei. Amo tutte le cose belle che ho elencato poco

fa. Amo tutte queste cose in lei.

Amo anche la sua gola.

E pronta per la sua gola ho la lama del mio coltello.

Ora vado.

Daniela mi aspetta.

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Lo spazzino, il cammello e lo spazio profondo

racconto di Cristiano G. Gozzini

illustrazione di Roberto Meli

«Sì» rispose Arthur «sì. Erano in fondo a un

casellario chiuso a chiave che si trovava in

un gabinetto inservibile sulla cui porta era

stato affisso il cartello ATTENTI AL LEOPARDO.»

Douglas Adams

C’era una volta...

«Un fante spaziale!» diranno subito i miei venticinque piccoli

lettori.

No ragazzi,avete sbagliato.C’era una volta un cammello.Non un

cammello mutante con incommensurabili poteri telecinetici e nemmeno

un fine matematico proveniente da un mondo a forma di pizza,

ma proprio un semplice cammello, di quelli che ti guardano con

occhi cisposi, ruminando senza fretta.

Temo che iniziare citando Collodi con una spruzzatina di

Manzoni sia un po’ azzardato; d’altra parte forse dovrei smetterla

di scomodare questo e quest’altro autore.

Proviamo a cominciare in modo più originale.

Era una notte buia e tempestosa.

Su Deltholopithan IV soltanto i corrieri di spore si arrischiavano

ad affrontare i rigori della stagione.

I corrieri di spore e uno spazzino imbronciato.

Uh, beh... i corrieri di spore, uno spazzino imbronciato e il cammello

all’altro capo del guinzaglio.

Insomma,a voler ben vedere,a un giudizio ponderato che tenesse

conto del complesso e rigoglioso ecosistema ospitato dal qua-

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drupede ruminante,quella sera c’era davvero un sacco di gente sotto

la pioggia battente, nello spazioporto di Deltholopithan IV. Sempre

che non si intenda essere troppo schizzinosi sul termine gente,

beninteso.

Patermulus Ig’neteryu Lytllodh era uno spazzino.

Uno spazzino onesto e rispettato, sissignore, come suo padre e

il padre di suo padre prima di lui...A dirla tutta il nonno spesso sosteneva

di essere stato invece un fante spaziale, ma considerato che

a volte sosteneva anche di essere stato un famoso ballerino di woocha-woocha,

un tecnico di una società eterofonica e un apribottiglie

klathuriano (di quelli verdi con il manico corto, su questo punto

il vecchio era inamovibile), Pat dubitava che alla cosa si dovesse

dare gran peso. Cosa diavolo fosse il woocha-woocha rimaneva comunque

un mistero inesplicato. Sia lodata l’Imponderabile Saggezza

della Grande Ramazza Onnisciente.

Va bene, insomma: le idee del nonno non erano più limpide come

un tempo, ma anche lui era uno spazzino rispettabile. Che diamine,meglio

un vecchio spazzino mezzo rimbambito che uno spazzino

bagnato fino alle ossa in uno spazioporto di frontiera in compagnia

di un cammello pulcioso. Anche senza consultare il Manuale

dello Stile della Corporazione Pangalattica degli Spazzini,Pat

avrebbe scommesso la sua ultima camicia pulita (la quale, per inciso,

si trovava ben ripiegata in un cassetto a quindicimila parsec di

distanza) che la situazione fosse molto in basso nella Scala della Rispettabilità

(pagina 127, appena prima del capitolo Conosci La

Raccolta Differenziata Che È In Te, da sempre uno dei suoi preferiti).

Che cosa non avrebbe dato per essere a casa ad ascoltare una

storia strampalata del nonno!

«Darei volentieri te, maledetto figlio di una dromedaria.»

Il cammello ricambiò il suo cipiglio imbronciato sbattendo gli

occhi con fare sonnacchioso e, Pat avrebbe giurato, vagamente irridente.

Sballottata dal vento, l’insegna sgangherata diceva:

DA ZIO RAZZO PAZZO

CUCINA INTERPLANETARIA:

SE VOI POTETE DIGERIRLO, NOI POSSIAMO CUCINARLO!

Una leggenda aleggiava attorno al locale di Zio Razzo Pazzo: si di-

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ceva che i migliori matematici della galassia conducessero lì i loro

allievi per insegnare il concetto di implicazione logica nei due sensi

con un esempio che non sarebbe stato dimenticato (se non dopo

diversi bicchieri di amaro Johirenkii).

Beh, il nostro spazzino non aveva mai sentito questa storia e

nemmeno si sentiva particolarmente portato per la matematica, ma

anche a colpo d’occhio l’edificio non appariva certo invitante; nondimeno

se la pioggia insistente non contribuiva affatto a migliorarne

l’aspetto, decisamente contribuiva a spronare Pat ad apprezzarne

i lati positivi. Qualunque essi fossero.

Legato dunque il cammello sotto la tettoia malandata e varcata

la soglia, si trovò immerso nella più allegra, fumosa, cacofonica ed

eterogenea baraonda che avesse mai visto. C’era gente proveniente

da ogni angolo della Galassia. Il ventre dell’arca di un nuovo Noè

non avrebbe potuto ospitare folla più variopinta. Circa il diluvio, su

Deltholopithan si stavano evidentemente portando avanti.

Facendosi faticosamente strada fra gli avventori, individuò dietro

al bancone quello che doveva essere Zio Razzo Pazzo: un grosso

umano gioviale dai lineamenti marcati e dalla pelle scura, con

quella peculiare aria placida e sottilmente sorniona di chi conosce

a menadito i Centoventiquattro Modi Per Spezzare Le Ossa A Trentadue

Specie Senzienti Diverse. Chissà se aveva conosciuto il nonno,

in fanteria.

Pat raggiunse il bancone:«Da bere e da mangiare,per favore,per

me e per il cammello là fuori.»

«Mi prendi in giro,straniero?» l’oste ebbe un mezzo sorriso «E cosa

ci farebbe un cammello, dico, un vero cammello con due gobbe

e tutto quanto, su Deltholopithan?»

Pat sospirò.

«È una lunga, maledetta storia.»

«Lunga e maledetta... esattamente come una notte di tempesta

su Deltholopithan, ragazzo» rispose Zio Razzo Pazzo allungandogli

un bicchiere.

Okay, okay. Qui poi inserirò la narrazione, per bocca dello

spazzino, di come e perché siamo arrivati su Deltholopithan, inframmezzandola

con interventi dell’oste, avvenimenti nella locanda,

eccetera. Cambio dell’io narrante, inserti dal piano narrativo

precedente... Omero, Ende, Moore, tremate!

Quando la sua voce si spense, un silenzio rapito riempiva la lo-

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canda. Gli astanti sembravano sospesi nel fumo rado.

Poi, lentamente, qualcuno si sistemò meglio dove stava seduto,

qualcun altro aspirò una boccata dalla pipa e la locanda tornò al

suo consueto fragore.

Lo spazzino finì il bicchiere e si pulì la bocca.

«Sto cercando il rabbino O’Reilly» disse asciutto.

L’oste lo guardò per un momento, come se non lo vedesse.

«Lo puoi trovare alla sinagoga, in fondo alla strada.»

«Grazie. Era tutto... uh... ottimo.»

La strada proseguiva fino all’esterno del cerchio delle abitazioni,

per terminare in un grande spiazzo brullo spazzato dal vento. Lì,

imponente e plumbea, si levava la sinagoga.

Nella pioggia implacabile e nell’oscurità, la sua altezza era difficile

da valutare. La sommità sembrava fondersi con il cielo crudele,

come se questo avesse proteso le proprie radici verso il suolo, per

versare poi tutto il proprio umore gelido a loro privilegio. L’acqua

scorreva lungo i fregi e sgorgava con fragore dai doccioni, inducendo

il visitatore a domandarsi quale divinità potesse mai essere venerata

in quel luogo, se non la tempesta stessa.

Nessuna insegna all’entrata. In qualche modo, Pat ne fu un poco

sollevato.

Ah, è già il mio turno al posto-pilota?

No, no, vai pure a riposarti cara. Ci penso io.

Ho capito: Jim ha già mangiato. Niente succo di melarancia,

troppo gli fa male.

Hey, non guardarmi così. Ho detto che ho capito, non ti fidi

più di tuo marito? Sì, anch’io ti amo.

Ciao. Bacio. Ciao, ciaaao.

Andata.

Prendi il succo figliolo, io mi occupo delle ciambelle.

L’interno della sinagoga costituiva una solenne, gigantesca cassa

armonica di pietra, ad uso della voce roboante del suo dio. Soltanto

alcuni angoli erano fiocamente illuminati dalle candele,ma ad

ogni lampo le immagini dei rosoni proiettavano foreste di colore

tutt’attorno.

Pat ne era completamente affascinato.

Si sedette su uno scranno, sentendo tutto il peso del proprio

corpo. Non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo, si rese conto

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di non essere solo.Si rese anche conto,con un certo imbarazzo,che

si doveva essere lasciato andare a qualche parola scomposta, come

un bambino assorto.

Posandogli una mano su una spalla, il rabbino O’Reilly disse con

voce calda e ferma: «Ricordati figlio mio: nello spazio profondo nessuno

può sentirti salmodiare.»

Burp.

Uh, troppe ciambelle. O troppo succo.

Sospetto troppe ciambelle e troppo succo.

Pausa urina, vah.

Diiii queeella pira... l’orrendooo foooco... Oh là.

Va meglio. Dunque... Rivediamo un po’...

Posandogli una mano su una spalla, il rabbino O’Reilly disse con

voce calda e ferma: «Ricordati figlio mio: anche nello spazio profondo

nessuno è mai davvero solo.»

Sì, certo... «non può piovere per sempre», «domani è un altro

giorno», «non c’è più la mezza stagione»... mi piaceva di più prima,

ma bisogna anche provare a strappare un po’ di lacrime

ogni tanto! Per il giusto pathos, eh.

«Grazie,rabbi» disse calcandosi il cappello fradicio «ma non sono

qui in cerca di conforto spirituale. Sono qui per avere la risposta.»

Silenzio. Un vago sentore di cammello umido.

«Sono stato ovunque! Ho seguito le tracce di mondo in mondo,

dai monaci di Roquartus ai saltimbanchi di Ibahjar, su Abernia, su

Qehotesu, su Pfftrp... Prhffrhtp... Prhtrppthrp... Oh, Grande Ramazza

Onnipotente!» Pat stava ora tremando, vinto dalla frustrazione e

dalla stanchezza «Mi sono trascinato questo animale puzzolente per

mezza galassia! Ora voglio sapere.»

«Figlio mio, è una lunga...»

«... maledetta storia?»

«Prego?»

«Uh, nulla. Déjà vu.»

Stupida, stupida antenna.

«C’è da fare un lavoruccio EVA, caro» dice lei con tutte le moine

del mondo. «Un lavoruccio da niente per uno come te, no?»

Puah! Donne, ne conoscono una più del diavolo, dammi retta fi-

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gliolo. La stessa identica tecnica che usava mia madre, il sabato

mattina, per costringere mio padre a tagliare l’erba.Stramaledetta

tuta. Altro che “Extra-Vehicular Activity”...“Lotta Greco-Romana

Con Ingombrante Scafandro”dovrebbero chiamarla! Passami

la multichiave del cinque, Jim. Grazie. Jim, benedetto ragazzo!

Questa è la multichiave del tre. Cosa diamine stai... Ah.

Le stelle.

Non ci si stanca mai di guardarle, eh? Da qui come dalla Terra.

Una collina immersa nel niente, una giacca pesante, l’aria

della notte limpida e fredda.

Dubito che quest’antenna sarà a posto prima di cena.

«“Così Dio scacciò l’Uomo dall’Eden, perché vagasse sulla Terra.

Così l’Uomo, sostituitosi a Dio nel dominio del Creato, scacciò se

stesso dalla Terra per vagare nello Spazio, per partorire con dolore

la Vita nelle sue profondità...”Rabbi, è... è incredibile. La Terra, il Pianeta

Originale.»

Pat, in piedi di fronte al leggio, sollevò il volto dal volume che

stava leggendo.

La sinagoga era immersa nel buio e nel silenzio, la pioggia ora

era soltanto un fruscio in sottofondo. Odore di candele, di polvere

e di qualcosa di più estraneo e ruminante. Rabbi O’Reilly si era tolto

gli occhiali e si stropicciava gli occhi. Senza riaprirli, si appoggiò

stancamente contro lo schienale di velluto consunto.

Quando parlò, la sua voce sembrava antica e impalpabile quanto

il tempo stesso.

«Partirono,Pat.Intere famiglie partirono sulle navi,alla ricerca di

un luogo dove vivere,di un nuovo Eden.Con la speranza di aver imparato

dai passati errori le proprie responsabilità verso di esso. Partirono

anche alla ricerca di loro stessi,alla ricerca della bellezza che

era già nelle loro mani e nei loro cuori. Alla scoperta di quello che

potevano costruire. Alla ricerca di Casa.»

Spentasi l’eco di queste parole, il vecchio rabbino ristette, come

scolpito nella poltrona stessa. Un muto guardiano di velluto.

«Mi domando...» la voce di Pat era poco più di una brezza lieve,

la gola chiusa dall’emozione «Io mi domando cosa abbiano provato

nell’affrontare per la prima volta lo spazio del tutto inesplorato,

cosa significhi essere pionieri di un sogno così grande.Vedere da un

oblò un mondo completamente vergine. Affrontare la sfida della

creazione di un nuovo paradiso; di centinaia, di migliaia di nuovi

paradisi nell’immensità dello spazio profondo...»

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Dannazione!

Non proprio adesso. Cos’altro diavolo... Oh Dio, oh buon Dio!

Ci siamo. Ahi, maledetta mensola!

Dove ho messo le scarpe?

Vieni, figliolo. Eccoci cara, eccoci.

Buon Dio.

Siamo arrivati, guarda! Guardalo là, Jim! Si staglia rosso

contro il nero dello spazio, e sembra riempire il tuo cuore quanto

i tuoi occhi.

Una nuova dimora per il genere umano.

Casa.

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Il miracolo del santo barbiere

racconto di Vito Nicassio

illustrazione di Noemi Russo

La porta del salone da barba si aprì e si richiuse in silenzio. Filippo,

il barbiere, e la sparuta combriccola dei suoi habitué, si guardarono

sbalorditi.Vedere il Toni in giro per le vie di Castropera era

di per sé una stranezza. Ma vederlo entrare nella barberia in un pomeriggio

di martedì e chiedere barba e capelli era davvero un

evento. Era un personaggio chiuso e introverso, il Toni. La sua vita

si svolgeva nel raggio dei venti metri che intercorrevano tra la casa

dell’anziana madre con la quale conviveva e il retrobottega della

ferramenta nella quale svolgeva mansioni di magazziniere. L’unica

uscita che si concedeva al di fuori di quel raggio era per la messa

domenicale.

Venti anni addietro, però, nel pieno della sua giovinezza, il Toni

era stato tutt’altra persona. Aitante e gagliardo, la personalità istrionica,

brillante ed effervescente, aveva messo in subbuglio l’intero

borgo. Le sue beffe avevano trovato clamore finanche nei paesi viciniori.

Tutto finì quando Elena – la sua bellissima fidanzata – lo lasciò

per sposare Arturo, il figlio del farmacista. Un personaggio insulso

che più di toporagno che non di uomo aveva l’aspetto. Forse

questo particolare aveva reso ancora più cocente la frustrazione del

Toni, che da quel momento si era chiuso in se stesso, somatizzando

una smorfia di inconsolabile sofferenza. Da allora l’uomo rifuggiva

ogni contatto umano. Non aveva più né amici né interessi, a parte

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la liturgia della messa domenicale.

Il barbiere lo fece accomodare sulla poltrona abbottonandogli

la mantellina sul collo. Il pettine e le forbici affondavano nei capelli

increspati del Toni, che dirigeva il suo sguardo assente verso lo

specchio. Qualche minuto d’imbarazzato silenzio e poi l’indiscreto

figaro gli chiese: «È da un bel po’ che non ci si vede. Come mai da

queste parti di martedì?»

Toni tossì per rischiarare le corde vocali e con voce riluttante:

«Stanotte partirò per Roma...con quelli della parrocchia...domani

saremo all’Angelus...»

L’uomo non aveva ancora terminato di parlare quando il barbiere

spalancò la porta con gli arnesi del mestiere in mano correndo

al bar adiacente alla bottega.

«Volete sapete l’ultima?!» strillò il barbiere agli avventori del locale

«domani il Toni va a Roma dal Papa.»

Seguì una sprezzante risata che echeggiò finanche all’interno

della barberia. Non contento, l’intrigante artigiano attraversò la

piazza per raggiungere la drogheria, affollata di donne.

«Il Toni è venuto a farsi bello per il Papa» urlò il barbiere come

una salace treccaiuola. Prima del sopraggiungere della sera nessuna

delle mille anime di Castropera sarebbe stata all’oscuro del viaggio

del Toni.

Nella barberia i clamori lambivano il Toni all’interno del suo guscio.

Sprofondato su quella fredda poltrona quell’uomo, apparentemente

imperturbabile, si confrontava con la sua immagine riflessa.

Vedeva un uomo che urlava l’angoscia della sua solitudine con la testa

tra le mani.Tutto intorno, uno scenario onirico deformato dall’indifferenza

e dal cinismo.

All’imbrunire del giovedì successivo, il Toni ricomparve per le

strade del borgo con un volto folgorato e impietrito.Portava sul petto

una grande immagine del Papa e tra le mani una corona. Con lo

sguardo fisso nel vuoto ripeteva ossessivamente: «Mi ha parlato!»

Non dava certo un’impressione rassicurante. Sembrava proprio

uscito di senno.Gli abitanti del borgo,dapprima a decine,poi a centinaia,

cominciarono a seguirlo preoccupati e incuriositi. Quando

l’uomo giunse nella piazzetta del bar e del salone da barba, il seguito

del Toni appariva come il corteo dei bambini di Hamelin dietro

il loro pifferaio magico. Anche il barbiere impiccione uscì dalla bottega

con cipiglio incredulo tenendo con una mano la ciotola della

crema da barba nella quale continuava a roteare il suo pennello.

Il Toni si fermò repentinamente davanti a lui,sfoderando una de-

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sueta loquacità.

«Mi ha parlato» ripeté per l’ennesima volta l’uomo «Sì, il Papa mi

ha parlato.»

Poi, proseguì estatico:

«La sala Nervi era piena all’inverosimile. Il Papa percorreva il

corridoio tra due ali di folla. Poi, il suo sguardo ha incrociato il mio.

Si è fermato ed è ritornato sui suoi passi... Sì, proprio verso di me.

Io tremavo. Pensate, il Santo Padre aveva posato il suo sguardo su di

me. Mi guardava dritto negli occhi. Quando è giunto a una distanza

che gli consentisse di toccarmi, ha alzato la mano con le tre dita distese.

Sembrava mi volesse benedire, ma...»

«Maaa?» lo incitò all’unisono la folla.

«... Le sue tre dita mi hanno afferrato delicatamente il mento... »

riprese lentamente il Toni prima di interrompersi per la commozione.

Il barbiere, a cui sfavillavano gli occhi dalla curiosità, lo incalzò:

«Ma ti ha parlato? Cosa ti ha detto?»

«Sì...» replicò rapito il Toni «Mi ha chiesto:“Figliolo, chi è stato

quel tosapecore che ti ha fatto questo taglio di capelli?”»

Fu un trionfo di ilarità. Qualcuno parlò di miracolo. Gli scherni

del barbiere avevano resuscitato il Toni dei tempi migliori.

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Incroci

racconto di Luca Pozzoli

illustrazione di Anna Cigoli

Stazione, ora di punta, la gente si affretta tra orologi e telefonini,

consuma pasti istantanei, persone che aspettano, arrivano e ripartono,

qualcuno certo avrà perso la coincidenza, qualcun altro

già in ritardo sgomiterà per un posto in taxi, uomini d’affari si mescolano

con sbandati e perdigiorno quasi a creare un essere unico,

definitivo, un mostro con mille teste e un milione di anni.

In mezzo alla folla c’è anche una ragazza, gli occhi puntati sullo

schermo degli arrivi, stringe un oggetto tra le mani. Sta aspettando

qualcuno, forse il fidanzato, forse un’amica. Se ne sta lì da due ore

e forse ha già perso la speranza se è vero che un signore ha notato

che una lacrima, trattenuta fino all’inverosimile, alla fine si è liberata

e ha cominciato a scendere dalle palpebre lungo le gote fino a

inumidirle la bocca. Un ragazzo la urta, le chiede scusa, intanto le

sfila il portafoglio dallo zaino; lei non si accorge di niente, immersa

com’è nei rimpianti.

Nella sala d’aspetto i barboni sonnecchiano e chiedono spiccioli,

sospesi in un limbo che fa sembrare loro tutto identico... evitabile.Intanto

dio se ne sta appollaiato sopra l’orologio del binario uno,

da sotto sembra in tutto e per tutto un piccione, caga proprio sulla

giacca del capotreno del Milano-Napoli, quello lo guarda e bestemmia,

il piccione non si offende e va avanti a scrutare.

Bene e Male si guardano in cagnesco; stanno in questo posto da

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un’eternità e la coincidenza, loro, l’hanno persa da sempre, non si

sono mai avvicinati, mai una parola, una battuta o un’offesa, due

sguardi prigionieri l’uno dell’altro. Il Male è un signore sulla sessantina,alto

e di bell’aspetto,in giacca e cravatta,gli occhiali nel taschino,

regge con la destra un quotidiano. Impeccabile. L’altro è un ragazzino,

capelli pettinati a spazzola, ha un pallone in mano ed è in

ritardo per la cena, abbozza due palleggi, crede ancora di poter diventare

un campione con quel numero dieci sulla maglia della nazionale;

ma tiene fissi gli occhi su quel signore, così perde la concentrazione

e la palla continua a cadere per terra.

La ragazza davanti allo schermo degli arrivi non sta aspettando

nessuno. È lì da ore e le lacrime erano solo gocce d’acqua piovana.

Il portafoglio che le hanno rubato conteneva poche monete, nessun

documento né foglietti con numeri di telefono. Solo un biglietto

con un appunto in stampatello.

Nel cesso della stazione il ragazzo apre il portafoglio, legge la

scritta,impreca per non aver trovato nient’altro,esce infuriato,si scola

una birra che teneva nella tasca, scorge la ragazza e le va incontro.

Treni partono e arrivano, gente si affretta, puzza di gasolio, polizia

ferroviaria, piccioni che cagano. La fine per tutto.

La zingara e le sue carte, intorno molte signore scambiano qualche

moneta per una dritta sul futuro, un consiglio o una pozione

d’amore. La maga è accondiscendente: modera presagi in avvertimenti,vende

disgrazie per questioni da risolvere;quando sa di mentire

si ricalca sul volto un sorriso compiacente, coi figli attorno che

non la smettono di ridere e saltare, che sembrano più di mille dal

baccano che fanno.

«Ciao, tutto bene?»

«Non ho bisogno di niente!»

«È solo che ti vedo qui da ore ormai e mi chiedevo se magari

stessi aspettando qualcuno...»

«E tu che ci fai qui da ore?»

«Beh... io, diciamo che ci lavoro...»

«Eeee... che lavoro fai?»

«Infatti... diciamo che mi arrangio come posso... ho preso una

cosa, prima, diciamo per sbaglio, dal tuo zaino...»

La ragazza sorride, non sembra sorpresa, nemmeno spaventata.

«Ah... sei un ladro! Cosa dovrei fare ora? Chiamare la polizia?»

Lui le porge il portafogli.

«Amici come prima?»

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«...»

«...»

«Ti andrebbe di tenermi per mano?»

S’incamminano verso fuori. Senza parlare, senza conoscere l’uno

il nome dell’altro, scordandosi quasi il proprio.

L’impiccato, la papessa, la morte e la ruota, il folle e la rosa.

«Mio figlio troverà lavoro?»

Come se le carte potessero svelare quello che a loro non interessa.

«L’attesa sarà breve.»

«Mio marito mi tradisce?»

Domande! Sempre domande!

«Sta a lei ravvivare il desiderio...»

La signora attempata farà sesso come mai quella notte stessa, il

consorte nel frattempo penserà alla segretaria che non avrà.

Davanti al tavolo della zingara passano due ragazzi mano nella

mano, lei ha un volto bellissimo, lunghi capelli neri e l’espressione

di chi ha finalmente trovato ciò che aspettava. Gli sguardi delle due

per un istante s’incrociano, qualche secondo e due sorrisi, la simpatia

spontanea che può nascere solo fra donne.

«Cammina piano ragazza... la tua strada sarà lunga e leggera.»

Dal treno, guardare fuori fa venire i brividi; le lepri corrono nei

campi e contrastano nella neve con assoluta evidenza, ma gli uomini

a bordo spesso si dimenticano dello spettacolo che il mondo dà

di sé, si perdono tra telefonini, libri e orologi. Fanno due chiacchiere

con il vicino di poltrona e poi si addormentano; alcuni tirano addirittura

la tendina per isolarsi da quello che là fuori corre così veloce,

a volte, da far venir la nausea.

Il controllore incacchiato mica ha tanta voglia di chiacchiere oggi.

Non vede l’ora di terminare il suo turno per rifugiarsi a casa. C’è

anche dio sul treno. Sembra una donna, ora, bella da non credere...

Così, un po’ per scherzo e un po’ per farsi perdonare, quando l’uomo

le domanda il biglietto lei attacca bottone.Dopo qualche secondo

lui cambia espressione,umore,e nemmeno più si ricorda la giacca

sporca di merda d’uccello... cambierebbe casa, lavoro e persino

il nome per una notte con lei.E la invita a cena...la invita a cena balbettando,

sperando che esista un dio, almeno quel giorno, ma lei

non risponde, solo un sorriso che vale più di tutto l’oro del mondo.

Prima d’alzarsi, scendere dal treno, diventare un ricordo.

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La notte prima

racconto di Luca Cantarelli

illustrazione di Andrea Gualandri

Passano.I minuti passano.Fuggono dalla disperazione che alberga

nel mio animo.

Il mio volto gronda copiosamente. Sulla fronte umettata si riflette

la luce dell’abat-jour e della sua stupida lampadina arancione

che non si rompe mai. Se cade, rimbalza. Quando scoppiano i tuoni,

non si fulmina.

Protendo le mani sino a che incontrano l’interruttore. Provo a

spegnere. Sarà il ventesimo tentativo. Accendi, spegni, accendi, spegni.Vado

avanti da ore.

Coricato nei miei pensieri sudaticci attendo che giunga il momento.

Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Arriverà, e io non

avrò nemmeno goduto di una notte serena. Una notte, invece, trascorsa

a tessere idee inconsistenti, solitari filamenti di una trama da

disfare, come nella tela di Penelope. Maledizione!

Domani,mi dico,forse sarà tutto finito.Domani potrò riposare...

Intanto passano, i minuti passano. Fuggono veloci.

Mi lambicco. Distillo speranze come gocce cinesi. Tic, tic, tic.

Doveva esserci una via d’uscita, da qualche parte. Ma io mi imbattevo

solamente in porte chiuse a chiave a doppia mandata. Detergo

la fronte con il dorso della mano. Sospiro.

Il tormento si pasce di questa attesa ingrassando come un bove.

Nelle tenebre della speranza repentini lampi di luce mi soccor-

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rono. Basterebbe un contrattempo, m’inganno, un banale ritardo.

Un ostacolo improvviso, una qualunque posticipazione mi permetterebbe

di trovare la scappatoia che cerco. Avrei bisogno di più

tempo. Di maggiore tranquillità. Ma non c’è persona che non tema

il momento. Se davvero esiste, vi giuro, io non l’ho mai incontrata.

Scappano, i minuti scappano. Fuggono senza voltarsi indietro.

Mi volto io, con occhi nervosi guardo al mio passato. Non mi

comportavo diversamente, allora. Ricordo i tempi della scuola. All’ora

dell’interrogazione pregavo che capitasse un evento, fortuito

o meno, che rimandasse la prova. Che altri venissero chiamati al

mio posto, tipo Stefano Ferraguti, che era sempre preparato. Io pregavo,

continuamente. Se mi fosse andata bene avrei messo la testa a

posto. Finalmente mi sarei applicato. I propositi da libro Cuore svanivano

subito dopo, quando al secondo appello io ero ancora seduto

al mio banco. La tentazione del pallone era troppo forte e io ero

discolo già allora.

Tento un’impresa disperata per dare sollievo ai miei occhi infuocati.

Ne chiudo uno alla volta. Figurati se funziona! Quel che è

peggio è che non posso incolpare altri. Non più di tanto. Potrei

prendermela con il destino, magari, ma non servirebbe a niente. La

colpa è mia. Ho atteso troppo. Ci voleva un atto di coraggio. Dovevo

presentarmi spontaneamente quando non era troppo tardi. Potevo

cavarmela a minor prezzo. Invece io sono andato avanti per la

mia strada, trascinandomi il dolore appresso, finché quel dolore è

diventato il mio padrone. È stato lui a condizionare i miei ultimi

giorni.

Riaccendo la luce.La spengo subito.Non mi è mai piaciuta quella

lampadina arancione. Anzi, la detesto!

Nel mentre passano, i minuti passano. Impregnano il pigiama

che aderisce alla pelle. È una sensazione pruriginosa, un ulteriore

motivo di disagio. Chissà cosa prova un serpente quando rinnova

la muta? mi domando, in una sorta di delirio dettato dalla tensione.

Farnetico.

Facevano presto a dire: «Passerà. È questione di attimi» Lui aveva

sentenziato.Bastardo figlio di un cane! Aveva fissato giorno e ora.

In Lui nessun ripensamento. Aveva deciso. Punto. In un certo senso

ammiravo la sua fermezza, la sua capacità di imporsi, di decidere

la sorte altrui. Io avrei pagato. Sa-la-ta-men-te. Non è nemmeno

tutta colpa sua. Ognuno nella società ha il proprio ruolo. È il mio,

adesso, che non mi piace.

Certo, poteva essere meno sadico. Il classico uomo senza mac-

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chia né paura. Senza dubbi né ripensamenti.

La mia dolcissima mamma, che Dio l’abbia in gloria, mi metteva

in guardia. Mi ripeteva fino alla nausea a cosa sarei andato incontro

facendo di testa mia. Appena quella santa donna girava l’angolo, io

ne approfittavo per rubare la crema di nocciole che mi piaceva tanto.

Eppoi mica mi lavavo i denti, io. Non si fanno queste porcherie!

Mi sgridavano.Tempo perso. Come questo, che fugge a cavallo dei

minuti. Passano, i minuti passano. Galoppano dal passato per accorciare

il futuro finché non diverrà presente.

Ogni tanto una fitta. Il dolore si spande alla testa.Tutto è collegato.

L’avessi capito prima. È la goccia a far tracimare il vaso.

«Mi spiace» aveva annunciato Lui con la faccia inespressiva.

Il solo ripensarci mi copre di brividi.

Nonostante le parole la sua voce non tradiva alcuna pietà. Aveva

la raucedine di chi cova un discorso dentro da troppo tempo,

senza trovare la forza di lasciarlo schiudere.

«Mi spiace, arrivati a questo punto non c’è altro rimedio. Capirà

anche lei.»

«Come no?!»

«Il male va estirpato alla radice. È la regola.»

«Ma soffrirò molto?»

«Non faccia il bambino. Doveva pensarci prima, ormai il danno

è fatto. Non sapeva che sarebbe finita così? O forse lei fa parte di

quella schiera di spavaldi che pensa di farla sempre franca, che tanto

a loro non può accadere nulla di brutto? Sarebbe comoda, vero?

Niente lacrime da coccodrillo, per favore, guardi avanti con dignità,

per Dio.» Si era alterato.«Cosa pensa,che io mi diverta? Che mi piaccia

sentire la gente che quando passa si dà di gomito e dice veh il

macellaio. La zizzania, caro mio, va bruciata subito perché non si

confonda nel grano. L’erba malata va strappata perché non contagi

quella sana.»

Estirpare, falciare, distruggere: perdinci! Non è una questione di

botanica. Che piaccia o no, io sono un uomo, con tutte le sue debolezze,

ma pur sempre un uomo, perdinci!

Un uomo condannato a scrutare nel buio quando i minuti passano

per raggiungere quelli che li hanno preceduti. Non curanti,

passano. Fuggono. Vorrei farlo anch’io. Scappare, intendo. Se soltanto

servisse a mutare gli eventi... Gli arti si irrigidiscono, bloccati da

un colpo d’aria nelle zone sudate. La bocca impastata di paura boccheggia

come un pesce fuor d’acqua.Debbo farmi coraggio,mi impongo,e

quasi mi piaccio a quel modo.Saranno pochi momenti di

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dolore, li sopporterò con dignità, dico.

Nel frattempo i minuti passano, fuggono, ma un po’ più lenti. La

nottata è stata dura anche per loro. Il sonno sembra volere infine

sopraggiungere per accantonare in un angolo la mia inquietudine.

Gli faccio compassione, e allora mi accarezza le palpebre, così stanche,

così pesanti... Gli occhi si assopiscono... Dormo. Ma la sveglia

trilla tutto il mio terrore.

Ci siamo! La resa dei conti.

La testa ronza, gli occhi ingrommati bruciano per il riposo negato.

Il cuore pulsa lo sgomento che mi pervade. La paura si fa largo

tra le vene e circola attraverso tutto il corpo alla velocità del tempo

che passa, fugge a braccetto dei suoi minuti.

Appoggio un secondo il capo al guanciale, solo un secondo, nel

patetico tentativo di ristabilire la calma. Dicono che si soffra meno

se non si è agitati.

Sollevo la testa dal cuscino e getto un’occhiata alla sveglia. Ma

come? Da quando è suonata è già trascorsa un’ora. Quanto fuggono

i minuti, se non visti! Volano. Mi sarò appisolato. Maledizione! Devo

vestirmi in fretta e furia e uscire di casa. Che ritardo pazzesco!

Già che gli stavo antipatico. Adesso sì che il dentista s’incazza.

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15 scrittori e 15 illustratori


Note biografiche

Margherita Allegri

Nasce nel 1977. Dopo il Liceo

Artistico si laurea in Conservazione

dei Beni Culturali. Vive a Pizzighettone

(CR) e si occupa di didattica del

fumetto e dell’arte collaborando con

il Centro Fumetto Andrea Pazienza

di Cremona. Ha partecipato a numerose

rassegne di grafica umoristica,

sia in Italia che all’estero, ottenendo

diversi premi e menzioni speciali.

Claudio Arisi

È nato a Torricella del Pizzo (CR)

nel 1957, vive e lavora a Cremona.

Attivo in vari campi espressivi: realizza

installazioni, opere grafiche e illustrazioni.

Produce in proprio comics

underground; vincitore nel

2004 del concorso Centro Fumetto

Andrea Pazienza. Fa parte della redazione

della fanzine Bakelite.

Luca Bonardi

È nato a Trivero (BI), nel 1968.

Nutre da sempre una grande passione

per il disegno. Frequenta la Scuola

del Fumetto di Milano.Al termine

degli studi, esordisce in ambito editoriale

realizzando, tra l’altro, vignette

umoristiche e illustrazioni per ragazzi.

In seguito disegna storie a fumetti

e clip per Disney, e illustrazioni

editoriali di vario genere per i Collezionabili

De Agostini.È anche batterista,

autore di canzoni e scrittore.

Andrea Burlini

Ha 31 anni e conduce un’esistenza

rispettabile fra Cremona (dove è

nato) e Milano (dove lavora). Il Porkettaro,

l’alter ego di Andrea, è invece

responsabile dei peggiori misfatti.

I lavori sporchi, insomma. Bambini!

Andate a letto! Mangiate la minestra!

Fate come dice la mamma! Se no, arriva

il Porkettaro.

Alberto Calorosi

È nato a Genova nel 1972,vive e

lavora a Parma. Nel 2007 qualche

suo racconto è apparso sulla rivista

La Luna di Traverso, sul quotidiano

di Parma L’informazione e su un

paio di antologie di racconti. È redattore

di Tapirulan. Considera Fabrizio

De André il più grande artista

di tutti i tempi e si rammarica di

non avere avuto l’opportunità di conoscerlo,

anche solo per chiedergli

cosa accidenti significa all’ombra

dell’ultimo sole. Un giorno o l’altro

imparerà a pattinare.

blog.tapirulan.it/ufj

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Luca Cantarelli

È laureato in legge presso l’Università

degli Studi di Parma. Per alcuni

anni è stato corrispondente per la

Gazzetta di Parma e collaboratore

del TG di Nuova TV Parma. Al suo

attivo ha un certo numero di pubblicazioni,

l’ultima delle quali il romanzo

Come scrivere un libro e salvarsi

la vita (ed. Il Filo). È stato per cinque

anni presidente del Circolo Culturale

Amici del Libro di Sorbolo.

Enrico Cantino

Ha 42 anni e una laurea in Materie

Letterarie. Vive a Parma, dove lavora

come impiegato per un periodico

tecnico. Le sue passioni: i gatti, i

cartoni animati e la letteratura. Scrive

racconti dal 1984 e ogni tanto riesce

a pubblicarne qualcuno. È redattore

de La Luna di Traverso, laboratorio

di narrazioni edito da MUP.

Linda Cavallini

Linda o Lia,o Pippimicia,nasce a

Firenze il 5 settembre 1979. In quinta

elementare decide che da grande

avrebbe disegnato, perciò frequenta

il Liceo Artistico e poi l’Accademia

di Belle Arti. Durante il liceo si iscrive

a un corso di fumetto. I suoi maestri

sono stati Alberto Pagliaro e Cosimo

Pancini, con cui lavora tuttora.

Ha lavorato anche come colorista, in

particolare per Les Humanoids Associes

e Panini Comics e come illustratrice

per Giunti e Cideb Editori;

da qualche anno collabora con lo

studio di grafica Kmzero.

demonielola.blogspot.com

Anna Cigoli

Nata nel 1978, da allora vive a

Casalbuttano (CR). All’età di due anni

comincia a disegnare figure di

senso compiuto e si convince di essere

una grande artista. Frequenta il

Liceo Artistico e l’Accademia di Belle

Arti di Brera diplomandosi in pittura.

Da qualche anno si dedica anche

al fumetto e all’illustrazione.

Mariagrazia Di Stasi

Nata a Foggia il 14 giugno 1959,

residente a Capo d’Orlando, in provincia

di Messina. Laureata in Sociologia

presso l’Università degli Studi

di Urbino, diplomata in Giornalismo

presso la Scuola di Giornalismo

di Urbino. Scrive per hobby e per

passione. Ha vinto alcuni premi letterari

e ha pubblicato su diverse riviste.Ha

pubblicato un libro di racconti

intitolato Il vento di scirocco e altri

racconti (ed. Firenze Libri).

Daniele Fabbri

È nato nel 1978 a Bologna,vive e

lavora a Ravenna.Si è diplomato all’Istituto

Europeo di Design di Milano.

Collabora con case editrici, agenzie

pubblicitarie e studi di animazione,

alternando la sue attività tra il commerciale

e l’artistico come una sfida

stilistica,in attesa di una sintesi.Lavora

sia con le tecniche tradizionali sia

con il digitale. È stato selezionato al

concorso Accademia Pictor - Il Gatto

con gli Stivali. Nell’ultimo anno

ha collaborato con lo Studio Melazeta

alla produzione RAI Gino il Pollo.

www.danielefabbri.com

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French

Nato il 16 marzo 1976 nella ridente

cittadina di Desenzano del Garda.Sopravvive

e sottolavora a Parma.

www.fabiotoninelli.com

Cristiano Gozzini

Nasce il 21 settembre 1976 con

una tecnica sperimentale di parto

non-violento.La gente di solito reagisce

a questa notizia con: «Ah, adesso

capisco...» La professione di ricerca

e sviluppo software, grazie alla quale

paga l’affitto e i suoi molti vizi (di

ciascuno dei quali va particolarmente

fiero), è sua sincera vocazione ma

anche copertura per le sue altre sincere

vocazioni: Capitano Pirata e

Amichevole Supereroe di Quartiere.

Scrive soprattutto come catarsi per

mantenere la sua sanità mentale.

Andrea Gualandri

È nato a Reggio Emilia nel 1978.

Si diploma all’Istituto d’Arte Paolo

Toschi di Parma, si laurea all’Accademia

di Belle Arti di Bologna.Nel 2003

la giuria della 22 a Biennale Internazionale

dell’Umorismo nell’Arte di

Tolentino, presieduta da Sergio Staino,

lo seleziona per partecipare alla

mostra della biennale e lo inserisce

nel catalogo. Nel 2005 vince il primo

premio. Attualmente lavora come

atelierista in una scuola dell’infanzia.

Fabio Iaschi

È nato a Parma nel 1980,trascorre

l’infanzia disegnando. Dal 1994 al

1999 frequenta l’Istituto d’Arte Paolo

Toschi di Parma. Senza sapere nulla

di computer e internet, viene assunto

da un’azienda IT in qualità di

web designer. Dal 1999 ad oggi trascorre

le sue giornate rischiarato dalla

luce di un monitor. Il suo desiderio

più grande è tornare bambino.

www.mymoleskine.net

Ludovica Mazzuccato

Appena tredicenne si aggiudica,

nel 1992, il primo premio del concorso

indetto dal C.I.A.S. di Roma e

dall’UNESCO. Da allora ha raccolto

numerosi riconoscimenti letterari. È

pubblicata in varie antologie, si occupa

del trimestrale Finestre Aperte,

tiene seminari di poesia e organizza

premi letterari anche nelle scuole.

Per lei è vitale catturare e regalare

emozioni attraverso i suoi componimenti

perché considera la poesia un

modo di vivere, una missione.

Antonio Mele

È noto al grande pubblico come

Melanton. Di origini salentine (Galatina,

1942) risiede da molti anni a

Roma. Collaboratore e redattore di

importanti quotidiani e giornali satirici,

autore di vari libri di satira e

poesia (La civiltà del sorriso, La

tentazione comica, A mio padre

scrivo e altri), è stato per tredici anni

(1991-2003) il direttore artistico

del Museo della Caricatura e della

Biennale dell’Umorismo di Tolentino.

Ha vinto prestigiosi premi nazionali

e internazionali, fra cui la Targa

d’Oro a Bordighera, il World Cartoon

a Skopje e il Premio del Consiglio

d’Europa a Berlino.

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Roberto Meli

È nato a Parma nel 1974, lavora

come insegnante di discipline pittoriche

e come illustratore. Collabora

con numerose riviste, case editrici e

con la RAI. Vive e lavora a Ponte Taro

in provincia di Parma.

Rosanna Mezzanotte

È nata nel 1983 sul Gargano. Nel

2003 si è diplomata come Illustratrice

Grafica al termine di un corso nel

quale ha avuto la fortuna di essere allieva

di Giuseppe Palumbo. Nel 2007

ha seguito il corso di Printing and

Digital Media della Wimbledon Fine

Art School di Londra.Si è laureata nel

2008 all’Accademia di Belle Arti di

Bologna.Vive a Bologna e si occupa

di illustrazione, fumetto e grafica.

www.joequarto.altervista.org

Josè Monti

In arte Joz’ (6 marzo 1982, Brasile

- vivente finché dura). Lavora regolarmente

come capo commessa

nel mondo dell’editoria. Ha scritto

una trilogia di favole illustrate: Adottato

- Una piccola e buffa storia tra

realtà e fantasia; Ho sognato d’esser

vivo - Il delirio in una stanza,

all’interno del manicomio che non

c’è; Underworld - favole squinternate,

dal mondo che sta di sotto.

www.josemonti.it

Vito Nicassio

Nasce a Bari nel 1967.Vive la sua

infanzia ad Adelfia, un piccolo comune

dell’hinterland barese. Laurea in

Giurisprudenza.Ufficiale dell’Arma.

Poi avvocato. È socio dell’Associazione

Qualità della Vita. Scrive racconti

immaginari per evadere da

quelli veri che riporta nelle tristi

comparse processuali. Nel 2007 viene

segnalato e pubblicato nel concorso

Il Gusto del racconto della

città di Mezzane di Sotto (VR).

Andrea Pecchia

È nato a Roma nel 1972. Da allora

è circondato dai suoi molteplici

colori e umori, viaggia in giro per il

mondo chiuso nella sua stanza... perché

nessuna stanza è distanza.

www.andreapecchia.com

Silvia Pizzi

Nasce a Venezia nel 1980. Dopo

il diploma conseguito presso il Liceo

Artistico di Venezia frequenta un corso

triennale di illustrazione presso

l’Istituto Europeo di Design di Roma.

Ha partecipato a numerosi concorsi

e ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti,

anche in ambito internazionale.

Attualmente lavora come illustratrice,

grafica e web designer.

www.silviapizzi.it

Luca Pozzoli

È nato 28 anni fa a Cremona, dove

tuttora risiede. Si è laureato in Arte

Spettacolo e Immagine Multimediale

all’Università degli Studi di Parma.

Ha fatto un po’ di tutto: operaio,

magazziniere, barista, benzinaio, tecnico

audio, operatore di call-center.

Attualmente lavora presso un cinema

di Cremona. Scrive per passione,

per autoanalisi e per divertimento.

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Elena Prette

È nata nel 1983 a Monza. Nel

2005 conclude l’Istituto Europeo di

Design di Milano. Segnalata nel 2003

al concorso VACA libri mai mai visti

e, nel 2005, selezionata per il catalogo

del concorso Accademia Pictor

- Pierino e il lupo. Dal 2006 al 2008

ottiene l’award dell’illustrazione italiana

indetto dall’Associazione Illustratori.

Nel 2007 viene selezionata

per il catalogo statunitense Communication

Arts - Illustration Annual

48 e vince il Premio della Critica

del concorso Calendario Duemila7

di Tapirulan. Alterna tecniche tradizionali

e digitali, spazia dalle immagini

per l’infanzia all’illustrazione per

pubblicità, riviste, giochi da tavolo.

www.elenaprette.com

Michele Prosperi

Nasce il 1° luglio 1976 a Cremona.

Ingegnere di professione, redattore

di Tapirulan sotto lo pseudonimo

di Pigi. Nel 2003 vince il concorso

per sceneggiature di cortometraggi

Futuri prossimi. Nel 2007, il

racconto Calliope viene pubblicato

su Cyclette (ed. Tapirulan).

Andrea Rivieri

Nato nel 1979, cresce nel piccolo

paese di Casteldidone (CR). Frequenta

il Liceo Scientifico di Cremona.

Giunto al diploma dà un taglio a

passato,barba e capelli e si iscrive alla

Facoltà di Ingegneria delle Telecomunicazioni

a Parma, ma tutto

ciò che sa lo deve ai numerosi cartoni

animati visti fin dall’infanzia.

Noemi Russo

È nata a Milano 24 anni fa. Appassionata

d’arte fin da piccola,si diploma

al Liceo Artistico di Arese per

poi laurearsi col massimo dei voti in

Illustrazione e Animazione presso

l’Istituto Europeo di Design a Milano.

Ha esposto in diverse manifestazioni

di importanza nazionale e internazionale,

ultima delle quali il Salone

Internazionale del Libro di Torino

nel 2007. Attualmente lavora come

creativa/grafica per alcune agenzie

e gallerie d’arte.Espone le sue tele

presso il negozio di arredamento

per la casa IPEN a Milano.

Maddalena Selis

È nata in Sardegna nel lontano

1982, da qualche anno vive a Roma,

dove lavora. Ama scrivere, leggere,

viaggiare, parlare e, tra le altre cose,

è un ingegnere. Indovinate dov’è andata

a prendere le sue idee per il racconto

pubblicato su Bufanda?

Roberto Stradiotti

Per lui scrivere una biografia è il

pezzo più difficile, perché tutte le vite

hanno in comune una nascita e

una morte e non si sa mai cosa valga

la pena scrivere in più. Ha compiuto

studi classici e li rifarebbe; lavora in

un’azienda, non lo rifarebbe ma gli

dà il pane; vorrebbe essere un giovane

eroe per morire subito, così non

avrebbe biografie da scrivere, ma solamente

la gloria della battaglia. Ma

non è più giovane ed è disarmato.

Scrive per parlare con qualcuno.

blog.tapirulan.it/robirobi

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Edizioni Tapirulan

1. Cyclette

2. Star

3. Bufanda

N.B.

Se trovi questo libro – o qualsiasi altro

libro delle Edizioni Tapirulan – in

giro, in un bar, su una panchina, per

strada,in treno,in autobus,dentro un

tombino, sotto una sedia, in mezzo al

mare, insomma ovunque, portalo via

con te, leggilo, se vuoi commentalo,

correggi gli errori,fai un tuo disegno,

e poi rimettilo in circolo;abbandonalo

in un luogo qualsiasi,altre persone

potranno trovarlo e leggerlo.Puoi anche

collegarti a www.tapirulan.it e

scriverci un tuo parere o dei consigli.


L’Associazione Culturale Tapirulan

è attiva dal 2004 per promuovere

e per dare visibilità agli artisti contemporanei.

Sul sito internet dell’Associazione,

www.tapirulan.it,

vengono regolarmente pubblicati

nuovi autori. Un servizio gratuito

che consente a pittori, scultori, fumettisti,

illustratori, fotografi, scrittori,

poeti, musicisti, teatranti e videomaker

di mostrarsi a un pubblico

numeroso e attento. L’obiettivo

di Tapirulan e del suo progetto

editoriale è soprattutto quello

di mettere in contatto tra loro artisti

che operano in differenti forme

espressive. Seguendo questo principio

nasce Bufanda,risultato della

collaborazione di quindici scrittori

e quindici illustratori.


9 788890 276736 >

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