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Sjette

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Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it



sjette


7 Premessa

9 Prefazione

13 Minghì e l’organo scassato

racconto di Cristiano Cavina

illustrazione di Dimitri Fogolin

19 Piksi, Neretva e tutto il resto

racconto di Ezio Azzollini

illustrazione di Marina Girardi

27 Il nonno da taschino

racconto di Alessio Pollutri

illustrazione di Alberto Ipsilanti

31 L’uomo che non si sedeva mai

racconto di Umberto Pessina

illustrazione di Marco De Masi

37 L’oro di Napoli

racconto di Angelo Mozzillo

illustrazione di Andrea De Luca

43 Invecchiare

racconto di Luca Iori

illustrazione di Luca Fabbri

45 Macchia Nera

racconto di Giovanni Venanzi

illustrazione di Giulia Pastorino

49 Qualcuno che ti assomiglia

racconto di Francesca Bonfanti

illustrazione di Francesco Caporale


55 Cosa fissa la mucca?

racconto di Niccolò Pugliese

illustrazione di Ombretta Tavano

61 Il Bambino Miliardario

racconto di Stefano Lodi

illustrazione di Daniela Volpari

65 La Pasta

racconto di Gaspare Scimò

illustrazione di Guido Rosa

69 Giovane canaglia

racconto di Giulia Manno

illustrazione di Alessandro Ripane

75 Tancredi

racconto di Paolo Triulzi

illustrazione di Marcello Crescenzi

79 Dislocazione degli organi a fronte di un cuore spezzato

racconto di Emilia Cesiro

illustrazione di Giulia Ferla

83 Il gioco

racconto di Carmen Verde

illustrazione di Francesco Buzzi

88 Gli autori / Note biografiche



PREMESSA

Premesso che questa è una raccolta di racconti pubblicata da

Tapirulan. Premesso che i racconti vengono scelti attraverso un

concorso con tanto di giuria e presidente di giuria. Premesso

che ogni edizione vede la partecipazione di uno scrittore ospite,

elevato tra l’altro al rango di presidente di tale giuria. Pre -

messo che l’ospite è Cristiano Cavina, nato a Faenza il 29 maggio

1974. Premesso che in questa edizione sono arrivati oltre

500 racconti e certamente si capirà la difficoltà di estrarne (non

a sorte) solo quattordici, ai quali si aggiunge per deferenza un

racconto dell’ospite. Premesso che ogni scrittore aveva facoltà

di indicare il suo illustratore preferito tra quelli presenti nella

galleria online di Tapirulan. Premesso che il suddetto illustratore

è stato poi costretto con le buone o le cattive a realizzare un

disegno tagliato su misura proprio per il racconto pubblicato.

Premesso che da prassi le antologie di Tapirulan hanno titoli in

una lingua straniera sempre differente. Premesso che le precedenti

raccolte di racconti si sono intitolate Cyclette, Bufanda,

Souvlaki, Bombeiros, Az. Premesso che chiunque sappia far di

conto avrà notato che questo è il sesto libro di racconti, che in

norvegese si dice sjette boken av noveller, per evidenti necessità

di marketing abbreviato in sjette. Premesso tutto ciò, caro lettore,

ora puoi voltare pagina.

7



PREFAZIONE

La Norvegia non esiste

Immaginate questa prefazione come una festa stravagante nel -

la villa di un milionario. Una festa a cui partecipano quattordici

individui che qualcuno potrebbe chiamare amici, qualcun altro

falsi amici, qualcun altro ancora falsi falsi amici.

Il primo entra, consegna il cappotto al guardarobiere fantasma

e dice: sa una cosa, avrei proprio voglia di un piatto di pasta.

Il guardarobiere fantasma biascica: la pasta? Ma dove pensi di

trovarti? Senti questo, la pasta.

Il secondo guardandosi attorno dice: da sogno, vale più di

tutto l’oro di Napoli. Sbuca uno travestito da sultano da dietro

uno stipite che chiede con insensato timore: loro? Loro chi?

Quali loro?

Il terzo cerca complicità e dice: facciamo un gioco? Uno che

passa di là, uno che ha l’aria molto informata nonostante il para -

orecchie peloso, rivela: questa festa è il gioco, non serve farne

un altro.

Il quarto approccia uno che passa in sella a un elefante da

salotto e dice: conosco qualcuno che ti assomiglia. E quell’uno

sbuffa: ma se nemmeno io somiglio a me stesso?

Il quinto si immischia in una discussione che non lo riguarda

e dice: ve lo ricordate Tancredi, voi? E quei voi nascondendo

le pistole giocattolo sbottano: chiaro, di Tancredi sì; è di te che

non ci ricordiamo.

9


Il sesto irrompe in cucina e dice: cosa fissa quella mucca, eh?

Quella nel muccaforno? Il cameriere, accucciato sotto il tavolo

senza pantaloni, si giustifica: non ho preparato il buffet, ma

penso sia tutto vegetariano.

Il settimo sale al piano di sopra e dice a un’armatura medievale:

la sai tu la storia del bambino miliardario? L'armatura cigola

e fa una confessione: resti tra noi, stasera paga tutto lui.

L’ottavo fa un tuffo a bomba nella piscina di un ettometro

quadrato piena di schiuma e dice: a voi posso dirlo, quando mi

hanno spezzato il cuore ho avvertito la dislocazione degli organi.

Nessuno dei bagnanti ha il coraggio di aggiungere niente,

però tutti si palpano furtivamente il costato.

Il nono apre lo sgabuzzino, chiede scusa e dice: tanto vale

che ti racconti del nonno da taschino. Il tricheco un po’ ubriaco

nello sgabuzzino non sa se il nono ha detto nono o nonno.

Il decimo si fissa nello specchio a forma di Peter Sellers, rot -

to dal primo durante una crisi ipoglicemica, e dice: lo so, lo so,

invecchiare è questo e tutto il resto. La sua immagine riflessa

male sta per domandare: questo cosa? Ma cambia subito idea e

non dice niente.

L’undicesimo non sopporta il silenzio che segue e dopo mez -

zo secondo dice: non è meglio se invece di vecchiaia parliamo

di giovani? Uno col passamontagna fucsia e il piede di porco in

tinta entra a suo modo dalla finestra e stabilisce: solo se sono

delle canaglie, altrimenti no.

Il dodicesimo, che sta origliando dall’attigua stanza degli ologrammi,

dice: con questa storia delle canaglie quelli lì mi fanno

sentire come una macchia nera. Un ologramma strizza gli occhi

e apre la bocca: mi sembri più una macchia bianca, su fondo

bianco.

Il tredicesimo, stravaccato su una chaise longue très longue

che occupa tre stanze del quarto piano, dice a un gruppo piuttosto

dinamico: l’avete letto di quell’uomo che non si sedeva

mai? Ecco, sono io. Prima che qualcuno dei podisti improvvisati

possa ribattere qualcosa, aggiunge: un tempo.Adesso mi siedo,

come potete vedere.

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Il quattordicesimo, che non ha detto nemmeno una parola

fino a quel momento, trova uno dei ventotto megafoni in dotazione

alla villa, si inerpica sul tetto e urla: Piksiiiiii! Solo questo:

Piksiiiiii!

Tutti gli altri tredici che si trovano per caso nel giardino lo

fissano basiti a naso in su e poi ripetono in coro: Piksiiiiii! Ma

non essendo abituati a fare cori, lo ripetono ognuno a modo

suo. Non esattamente all’unisono. Poi nessuno dice più niente.

Mentre percorrono a ritroso il viale d’ingresso uno di loro

dice: prima mi ha fermato il padrone di casa. Vaneggiava di un

tale asserragliato dentro il suo organo. Forse gliel’ha scassato,

diceva. Chiedeva se è uno dei nostri.

Gli ha dislocato l’organo? Chiede l’ottavo, estremamente in -

teressato.

Non so, non ci ho capito molto. Parlava in maniera strana.

Magari è norvegese.

La Norvegia non esiste, interviene uno.

I Norvegesi sì, però, riprende il primo. È già la sesta festa che

organizza, in una settimana, pensate. Chi l’avrebbe detto?

Sesta festa, ripetono due o tre di loro.

Il padrone di casa li ferma. Sjette, dice gioviale.

Come? Chiedono i quattordici, ancora una volta non proprio

all’unisono.

Sjette. Ripete.

Sesta. Sjette. Capito? Sjette. Sesta. Sjette. Capito?

Certo, certo, rispondono tutti. E per un attimo, anche se non

proprio all’unisono, credono davvero di aver capito.

I sjette di pagina 8 sono disegnati da:

Andrea Giovagnoli / Bianca Sangalli / Camilla Pierri / Carola Pignati

Clara Poetsch / Edoardo Massa / Paola Sorrentino / Gianluca Patti

Gabriele Genova / Giovanna Caliari / Giovanni Cuccia / Sofia Campagna

Angela Rossi / Niccolò Castro Cedeno / Elanor Borgyan / Stefano Tesei

Rebecca Fritsche / Rita Fittipaldi / Sahar Doustar / Guido Casamichiela

Selene Torlino / Serena Mabilia / Silvia Benedetti / Nando Malato

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MINGHÌ E L’ORGANO SCASSATO

racconto di Cristiano Cavina

illustrazione di Dimitri Fogolin

Minghì era lo scemo del villaggio, anche se noi avremmo picchiato

chiunque avesse osato chiamarlo così.

Quando frequentavamo le elementari, entrava all’intervallo

nel cortile della scuola con il suo Ciao, tra il terrore delle maestre,

per far dare gas ai bambini.

A noi che eravamo chierichetti e lo conoscevamo me glio, ci

faceva anche sedere sul sellino. Minghì era un orfano ed era sta -

to cresciuto dalle Suore Orsoline del convento. Era praticamente

nato e cresciuto in parrocchia e faceva il campanaro già dai

tem pi del povero Don Elvis.

Mentre i suoi coetanei crescevano, si innamoravano, andavano

in guerra o si univano ai ribelli che combattevano in montagna

– alcuni tornando e alcuni no – il destino di Minghì fu quello

di rimanere un bambino di sei anni in un corpo da uomo.

Quando entrava a scuola con il suo motorino ne aveva già

settanta, ma gli occhi luccicavano ancora per la meraviglia del

mon do, che per lui era sempre nuovo.

L’unica vera stranezza, per noi chierichetti che lo conoscevamo

meglio, era quella fissa di andare a pulire e lucidare, dopo la

messa delle nove, il vecchio organo sul balconcino del coro, in

fondo alla chiesa.

L’organo era un affare vecchio come il cucco, con i tasti bian-

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chi consumati e quelli neri con lo smalto scheggiato. Aveva smes -

so di suonare da anni e anni, ancor prima che noi nascessimo.

Non suonava già più quando erano nati i nostri genitori. Solo i

vecchi ricordavano di averlo sentito, e pare che stonasse pure.

L’ultima volta che le sue note risuonarono nella navata, fu per i

funerali di Don Elvis, alla fine degli anni Quaranta.

Minghì non aveva interesse per la musica, così come non

ave va interesse per niente che non riguardasse lo stare con i

bambini o il suonare le campane. E anche quelle, gli piacevano

non per il suono, ma per il dondolarsi su e giù nel vecchio campanile

appeso alla fune della Vigliacca, la campana maggiore.

Nessuno di noi aveva idea del perché Minghì andasse sempre

a lucidare quell’organo scassato. Salire sul balconcino del

coro a noi era vietatissimo, perché le scale di legno erano pericolanti,

e forse ne eravamo un poco gelosi, perché a lui l’Arci

Menetti non diceva niente.

A volte per andare a pulirlo non passava da dentro la sagrestia,

ma faceva il giro con il secchio d’acqua e gli stracci da via

Santa Martina e i ragazzi grandi che erano al bar gli ridevano dietro

urlando cose sconce.

Minghì li salutava sorridendo, perché lui non sapeva distinguere

quando lo prendevano in giro o no. Per lui le persone era -

no tutte in buonafede.

Un giorno uno dei ragazzi grandi gli tirò dietro anche un pez -

zo di mortadella ribollito, che lo colpì in testa. Minghì rise. Noi

lo vedemmo dal cortiletto della parrocchia. Fu molto triste, perché

Minghì continuò a sorridere, mentre toglieva la mortadella

dal suo secchio d’acqua.

La domenica dopo, quando ci incontrammo prima della mes -

sa, appesi alle funi delle campane, cercammo di fargli capire che

era meglio lasciar perdere.

«Non serve pulire l’organo, Minghì», gli dicevamo. «Non funziona.»

Ma lui sorrideva.

«Funziona, funziona!» rispose, ma non si capiva se si riferiva

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a quello o alla fune della Vigliacca che lo faceva volare su e giù

per il campanile.

Una domenica decidemmo di nascondergli il secchio e gli

strac ci. Fu una cosa stupida. Credemmo di poter fare quello che

ci pareva senza dirgli niente, trattandolo alla fine come quei

ragazzi del bar che lo prendevano in giro. Trattandolo da scemo.

Quando Minghì non trovò il secchio cominciò a urlare e a

strillare. Era fuori dalla grazia di Dio. Rovesciò le panche della

cappella votiva, lanciò lontano il turibolo e prendeva a pugni i

muri. Nemmeno l’Arci Menetti riusciva a calmarlo: i suoi occhi

docili e stupiti di bambino avevano lasciato il posto a due tizzoni

ardenti, che bruciavano di rabbia. Parevano gli occhi di un

predatore.

Andammo di corsa al convento delle Orsoline e quando arrivarono,

nemmeno loro riuscirono a calmarlo, ed erano stupite e

impaurite perché mai aveva fatto così.

Iniziò a calmarsi solo dopo che dicemmo di avergli nascosto

il secchio, e ci mise comunque più di un’ora a tornare normale,

coccolato dalle sue Suorine.

In realtà quelle che lo avevano cresciuto da piccolo erano

morte, tranne Suor Irma la cuoca, ma lui pareva non accorgersene,

perché tutte vestite così di bianco, con quei veli in testa, a lui

dovevano sembrare la stessa persona. Erano le sue mamme.

Alla fine andò a pulire quel catorcio di organo, che lo lucidava

con così tanta foga che lo consumava. Avreb be fatto meno

danni a lasciargli prendere la polvere.

Ci prendemmo una sgridata colossale dall’Arci Menetti e

dalle Suore.

«Non fatelo mai più», dissero.

Cer cammo di spiegare che era per non farlo prendere in giro

dai ragazzi del bar e forse perché eravamo un po’ invidiosi che

lui potesse andare sul balconcino e noi no.

E fu allora che l’Arci Menetti ci spiegò tutto.

Raccontò che durante la guerra una colonna di carri armati

tedeschi e camion pieni di brutti ceffi della Brigata Nera si trovò

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a dover passare dal paese per salire a fare un rastrellamento a

sorpresa sui monti, dove combattevano i Ribelli della 36 a Gari -

baldi.

Arrivati sul piazzale della chiesa, l’ufficiale in comando tedesco

si mise in piedi sulla jeep e chiese a un ragazzo quale fosse

la strada più breve per salire sui monti.

Era un ragazzino di quattordici anni che pareva non aver ca -

pito la do manda, nonostante gli fosse rivolta in perfetto italiano.

Chia ma rono uno della Brigata Nera, che gli fece la stessa domanda

in dialetto. Il ragazzino restò ancora smarrito per qualche

tempo, e alla quarta volta che glielo ripeterono, parve capire e a

gesti, balbettando forse dallo spavento per via delle armi e dei

carri armati, gli rispose.

Li mandò giù dalla strada del fiume.

Era davvero la strada più breve per salire ai monti. Se la facevi

a piedi, però.

Al terzo tornante prima del ponte, la colonna si bloccò. I

carri armati non potevano passare. Ma a quel punto tutti i mezzi

erano già scesi lungo la ripida strada e ci misero cinque ore a ri -

tornare in retromarcia sul piazzale.

Nel frattempo, qualcuno era corso su ad avvertire i ribelli del -

la Garibaldi di andare a nascondersi da un’altra parte.

L’ufficiale tedesco era su tutte le furie, per non parlare dei

ceffi della Brigata Nera. Iniziarono a rastrellare il paese in cer ca

di quel ragazzino imbecille che gli aveva fatto sbagliare strada.

Volevano fucilarlo.

Il ragazzino era davvero imbecille, in un certo senso.

Era Minghì.

Appena l’Arci Menetti ci raccontò questo, fu tutto chiaro.

A salvare Minghì dal plotone di esecuzione fu Don Elvis, che

aveva seguito tutta la faccenda dalla finestra del suo studio in ca -

nonica.

Era riuscito a nasconderlo nell’unico posto in cui i tedeschi

e quelli della Brigata Nera non lo cercarono: dentro l’organo,

sot to la raggiera argentata delle can ne.

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Da quel giorno, l’aiutammo a portare il secchio e gli stracci,

fermandoci però sotto al balconcino.

Lassù in alto era giusto che ci salisse solo lui.

Questa è una storia vera. Minghì è esistito veramente. E sen -

za volerlo salvò davvero l’intera 36 a Brigata Garibaldi nel terribile

autunno del ‘44. L’ organo c’è ancora. Minghì non più. Ma

vive in noi bambini di Casola che lo abbiamo conosciuto.

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PIKSI, NERETVA E TUTTO IL RESTO

racconto di Ezio Azzollini

illustrazione di Marina Girardi

RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO

«Va bene, fine dei sogni. Però adesso ti tocca.»

Affacciato sul bordo dell’argine in cemento, Mate guardava

l’acqua del fiume quasi ferma, che se ne stava tranquilla a rimbalzare

l’ultimo sole, senza volerne sapere niente del loro dolore.

O magari era proprio come lui, simulava tranquillità e invece

aveva voglia di burrasca, di scrosciare e travolgere ogni cosa. Poi

tornò a fissare gli altri: «Primo, questo è il punto più alto, e non

era mai stato detto. E poi gli accordi non erano questi.»

Stravaccati sul cemento, Niko e Toni il biondo se ne stavano

a fumare le sigarette rubate ai grandi e ad attendere senza divertimento,

mentre dalle finestre e dalle porte sul lungofiume gracchiava

ancora la televisione italiana, ma più nessuno stava a sentirla.

Drago era in piedi, le gambe nude nei suoi pantaloncini

diventati troppo stretti nel giro d’una primavera, a dettare le

condizioni: «Quello che è detto è detto.»

Mate continuava a pensarci su. Guardava l’acqua della Nere -

tva, così serena quella stronza. Poi il cielo, blu sempre più scuro

in quell’inizio di sera senza vento e gonfio di tristezza. Ma che il

cielo li comprendesse o meno, che solidarizzasse o no con loro,

in piedi su quell’argine ci stava lui, e la giornata era stata già ab -

bastanza un disastro. Era sembrato che la partita non dovesse fi -

nire mai, poi un rigore dopo l’altro era finita. E non era finita

bene. E allora avevano rimpianto tutti quei minuti in cui pareva

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davvero dovesse continuare per sempre.

Gli occhi di Mate tornarono sull’acqua. «Questo fiume è una

delle pochissime cose che uniscono almeno due terre di questo

Paese tenuto insieme con lo sputo», diceva sempre suo padre.

Un’altra di quelle cose era la Nazionale, da je Brazil u Europi.

«Vergogna», bofonchiò Toni il biondo battagliando con la

sigaretta troppo grossa per le sue labbra da dodicenne. «Lì dentro

sono capaci di tuffarsi anche i mocciosi, e ci fanno pure il

bagno.»

Dall’altra parte della barriera, Mate lo guardò con aria truce.

«Primo, i mocciosi fanno il bagno fino al pomeriggio, e c’è la

luce, e l’acqua si vede, e si vede sotto, e tutto il resto. E poi, il

bagno se lo fanno più in là, vicino alla darsena, e per metà tem -

po se ne stanno aggrappati al molo. Bella forza.»

«Solo che il punto era proprio questo. Mi butto vestito dalla

barriera davanti al bar di sotto, l’hai detto tu, e quel che è

detto è detto.»

«Sì, ma non ho mai detto di sera. Non ho mai detto stasera.»

«Però Ivo il pazzo il rigore a Maradona l’ha preso, e l’ha preso

stasera. Se non ti vuoi buttare adesso va bene, a me non cambia

niente, mica mi diverto. La serata è una merda uguale. E Niko

l’ho beccato pure a piangere, prima.»

«Tua madre piange.»

«Ma sono cazzi tuoi quando sapranno tutti che non l’hai fat -

to». Drago si voltò a puntare gli altri due, cercando rinforzi.

«Ora glielo para, hai detto», rinforzò Toni il biondo. «Se para

il rigore a Maradona, giuro che mi butto vestito davanti al

bar di sotto.»

«Ma avevo detto pure se passiamo, e tutto il resto.»

«Io non l’ho sentito», rispose Drago.

«Nemmeno io.»

Mate rimase a fare i conti con la sensazione di essere stato ti -

rato in mezzo. Poteva farlo, oppure non farlo, come Ivo il paz -

zo, che poteva scegliere se andare a destra oppure a sinistra, e

Ivković davanti aveva Maradona, mica l’acqua della Neretva.

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«Mi sa che lo fa», sussurrò Toni il biondo, e Niko finalmente

alzò lo sguardo dalla terra, dalle cicche schiacciate sul cemento

e dai suoi pensieri neri.

«Vi cago in bocca», strillò Mate, prendendo la rincorsa e spaventando

gli uccelli nelle prime fasi del sonno, prima del salto e

dello scroscio.

«Non tornerà mai più. Eravamo la Jugoslavia più forte di sempre.»

Rannicchiato nei vestiti zuppi, a gambe intrecciate per terra,

Mate considerò che il vero potere della tristezza era coprire

ogni altra sensazione, persino la puntura del freddo dell’imbrunire,

fradicio e senza speranza.

«Non tornerà mai più, ve lo dico io». Niko sembrava l’ultimo

a voler darsi pace, e del resto lo aveva detto per tutto quel tem -

po: quella era stata la grande chiamata, doveva esserlo per forza.

All’inizio di tutto non avevano fatto che parlare dei mondiali in

Italia e dell’Italia che era lì di fronte, con Toni il biondo a ripetere

che per la finale forse avrebbero fatto fuochi d’artificio

così alti che li avrebbero visti fino a lì, e non era servito a nulla

che gli rispondessero ogni volta che fuochi così alti non esistono.

E Niko ci aveva pensato per tutti i centoventi minuti, l’aveva

sentita per tutto il tempo quella fiducia, perché se sei capace

di fermare i campioni del mondo, sotto di un uomo dal pri -

mo tempo, non potrà andare che in un modo. Deve per forza

andare in quel modo.

«Bisogna dire che quella era l’Argentina», rimuginava Toni il

biondo. «Lo sapevamo che era difficile. Certo, uscire pareggiando...»

«Primo, doveva mettere molto prima Savićević. E poi non

doveva togliere Sušić.»

«E quell’arbitro di merda.»

«Ormai non conta perché. Conta solo che non tornerà mai

più», ripeteva piano Niko a testa bassa.

«In dieci con l’Argentina. Portata ai rigori. È un’uscita con

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ono re», disse Toni il biondo. «Dovrebbero decidere che nelle partite

in cui si esce senza perdere non si venga del tutto eliminati.»

Drago tirò su uno scaracchio, poi sputò dentro l’acqua.

«Sono tutte stronzate, l’onore, non avere perso. Dell’onore

non importa a nessuno, biondo.»

«Su questo ha ragione Drago. Sentivate la canzone prima dei

collegamenti, To be number one, faceva. È dei numeri uno che

ci si ricorda. Nessuno si ricorda dei numeri due, tre, e tutto il

resto.»

«E che numero è, chi esce ai quarti di finale ai rigori?»

«Beh, ai quarti sono otto squadre. Dite che finiamo ottavi?»

«Abbiamo pareggiato, però. Qualcuno farà peggio di noi, no?»

«Non funziona così, cazzo di asini.»

«Ve lo dico io come funziona», troncò Niko. «Funziona che

abbiamo fermato i campioni del mondo rimanendo in dieci per

un’ora e mezza, abbiamo parato un rigore a Maradona, e alla fine

siamo fuori.»

Ai lati della Neretva i grilli riempivano l’aria, mentre sul lungofiume

anche gli ultimi vecchi avevano spento le televisioni,

persuasi che nessuno avrebbe ripreso il collegamento strillando

che il risultato era cambiato, che era stato uno scherzo, la Jugo -

slavia era passata in semifinale e avrebbe incontrato l’Italia. Nien -

te rettifiche, da Firenze era davvero tutto.

«Poi proprio Piksi, capite? Sulla traversa, quella puttana.»

«Almeno Stojković non se lo è fatto parare. Dovrebbero decidere

che ai rigori o il portiere para, o si calcia di nuovo. Voglio

dire, anche la traversa fa parte della porta.»

«Biondo, tu sei senza speranza.»

«Guarda che bello scherzo ci ha fatto, tutta questa speranza.

Poi io neanche ci volevo credere. L’anno buono, l’anno buono,

sono mesi che andavate avanti così. E ci sono cascato. Le cose

impossibili le chiamano così perché non sono possibili, e basta.

Razza di stronzi.»

Mate pensava al vecchio dentro al bar di sopra che ogni sera

gli passava il giornale quando lo aveva finito. Il vecchio ripeteva

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sempre con gli occhi sottili e l’aria esperta che ogni partita, qual -

siasi partita, ti insegna qualcosa. Mate sentiva solo un grande

vuoto, e non riusciva a vedere che cosa quella partita gli avesse

insegnato, a parte come si sta con il cuore strappato dal pet to.

O che cosa ci fosse mai da imparare dal dover piangere an che

se Ivković para un rigore a Maradona. Forse che in ogni circostanza

le persone possono scegliere se andare a destra op pu re

a sinistra, e poi succede che anche quando scegli di andare dal

lato giusto e pari un rigore al migliore del mondo, alla vita non

gliene importa proprio nulla. Che può succedere che indipendentemente

da quello che fai vada sempre come deve andare, e

tutto il resto.

«Era la verità. Ve l’ho detto, non c’è mai stata una Jugoslavia

così, da fare paura a tutti. Li hai visti gli argentini alla fine, cantare

e ballare, come se fossero passati contro uno squadrone. Per -

ché la verità è che noi eravamo uno squadrone.»

«Noi siamo uno squadrone, Niko.»

«La semifinale però la giocano gli altri.»

«Vorrà dire che agli Europei saremo ancora più incazzati.»

«Gli Europei sono tra due anni, Mate. Ora chi li aspetta, due

anni?»

«Dov’è che li fanno?»

«I prossimi Europei sono in Svezia.»

«È anche lontana. Se ci fanno i fuochi d’artificio non riusciamo

neanche a vederli.»

«Biondo, sei davvero una testa di cazzo. Ancora con questa

storia. Fuochi d’artificio così alti non esistono, non è possibile.»

«Sì. E se le cose impossibili le chiamano così è perché non so -

no possibili.»

«Ecco.»

«Però ci sarà pure Boban, torna dalla squalifica. No, pensa teci

un attimo. Siamo usciti contro l’Argentina campione del mondo

senza perdere. Questo significa che in Svezia possiamo essere

campioni d’Europa. Nessuna squadra europea può dire di averci

buttati fuori. E chi lo ha fatto, lo ha fatto senza neanche bat-

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terci. Non abbiamo nemmeno messo un difensore, quando sia -

mo rimasti in dieci. Siamo la Jugoslavia più forte di sempre. Chia -

ro, bisognerà aspettare due anni, e tutto il resto.»

Poi Mate tornò a guardare il fiume, come se volesse vedere

sopra il pelo dell’acqua tutte le cose che possono starci dentro

due anni. La licenza media alla fine l’avrebbe presa. La Jugoslavia

avrebbe giocato ancora meglio, forse avrebbero finito la superstrada

dietro i colli. La fabbrica avrebbe riaperto come dicevano,

non c’era verso di fare diversamente, e suo padre e suo zio sarebbero

tornati a lavorare. Ciò che era certo è che in quel tempo

avrebbe capito tutto quel mucchio di cose che non capiva.

«Due anni non passeranno mai», mugugnò Toni il biondo, tormentando

l’ultima sigaretta della sera.

«Nel 1992 avrò quattordici anni. Porterò i capelli lunghi.»

«Sai che spettacolo, fai schifo già così.»

«Io tra due estati avrò fatto l’amore», decise Drago. «E anche

un bel po’. Niko, se vuoi poi te lo insegno.»

«Me lo insegna già tua madre.»

«Sapete cosa penso? Che è come dice il vecchio del bar di so -

pra, e da questa partita io ho capito qualcosa. Ed è che questa è

davvero la Jugoslavia più forte di sempre, e può vincere gli Euro -

pei. Sul serio.»

«Mi sa che ti si è ghiacciato il cervello, in quel fiume.»

Dentro al bar di sotto qualcuno aveva alzato il gomito, e gli

schiamazzi zittirono i grilli per qualche momento. Poi i grilli ri -

presero subito a dominare.

«Vi giuro che tra due anni in Svezia noi vinciamo. E io mi but -

to davanti al bar di sotto nella Neretva, e lo faccio nudo.»

Era la fine di giugno del 1990, e delle parole di Mate, di ogni

parola di Mate, quando fu il 1992 non si ricordava più nessuno.

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IL NONNO DA TASCHINO

racconto di Alessio Pollutri

illustrazione di Alberto Ipsilanti

Ti accorgi di invecchiare quando nel cassetto ci sono i ricordi

invece dei sogni.

Nonno Giovanni era un nonno da taschino e quando lo

lasciavi solo cadeva nel cassetto e non lo trovavi più.

Mamma gli dava la carica ogni mattina, lo lucidava e lo metteva

a sedere. Lui prendeva il suo romanzo rosa, come se non

l’avesse mai fatto, e leggeva a più non posso. Era lo stesso libro

da diversi anni e sfogliava le pagine leccandosi il dito. Poi si ad -

dormentava e capivi che era finita la carica.

Mamma doveva portarlo sempre con sé, altrimenti lui usciva

e andava a comprare un pollo allo spiedo. Ogni giorno.

Mamma non ne poteva più di mangiare pollo, io invece ero

felice perché mi piacevano molto le ali e la pelle bruciacchiata.

Nonostante fosse un nonno da taschino aveva una cameretta

tutta sua, spesso si svegliava e diceva che c’era acqua su tutte

le pareti.

Un giorno mi sono svegliata per andare al bagno e lui era

davanti alla porta di casa. Indossava tante giacche e in ogni tasca

c’era un oggetto da salvare. Era immobile e diceva che si stava

nascondendo dai soldati. Io pensavo che volesse giocare e allo-

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ra sono scesa con lui portando tutto ciò che sono riuscita a pren -

dere nella mia stanza.

Quando nonno mangiava si puliva la bocca e dopo qualche

minuto con il fazzoletto sporco si puliva anche gli occhi. Io ridevo

e mamma andava da lui per aiutarlo.

Un giorno lei si è distratta e lui ha mangiato il kiwi con la buc -

cia.Io e i miei fratelli ci siamo messi le mani sulla bocca per non

ridere fortissimo perché mamma non voleva che ci prendessimo

gioco del nonno.

Una cosa che mi piaceva fare con lui era andare a prendere

le lumache subito dopo la pioggia. Diceva che dovevamo fare

alla svelta e allora quando pioveva mi mettevo vicino alla finestra

e aspettavo che smettesse.

Un giorno si è bevuto un bicchiere di detersivo. Lo hanno

por tato di corsa a fare la lavanda gastrica e mia sorella mi ha raccontato

che durante tutto il tragitto gli sono uscite bolle di sapone

dalla bocca.

Nonno è caduto nel cassetto il giorno in cui è morta nonna.

Da quel giorno è apparso un cane nero fuori dalla porta e,

quando nonno usciva per comprare il pollo, il cane era sempre

con lui. Mamma diceva che era lo spirito della nonna sceso dal

cielo per fargli compagnia, io invece credo che fosse solo un

cane a cui piaceva tanto il pollo allo spiedo.

Un giorno mamma è uscita per qualche ora e me lo ha affidato.

Non entrava nel mio taschino e allora mi sono seduta al

suo fianco per lucidarlo.

Gli ho pulito gli occhiali e l’ho aiutato a mettere le scarpe

usando un calzascarpe lunghissimo.

Nonno mi ha ringraziato dicendo che ero un bravo giovanotto.

Non ha mai capito che sono una ragazza.

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Quando nonno è morto era sulla sua sedia e aveva il libro

rosa adagiato sul petto. Sembrava che dormisse e che gli fosse

semplicemente finita la carica.

Ancora adesso quando prepariamo la tavola per il pranzo ci

capita di trovare delle tovaglie piene di macchie, tutte nello stesso

punto. Nessuno dice nulla ma al solo pensiero mi scappa una

risata e metto una mano nel taschino per dare una lucidata a

nonno Giovanni.

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L’UOMO CHE NON SI SEDEVA MAI

racconto di Umberto Pessina

illustrazione di Marco De Masi

Negli anni della contestazione giovanile c’ero anch’io.

Il sabato pomeriggio sventolavo la bandiera rossa in piazza.

Andavo in manifestazione perché c’era la Marina. Avrei voluto

conoscerla e farci l’amore, ma ero così impedito che non son

mai riuscito neppure a parlarle.

La domenica pomeriggio invece sventolavo la bandiera rossonera

a San Siro.

Rivera era un dio, ma io amavo Baslètta Lodetti perché correva

come una bestia. Sembrava la locomotiva di Guccini: una

bomba proletaria lanciata contro l’ingiustizia.

Per pagarmi gli studi, la domenica mattina suonavo l’organo

della chiesa del paese. Per carità, era un Tornaghi del 1850, gran

bello strumento, però era come sventolare la bandiera del Vati -

cano. Provavo un falso disagio ideologico, un senso di piacevole

carenza rivoluzionaria: in fondo ero e resto un anarchico francescano.Tra

un Kyrie di Rossini e un Gloria del Perosi, il mio sguardo

cadeva sui fedeli, attratto da un bell’uomo.

Era un tipo curioso: stava sempre in piedi.

Non si sedeva neppure al sermone del prete.

Alto e secco come un chiodo, era signorile come le Torri del

Vajolet.

Portava una barba candida e qualche capello s’aggrappava

con fatica alla sua testa.

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Elegante, trascinava la bellezza dei suoi novant’anni.

Un giorno di Pasqua, dopo Messa, il tempio era vuoto.

Mi sentivo forte come un toro in erezione.

Iniziai a suonare il maestoso inno dell’Unione Sovietica, il

più bello del mondo.

Dalla navata centrale sentii la stessa melodia. Proveniva da

una voce affaticata e flebile. Il suono si avvicinava sempre più.

Era lui: l’uomo che non si sedeva mai.

Il vecchio si sistemò al mio fianco, cantando commosso e

sempre in piedi.

Vidi i suoi occhi per la prima volta. Raccontavano poco. Le

sopracciglia erano folte e arrotolate come zucchero filato e nel -

la sua barba si annidavano semi d’ortica pronti a far male.

La bocca era piccola e tagliente: un rasoio con la lama rivolta

sia all’esterno, sia all’interno.

Non aveva rughe sulla fronte, solo chiazze rossastre che si

muovevano in sincrono con gli occhi. Il naso carnoso aveva na -

rici pallide di marmo bianco, morbide di burro, bagnate di prosecco.

Era un naso artistico, un’opera di Rodin.

Ma quei semi d’ortica facevano paura.

«Piacere, sono il Colonnello Gaetano Maggi, ma mi chiami

pu re Colonnello Gaetano Maggi.»

«Scusi?»

Non mi diede il tempo di capire e ciò m’irritò.

Iniziò a parlare con una voce ovale e profonda che avrebbe

affascinato Marina.

Che bastardo.

Le labbra si muovevano come mulinelli lacustri e i sobbalzi

della barba spargevano i semi d’ortica.

Mi angosciava, ma gli sorrisi.

«Ho fatto tutta la campagna di Russia, compresa la ritirata

del ‘43. Nella battaglia di Nikolajewka, sotto il ponte, il prete

benediva chi andava a morire. Volevano costruire un muro di

car ne che ci permettesse di fuggire dalle mitragliatrici. Usci va -

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no allo scoperto e, con la lucidità dell’amore infinito, si facevano

uccidere. Cascavano nell’istante preciso in cui i loro corpi

creavano un incastro con quelli di chi li aveva preceduti. In un

giorno, vidi cadere cinquemila alpini, cinquemila uomini, cinquemila

mattoni.

In quel porco mondo, la neve era rosso granata e i cadaveri

squarciavano anche gli occhi dei soldati russi.

Noi si camminava a meno quaranta gradi mentre la tormenta

gelata pugnalava l’umanità.

Ogni passo era un cazzotto nello stomaco.

Il ghiaccio, innervato da minuscole e infinite spaccature,

sprangava il sangue nelle vene.

La fame era bastarda. Labbra e palato si riempivano di piaghe:

anche cibarsi era una selvaggia atrocità.

Salivano al cielo le nostre bestemmie e Dio, lì, in quel mo -

mento, amava quelle preghiere sante, pure e piene di voglia di

vivere.

Qualcuno viveva, cercando la morte bianca: si sedeva e si

sdraiava sulla neve. Poi si addormentava e moriva assiderato,

senza soffrire. Ma noi sapevamo che continuava la propria esistenza

lassù, nel banchetto celeste, imprecando in faccia al

Padre Eterno, chiedendogli conto dell’infinita ignavia cagata su

questa terra maledetta».

D’improvviso il Maggi tacque, guardò l’orologio e si girò per

guadagnare l’uscita.

Mi resi conto che non avrei più avuto alcun timore di lui.

Poteva anche diventare simpatico, forse.

Il vecchio uscì dalla chiesa. In fretta sistemai gli spartiti, chiu -

si l’organo, indossai l’eskimo e lo raggiunsi sul sagrato.

Ci dirigemmo verso la fermata dell’autobus.

«In Russia, c’era anche Tonino Biffi. Un giorno, per dirmi due

parole, mi viene vicino, si attacca alla mia testa per parlarmi in

un orecchio e superare il rumore del vento. Mi sposta un poco

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la testa. Un movimento minimo e la pallottola, invece di colpire

me, uccide lui.

E il Gabrielli? Voleva tornare per vedere la sua figliola, appena

nata. Mostrava a tutti la fotografia della bambina inviata dalla

moglie. Al ritorno seppe che la piccola era morta.

E io pensavo a mia moglie e a mio figlio di tre anni: erano vi -

vi? Ci saremmo incontrati ancora?

La morte non si licenzia, ma è peggio il dolore perché trova

sempre da lavorare nella nostra fottuta vita!»

Esitando un attimo, si appoggiò al bastone per salire sul pullman.

Non mi frenai: «Maggi, ma perché sta sempre in piedi?

Sono anni che la guardo e non si è mai seduto.»

«E poi il Tempini? Era un ingordo. In tempo di pace, mangiava

alle sei, alle otto, alle dieci. Rubava il rancio, poi veniva a men -

sa e alla fine usciva a pranzare in una locanda.

Durante la ritirata, non mangiavo da due giorni.

Bestemmiavo mia madre per avermi dato la vita e la pregavo

perché mi facesse tornare.

Le forze andavano spegnendosi.

Un urlo lontano: Gaetano, Gaetano, vieni qui. Vado e vedo

un uomo con in mano una coscia di pollo: era il Tempini che

l’aveva conservata per me.

Una prova d’amicizia grandiosa!»

L’autobus s’arrestò.

Scendemmo vicino alla stazione di Monza.

Ansimante, il Maggi puntò dritto verso uno stupido, altissimo

prisma a forma d’alveare: un palazzo residenziale.

Lo seguivo, ma non riuscivo più ad ascoltarlo.

Se non m’avesse fatto pena, me ne sarei andato infastidito.

Lui parlava, parlava, ma parlava solo per ascoltarsi e non mi

diceva neppure perché se ne stava sempre in piedi.

Bofonchiando, tirò fuori un mazzo di chiavi. Aprì l’ingresso

principale, s’avvicinò all’ascensore e mi fece segno di salire. Ven -

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tesimo piano.

C’era un silenzio spaventoso. Il vecchio capiva che ero seccato.

Uscimmo sul pianerottolo. Il Maggi aveva appena suonato

alla porta di Anna Ivanova. Ci aprì una donna bionda e algida

con un seno prosperoso e due spade come occhi.

Appena vide il vecchio, lo abbracciò con passione leonina,

sfoderando un sorriso da sonetto dell’Aretino.

Rimasi sbalordito da quell’uomo che scaldava il gelo russo

con la sua commozione per la moglie e ora, in Italia, sbavava per

la sua giovenca siberiana. Non riuscivo a sopportare quest’ipocrisia

da inquadrato benestante.

Stavo già uscendo, quando il tuono del Maggi risuonò nell’aria:

«Giovanotto, torni qui e si sieda.»

Mi assalì una gastroturbolenza così forte da scaraventarmi

sulla poltrona del salotto di Anna Ivanova.

Seduto.

Sempre in piedi, il Maggi si tolse le scarpe, si sfilò i pantaloni

e calò le mutande a terra.

Non era un grande spettacolo, ma poi si girò.

E fu allora che Anna parlò: «Durante la ritirata degli alpini in

Russia, ero una bambina. Abitavo a Rossoch.

Un pomeriggio ho visto un’ombra nella neve.

Era lui che stava morendo assiderato.

L’ho portato nell’isba e l’ho messo vicino al fuoco.

Piano piano s’è ripreso, ma non avevamo nulla di cui cibarci,

quando lui ebbe un’idea bizzarra.»

Senza mutande, il Maggi tagliò corto: «Avevo il culo congelato

e irrecuperabile. Ho deciso di tagliarlo e mangiarlo con An na.

È doloroso perderlo, il culo, ma sono ancora qui a raccontarlo

e ho portato anche lei in Italia.

Ora, bel pirla, non mi rompere con le tue ovvietà piccolo

borghesi e togliti dalle palle, capitalista!»

Era proprio Pasqua.

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L’ORO DI NAPOLI

racconto di Angelo Mozzillo

illustrazione di Andrea De Luca

Giovanni Chianchiere sedeva col volto sui pugni e i pugni

sul bancone.

Il barista lo guardava, afflitto. Giovanni con movimenti ondulatori

faceva scricchiolare il suo sgabello. Era infastidito dallo

sgocciolare incessante del rubinetto accanto ai distillatori, che

andava ad aggiungersi al rumore bianco della televisione priva

di segnale. Che bar di merda, sbottò.

Ne uscì.

Erano le due di pomeriggio.

Chianchiere suonò il campanello di Antonio Solachianello e

ciondolò nervoso nell’attesa. Risuonò. Guardò l’ora. Riciondolò.

Antonio apparve alla porta in canottiera e infradito. Non eb -

be il tempo di accorgersi di Giovanni che questo gli chiese, l’ho

prestato a te il libro L’oro di Napoli?

Ma perché, domandò Antonio a sua volta. Tu leggi i libri?

Era già nervoso, Giovanni, e il fatto d’aver ricevuto una do -

manda al posto di una risposta lo agitava ancora di più. No che

non li leggo.

E io nemmeno.

Si morse le labbra, Giovanni. E prese a pensare.

Pensava, Giovanni. E allora Antonio capì che c’era qualcosa.

Si preoccupò. Ma perché, domandò di nuovo.

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Antonio Solachianiello e Giovanni Chianchiere scorrazzarono

ansiosi dall’amico Luigi Battilamiere, consumando le suole delle

scarpe e la pazienza sui sampietrini degli acciaccati viottoli.

Grasso, calvo, stupito nel trovare i due sulla porta, e con un

occhio rosso per esserselo da poco stropicciato, Luigi aprì il

portoncino.

Il libro L’oro di Napoli, dissero i due compari. Ce l’hai tu?

No, perché? Che è successo?

Luigi era un tipo sveglio, pur non avendo fatto le scuole. Capì

subito la natura del problema e saggiamente esternò: Umma don -

namìa! Poi aggiunse: il tempo che mi vesto e vengo.

Sul muro esterno di una piccola casa schiacciata tra altre due

case identiche era appeso un pezzo di specchio sfregiato. Al -

l’interno di quello specchio si rifletteva un vecchio coltellaccio

che con colpi cocciuti tagliava i peli dalle eleganti guance avvizzite

di Pasqualino Sanzaro.

Aveva ancora mezzo viso insaponato dalla schiuma da barba

quando fu sorpreso dai tre compaesani. Li guardò qualche attimo

da sotto le sue folte sopracciglia, dopodiché tornò a concentrarsi

sullo specchio e sui suoi peli. Non mancando, però, di salutare.

Buongiorno ai signori. Che cosa vi serve, chiese fra due colpi

di lama.

Un libro, rispose prontamente Giovanni.

L’oro di Napoli, precisò Antonio. Ce l’hai tu?

Pasqualino era uomo d’onore, e una domanda così accusatoria

gli arrivò a fendere il petto come una schioppettata.

Non cominciamo! Io quel libro non me lo sono mai preso!

Poi, rivolgendosi a Giovanni, il più cupo dei tre: se ti ricordi

mi strappai solo mezza paginetta per segnare il tuo numero di

telefonino. Ma libri, qua, non ce ne stanno.

Giovanni Chianchiere era sempre più ansioso. Guardò l’orologio

taroccato di marca. Fu un insieme di cose: in quell’orario

in cui la canicola tardo primaverile rende estenuante ogni minimo

sforzo; a quell’ora che, per la sua natura violenta, da queste

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parti viene definita da tempo immemore controra; proprio in

quel lasso di tempo, il corso acciottolato del paese divenne un

formicare di paesani che bussavano frenetici alle varie porte in

cerca di quella stramaledetta raccolta di racconti.

Inutile nascondere che la cosa non mancò di scatenare equivoci

e incomprensioni:

Ciro Masterascio, alla domanda ce l’hai tu L’oro di Napoli

rispose irritato di avere sempre lavorato onestamente e di non

tenere oro in casa sua;

Saverio Stagnaro, agli uomini che attendevano all’ingresso,

portò il dizionario che il figlio adoperava per i compiti chiedendo

se quel libro poteva andare bene lo stesso;

Carminuccio Impagliasegge, anche lui interessatosi alla ricerca,

andava in giro chiedendo il libro Gente di Napoli, troppo

tardi corretto in Loro di Napoli.

Finalmente uno dei ricercatori disperati arrivò alle porte del

caseggiato di Ciccio Giurnalajo, l’intellettuale dell’enorme comitiva.

Alla domanda, stavolta precisa, hai tu il libro L’oro di Na -

poli, Ciccio inforcò gli occhiali per mantenere il peso della di -

scussione. Poi, con autorevolezza, rispose: sì, ce l’ho io.

Le pantofole di Ciccio grattavano il pavimento di graniglia;

attraversarono tutta la lunghezza del salotto fino a fermarsi ac -

canto a un volume, lì a terra, il cui titolo era stato – in molte

varianti – più e più volte nominato in paese nell’ultima mezz’ora.

Era L’oro di Napoli di Marotta.

Faceva da supporto a un piede tranciato della vecchia poltrona

di casa Giurnalajo.

Lo avevano trovato. Ed erano ancora in tempo.

Il casolare di Rocco Putecaro pareva posato a caso in un pez -

zo di terra discretamente ampio, nel quale si decomponevano

inermi le carcasse di vecchie biciclette arrugginite e impolvera-

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ti tubi da giardino. Il vecchio cane Armando si consolava accovacciato

sotto l’ombra della quercia, con la convinzione che

niente e nessuno potesse mai schiodarlo da lì. Una piccola statua

della Madonna di Pompei era talmente coperta d’edera che

se avesse potuto piangere lo avrebbe fatto. Le galline che zampettavano

fra l’erba furono le prime ad accorgersi dello stuolo

di paesani che conquistava il cortile, quindi saltarono via verso

il retro, ricordandosi ancora una volta di non poter volare.

Non ci volle molto perché quel prato incolto fosse interamente

occupato da Giovanni Chianchiere, Ciccio Giurnalajo, Luigi

Battilamiere e tutti gli altri uomini del paese. Il vecchio cane

Armando, solerte, diede un paio di svogliate urla. Nessuno lo considerò.

Tornò ad accovacciarsi pensando: il mio lavoro l’ho fatto.

Quando Rocco aprì il cancelletto col pigiama a righe e il

telecomando fra le mani, la sua prima reazione fu di spavento

nel vedere una folla così numerosa. La seconda, di reazione, fu la

presa di coscienza.

Ti abbiamo portato il libro che ci hai prestato, esordì Gio van -

ni Chianchiere.

Gente di Napoli, urlò la vecchia voce di Carminuccio Im -

pagliasegge dal fondo. Loro di Napoli, corressero in coro altri

signori.

Rocco Putecaro si prese il libro che gli avevano portato, ma

era stizzito. Prese il libro, ma non ringraziò. Prese il libro, e quel

libro era strappato, ammaccato, rovinato e, ne era sicuro, mai

letto. Ci fu qualche istante di silenzio, rotto da Pasqualino Sanzaro

che, sventolandosi con un pezzo di carta strappato dalle stesse

pagine appena restituite, domandò, che facciamo, entriamo?

Ci mise un po’ Rocco a rispondere, guardando le facce madide

dei vari ospiti come a volerli contare uno a uno. Ma fu facile

perdere il conto, al che fece un secco cenno col capo. Voleva

dire sì.

Esplose un urlo di gioia.

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Poco alla volta tutti entrano nel casolare sotto gli occhi schifati

di Rocco.

Pasqualino, fresco di rasatura, entrando finse di avere l’illuminazione:

ah, ma io m’ero dimenticato! Tu hai il canale per vedere

le partite di pallone!

Uà, e che fortuna, gli fece da spalla Antonio Solachianiello,

Sono quasi le tre, e tra un po’ comincia il Napoli!

Mentre si recitava questa insulsa scenetta, continuò inarrestabile

il flusso di gente che si riversava in casa. Gli ultimi indossavano

persino sciarpe azzurre e cappellini col disegno del ciuccio,

lo stemma della squadra; il vecchio Carminuccio per l’occasione

aveva portato la sua storica maglietta di Careca.

Senti Rocco, domandò qualcuno da dentro, non è che avresti

qualcosa da bere?

Bravo, sì, gli fece eco qualcun altro, ci vorrebbe un poco di

Falanghina!

Per me una birra, se posso scegliere, commentò un altro.

Ce l’hai il limoncello, domandò un ultimo.

Rocco era al limite dell’indignazione. Ma vittima del dovere

dell’ospitalità, gridò alla moglie: Maria! Prepara qualche caffè! E

si chiuse la porta alle spalle. Con tanta di quella forza da svegliare

di nuovo il vecchio Armando, che ringhiò un altro paio di vol -

te per sicurezza, probabilmente non aprendo nemmeno gli oc -

chi. Però non ci mise molto ad addormentarsi di nuovo, cullato

dai cantilenanti cori da stadio che venivano fuori dalle mura as -

sediate di casa Putecaro.

Perse due a uno in casa, il Napoli. Ma ancora oggi, in paese,

si racconta con commozione di quella festa; proprio in questi

giorni Saverio Stagnaro ha sorpreso il suo secondogenito – nove

anni – a sfogliare le pagine di un dizionario d’italiano che adopera

per fare i compiti. Quel dizionario è stato il pretesto per

raccontare al figlio di quella volta in cui Rocco Putecaro invitò

tutto il paese a vedere la partita a casa sua.

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INVECCHIARE

racconto di Luca Iori

illustrazione di Luca Fabbri

Mi hanno detto una volta che diventare vecchi è una cosa

che succede poco a poco, un giorno dopo l’altro, ma io so che

non è vero. L’ho vista, mia nonna, che faceva da mangiare per

venti, trenta persone, parlava con tutti e non si dimenticava mai

niente; ti guardava con quegli occhi chiari che adesso sono an -

che i miei. Poi un giorno è caduta, si è rotta un piede e ha cominciato

a stare in casa; a parlare poco, a dire tre o quattro volte le

stesse cose e a prendere l’ascensore per andare dal garage alla

casa, anche se ci sono da fare soltanto due rampe di scale. Allora

ho pensato che diventare vecchi è come cadere: ti succede un

giorno mentre sei distratto e dopo non sarai mai più lo stesso.

Ti toccherà prendere l’ascensore, se ce l’hai.

Un giorno l’ascensore ha preso mia nonna, l’ha mangiata e

non voleva lasciarla andare fuori: «Nonna, guarda in alto, c’è un

numero di telefono». «No, non c’è» diceva, e io lo sapevo che

c’era, non lo vede, pensavo, ma poi mi è venuto in mente che

forse lo vedeva, forse voleva stare là in un angolo, senza più

niente da fare e l’ho pensato anche dopo, quando mio padre ha

tirato giù e su l’interruttore generale: l’ascensore ha dato come

un colpo di tosse e si è aperto. Mia nonna è uscita ma non sembrava

contenta e neanche spaventata, sembrava triste per l’avventura

che era finita, come tutto il resto.

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MACCHIA NERA

racconto di Giovanni Venanzi

illustrazione di Giulia Pastorino

Come se, oltre che calciarlo, ci fosse altro da fare, con un pallone.

Non ci riesco con Silvio, si diceva sua madre mentre lui inseguiva

il pallone sul piazzale davanti alla chiesa.

Giorno della comunione, assieme cresima e comunione, as -

sieme al fratello più grande, assieme per risparmiare qualcosa

sul rinfresco, assieme per farla essere più festa.

In chiesa, i pacchi alimentari e le indulgenze plenarie; nella

sezione del Pci, il faccione di Stalin, sopra al calciobalilla; a casa,

la domenica, le fettuccine e il pollo arrosto con patate.

«Silvio, vieni qui!»

Era il tono con cui non si discuteva. Silvio si ricompose in

fret ta; doveva aver sbagliato qualcosa, per un urlaccio così, e sul

piazzale della chiesa.

Si avvicinò comunque tranquillo. Già sapeva che lei non gli

riusciva a dare “lo sguardo normativo del padre”, la cui mancanza,

con malcelato orgoglio, l’analista di Silvio avrebbe denunciato

una quarantina di anni dopo. Sua madre e lui lo sapevano da

allora, ed era così, né bene né male.

Lei si accosciò davanti a Silvio per guardarlo in faccia, le mani

sulle spalle, scuotendolo; poi sistemò camicia, cravattina dorata

con l’elastico, e fazzoletto bianco nel taschino della giacca.

«Vergognati: guarda come ti sei ridotto! Giocare a pallone col

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vestito della comunione!»

Mentre completava l’ispezione verso il basso, un no, stretto

tra i denti.

Le scarpe bianche di Silvio. Gli strappò dal piede la sinistra,

autrice di un tiro risolutivo solo pochi minuti prima e che si

distingueva, adesso, per una macchia di catrame sulla punta.

Catrame che il parroco aveva ben pensato di far mettere sul

piazzale per il giorno della prima comunione.

E che ne sapeva Silvio, e chi ci pensava al catrame, alle scarpe

bianche e alla comunione.

«Guarda, guarda...» gridava piano e piangeva mamma, mentre

sfregava la scarpa con il fazzoletto di pizzo, bianco anche lui; lo

portava alle labbra, lo bagnava di saliva e sfregava la scarpa, poi

alle labbra, bagnava e sfregava. Silvio la guardava, il tallone sinistro

sulla punta del piede destro. Gli dispiaceva che mam ma

piangesse.

Ma se c’è un pallone bisogna calciarlo, e non capiva quello

che sentiva intorno, ‘a vedova non ce riesce mica a sta’ dietro

ai fiji e a lavora’.

«Ora andiamo da Padre Luciano per la foto. Cammina: peggio

per te che sei sporco» e gli rinfilò la scarpa.

Si incamminarono tutti e tre: lei, Silvio, e suo fratello, che non

aveva giocato a pallone, né aperto bocca durante tutto lo sfregamento.

Si misero in posa: sullo sfondo i mobili della sagrestia e

il vaso di asparagina. Lei al centro, le mani sulle loro spalle, senza

sorriso, la mascella serrata. Silvio non capiva perché, ma doveva

essere per la macchia.

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QUALCUNO CHE TI ASSOMIGLIA

racconto di Francesca Bonfanti

illustrazione di Francesco Caporale

La luce blu della televisione diceva che in Madagascar si trovano

i gechi con la coda a foglia, che per vivere e sopravvivere

si confondono sui rami. A vederli, hanno dei brutti, inquietanti

occhi lattiginosi.

La spense, trovando fastidio e sollievo nel silenzio. Stare se -

duti su un divano nelle sere calde estive ha qualcosa di estremamente

malinconico, appiccicoso dentro più del sudore fuori. Ri -

mase così qualche minuto di troppo, o semplicemente qualche

minuto in più, indugiando per il solo fatto di non avere nessuno

che potesse aspettarlo in camera da letto. Prima di alzarsi tornò

a pensare agli occhi opachi di quei gechi, che si erano evoluti

per riuscire a confondersi con quello che gli stava attorno, fosse

una foglia, un ramo o un altro animale. Cercò di tenere a mente

questo, mentre si preparava per andare a dormire: che non tutti

gli esseri viventi gongolano per la loro unicità. Si ritrovò davanti

allo specchio a esaminarsi con uno sguardo più severo di

quanto avrebbe voluto, riconoscendosi più gobbo di quello che

ricordava. E sudato e quindi un po’ patetico, anche se tutti sudano

in agosto. Spense la luce sopra al lavandino e finì di prepararsi

per il sonno nel finto buio della città. Aveva una nuova routine

della buona notte: non era per forza un male. Cercò di tene-

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re a mente anche questo, dopo i gechi, mentre abbassava la tapparella.

Ora prima di andare a dormire ci teneva che fosse perfettamente

chiusa. Non lasciava aperto nessuno dei forellini, faceva

scorrere il nastro fino in fondo e quando lo sentiva molle in

mano sapeva di aver fatto un buon lavoro. Da lì, non sarebbe

entrata neanche una striscia di luce.

Non poteva farlo prima, prima del divorzio. Sua moglie al

buio totale non ci voleva stare. I rumori della città, invece, andavano

bene a entrambi e a quel buio annacquato da camera mi -

la nese lui ci aveva fatto l’abitudine.

Dopo aver capito che sarebbe tornato a dormire da solo si

ricordò che non era sempre stato così, che era finito il tempo

del matrimonio e del compromesso.

«Ti somiglia un po’, a dir il vero», erano state le sue esatte

parole. Teneva le mani incrociate sulle gambe, era seduta al suo

solito posto al tavolo della cucina. Non aveva usato un tono di

scuse, ma aveva alzato un po’ le spalle e le sopracciglia mentre

lo diceva, come se più che a lui, volesse farlo notare soprattutto

a se stessa. Non aveva mai capito in che senso gli somigliasse

questo uomo misterioso, perché non aveva avuto prima la pron -

tezza e poi il coraggio di approfondire la questione. Erano simili

nei modi o nell’aspetto? Nella parlata, nelle abitudini o nei

gusti del vestire? E somigliava al lui di adesso o al lui di quaranta

anni prima? Era questo il percorso a ostacoli che ripassava

ogni mattina e ogni notte, stancandosi finché un po’ nauseato da

quel girare a vuoto decideva di alzarsi o di chiudere gli occhi.

Quella volta, quando gli tornarono ancora in mente i ge chi, decise

che poteva fermarsi.

Divenne un’abitudine prima che potesse chiedersi se fosse

una cosa giusta o sbagliata.

La prima volta era capitato proprio quell’estate, verso la fine,

ma non ancora così vicino a settembre da veder la città rianimata.

Era andato al supermercato più per cercare qualcosa da fare

che qualcosa da comprare. Al tempo la sua dieta era regredita a

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quella di uno studente universitario pigro, scatolette e banco

gastronomia. Se ne vergognava quando arrivava alle cas se, di

quello che tirava su dagli scaffali, e cercava di metterci sempre

meno tempo possibile, sempre negli orari più favorevoli. Mai in

pausa pranzo o all’uscita degli uffici. Per tutto agosto era stato

tranquillo, incrociava poche persone e quelle poche avevano la

sua stessa voglia di incontrare l’umanità rimasta a Milano. Quella

prima volta invece si era fermato a metà di una corsia, perdendo

minuti preziosi che lasciavano il suo carrello esposto al giudizio

di chiunque. Dal corridoio di fianco al suo arrivava una

voce simile a quella di sua moglie.

Capì subito che non era lei, o comunque dopo pochi secondi:

quello che era simile era l’intonazione, o meglio l’intenzione,

erano simili le vite che avrebbero potuto esserci dietro quel le

due voci: vite di donne che ai suoi occhi ora sembravano crudeli.

Poté vederla prima di aver deciso se tornare indietro o andare

avanti, era lei che aveva svoltato l’angolo fra i bancali. Era al

telefono. Cercò di capire da lontano se fosse bella, se lo fosse

stata, se era curata, se era una di quelle che dopo i cinquanta ci

tengono ad andare ogni settimana dal parrucchiere. Se in un’altra

vita, da sposati, sarebbe stato lasciato anche da lei per un

altro che gli somigliava.

Mentre percorreva mentalmente quelle tappe, i suoi piedi

avevano preso velocità e le sue mani stringevano il manubrio

del carrello più del necessario. Se ne accorse quando lei alzò lo

sguardo, dopo aver chiuso la telefonata. Doveva avere un’es -

pressione antipatica, perché sentiva la fronte tutta tirata in mez -

zo agli occhi, dove gli si forma sempre un solco che anni prima

era una semplice ruga. Allora smise di farsi tutte quelle domande

e cercò di fermare anche i suoi piedi, riuscendoci male ma

salvando le apparenze: i due carrelli si scontrarono ma lui poté

fingere di essere stato così distratto, imperdonabile. E mentre si

scusava, e lei si stava già allontanando dicendogli che no non

doveva preoccuparsi sono cose che capitano a chi non è mai

successo con quei vecchi affari, si sentì chiederle se non si era -

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no già visti da qualche parte, perché proprio gli ricordava qualcuno

ma non riusciva a capire chi. E forse non era il viso, ma la

voce: non era per caso una doppiatrice? E più lei negava confusa,

più insisteva: forse un’annunciatrice, o forse un tono simile a

una sua amica. Certo probabilmente era perché aveva una voce

simile a quella sua conoscente, una voce comune. Si sforzò di

dirlo proprio così, una voce comune, ma lo disse col sorriso e

mentre lo scandiva si preparava ad andarsene per avere l’ultima

parola. Voleva che si sentisse meno speciale possibile.

Poi ci fu la volta di quella ragazza che attraversava la strada

dalle parti di Porta Romana. L’importante era fingere sicurezza

nell’approccio, non aspettare di essere troppo vicino, iniziarlo

da lontano. L’aveva guardata abbastanza da farle capire che sta -

va pensando qualcosa che forse la riguardava, così che quando

si trovarono di fronte lei non si stupì a sentirlo parlare: era

come se con lo sguardo le avesse detto di prestare attenzione

a quello che stava per dirle. Si erano per caso già visti? Visti proprio

alla farmacia lì all’angolo, qualche via più avanti. Quindi lei

non era Ania, la ragazza che dava una mano alla farmacista? Era

un’amica di sua moglie, non Ania, la farmacista si intende, ci

avrebbe giurato, perché ci andava spesso. Insomma che dire:

incredibile, perché allora dovevano essere due sosia, lei e Ania.

Ma che non ci rimanesse male, erano entrambe bellissime! La

solita ul ti ma parola, detta mentre già si allontanava, alzando un

po’ la voce, mentre già allungava il passo, mentre già gustava il

fatto di lasciarla lì a chiedersi chi fosse quella persona che le

somigliava tanto.

Finché riuscì, replicò questo teatrino. Poi, verso ottobre,

tornò a esserci la pioggia. La gente per strada nascondeva la faccia

sotto l’ombrello, gli sguardi iniziavano a farsi bassi insieme

alle giornate che si facevano più corte. I supermercati avevano

gli orari scanditi dai lavoratori tornati a pieno regime. Fu ignorato

per strada una o due volte, una volta ascoltato e liquidato,

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un’altra zittito con un’occhiata diffidente. Smise di riconoscere

gente che non aveva mai visto, riprese a pensare a sua moglie,

ricominciò la via crucis di domande.

A volte si immaginava la vita dei gechi.

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COSA FISSA LA MUCCA?

racconto di Niccolò Pugliese

illustrazione di Ombretta Tavano

Era il 1999, e da lì a un anno sarebbe cambiato il millennio.

Un numerino che ne precede altri tre aveva raccolto mille anni

di epoche umane.

La mucca fissava davanti a sé, incurante dello scorrere del

tempo. Masticava lenta, lentissima. Sembrava voler triturare ogni

singolo frammento di quella che una volta doveva esser stata

erba, ma che ora risultava solo una poltiglia insalivata appoggiata

su una lingua muscolosa. Forse si sentiva in colpa per aver

tolto un po’ di verde a un mondo sempre più grigio, forse si

annoiava ed era stufa del verde come del grigio. O forse, daltonica,

dava solo un senso al tempo che trascorreva incolore intorno

a lei. La mucca fissava davanti a sé, che cosa esattamente non

mi era chiaro.

Avevo 13 anni e le braccia troppo flaccide e ossute rispetto

alle gambe muscolose. Ogni giorno alle 14 dopo la scuola tornavo

a casa, dove mi rifugiavo nei fumetti e nei primi pensieri

adulti rivolti alla mia compagna di banco, Laura, che amavo, e

alla prof di Inglese, la prof Parini, che bramavo. Non pranzavo

mai a casa, mamma era morta e papà era come lo fosse da allora.

Non per il lavoro, in quel contesto era considerato ancora

socialmente utile. Si rifugiava lì per fingere gli rimanesse qualcosa.

Si dimenticava di me per fingere che qualcosa non gli fosse

rimasto. Di solito mangiavo due panini al prosciutto che mi pre-

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paravo la sera prima, e una barretta di cioccolato Bumi. Non era

una dieta sanissima, ma io solo i panini sapevo fare; papà comprava

un sacco di prosciutto cotto perché sapeva che lo mangiavo

volentieri. Non parlavamo molto, e quindi non gli chiedevo

di cambiare, non gli raccontavo che ora mi piaceva anche il

crudo. Il cioccolato lo compravo io con la paghetta, che era

sostanziosa nonostante il lavoro umile di mio padre. Ci compravo

fumetti, cioccolato e pure qualche pezzo di pizza e delle lattine

di birra, che ancora non mi piaceva molto ma che sembrava

mi facesse stare un po’ meglio. Sulle tavolette Bumi, sopra la

stagnola, era avvolta una carta colorata di un giallo fastidioso su

cui era stata disegnata, da un pessimo illustratore, un’insopportabile

mucca con gli occhiali da sole. Mangiavo i due panini

seduto sul muretto davanti a scuola – a quell’ora deserto – che

diventava luogo di incontro per molti ragazzi intorno alle quattro.

Avrei voluto stare con gli altri, ma era impossibile: stare con

gli altri significava soffrire, essere assediati da assalti fatti per

divertire e far male, dove chi si divertiva non ero mai io, sebbene

a volte facessi finta. Laura era gentile con me in classe, ma

fuori non mi rivolgeva quasi parola. Non era cattiva Laura. Era

integrata. Faceva parte di qualcosa. Era realista. Non poteva fare

altro che essere gentile in classe. Non poteva esserlo nel mon -

do; gli altri non avrebbero capito, lei ci avrebbe rimesso, io avrei

perso ogni speranza. Meglio lasciare tutto com’era.

Morto.

Come la vita di papà.

Come la mamma.

Quando pioveva non mangiavo al muretto, ma sotto la pensilina

semideserta dell’autobus; non avevo quasi mai freddo.

Dopo pranzo tornavo a casa. Percorrevo una stradina di campagna

sterrata che costeggiava i campi; talvolta qualche studente

affamato e ritardatario mi superava sfrecciando in bici quasi

investendomi, ma raramente: era un percorso poco battuto, qua -

si deserto. Eppure lì, nel nulla, non mi sentivo immobile co me

nel mondo esterno. Nella solitudine del sentiero mi sentivo

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bene, mi sentivo in viaggio: mi sentivo, per un attimo, vivo.

Era il 1999 ed era un venerdì quando vidi la mucca. La mucca

era lì. In mezzo a un campo. Sola. Scodinzolava lentamente, e

con quel gesto aritmico e buffo più che scacciare le mosche

sembrava volergli fare aria. Ormai faceva quasi caldo, la vidi e mi

avvicinai. Sognavo da tempo un animale domestico, sul podio

dei desideri era al terzo posto, superato solo dalle labbra di

Laura e dalle belle cosce piene della prof Parini. La muc ca non

pareva spaventata, ma nemmeno interessata alla mia pre senza.

Pareva quasi non vedermi. Incontrare il suo sguardo per un attimo

mi mise a disagio. Sembrò guardarmi senza scorgermi, passandomi

attraverso come fossi di vetro. Provai a carezzarla. Non

diede segno di consenso, e spaventato ritrassi la mano prima di

toccarla.

Quella notte pensai alla mucca. Sarebbe stato fantastico se

fossimo diventati amici. Avrei potuto passare un po’ di tempo

con lei. Tirarle il bastone e farmelo riportare, insegnarle giochi

da cane; da mucca purtroppo non ne conoscevo. Forse mi

avrebbe leccato le mani e la faccia, con quella grossa lingua

porosa che una volta avevo mangiato bollita in una trattoria; la

mamma me l’aveva fatta assaggiare con l’inganno e quando mi

disse cos’era piansi perché ero un marmocchio schizzinoso, e

non sapevo quanto avrei rimpianto quel momento. Non avrei

detto alla mucca che mangiavo le sue simili. Pensavo che forse

avrei potuto sellarla e portarla a scuola, alla sella avrei legato due

cesti di vimini pieni di barrette Bumi. Non so se avrei fatto

colpo, ma comunque sarei stato qualcuno che non poteva passare

inosservato.Tutti avrebbero voluto farmi domande: perché,

come, da quando hai una mucca? Li avrei portati a casa con me

e la mucca, gli avrei fatto vedere dove vivevo e chi ero. Gli avrei

fatto capire che esistevo, che mia mamma era morta, che mio

padre era praticamente morto, ma io no. Io ero ancora vivo, ero

come loro e meritavo di esistere. Poi uno che si chiama Rosselli

e che era ripetente avrebbe fatto una battutaccia sulla mucca

che pareva la Parini, ma io l’avrei zittito e minacciato di farlo

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incornare dalla mia bestia, e Laura avrebbe apprezzato il mio

coraggio e... e... confuso in pensieri agitati mi addormentai. Il

mattino dopo decisi di saltare la scuola. Firmavo le mie assenze

e i miei voti al posto di mio padre, a nessuno interessava, nemmeno

a lui.

Andai dalla mucca. Le avevo portato del pane secco e delle

carote. Prese tutto dalle mie mani in modo garbato, con la grande

lingua da mucca che un tempo con l’inganno assaggiai. Mi

rese felice vederla mangiare. Questa volta la accarezzai. E lo feci

anche nelle due settimane a seguire, quando ogni pomeriggio

andavo a trovarla. La testa della mucca era enorme. Avrebbe

potuto mangiarsi una qualunque delle mie due braccia ossute,

masticandola poco più che le carote che le portavo, ma era gen -

tile. Pur non dimostrando grande affetto nei miei confronti, non

credo di esserle stato indifferente. Esprimeva i suoi sentimenti

senza convenevoli, solo donandomi la sua esistenza placida, e al

contrario di mio padre, era silenziosamente presente per me. Lei

c’era. Io e la mucca ci facevamo una compagnia cieca, spesso

senza guardarci. Cieca ma non sorda, ogni tanto muggiva, e ogni

suo scrollarsi era una nota. Cieca ma, va detto, neppure olfattivamente

neutra: la mucca puzzava parecchio. Cieca ma non senza

tatto; carezzarla mi calmava, e credo le piacesse. Cieca ma non

senza gusto, lei con le carote e io con il cioccolato al latte Bumi,

vero cioccolato di mucca: sapeva di lei. Una volta portai un paio

di birre, e le bevvi entrambe io, perché le mucche non bevono

birra. Sbronzo, dissi alla mucca di volerle bene. Era vero.

Restava un mistero cosa fissasse. Non riuscivo a capire questo

sguardo dritto nel vuoto ma non perso, guardava qualcosa

che io non vedevo. Cominciai a credere che fissasse i fantasmi.

Cominciai a sperare che fissasse il fantasma di mamma, che

forse a sua volta fissava me.

Dopo tre mesi la mucca, un giorno, sparì.

Piansi per tre notti, poi sentii mio padre che col vicino di

casa parlava di una mucca trovata nella stradina che costeggiava

i campi, scappata dal camion per il macello grazie a un fortui-

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to incidente nel quale non era morto nessuno ma si era salvata

una mucca. Era stata riportata al suo proprietario, che mi fu

impossibile rintracciare. Cosa sia successo alla mucca non l’ho

mai saputo. L’ho sognata tanto. Ho sognato che era stata portata

in una fattoria. Mamma si prendeva cura di lei, come un tempo

si era presa cura di me. Non mangiai mai più carne di mucca,

non mangiai mai più cioccolata Bumi. A scuola provai a baciare

Laura, si scansò ma mi sorrise. Iniziammo a parlare davvero. Da

allora cercai di guardare il mondo come faceva la muc ca.

Fissando non il vuoto, ma il pieno nascosto nel tutto. Io non li

vidi mai i fantasmi; non riuscivo, non potevo vedere oltre la

morte; nei miei sforzi però, iniziai a scorgere cos’era la vita. E per

quel poco che mi riusciva, provai ad affrontarla, come mi aveva

insegnato la mucca.

Coi i piedi ben piantati nel presente, con lo sguardo che non

si arrende ai limiti del mondo.

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IL BAMBINO MILIARDARIO

racconto di Stefano Lodi

illustrazione di Daniela Volpari

All’ora di pranzo ascoltavamo la radio. A Robbi non piaceva

conversare: veniva a casa, l’accendeva e si metteva a tavola. Non

ricordo cosa avessi preparato quel giorno, fatto sta che eravamo

lì in cucina, e lui, come al solito, guardava nel piatto ascoltando

il canale nazionale. A me non piaceva la radio, ma con il tempo

avevo imparato a percepirne le parole come si trattasse di una

musichetta monocorde, innocua verso il fluire dei miei pensieri.

Di solito, durante il pranzo, osservavo mio marito: era come

fare le parole crociate. Indovinavo il suo umore dalla distanza

che teneva tra la testa e il piatto, o da quante volte posava la forchetta

per servirsi del tovagliolo. Ma quel giorno fu diverso.

Improvvisamente smise di mangiare e mi fissò negli occhi.

«Hai sentito?» disse.

Io non capivo, e non gli risposi. Lui corse ad alzare il volume:

in quel momento trasmettevano le pubblicità prima del no -

ti ziario.

«Cosa c’è?» gli chiesi finalmente.

«Stai zitta e ascolta!» mi gridò.

Ascoltai gli spot di un’automobile, di un dentifricio e di un

assorbente intimo. Poi attaccò la sigla del radiogiornale. Robbi era

così infuriato che non finì nemmeno il pranzo, disse che era no

tutti degli stronzi e afferrata la giacca dallo schienale della se dia

fece per andarsene. Ma prima di uscire mi fece una domanda.

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«Quand’è che devi partorire?»

Furono proprio queste le sue parole.

Fu solo nel pomeriggio che compresi ciò che stava succedendo.

Di solito, non appena Robbi se ne andava, la prima cosa che

facevo era spegnere la radio, ma quel giorno mi sentivo turbata

e non lo avevo fatto. Si trattava di biscotti per neonati. C’era que -

sta ditta famosa che aveva indetto un concorso per l’inizio del

nuovo millennio, e la pubblicità diceva che al primo bambino italiano

del Duemila sarebbe andato un premio da un miliardo. Il

Bambino Miliardario: così si chiamava il concorso. Robbi era un

brav’uomo, ma avevamo questo problema di soldi.

Lo capivo.

All’ospedale mi avevano detto che avrei dovuto partorire

verso la metà di dicembre, dal tredici al sedici, ma Robbi dopo

qualche giorno mi portò da un dottore suo amico, un certo

Gatti, che mi visitò di nuovo e mi prescrisse delle medicine. Il

tempo passava.

Un giorno Robbi tornò a casa con una scatola di quei famosi

biscotti. Senza dire una parola la mise sulla credenza, in alto

vicino ai miei vasi di peltro. Io la guardavo tutti i giorni. Le scritte

erano azzurre e rosse su fondo bianco, e sul davanti c’era il

faccino sorridente di un neonato. Non mi piaceva quella scatola.

Certe volte mi sembrava che il bambino cambiasse espressione,

che smettesse di sorridere.

Adesso, quando tornava a casa, Robbi non mancava mai di

chiedermi come stavo. Se, per caso, gli dicevo che avevo sentito

il piccolo muoversi, o che avevo avuto la nausea o cose del ge -

nere, diventava cupo e affondava ancor di più la testa nel piatto,

come una nave che cola a picco. Ma fu ai primi di novembre che

le cose peggiorarono.

Il dottor Gatti divenne quasi un membro della famiglia. Mi

mise a letto e mi proibì ogni movimento inutile. Riordinare la

casa, fare la spesa, lavare i pavimenti divennero cose inutili.

Qua si tutti i giorni veniva a sedersi in fondo al mio letto e mi

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ripeteva la lunga lista di ciò che mi era proibito. Mi faceva delle

punture, e il mio comodino era sempre più ingombro di medicine.

Se lui mancava, Robbi prendeva il suo posto. In quel periodo

imparò a farmi le iniezioni.

Un giorno si mise a nevicare, e io, riflettendoci, pensai che il

mio bambino avrebbe già dovuto nascere. Strinsi gli occhi più

forte che potei, e quando li riaprii mi parve di vederlo accanto

a me, già cresciuto, già uomo. La neve, là fuori, mi portava il suo

odore. Quella sera svenni per la prima volta. Il trentun dicembre

del millenovecentonovantanove fui ricoverata d’urgenza in

ospedale. Nonostante la mezzanotte fosse ancora lontana, l’aria

era già piena di esplosioni e mi sembrava, dal rumore, che anche

le macchine andassero più veloci del solito. Il frastuono della

sirena, lì sull’ambulanza, mi instillava la paura nel cervello. Robbi

mi teneva la mano, era sudato e credo che balbettasse qualcosa,

credo che parlasse di un notaio: aveva chiamato un notaio perché

mi raggiungesse all’ospedale.

Poi fu il buio. La prima cosa che vidi quando ripresi conoscenza,

a notte fonda, fu un mazzo di fiori proprio di fronte a

me, appoggiato su un tavolino d’alluminio. Vicino al tavolo c’era

un uomo molto alto che indossava un camice bianco, ave va dei

coriandoli tra i capelli e mi fissava attentamente. Mi disse di

farmi forza, che ero ancora giovane e che avrei potuto avere

tutti i figli che desideravo. Poi mi accorsi che c’era anche Rob -

bi, in quella stanza. Era su una seggiola e teneva la testa sul mio

cuscino. Stava piangendo. Allora glielo chiesi:

«Vale lo stesso? Robbi, vale lo stesso?»

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LA PASTA

racconto di Gaspare Scimò

illustrazione di Guido Rosa

Ci sono tantissime cose di mio padre e mia madre che non

ho mai capito, e per la maggior parte di queste ho perso sia la

speranza che la curiosità. Tra tutte, però, ce n’è una a cui penso

spesso ancora oggi. Una cosa che mi fa tornare nella vecchia

cucina, con la televisione sempre accesa e le pareti impallidite

dalla luce del neon. La pasta. E ogni volta che ci penso mi ritrovo

seduto attorno a quel vecchio tavolo rotondo, mentre mam -

ma e papà discutono. Ciò che mi spinge dopo tutti questi anni

a ricordi tanto lontani è quella loro curiosa abitudine quotidiana

di trasformare la pasta in un pretesto per litigare: un litigio

che con il passare del tempo era diventato un rito. Sì, perché a

guardarli sembrava che stessero recitando un copione.

«Martì, quanta pasta vuoi?» diceva lei.

«Rosà, normale», rispondeva lui.

Quando mamma poi portava i piatti, papà guardava prima la

pasta e poi mia madre, e diceva: «Rosà, ma quanta ne hai calata?»

«Come hai detto tu, normale», rispondeva mamma.

«Ma questa normale ti sembra?»

Papà aveva davanti un piatto così pieno che dopo avergli

spolverato sopra una bella cucchiaiata di caciocavallo, non riusciva

nemmeno a mescolarla.

Mamma, invece, con la tranquillità di chi affronta un argomento

per la prima volta, diceva: «Quella che non vuoi, la lasci.»

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«Ma una volta che l’hai fatta, io me la devo mangiare.»

«E perché, non la possiamo riscaldare domani?» diceva lei.

«Ma perché mi devo mangiare una cosa riscaldata? Non ne

puoi fare di meno?» diceva papà.

«Se ne faccio di meno poi ti lamenti che è poca.»

Che poi mio padre quella pasta se la mangiava sempre, fa -

cendo stampare un sorriso soddisfatto sulla faccia di mia ma dre.

Allora lui, stizzito, ribatteva dicendo «Certo che la mangio. E che

la dobbiamo buttare? Qua siamo all’ingrasso», e poi si batteva le

mani sulla piccola anguria della sua pancia.

A volte mi guardava e diceva «Prima di sposarmi ero tutto un

fascio di muscoli. Non avevo nemmeno un filo di grasso.»

«Martì, te l’ho detto, quella che non vuoi la lasci», cercava di

tagliare corto mia madre, ma il copione prevedeva che l’ultima

battuta fosse sempre di papà.

«A me le cose riscaldate non mi piacciono», diceva, e solo al -

lora si iniziava a mangiare.

Mi chiedevo perché mamma si ostinasse a non usare la bi -

lancia, perché non si accordassero sul peso giusto e la facessero

finita. Ne avevamo una, ma stava sempre chiusa dentro uno stipetto

della cucina.

«Mamma, ma perché non usi la bilancia?» le chiesi un giorno,

esasperato.

«Io mi regolo a occhio», mi disse con la convinzione di chi

sapeva esattamente quel che doveva fare, sicura come se stesse

rivendicando qualcosa. Anche se quella sua risposta, per me, non

era una risposta, non aggiunsi altro. Avrei voluto insistere, avrei

voluto capire, ma quella sua sicurezza mi zittì.

Papà e mamma continuarono a recitare il copione. Ancora e

ancora. E in più di un’occasione mi capitò di pensare che quella

fosse l’ultima, che non ce la facessero più, che fossero arrivati

alla fine. Io, di sicuro, ero esausto.

Tantissimi anni dopo, decisamente troppi, smisero di stare

insieme. Non li vedevo da molto tempo e anche io mi ero separato

da poco: anche io avevo smesso di recitare il mio copione.

Un giorno, di pomeriggio, incontrai papà. Quasi per caso.

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Notai subito che aveva perso quella piccola anguria a cui ero

molto affezionato. Quella pancia che ogni tanto mamma provava

ad accarezzare dicendo «Martì, ma lo vuoi capire che quando

ti vedo mangiare io sono felice!»

Parlammo del più e del meno, e tra tutte le cose che poteva

dirmi dopo tanto tempo che non ci vedevamo, mi raccontò di

quando mamma calava la pasta a occhio.

«Sai che per capire qual è la porzione giusta di pasta, c’è una

formula matematica precisa? Una formula che non ti puoi sbagliare:

devi fare cento grammi meno la tua età», poi si era passato

una mano sul ventre piatto. «Vedi?» aveva detto con sod di sfa -

zione. In verità avrei voluto chiedergli tante cose, avrei voluto

dirgli che quella sua pancia a forma di anguria mi era sempre piaciuta,

ma parlammo per qualche minuto come due conoscenti

qualunque e poi ci salutammo stringendoci la mano.

Una volta a casa, mentre mi preparavo la cena, ripensavo a

quella formula matematica di papà, ma l’idea di sottrarre il

numero dei miei anni a cento grammi non mi allettava più di

tanto. Inoltre notai che nell’ipotesi in cui si debba cucinare per

più di una persona questo metodo diventa alquanto complesso.

Mi chiesi come avrebbe fatto a regolarsi se avessimo mangiato

insieme io e lui. Forse sarebbe stato più semplice sottrarre il

numero degli anni in cui non ci eravamo più visti.

Iniziai a ricordare tutti i piatti di pasta della mia vita con lei.

C’era stato un lungo periodo in cui ci eravamo regolati a oc chio.

Poi avevamo iniziato a usare la bilancia, ma questo non aveva

risolto il problema. C’erano state volte in cui ne avevamo pesato

mezzo chilo per due e non era bastata e altre in cui quei fa -

mosi cento grammi erano stati più che sufficienti, magari dopo

un litigio che ci aveva chiuso lo stomaco. Ricordai le po che vol -

te in cui riuscimmo a raggiungere un compromesso. Pensai a

quelle in cui le chiesi di fidarsi di me, e lei mi ascoltò; e le altre

che fui io a fidarmi di lei.

Adesso che sono solo, però, finisco per regolarmi a occhio,

come faceva mia madre, e se capita che è troppa la conservo

sempre.

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GIOVANE CANAGLIA

racconto di Giulia Manno

illustrazione di Alessandro Ripane

Tutti i lunedì vado al cinema allo spettacolo delle 18.30, rigorosamente

da solo. Un’innocua abitudine o un comportamento

compulsivo, non lo so. Trattandosi di me, sospetto la seconda. Il

primo indizio è la ripetitività di quello che faccio subito prima:

mi preparo per uscire di casa, indosso giacca e cappellino di

lana, vado a fare pipì, verifico che tutti i rubinetti siano chiusi e

gli elettrodomestici spenti. Quando sono quasi alla porta controllo

di avere le chiavi per rientrare, mentre le cerco nelle tas -

che faccio dietrofront per l’ultima incursione: luci, fornelli, pre -

se elettriche. Faccio di nuovo la pipì. Esco.

Fuori dal portone mi chiedo se non avrei fatto meglio a rimanere

a casa: sono molto pigro, ma so che l’unica cosa che vince

la mia indolenza è la metodicità. Non mi separo mai dal mio orologio,

scandisce le mie giornate: ogni ora è un ritorno sul quadrante

del giorno prima, ogni passo una lancetta, ogni mattina

un reset per ricominciare da capo.

So per certo che a quell’ora è difficile incontrare molti altri

ragazzi della mia età. È lunedì, solo i vecchi vanno al cinema, e

io, che tanto giovane non sono più. I miei coetanei mi mettono

a disagio, mi sento osservato e costretto, in loro presenza, a ris -

pettare le regole della ribellione moderna. Invece io voglio solo

mangiare le mie caramelle ed essere libero di alzarmi in ogni

mo mento. Uno di loro potrebbe riconoscermi e volermi stare

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vicino, ostruendo la mia via d’uscita. Questo non lo potrei ac -

cettare. Perciò scelgo sempre la proiezione del pomeriggio.

Le caramelle le compro alla vecchia latteria, prendo le rotelle

di liquirizia e qualche goleador alla frutta. In numero pari per

essere sicuro di poterle mangiare alternate. Non importa quale

spettacolo ci sia al cinema, io li vado a vedere tutti, non posso

saltarne neanche uno. Questo lunedì c’è un vecchio film noir

italiano, si chiama Giovane Canaglia. Mi piace il titolo perché

sembra un appellativo adatto a me, un’imprecazione da anziano

col cappello.

Come al solito arrivo all’ultimo minuto. Non mi piace entrare

con gli altri, potrei trovarmi costretto in qualche conversazione

forzata. Mi dirigo verso la biglietteria e, guardando la paresi

sorridente del cassiere, mi chiedo il perché di tanta affabilità.

«Sei in ritardo, eh? Ti ho già stampato il biglietto, sapevo che

saresti arrivato», mi dice con aria complice.

«Ah grazie, mi scusi, non ricordavo l’orario.»

Ride: «Sei forte tu, da quanti anni vieni qui? O forse farei pri -

ma a chiederti quanti ne hai.»

«Venticinque», rispondo prendendo il biglietto. Lo osservo e

mi chiedo cosa si debba fare per passare inosservati. È un uo mo

gentile, forse la prossima volta gli dirò qualcosa in più, in fon do

me lo riprometto sempre.

Entro in sala nella penombra. È sempre il momento più bel -

lo, sto fermo in piedi per un attimo a osservare la visione d’insieme:

i dorsi delle poltrone rosse allineate, un microcosmo perfetto

che ritorna sempre a se stesso, una delle poche certezze

che ho nella vita. Sorrido.

Conto le teste, devono sempre essere meno di venti o non

sto tranquillo. Nel caso, mi dico, cambierò cinema. Non l’ho mai

dovuto fare. Metto i piedi sulla freccia rossa del corridoio, li allineo

perfettamente e sto fermo lì finché non si illumina indicandomi

di proseguire verso il mio posto. Fila M, posto 12. Non l’ho

mai trovato occupato, è lato corridoio e troppo indietro. Ma a

me piace, mi dà tranquillità, e poi sono abituato a guardare i film

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di traverso, come quando ti piace qualcuno e non vuoi se ne ac -

corga.

È occupato. Sto fermo a lato della fila N e le guardo i capelli,

sono lunghi e un po’ disordinati, come la malsana idea di scegliere

il mio posto. Non riesco a capirne il colore, dev’essere

scuro, forse rosso. Sulle punte sono un po’ più chiari. Ri flessi di

luce in un angolo buio. E ora dove mi siedo? Mentre me lo chiedo

lei si gira, come se avesse sentito i miei pensieri ostili, e si

sposta sulla poltrona numero 11, ordinandomi con lo sguardo di

sedermi. Le sto facendo perdere il film.

La mia innata galanteria mi impone di ubbidire, acconsento

per non infastidire e per non cambiare ulteriormente il corso

delle cose.

«Grazie», bofonchio.

«Shhh», mi dice lei.

Non mi tolgo la giacca perché non so dove metterla, di solito

la butto come un sacco sulla poltrona vicino per evitare che

a qualcuno venga in mente di occuparla. Troppo tardi. Sudo

freddo: perché non me ne sono stato a casa? Il film è cominciato

già da cinque minuti e io non ho capito niente, è del ’58, l’anno

che è nata mia madre. Parla di uno studente universitario

figlio di un famoso giudice. Sandro, si chiama, ha il vizio del

gioco e per saldare i suoi debiti fa un sacco di casini. Mi immedesimo

in lui per un momento, lo faccio sempre: quando sono

al cinema vivo un sacco di vite altrui, grandi amori e grandi

imprese che non sono le mie. Se un giorno andassi a vedere il

mio film probabilmente mi addormenterei, sarebbe la prima

volta in cui non mi riconoscerei nel protagonista.

Questa ragazza profuma di liquirizia. Inspiro a fondo. Pren do

il sacchetto di caramelle e tiro fuori una rotella, per ridare

un’origine a quell’aroma. Apro l’involucro di plastica e comincio

il solito lavoro: la srotolo tutta, poi inizio a dividere le stringhe

cercando di non strapparle; quando ho finito comincio a

mangiarne una. La ragazza, senza neanche voltarsi, mi prende la

mano e mi ruba la stringa numero due. Adesso non so più cosa

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fare. Ha rotto il fragile equilibrio del mio rituale di gomma, una

cosa inconcepibile.

Mi decido a prenderne un’altra. Ripercorro tutti i passaggi

senza esitazioni. Tutto ritorna ad avere un senso, mi sento di

nuovo calmo. Intanto quel Sandro sta facendo un casino dietro

l’altro: ha rubato dei soldi di un incontro di boxe organizzato

dall’innamorato della sorella.

La canaglia qui a fianco, giovane pure lei, si gira e mi chiede:

«Mi dai anche quella lì?». Le vorrei dire: «Ma perché non te le

compri, non vedi che le mie sono contate?». Poi ci rifletto un

attimo, in fondo se mangiassi tre stringhe andrei fuori misura.

«Allora?»

Le cedo anche quella.

Il film finisce. Sandro non ne è uscito bene, io neppure.

Ci alziamo entrambi.

Io mi metto sulla freccia rossa che indica l’uscita e aspetto

che la luce si spenga. Prego che lei non dica nulla. E infatti non

lo fa. Allinea i suoi piedi dietro ai miei e rimaniamo in silenzio

per diversi minuti.

«Ci vediamo lunedì», mi sussurra all’orecchio mentre mi pas -

sa accanto.

Resto immobile finché non vedo l’ultima ciocca rossa scivolare

via insieme ai titoli di coda.

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TANCREDI

racconto di Paolo Triulzi

illustrazione di Marcello Crescenzi

Tancredi, già il nome. Dopo un’ora si era rivenduto la prefazione

del suo primo libro, se ci parlavi tutto il giorno potevi fare

a meno di leggere l’opera omnia. Però in mezzo, ogni tanto, ci

infilava delle cose piccole come: per essere felici bisogna mangiare

poco. Preziose come le perle che sembrano vere. Come fai

a capirlo: o ci credi o non ci credi, allora dipende soprattutto da

chi te le vende. O ti fidi, o non ti fidi.

Poi sorrideva sempre e da lui passava un sacco di gente. Stavi

lì a bere il caffè, per dire, e entrava il vecchio amico di turno.

Tutti vecchi amici, per forza. Entrava il tale e Tancredi gli chiedeva:

come stai? E quello: ho preso una coltellata ieri sera! Ma

dove, nelle costole? L’altro si toccava il fianco e si piegava un po’

tirando la bocca: menomale che avevo su il piumino che ha attutito

il colpo. Vedi che alla fine il freddo ti ha salvato? Gli diceva

Tancredi.

Intanto dalla portafinestra aperta sull’orto vedevi le zucchine

scoppiare di passione nel sole di agosto.

A volte eri tu ad arrivare e se dentro ci stava già una donna,

Tancredi ti diceva: questa è la mia amica più bella. Tesoro, come

va l’amore? Quella, amica certamente di vecchia data, rideva. E i

partigiani cosa combinano? Le chiedeva allora. Sempre in movimento

sui loro sentieri? Si sono messi a scavarne altri, rispondeva

la donna. Ah, bene! I discorsi sono tanti e distanti, delle volte

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non si capisce se è tutto fermo o se c’è ancora qualcuno di vivo.

E l’amore, tesoro? L’amore? Una ragazza così bella, con questo

bel balcone fiorito, non ci credo. Passa a trovarmi un sabato,

stai qui due giorni.

Oppure andavi al bar a prendere il caffè e, ad esempio, ac -

costava uno in auto. Tancredi faceva quasi per non fermarsi ma

l’altro diceva: scusate, un’informazione. E ancora: sapete per ca -

so dove posso trovare il signor Tancredi? Tancredi diceva: perché

lo cerca? Volevo salutarlo, se lo vedete voi gli dite che il suo

vecchio amico lo saluta? Eh, faceva Tancredi, sarà un po’ difficile

perché è partito. E dov’è andato? Chiedeva il vecchio amico.

Allora Tancredi poteva dire che aveva scavato un buco in

giardino per arrivare dall’altra parte del mondo, oppure che era

andato in Africa a cercare un coccodrillo disponibile.

Disponibile a cosa? Chiedeva l’automobilista. A mangiarselo!

Rispondeva Tan credi. Ah questo sarà un po’ difficile, ribatteva

l’amico. E perché? Perché mi dicono che il signor Tancredi è

come il grasso dell’arrosto. Ah pensa un po’, diceva Tancredi, e

chi gliel’ha det to?

Si dice il peccato ma non il peccatore, rispondeva il vecchio

amico. E poi guardi, lo conosco da così tanti anni che glielo pos -

so confermare anch’io: il signor Tancredi è proprio come il grasso

dell’arrosto. Allora se mi capita di incontrarlo riferirò, ris -

pondeva Tancredi, e adesso la saluto, caro signore.

Anche il buco in giardino e il coccodrillo stavano già dentro

i suoi libri, ma Tancredi ti risparmiava la fatica di leggerli. Così

quando te li regalava potevi anche evitare di aprirli e non li rovinavi.

Poi in mezzo a tutte quelle frasi, che erano già nel repertorio,

ne veniva fuori qualcuna piccola e preziosa, tipo quella di

mangiare poco.

Oppure ti guardava e ti diceva: sei stanco? Sì, in effetti sono

un po’ stanco. Ma allora ti devi riposare, vai di sopra che c’è il

mio letto. Sdraiati e dormi, se sogni un po’ sul mio cuscino mi fai

un regalo.

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DISLOCAZIONE DEGLI ORGANI

A FRONTE DI UN CUORE SPEZZATO

(SOGGETTO DI SESSO FEMMINILE)

racconto di Emilia Cesiro

illustrazione di Giulia Ferla

I Tin Dama del Sepik, in Papua Nuova Guinea, ritengono che

gli organi interni siano organizzati come una federazione e

che collaborino di malavoglia gli uni con gli altri, eternamente

mossi dall’impulso a stringersi gli uni agli altri e dal

suo contrario, l’entropia totale; la pelle non è che un sacco

che li contiene, ma che nulla può fare per farli ragionare.

*

La dislocazione degli organi a fronte di un cuore spezzato è

una sindrome comune, a lungo decorso ma con esito positivo,

che si verifica in soggetti ambosessi in seguito a un evento traumatico

di carattere emotivo, abitualmente l’inaspettata esposizione

a una serie definita di fonemi: «Non ti amo più.»

Il primo a partire è l’utero, compagno di mille avventure. Un

pesce gatto rosa, con lunghi baffi e zampine da lucertola, che si

allontana (sguscia) dalla sua sede naturale, se ne va sul poggiolo,

si accende una sigaretta e guarda la gente che passa. La cosa

bella è che, per l’utero, è sempre tardo mattino di inizio luglio,

per cui in fin dei conti, nonostante la situazione spiacevole, gli

fa piacere prendere un po’ d’aria.

L’esofago, semplicemente, esplode. Miliardi di pezzettini rosa

carne che si vanno a incollare sui polmoni, i quali, sentendosi

attaccati, si irrigidiscono. L’aria viene risucchiata verso l’interno,

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in quel cordolo che li unisce. Il cervello vorrebbe respirare autonomamente,

perché in questo momento sta tentando di raccogliere

gli indizi, farsi un quadro della situazione e limitare i dan -

ni. Tenta di trovare una via d’uscita, di solito verso le orecchie, o

il naso (mai la bocca, per via dell’esofago ormai esploso).

Il cuore si ferma e collassa su se stesso, creando un buco ne -

ro che inizia a fagocitare gli altri organi vicini. I buchi neri sono

concentrazioni di materia densissima e pesante. Il corpo nella

sua interezza si affloscia, a volte cade, a volte si siede.

Le cellule dell’epidermide si attivano e migrano a creare un

simulacro, perché la vita continua e bisogna pur andare a lavorare.

Il simulacro espleterà tutte le funzioni necessarie alla vita

quotidiana: camminare, interagire, pagare le bollette, fare la spe -

sa (che mummificherà intatta nel frigo), lavarsi (poco), comprare

qualcosa di carino per tirarsi su. Il simulacro è però vuoto: per

questo le persone tristi quando le abbracci sono leggerissime. Il

corpo originario resta lì, dove è caduto, o si è seduto, accudito

dal simulacro. Con il passare del tempo, si opera una trasmigrazione

degli organi interni: prima l’utero (a malincuore torna

nella sua sede naturale) e le ovaie, poi l’apparato digerente,

segue quello respiratorio, il cervello, il sistema nervoso, lo scheletro.

Il cuore viene rigenerato all’interno del simulacro per ef -

fetto della presenza degli altri organi. Il ciclo può avere durata

variabile, ma sempre a base sette: ore, giorni, mesi, a volte (in casi

di recidiva) anni. Alla fine della trasmigrazione il corpo originario

è divenuto simulacro, e viceversa. Il nuovo corpo, quando

torna a casa, osserva l’ex-corpo e riflette. Alla fine l’ex-corpo, o

nuovo simulacro, ormai vuoto, secca e si polverizza.

Il nuovo corpo è appunto nuovo, senza tracce del processo

di trasmigrazione degli organi, ma è lo stesso di prima, cicatrice

sul ginocchio e dente scheggiato compreso. In alcuni casi, il tessuto

miocardico presenta delle piccole aree sclerotizzate che

ten dono però a scomparire con l’uso.

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IL GIOCO

racconto di Carmen Verde

illustrazione di Francesco Buzzi

Da giorni facevo le prove: mi mettevo distesa sul letto, a mani

giunte. Una volta rubai addirittura un ciclamino dalla pianta di

mamma sul terrazzo e lo tenni fra le mani tutta la notte. Quella

sera mia sorella entrò a piedi scalzi, si accostò al letto e se ne

andò com’era venuta, lasciando socchiusa la porta. Arrossì la

mattina dopo, quando mi vide in cucina alla solita ora, china

sulla scodella del latte. E subito s’imbronciò, quasi dispiaciuta

che non fossi morta per davvero. Sss, feci sottovoce, è un segreto...

Lei distolse lo sguardo, lo faceva sempre. Non mi offendevo:

quello era l’unico momento in cui il mio sguardo e il suo si in -

contravano. Il mio occhio storto provava allora una specie di

gioia, le mandava un sorriso lieve.

Cominciai il gioco per Maddi, soltanto per farle piacere.

Mia sorella aveva i capelli scuri e una carnagione di pesca,

pareva una Madonna. I suoi occhi erano una benedizione, trasparenti

come perle; i miei, invece, sfuggivano di lato, brutti

come l’orlo sbeccato del bricco per il latte. Maddi osava guardarli

soltanto di nascosto, e anche allora pareva li studiasse,

come si fa con un insetto: credo cercasse, da qualche parte in

loro, l’origine dell’errore. Ci stupivamo entrambe della nostra

so miglianza. I miei capelli erano scuri come i suoi, eppure parevano

sbiaditi. Accanto a lei, io stessa sbiadivo. Eravamo come

attaccate per le piante dei piedi, lei di sopra, io di sotto, cosic-

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ché vivevo solo di riflesso. Mia sorella aveva per me un’ostilità

che lasciava senza fiato. Ma anche disprezzandomi − quasi che

tutta la mia vita, non solo il mio occhio, fosse uno sbaglio − non

poteva allontanarsi da me. Io l’amavo, non potevo non amarla. E

più le volevo bene, più mi sentivo sola. Tutto di lei fluiva in me,

cieco, rovesciato, come il sole in una pozzanghera: Maddi mi

scorreva sul viso come una lacrima di seconda mano. Come gli

uccelli, i gemelli si dividono in chi cerca tutte le note e chi si

accontenta di ripeterne una soltanto. Io ripetevo quell’unica

nota, la più profonda. Non ero felice, ma svolgevo il mio compito,

con umiltà.

La sera dopo giocai di nuovo a morire, di nuovo lasciai accostata

la porta. Lei tornò. E la sera dopo anche; e poi di nuovo. Da

bambini le notti sono lunghe un’eternità, io attraversavo fret -

tolosamente le giornate per arrivare al traguardo. Cosa aspettano

i bambini? Io aspettavo che mamma andasse a dormire; allora

mi mettevo distesa, al buio. Maddi arrivava e finalmente ap -

poggiava la testolina sulla mia coperta: con tenerezza, tanto che

mi sembrava di non conoscerla affatto.

Fuori, oltre i tetti, lungo la strada non asfaltata, le baracche

dei fiorai rimanevano aperte tutta la notte, i vasi colmi di fiori

recisi, circondati da nugoli di zanzare. Un giorno, chissà, Maddi

e io saremmo morte per davvero (oppure a noi non sarebbe toc -

cato morire?). Nell’attesa, ci sbiancavamo le labbra a forza di

morderle, lasciando le finestre spalancate perché il cielo ve glias -

se su di noi. A volte i suoi capelli mi restavano impigliati nelle

unghie e la mattina dopo, appena sveglia, li conservavo nella

scatolina dell’anello, regalo per la mia prima comunione (l’anello

che non si poteva mettere, con lo zircone che a forza di stare

al chiuso s’era fatto opaco).

Quella sera, sentii la porta della camera aprirsi, e mi parve

che Maddi entrasse. Mi sembrò addirittura che l’aria mossa dalla

sua camicia da notte facesse oscillare la fiammella della candela

che tenevo tra le dita. Invece quella fu la prima volta (la prima)

che non entrò. Dopo un’ora, forse due, la candela si spense. Al

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mattino, gli occhi perfetti di Maddi mi parvero più seri, stanchi.

Non tornò più, né quella notte né quelle dopo. Io non smettevo

di aspettarla: con la stessa intensità, a occhi chiusi (soltanto

chiusi i nostri occhi si somigliavano, finalmente). Cercavo di

indovinare il suono sordo dei suoi passi, ma le notti trascorrevano

senza passi, piene solo di attesa e impazienza. Era quella

l’eternità? Il buio si faceva via via più scuro e poi via via più chiaro

e poi via via più niente. Lei non veniva più. Sì, forse avrei

potuto fermarmi: stop, fine. Invece, tutte le notti morivo per

gioco. E tutte le mattine, per gioco, tornavo in vita. Era un veleno,

e insieme un calmante. Può essere atroce, l’infanzia.

E Maddi? Oh, sapeva che alla fine sarei andata io da lei.

Altrimenti perché, quella sera, lasciò la porta della sua camera

socchiusa? Spiai. La vidi. Distesa, le mani intrecciate sul petto, la

testa piegata di lato: era bella, la pelle trasparente come un ca -

val luccio marino. Ecco cosa faceva: giocava da sola. Traditrice.

Da quanto tempo? Attenta, ti trema la bocca, le dissi sottovoce.

Non era vero, volevo solo farla arrabbiare. Lei ebbe come un fremito,

ma non si mosse. Respirava appena, sotto la camicia da

notte. Respiri corti, che le lasciavano il petto quasi immobile.

Giocava bene, niente da dire. Il suo morire era sottile come un

velo; il mio, al confronto, era una mascherata. Maddi sembrava

conoscere a fondo qualcosa di cui io intuivo soltanto l’inizio. Mi

faceva rabbia il suo gioco solitario, quella mania di rubarmi sempre

tutto. Mi stesi muta ai piedi del suo letto, come un ca ne.

Perché aspettare? pensai, e lei mi lesse nel pensiero. Sì, perché

aspettare? Chi comincia? Tirammo a sorte, toccò a me. Il gioco

era semplice: non respirare nemmeno per un attimo. Fi no a

quando? chiesi. Fino a sempre, rispose. E quand’è sempre? Sem -

pre è sempre.

Trattenne il fazzoletto sulla mia bocca con delicatezza, per

aiutarmi a non respirare (era quella la regola). Mi premeva sulle

labbra, e premendo mi spingeva ancora più sotto: glugluglu.

Quanti secondi passarono? Dieci, quindici, mille, il tempo esatto

che divide il gioco dalla realtà. Maddi era sempre più lontana, in

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cima a una montagna. Lasciò che io vincessi al primo turno.

Aspetta, non sono pronta! le dissi alla fine. Ma lei non sentì.

Oppure sentì, ma non volle fermarsi. Il mio occhio storto sbatteva,

impazzito. Eppure fui brava. Rimasi immobile. La mia prova

migliore. Solo in ultimo ebbi un sussulto come un uccello che

non riesce a prendere il volo. E finalmente tutto si rovesciò. Io

sopra, lei sotto. Lei pesante, io leggera.

Vado ancora a trovarla di notte, ogni notte, per darle la rivincita

(“vado”, ma non c’è arrivo né partenza). Le sue guance di -

ventano sempre più pallide, il naso più ossuto. Ora ha al dito il

mio anello con lo zircone. Discutiamo, furiosamente. La prenderei

a schiaffi. Le trecce scure sulle spalle, i denti serrati sul labbro

di sotto, ancora prova a piegare la testa per non guardarmi

negli occhi. Ma non può: dall’alto dove sono, le piovo nel pensiero.

Dice che non vuole giocare, che non giocherà mai più.

Dice che ora è diverso. Che coi morti non si gioca.

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Ezio Azzollini

Pugliese, classe ‘83, tripartito. Da

giornalista collabora con Rivista Un -

dici, Esquire, l’inserto del Fatto Quo -

tidiano “Io gioco pulito”, varie ed

eventuali. Da aficionado della narrativa

ha organizzato il contest letterario

Spiritilibri e curato la raccolta di

racconti AfterOur #megliofuorichedentro

(LiberAria). Da vi deo maker ha

vissuto l’emo zione di essere proiettato

a Ro ma, Firenze e New York. La

sua giornata tipo è quel fantozziano

pendolo tra Italia-Inghilterra e un ci -

ne forum di Guidobaldo Maria Ric car -

delli. Le pa role sono importanti, la sua

preferita è “recrudescenza”.

Francesca Bonfanti

Dal 1992 un po’ indecisa, però

alla fine se la cava. Da bambina so -

gnava di diventare, in alternativa o

simultanea: scrittrice, archeologa,

attrice. I film li guarda al cinema,

rigorosamente prima delle 22 per

non addormentarsi. I libri li compra

cartacei, puntualmente se ne pente

quando deve fare la polvere. Nella

lista delle cose preferite da fare: passare

le giornate a girare sui tram di

Milano, quelli vecchi. Ha smesso di

voler fare l’archeologa, ma ogni tan -

to ci pensa, ai dinosauri.

Francesco Buzzi

È nato a Ferrara nel 1970. Si è

laureato in Architettura all’Uni ver si -

tà degli Studi di Venezia. Le sue illustrazioni

sono state segnalate in di -

versi concorsi e ha ottenuto il primo

pre mio al concorso Il Corto Let te -

rario e l’Illustrazione nel 2011; al

Pre mio Giunchiglia e al concorso

Striscie di Jazz nel 2012; al concor -

so La Set timana Rossa nel 1914.

www.francescobuzzi.com

Francesco Caporale

Diventa illustratore per puro ca -

so. Dopo la laurea in Graphic De sign

& Art Direction alla NABA di Mila -

no, inizia a riempire fogli volanti con

sem plice inchiostro nero scoprendo

la DoodleArt, da lui definita Arte dell’errore.

Disegna in giro, nei bar, nei

luoghi affollati. Notando l’interesse

di quel pubblico improvvisato intuisce

che con quelle linee potrebbe

convivere e sopravvivere. Nasce così

FRA!. Un nome semplice, un linguaggio

diretto. Nasce un metodo, la cui

missione è trovare la via di mezzo tra

arte e professionalità. Oggi, dopo 5

anni, conta più di 100 collaborazioni.

www.fradesign.it

Cristiano Cavina

Nasce a Casola Valsenio, in provincia

di Ravenna, nel 1974. Si nutre

di storie fin da piccolo, ascoltando i

racconti dei vec chi al bar; quando

poi scopre i libri, la sua strada è tracciata.

È autore di diversi romanzi, tra

i quali: Alla grande (premio Ton del -

li), Un’ultima stagione da esordienti,

Nel paese di Tolintesàc, I frutti

dimenticati (premio Castiglion cel lo,

premio Vigevano, premio Seranti ni,

selezione al premio Strega), Scavare

una buca, Inutile Tentare Impri gio -

nare Sogni, La pizza per autodidatti.

È appena uscito il suo ultimo ro -

manzo: Ottanta rose mezz’ora.

Emilia Cesiro

47 anni, è nata a Napoli ma vive

a Genova per colpa di Khomeini. A 6

anni ha visto una signora che cullava

una bambola: non ha più smesso di

scrutare le persone. Voleva fare l’as -

tronauta, ha studiato Antro pologia e

ora insegna Lettere alle medie. Ama

tantissime cose e persone (i luoghi

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comuni, Magritte, le code alla posta,

le parentesi, i gatti) e ne odia po che

(gli autobus quando piove, Pi casso

come persona, il cake design), ma

cambia idea facilmente. È tra gli autori

del Reper torio dei matti della città

di Genova. Legge, scrive, non sempre

inizia quello che finisce.

Marcello Crescenzi

Nato a Roma, dopo diversi anni

di lavoro come graphic designer nel

2006 si è dedicato completamente

all’illustrazione con il progetto Rise

Above con il quale ha spesso esplorato

la cultura popolare, la storia e,

più in generale, i territori del folklore,

del simbolismo, del fantastico e

del leggendario. Il suo lavoro è stato

pubblicato in Italia e all’estero ed è

apparso su riviste come Dazed, Rol -

ling Stone, Vice e Wired. Ha vinto il

premio Creative Quarterly ed è stato

selezionato al concorso di Tapirulan.

www.riseabove.it

Luca Fabbri

Nato nel luglio del 1964 a Roma,

città dove attualmente lavora pres -

so un dipartimento universitario. Di

for mazione architetto, è da sempre

appassionato di disegno, illustrazione,

fotografia e attività creative in ge -

nere: spazia dal mondo del digitale e

delle tecnologie informatiche ad am -

biti e tecniche più tradizionali co me

quella della grafica incisa. Ha di re -

cente pubblicato la sua prima graphic

novel dal titolo Sanguedalnaso.

www.box64.net

Marco De Masi

Nato nel 1993, attualmente vive

e lavora come illustratore a Milano.

Fin da piccolo ha sempre dimostrato

una passione innata per le arti visive.

Dopo aver conseguito il diploma

del Liceo Artistico, ha iniziato la sua

carriera da illustratore curando l’as -

petto grafico, dapprima in ambito

mu sicale e successivamente in quello

editoriale. Il suo lavoro spazia tra

il cartaceo e il digitale, dalle forme

fluide della matita a quelle geometriche,

con particolare attenzione a

man tenerne vivo l’aspetto pittorico.

instagram.com/marco.demasi

Andrea De Luca

Illustratore e grafico, lavora per

uno studio di Firenze – Officina Gra -

fica – e trascorre il tempo libero fa -

cendo ciò che ama: disegnare. I progetti

personali o le commissioni so -

no la sua dedizione quotidiana.

www.andreadelucaillustration.com

Giulia Ferla

Nasce a Milano in un nebbioso

Ottobre del 1989. Inizia i suoi studi

al Liceo artistico e prosegue poi

all’Accademia di Belle Arti di Brera.

Dopo una serie di esperienze artistiche

classiche e rigorose, Giulia de -

cide di frequentare il Triennio alla

Scuo la delle Arti Applicate del Ca -

stello Sforsesco, dove si avvicina al

mon do dell’illustrazione e dell’edi -

toria. Attualmente organizza mostre

del le sue opere, esegue illustrazioni

su commissione e insegna illustrazione

alla Scuola delle Arti Applicate

del Castello Sforzesco.

Dimitri Fogolin

Pare che il suo imprinting risalga

a una mostra di Altan ma non si

sa quando né come... Nel 1996 fonda,

insieme ad altri compagni, il magazine

a fumetti faMe!. Nel 1997 na-

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sce la casa editrice Fame Comics.

Poi incontra Stefano Ratti, autore

delle sceneggiature di Fame Nera,

Don Salvo e Diabolic, strip umoristiche

di cui diventa il disegnatore.

Pubblica inoltre Turno di notte, sceneggiato

da Gianfranco Camin. Ora

lavora come illustratore e colorista

per editori belgi e francesi. Nel tempo

libero progetta strategie per la

conquista del mondo dei fumetti e

dell’illustrazione.

www.dimitrifogolin.it

Marina Girardi

Nata tra le montagne bellunesi

nel 1979. I suoi libri prendono spesso

la forma del diario di viaggio: Kur -

den People (tradotto in Francia da

L’Agrume Edition), Appennino e Tut -

ta discesa, tutti e tre editi da Com -

ma 22 editore. Nel 2015 esce per To -

pipittori Capriole, l’autobiografia

del la sua infanzia nomade. Al sabato

dipinge in strada con la sua bicicletta

da pittrice e poi – per mettere

radici – la domenica canta le canzoni

della Donna Albero.

www.magira.altervista.org

Luca Iori

Nato il 27 luglio 1983 a Reggio

Emilia, ha studiato Filosofia all’Uni -

ver sità di Bologna. Adesso ripara i

computer, o cerca di fare in modo

che non si rompano, in un’azienda

metalmeccanica.

Alberto Ipsilanti

Nasce a Milano dove vive e la -

vora. Usa la matita da sempre sperimentando

tutte le tecniche e tutti gli

stili possibili. Dopo gli studi si specializza

nell’illustrazione tecnica im -

parando a disegnare le righe diritte,

collabora con le più quotate case

edi trici del settore automobilistico,

nautico e turistico. Nel 2004 ritorna

alle linee curve e diventa uno dei titolari

di Capricorn, un’agenzia creativa

che fa parte del gruppo VM6 - il luo -

go delle idee.

www.vm6.it

Stefano Lodi

Nato a Modena il 24 dicembre

1960. Agente di commercio. Tra il

1978 ed il 1982 ha partecipato ad

alcuni premi nazionali di letteratura,

vincendo o giungendo in finale. Da

allora non ha più cercato confronti

sino al 2010, quando il racconto Il

mare si è fermato, finalista al premio

Racconti nella rete, è uscito in

antologia per l’editore Nottetempo.

Giulia Manno

Si laurea in Storia perché, incapace

di vivere il presente, cerca un

modo per tornare indietro nel tem -

po. Non riuscendoci finisce per fare

un sacco di storie. Qualcuna di queste

la racconta. Scrive a scapito della

pigrizia perché ama le parole. Oltre

ai cani, il cinema e le caramelle. In

questo momento è felice perché ha

appena finito un Bartezzaghi.

Angelo Mozzillo

È uno che non sa stare al centro

dell’attenzione. Detesta i compleanni,

è incapace di reagire ai complimenti,

è angustiato dal dover scrivere

una propria biografia. Eppure da

sempre soddisfa velleità artistiche

che inevitabilmente lo portano a es -

sere giudicato, dirigendo cortometraggi

e scrivendo sceneggiature, rac -

conti, reportage e libri per bambini.

Come se non bastasse, è celiaco.

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Giulia Pastorino

Nata nel 1991 a Genova, si for -

ma all’Accademia di Belle Arti, poi si

trasferisce a Urbino dove studia Illu -

strazione all’ISIA. Non ha mai smesso

di disegnare. Adora i colori cal di,

non ha paura di sporcarsi e ogni tan -

to combina qualcosa di buono. Nel

2016 è tra gli illustratori selezionati

alla Bologna Children’s Bo ok Fair e

nello stesso anno vince il con corso

di illustrazione di Tapirulan. A gennaio

2019 pubblica il suo primo libro

illustrato, Il Ca pi ta no d’Albertis e le

sue entusiasmanti imprese, edito da

Tapi rulan e Mat ti da rilegare.

giuliapastorino.tumblr.com

Umberto Pessina

Inventa il flipper, la carta carbone

e l’argomento a piacere, vince il

Nobel per la Letteratura nel 2114 e

nessuno gli crede. Non avendo vie di

scampo, è nato a sua insaputa. Luogo:

San Fruttuoso di Monza. En tra a scuola

nel 1959 ed è ancora lì. Insegna

Musica. In certi momenti di vor zie reb -

be da se stesso. Ama la Pi na, la sua bi -

cicletta da corsa, unica femmina che

lo abbia amato per quel che è: un

esperimento. Ha smesso di fumare e

gli è venuto il diabete.Anar chico francescano,

scrive perché tut ti i ciclisti

adorano la Madonna, an che quando

be stemmiano.

Alessio Pollutri

Sempre in bilico fra diversi linguaggi

espressivi, affronta l’urgenza

di dover dire la sua per star bene al

mondo e godersi un divertente trapassare.

Nasce come circense ma del

circo a trent’anni gli resta solo la pas -

sione per l’impossibile, per la fragilità

e per i pagliacci.

www.alessiopollutri.com

Niccolò Pugliese

Nacque. Un giorno morirà, speriamo

non oggi. Nel mezzo fa cose

più o meno discutibili tra cui scrivere,

poco e a fatica. Ha pubblicato un

libro di favole con l’illustratrice Ma -

ria Sciarnamei, I disegni di Maria

(Morlacchi, 2015) ed è autore, con

Tom maso Filighera, di un saggio de -

dicato al misterioso Sudario Bran do,

Chi è Sudario Brando? (Le Pic cole

Pagine, 2017). Ringrazia sua mam ma

per avergli regalato due muc che pe -

lu che e David Foster Wal lace per il

racconto Piccoli animali senza es -

pressione, che lo ha spinto a scrivere.

Alessandro Ripane

Nasce a Genova nel 1989. Per

tutto il periodo dell’infanzia è stato

un esperto di animali feroci e di

supereroi, conoscenze che si sono

rivelate ben presto inutili, visto che

nella sua amata città natale non è

presente nulla di tutto ciò. Molte

cose sono cambiate da allora, anche

se ogni tanto un Batman fatto male

lo disegna ugualmente.

www.alessandroripane.com

Guido Rosa

Nato nel 1951, vive e lavora a

No vara. Dopo una formazione tecnica

e un inizio di studi in architettura

preferisce, dal 1975, esprimersi attraverso

il fumetto, la grafica e l’illustrazione

finché nel 1988 – sopraffatto

dalla cu riosità – inizia a lavorare con

il computer, diventando uno dei

primi illustratori professionisti a usa -

re il digitale. Collabora anche con di -

versi pe riodici stranieri e in Italia

per alcune delle più importanti te -

state delle varie ca se editrici, per

agenzie pubblicitarie e aziende.

www.guidorosa.it

91


Gaspare Scimò

“Intelligente ma non si applica”,

questo gli dicevano a scuola. Ha iniziato

ad amare i libri quando ha po -

tuto sceglierli e ha iniziato a scrivere

perché non poteva farne a me no. Da

allora ha partecipato a diverse antologie

di rac conti, ha scritto nella ru -

brica dei lettori de La Re pubblica Pa -

lermo, ha vinto il premio lettera rio

Rac conti nella rete e di versi suoi

rac conti so no andati in on da su Rai

Radio 2 e Radio 24. Ma gari, il giorno

in cui inizierà ad applicarsi, vincerà

lo Strega.

Ombretta Tavano

Nasce nell’estate del 1998 sulla

costa ionica calabrese. Dopo il liceo

si trasferisce a Torino, dove ha concluso

il corso di Illustrazione presso

la Scuola Internazionale di Comics e

dove attualmente frequenta l’indirizzo

Didattica dell’arte presso l’Acca -

demia Albertina. Nel 2017 collabora

con la rivista CARIE Letterarie illustrando

un racconto di Luigi Romo -

lo Carrino. Nel 2018 pubblica il suo

pri mo romanzo illustrato, Il terribile

testamento di Jeremy Hopperton,

scritto da Davide Morosinotto, edito

da Solferino / Corriere della Sera.

www.behance.net/Morwen

Paolo Triulzi

Nato a Milano nel 1979, autore

di poesia e narrativa, ha pubblicato

alcuni libri: Fortuna (Albalibri), Feb -

bre (Pratiche dello Yajé); Polve re &

Macigni (Foschi). Di versi suoi racconti

compaiono sul blog letterario

Poetarum Silva.Appas sio na to di cul -

tura e ristorazione orientale, ne scrive

sul blog Asian Food Milano.

paolotriulzi.altervista.org

Giovanni Venanzi

Scrivere la sua biografia non gli

piace, c’è ancora di più e di meglio

che deve succedere. Formazione uma -

nistica incompiuta, molta azienda, tut -

to quello che ha fatto gli è piaciuto e

lo rifarebbe, anche farsi inseguire dai

tori nell’encierro di Pam plo na. Inevitabilmente

ama le parole e le storie, in

particolare i racconti bre vi, meglio le

persone complesse del le trame complicate.

Mentre scrive pensa che, stavolta,

troverà qualcuno che senta

quello che lui sente.

Carmen Verde

Nata a Santa Maria Capua Vetere,

in provincia di Caserta, cosa troppo

lunga da dire e da scrivere perciò di

solito se la sbriga dicendo che abita

a Roma. Suoi racconti sono stati pubblicati

da Notte tem po, Babbomorto

Editore, Cadil lac e Succedeoggi. È tra

gli autori segnalati dal Premio Cal vi -

no 2018. Porta gli occhiali, tende a

scusarsi esageratamente. Nel 2019 u -

scirà il suo primo romanzo, scritto a

quattro mani con Alex Oriani.

Daniela Volpari

Nata nel 1985 a Roma. Dopo il

liceo artistico si diploma alla Scuola

Internazionale di Comics al corso

triennale di Illustrazione. È stata selezionata

in di versi concorsi del settore:

Scar pet ta D’Oro, Luc ca Comics &

Games, Illustrissimi, e nel 2010 vince

il con corso di illustrazione di Tapirulan.

Principalmente illustratrice

per bambini e ragazzi, ha all’attivo

alcune pubblicazioni in Italia e all’estero

(Francia, Canada, Nuova Zelanda).

Attualmente sta collaborando

con diversi editori francesi.

danidani.carbonmade.com

92



sjette

Antologia del concorso

di racconti Tapirulan

Sesta edizione

© 2019 Tapirulan

www.tapirulan.it

info@tapirulan.it

Segreteria organizzativa

Guido Casamichiela, Rosa D’Onofrio

Presidente di giuria

Cristiano Cavina

Redazione

Enrico Cantino, Guido Casamichiela,

Massimo Cauzzi, Rosa D’Onofrio,

Flavia Montecchi, Matteo Pelliti,

Anna Stella Poli, Marco Ragaini,

Roberto Stradiotti

Hanno collaborato

Letizia Anelli, Andrea Rampi,

Elena Toninelli

Progetto grafico

French

Immagine di copertina

Serena Mabilia

Si ringrazia

Guido Scarabottolo

ISIA Urbino - Illustrazione per l’editoria 2

Stampa

Fantigrafica

Cremona, febbraio 2019

Edizioni Tapirulan

ISBN 978-88-97199-88-5





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