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a quello o alla fune della Vigliacca che lo faceva volare su e giù
per il campanile.
Una domenica decidemmo di nascondergli il secchio e gli
strac ci. Fu una cosa stupida. Credemmo di poter fare quello che
ci pareva senza dirgli niente, trattandolo alla fine come quei
ragazzi del bar che lo prendevano in giro. Trattandolo da scemo.
Quando Minghì non trovò il secchio cominciò a urlare e a
strillare. Era fuori dalla grazia di Dio. Rovesciò le panche della
cappella votiva, lanciò lontano il turibolo e prendeva a pugni i
muri. Nemmeno l’Arci Menetti riusciva a calmarlo: i suoi occhi
docili e stupiti di bambino avevano lasciato il posto a due tizzoni
ardenti, che bruciavano di rabbia. Parevano gli occhi di un
predatore.
Andammo di corsa al convento delle Orsoline e quando arrivarono,
nemmeno loro riuscirono a calmarlo, ed erano stupite e
impaurite perché mai aveva fatto così.
Iniziò a calmarsi solo dopo che dicemmo di avergli nascosto
il secchio, e ci mise comunque più di un’ora a tornare normale,
coccolato dalle sue Suorine.
In realtà quelle che lo avevano cresciuto da piccolo erano
morte, tranne Suor Irma la cuoca, ma lui pareva non accorgersene,
perché tutte vestite così di bianco, con quei veli in testa, a lui
dovevano sembrare la stessa persona. Erano le sue mamme.
Alla fine andò a pulire quel catorcio di organo, che lo lucidava
con così tanta foga che lo consumava. Avreb be fatto meno
danni a lasciargli prendere la polvere.
Ci prendemmo una sgridata colossale dall’Arci Menetti e
dalle Suore.
«Non fatelo mai più», dissero.
Cer cammo di spiegare che era per non farlo prendere in giro
dai ragazzi del bar e forse perché eravamo un po’ invidiosi che
lui potesse andare sul balconcino e noi no.
E fu allora che l’Arci Menetti ci spiegò tutto.
Raccontò che durante la guerra una colonna di carri armati
tedeschi e camion pieni di brutti ceffi della Brigata Nera si trovò
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