Bombeiros
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bombeiros
Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it
Bombeiros
Antologia del «Concorso di racconti Tapirulan»
© 2012 Associazione Culturale Tapirulan
www.tapirulan.it
info@tapirulan.it | racconti@tapirulan.it
Presidente di giuria
Gianluca Morozzi
Redazione
Alberto Calorosi, Enrico Cantino, Guido Casamichiela
Giorgia Cavazza, Roberto Stradiotti, French
Progetto grafico
French
Stampa
Fantigrafica, Cremona, ottobre 2012
Si ringrazia
João Vaz de Carvalho
Vigili del Fuoco di Cremona
Edizioni Tapirulan
ISBN 978-88-97199-14-4
Indice
9 Prefazione
di Guido Casamichiela
13 Little Tony contro gli alieni
racconto di Gianluca Morozzi
illustrazione di Lucio Villani
23 Eleonora
racconto di Alessandro Sesto
illustrazione di Daniele De Batté
29 Ferrania Pancro
racconto di Marco Alfano
illustrazione di Guido Scarabottolo
35 Il Bar sotto la neve
racconto di Trap
illustrazione di Dimitri Fogolin
41 Le mie chiappe e il mio smalto
racconto di Maurizio Perelli
illustrazione di Andrea Gualandri
47 Valzer per marionette
racconto di Luca Dore
illustrazione di Luca Fabbri
53 Le sorelle
racconto di Francesca Marchegiano
illustrazione di Arianna Papini
57 Giovanni “John” La Guaina
racconto di Roberto D’Agostin
illustrazione di Daniela Volpari
63 Io sono l’altra
racconto di Edoardo Brosio
illustrazione di Faber
69 La begonia
racconto di Rosanna Spinazzola
illustrazione di Margherita Allegri
73 Dissertazione attorno alla lettura
di un quotidiano da parte di un malvivente
racconto di Andrea Cirillo
illustrazione di Claudio Arisi
79 La scheggia nella salsa
racconto di Donatella Azzollini
illustrazione di Giuseppe Braghiroli
87 Autobiografia per E.C.
racconto di Franjo Matanovic
illustrazione di Giorgio Fratini
89 Scrittori e illustratori
Note biografiche
Nota Introduttiva
Bombeiros è il minore di quattro fratelli. I fratelli più
piccoli, si sa, sono i più coccolati. I più viziati, forse. Ma sono
anche quelli da cui ci si aspetta le cose più grandi.
Bombeiros condivide coi fratelli maggiori Cyclette, Bufanda
e Souvlaki il medesimo patrimonio genetico: una raccolta
di racconti selezionati attraverso un concorso e illustrati
da artisti nominati dagli scrittori stessi. Di diverso ha
un presidente nuovo di zecca, lo scrittore e musicista Gianluca
Morozzi. La gestazione di Bombeiros è stata difficile.
Difficile selezionare solo dodici racconti tra gli oltre cinquecento
pervenuti in redazione; difficile scegliere il vincitore
del concorso tra tante opere così diverse per tematica
e stile. Ma ora Bombeiros è nato. Oltre ai magnifici dodici
contiene un racconto inedito di Gianluca Morozzi. Abbiatene
cura. Bombeiros saprà spegnere la vostra sete di storie,
saprà estinguere il fuoco sacro delle parole che vi brucia
dentro. Ora accostatelo all’orecchio. Ascoltate. Riuscite a
sentire il suono della sirena che si avvicina?
Prefazione
di Guido Casamichiela
Ecco: i Nostri sono tornati. I Nostri sono cambiati.
Oddio cambiati, i polpacci sono sempre quelli – anni e
anni di cyclette glieli hanno forgiati duri come acciaio temperato
–, il collo è ancora pieno di pallini di lana che provengono
da quella vecchia sciarpa spagnola da cui non si
sono mai separati, il ventre porta i segni delle pantagrueliche
abbuffate di spiedini greci degli ultimi anni. Ma ora i
Nostri hanno sentenziato: basta, siamo cambiati.
Quando i Nostri hanno capito di essere cambiati si sono
detti: ve’, e se per suggellare il cambiamento ci iscrivessimo
a un corso per pompieri? Qualcuno ha aggiunto: dai, facciamo
i pompieri portoghesi! Forse quello ingenuo, coi capelli
a scodella e gli occhi cisposi, ma che sia investito da un autopompa
in retromarcia se sono sicuro che fosse lui.
Qualcun altro, non ricordo chi, forse quello stralunato,
col naso a becco d’anatra e i baffi a manubrio, ha chiesto:
com’è che si fa a fare i pompieri portoghesi? Forse non pagando
il corso da pompieri?
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Nessuno degli altri, pare, ha mai risposto a quel doppio
interrogativo. Quel che è certo è che quando alla fine quel
corso da pompieri i Nostri hanno deciso di farlo – e che possa
scendere giù dal palo dei pompieri in mutande e canottiera
ed essere scambiato per un lap dancer se qualcuno di loro
l’ha poi pagato, quel corso per pompieri portoghesi – di prove
da superare gliene sono toccate tredici, non una di meno.
Prima prova: salvataggio botanico. L’insegnante del corso
ha ordinato ai Nostri di arrampicarsi sopra un balcone:
c’era una begonia che stava morendo affogata. I Nostri hanno
eseguito. Tutto procedeva al meglio, ma quando stavano
per scendere uno di loro – quello passivo, con le occhiaie sudate
e le unghie delle mani mangiate fino all’osso – si è preso
un calcio da una bambina arrabbiata, anche se non con
lui; forse con la mamma, o col papà. E va bene, è andata così.
Seconda prova: disseppellimento nevoso. I Nostri si sono
catapultati a salvare un gruppo di giocatori di carte bloccati
dentro un bar sepolto nella neve. Campioni di ingratitudine
più che di briscola, i giocatori li hanno cacciati in malo
modo: si vede che non avevano voglia di essere salvati, o
che non avevano ancora finito la partita. Stavolta la pedata
se l’è buscata quello avido, col petto di piccione e la bava
rappresa agli angoli della bocca.Vai a far del bene.
Terza prova: ispezione impianto elettrico. I Nostri si sono
recati in una casa di riposo per fare un sopralluogo.
C’era stato un black out, la notte di Capodanno: si era rovesciato
dello spumante sui cavi elettrici della sala da pranzo.
Quella volta ai Nostri non è andata malissimo. Li hanno ringraziati
tutti tranne un vecchio che li ha guardati di traverso,
ancora col bicchiere in mano, senza dire una parola. Ormai
erano abituati. Se l’è presa solo quello permaloso, col
mento asburgico e le scapole estroflesse.
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Quarta prova: estrazione schegge. I Nostri sono stati
chiamati per rimuovere una scheggia in un appartamento.
Uno di loro – quello scaltro, con gli occhiali equivoci e le
guance scavate – era molto su di giri all’idea di togliere delle
schegge; ma quando poi sono arrivati e hanno verificato
che si trattava di una scheggia finita non si sa come nella
gola di un tizio, hanno abbandonato l’appartamento precisando:
noi siamo il 115, mica il 118.
Quinta prova: spegnimento bollori. I Nostri hanno ricevuto
l’ordine di intervenire per fermare una coppia troppo
focosa. Arrivati sul posto – questa volta a essere su di giri
era quello subdolo, con le spalle scese e le labbra esangui –
hanno trovato un uomo e una donna che evidentemente
avevano già terminato di essere focosi: fumavano una sigaretta,
guardavano un accendino sorridendo. I Nostri hanno
battuto la ritirata non prima di aver ricordato di non scherzare
col fuoco. Il ruolo glielo imponeva.
Sesta prova: salvataggio animali anomali. I Nostri si sono
precipitati in un parco: era giunta voce che una strana bestia
stava appollaiata su un sicomoro. Una volta raggiunto il
parco, sono saliti con la loro brava scala allungabile sull’albero,
ma non hanno trovato nessuna bestia. C’era solo, appallottolata,
la pagina di cronaca di un giornale. Si parlava di una
rapina. Non ci hanno capito niente, soprattutto quello tardo,
con la faccia ottagonale e un pallottoliere sempre in tasca.
Settima prova: telefono amico. Si è messa in contatto
coi Nostri una certa Boo, chiedeva di salvare sua sorella Boo
prima che si sposasse col poliziotto. La donna era in evidente
stato confusionale. Farfugliava di un filo rosso, di centomila
manichini, di un linguaggio speciale che la legava a
Boo, o a Didi, o chissà a chi. Anche questa volta i Nostri
brancolavano nel buio più buio; tutti tranne quello trasanda-
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to, con la barba piena di molliche e il gilet bucherellato, che
pensava di aver capito ma si sopravvalutava.
Ottava prova: gestione segnalazioni acrofobiche. Un signore
trafelato ha segnalato ai Nostri un ragazzino in una
posizione pericolosa perché prossima a un parapetto. Che
posizione? Gli ha chiesto quello inaffidabile, con i peli sulle
braccia distribuiti a caso e i polsini della camicia sporchi di
taleggio. Una verticale, ha risposto il signore. Una verticale?
E da quanto la fa, la verticale? Ha chiesto sempre l’inaffidabile.
Eh, saranno ormai cinquant’anni. Ha detto il signore. I
Nostri gli hanno indicato l’uscita.
Nona prova: soccorso infantile. I Nostri sono corsi in
aiuto di una bimba sul ciglio di una strada. La bimba cercava
la sorella. Uno dei Nostri – quello capzioso, con gli zigomi
ammaccati e le palpebre trasparenti – le ha domandato
se per caso sua sorella si chiamasse Boo. La bimba non ha
risposto niente, li ha guardati a lungo e poi ha ripreso a
camminare lungo il ciglio della strada. I Nostri si sono sentiti
inutili come idranti prosciugati.
Decima prova: neutralizzazione grafomaniaco. I Nostri
hanno ispezionato un caseggiato, dentro c’era un ragazzo
grafomane che scriveva sui muri, sul pavimento, sulle pareti,
dappertutto. I vicini dicevano che era un pazzo sociopatico.
Uno dei Nostri – quello polemico, con il collo taurino e le
sopracciglia albine – gli ha chiesto perché diavolo non la
smetteva. Per tutta risposta il grafomane gli ha scritto qualcosa
sulla fronte in una lingua sconosciuta. I Nostri hanno
annuito all’unisono.Tanto per fare.
Undicesima prova: accerchiamento e disarmo. I Nostri
hanno ricevuto l’indicazione di raggiungere piazza Cavour.
C’era un uomo che sembrava un incrocio tra il ragionier Ar-
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turo de Fanti e Clint Eastwood. Aveva una pistola in mano e
tanta gente intorno. Circondiamolo ragazzi, ha detto quello
decisionista, con le dita delle mani palmate e le ginocchia
femminili. Ma quell’uomo era già circondato da tutta quella
gente, allora per non creare intralcio sono tornati in centrale.
Dodicesima prova: incarico ufficiale. L’insegnante –
mancava poco alla consegna degli attestati – ha chiesto ai
Nostri di seguirlo per una specie di incarico ufficiale. Si stava
recando presso l’abitazione di una sua amica, una certa
Eleonora, perché ne aveva perso le tracce e voleva capire
cosa fosse accaduto.Venite con me, ragazzi? Ha chiesto l’insegnante.
Ci spiace capo, ma è il quintultimo giorno del corso
e non ci sentiamo più di rischiare, ha risposto quello vigliacco,
con le tempie pustolose e le clavicole zigrinate.
Peggio per voi, ha detto l’insegnante. Sarà, hanno detto loro.
Tredicesima prova: missione impossibile. I Nostri stavano
per ritirare il loro attestato di pompieri portoghesi, un
attestato con tanto di bollo e ceralacca, quando l’insegnante,
ancora indispettito per la faccenda di Eleonora, se n’è
uscito con un ricatto bello e buono. Voi non avrete nessun
attestato se non portate a termine almeno un’azione degna
di questo nome. Per esempio? Ha chiesto quello diabolico,
con la voglia vinaccia sulla testa e la scritta Glasnost tatuata
sui glutei. Per esempio, salvare Little Tony dagli alieni. Ha risposto
l’insegnante.
I Nostri hanno sogghignato, si sono scambiati un cenno
d’intesa, hanno strappato gli attestati dalle mani dell’insegnante
e sono scappati facendo forza sui potenti polpacci.
Direzione Lusitania.
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Little Tony contro gli alieni
racconto di Gianluca Morozzi
illustrazione di Lucio Villani
Nessuno, neppure Nostradamus, avrebbe mai pensato a
Little Tony. E dire che Nostradamus, nel suo modo oscuro e
sottilmente vago, tante cose le aveva indovinate. Ma in nessuna
delle sue quartine, anche a leggerle con attenzione, si
fa riferimento all’interprete di Riderà, Cuore matto, Bada
bambina o La spada nel cuore. Quando non ci si può più fidare
neppure di Nostradamus, significa davvero che è arrivata
la fine del mondo.
E infatti questo era accaduto, il giorno che Antonio Ciacci
detto Little Tony si era fatto avanti senza paura, aveva alzato
il dito e aveva fatto una domanda: era arrivata la fine
del mondo.
Cioè, se proprio ci avessero detto: il primo essere umano
che parlerà con gli alieni sarà un famoso cantante, magari
avremmo pensato a Bono Vox. E se ci avessero detto: no, Bono
Vox non va bene, dev’essere italiano, magari avremmo
pensato, mah, a Battiato. Ce l’ha l’aria di uno che è abituato
a parlare con gli alieni.
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Certo, più lui di Little Tony.
Perché altrimenti, se ci avessero chiesto: chi sarà il primo
essere umano a parlare con gli alieni, anche non cantante?,
forse avremmo pensato, non lo so, al Dalai Lama. O a
Obama. O magari a Garcia Marquez.
Che forse, chissà, se un veggente fosse andato da un bambino
di dieci anni di nome Antonio Ciacci, a Tivoli, nel 1951,
e gli avesse detto Ragazzo, sappi che tra qualche anno prenderai
il nome d’arte Little Tony, ispirandoti al celebre cantante
Little Richard, avrai un enorme successo con canzoni quali
Riderà, Cuore matto, Bada bambina, La spada nel cuore,
sulle soglie dei settant’anni non solo sarai ancora in giro con
il tuo ciuffo e la tua chitarra a cantare Riderà, Cuore matto,
Bada bambina e La spada nel cuore, ma sarai pure il primo
uomo a parlare con gli alieni, mah, secondo me, a occhio,
Antonio Ciacci – di anni dieci – avrebbe preso la fionda e
bombardato il veggente con dei sassi raccolti sulla strada.
E invece era andata proprio così.
In spregio a Nostradamus.
In quel momento storico, quando Little Tony si era fatto
avanti col ditino alzato per fare una domanda ai due alieni,
la situazione era leggermente surreale.
Cinquantasei milioni di italiani erano ammassati dentro
un’astronave piuttosto grande. Decisamente grande. Indubbiamente
grande.
Dentro quest’astronave, cinquantasei milioni di italiani
stavano più larghi di come sarebbero state cinquantasei persone
in un vagone della metropolitana di Roma alle sette e
mezzo di un lunedì mattina.
Tutti quei cinquantasei milioni di italiani, tutti, gli operai,
i professori, gli studenti, i tranvieri, i perdigiorno, gli installatori,
i terzini della Sampdoria, le pupe, i secchioni, i killer
della mafia, i palazzinari, i corruttori, i servizi segreti deviati,
il cast di Boris, i Diaframma, gli ex membri dei Diaframma, i
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Litfiba, gli ex membri dei Litfiba, i finalisti del premio Strega,
la giuria del premio Strega, i killer della camorra, lo scrittore
Roberto Saviano, i killer della camorra che guardavano di
sottecchi lo scrittore Roberto Saviano improvvisamente nervosissimo,
la cuoca de La prova del Cuoco, i conduttori di
Forum, la squadra azzurra di Amici, il centrocampo del Cesena,
Paolo Villaggio, i Nomadi, gli ex membri dei Nomadi, tutti
quei cinquantasei milioni di italiani, strappati senza preavviso
dalle rispettive attività, se ne stavano a naso in su in quella
specie di enorme navata di luccicante metallo a guardare
una piattaforma sospesa a mezz’aria, e su quella piattaforma,
a braccia conserte, c’erano Stan Laurel e Oliver Hardy.
Meglio noti, ai più, come Stanlio e Ollio.
Stanlio e Ollio, in realtà, non erano affatto Stanlio e Ollio.
Lo avevano spiegato subito, per bocca del più grasso dei due.
«Chiariamo subito una cosa», aveva detto quello con le
sembianze di Oliver Hardy. «Queste non sono le nostre sembianze.
Noi siamo alieni. Il nostro vero aspetto, senz’altro,
avrebbe provocato crisi di panico e moti di terrore nei più
impressionabili di voi.»
«Anche nei meno impressionabili», aveva aggiunto Stan
Laurel, alias Stanlio.
«Anche nei meno impressionabili», aveva continuato Ollio.
«Quindi, per spiegarvi la situazione con calma e tranquillità,
senza dovervi sedare artificialmente, abbiamo deciso di
presentarci a voi con l’illusorio aspetto di due icone rassicuranti.
Il nostro megacomputer dice che tutti amano Stanlio
e Ollio, che tutti, alle loro apparizioni in tv, sfoderano un
caldo e grato sorrisone. Il mio collega» e aveva guardato
storto Stanlio, che aveva scosso la testa come a dire Che
vuoi da me? «dicevo, il mio collega dubitava di questa soluzione,
diceva: Bel modo di tranquillizzare la gente, presentarsi
con le sembianze di due comici morti da più di quarant’anni,
ma a giudicare dalla vostra reazione, be’, che ne
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dite, gente? Ho avuto ragione o no?»
Da qualche angolo della sterminata folla era partito un
piccolissimo e timido applauso, subito sedato nella vergogna
generale.
Dopo un istante di pausa, Ollio proseguì.
«Allora, visto che non vi siete fatti prendere dal panico
fin qua, mi raccomando, per favore, cercate di non avere un
attacco isterico dopo quello che vi dirò tra poco. Siete
pronti?»
Nessuno fiatò.
«No, dico: siete pronti?»
Qualcuno, timidamente, annuì.
«Bene. La cosa che devo dirvi è... ragazzi, davvero, non
prendetevela, niente di personale, ma può anche darsi, oh,
chiaro, non è detto, eh?, non abbiamo ancora deciso, però,
ecco, in via ipotetica... be’, Stanlio, dai, dillo tu.»
«Perché devo dirlo io?»
«Perché, be’, ti ricordi cosa aveva detto il megacomputer,
no?, aveva detto che i magretti con la bombetta fanno ridere
qualunque cosa dicano, per quanto tragica sia...»
«Veramente il megacomputer ha detto che i ciccioni con
i baffetti fanno ridere qualunque cosa dicano, per quanto
tragica sia.»
«Ah. Quindi tocca a me, eh?»
«Certo che tocca a te, sciocco ciccione.»
Ollio si schiarì la voce. Più di cento milioni di occhi sgranati
erano fissi su di lui, in angosciosa attesa.
«Insomma, gente, eh, come dirlo, vabbè, può darsi che,
uhm, ah ah, ecco, domattina all’alba forse distruggeremo il
vostro pianeta. Ho detto forse, eh?»
Nell’astronave scese un silenzio definibile soltanto come
sepolcrale. Ollio guardò Stanlio, che fece un gesto come a
dire Vai, vai, ce li hai in pugno.
«Dunque» continuò Ollio, con voce appena esitante «vedete,
io e il mio collega qui di fianco, siamo esponenti di
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una razza leggermente più avanzata della vostra...»
«Leggermente?» protestò Stanlio «Siamo milioni di anni
più evoluti di queste stupide scimmie!»
Ollio lo gelò con lo sguardo. «Per piacere. Primo, si dice
razze diversamente evolute, non stupide scimmie, secondo,
o parlo io, o parli tu.»
«Parla tu.»
«Perfetto.Vi dicevo, noi siamo esponenti di una razza che
si è posta un compito difficile ma, a nostro insindacabile parere,
assolutamente indispensabile. Noi siamo gli spazzini
dell’universo.»
Non ci furono reazioni dalla folla muta.
Ollio continuò.
«... ecco, dicevo, gli spazzini dell’universo. Noi ci siamo
assegnati il compito, difficile, sì, ma non impossibile, di spazzar
via la stupidità eccessiva dal cosmo. Attraversiamo le galassie
in lungo e in largo, e appena incontriamo una razza
troppo stupida per esistere, ehm, la annientiamo. Ma senza
cattiveria, eh? Senza far male a nessuno. Un raggio disintegrante,
tutto lì. Mezzo secondo di raggio disintegrante, il pianeta
non c’è più, gli stupidi nemmeno. Nessuno soffre, nessuno
si accorge di niente.»
«Noi, però, un poco godiamo» ghignò Stanlio.
«Per piacere!» lo rimproverò Ollio «Dicevo, il nostro è un
fine nobile, sapete? Immaginate un pianeta di stupidi che
improvvisamente, a un certo punto, per caso, scopre il viaggio
intergalattico. Miliardi di stupidi che, anziché limitarsi a
far danni nel loro ambito ristretto, iniziano a navigare tra le
stelle e a importare la loro stupidità tra i pianeti più evoluti.
La stupidità è contagiosa, sapete? Non è tollerabile un simile
stato di cose!»
Silenzio assoluto. A Ollio parve persino di sentire una
lontana eco sul fondo dell’astronave, qualcosa tipo... cose...
cose... cose...
Continuò.
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«Ovviamente, noi non siamo barbari. Prima di spazzar via
un pianeta, ragioniamo. Meditiamo. Valutiamo. La patente di
pianeta stupido non la diamo via così, a caso, in modo superficiale.
Si fa un attento esame della sua popolazione, prima.»
«La parte più tremenda» disse Stanlio, e nel dirlo fece
una faccia disgustata, la faccia di chi ha dovuto valutare svariati
miliardi di stupidi, negli ultimi tempi, e ne ha ormai la
nausea.
«Ora, il nostro metodo per valutare la stupidità di un pianeta
è: parcheggiamo l’astronave invisibile in un limbo di
spaziotempo vicino al pianeta, studiamo, analizziamo, e poi
chiediamo al megacomputer di fornirci un campione rappresentativo
della popolazione. Preleviamo quel campione
rappresentativo e lo portiamo sull’astronave per informare i
soggetti. Dopodiché, facciamo i test.»
«La parte più angosciosa.»
«Non me li spaventare, per favore, Stanlio. Dunque, noi
abbiamo chiesto al megacomputer di selezionare un campione
di umanità particolarmente interessante. Un campione
inclassificabile, curioso, disomogeneo, con picchi altissimi
verso l’alto e spaventosi abissi verso il basso. Il megacomputer
ci ha suggerito di analizzare la popolazione degli
Stati Uniti d’America.»
«Ma erano troppi.»
«Eh, no, non ci stavano tutti, nell’astronave. Perché sembra
grande a vederla così, ma in realtà ha una capienza limitata.
Più di sessanta milioni di persone, qui dentro, non ci
entrano.»
«È un modello vecchio» si giustificò Stanlio.
«Già. Allora abbiamo ripiegato sulla seconda scelta, un
campione che andava bene anche dal punto di vista numerico.
Ovvero, la popolazione italiana.»
Silenzio assoluto.
«C’è da dire che, prima di teletrasportarvi tutti qua, vi abbiamo
studiati. Le vostre trasmissioni televisive, per esem-
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pio. Il mio collega, qui» e indicò di nuovo Stanlio, che replicò
il gesto che significava Cosa vuoi da me? «ad essere sinceri,
dopo aver visto una di queste trasmissioni televisive,
aveva proposto di saltare un passaggio e annientarvi subito.
Io però sono per il rispetto delle regole e delle procedure, e
non ho dato il via libera all’annientamento. Neppure dopo
aver analizzato di persona un’intera puntata di una cosa che
si chiama Ciao Darwin.»
Ci fu un piccolo tumulto, a quel punto, nella folla. Qualcuno
urlava «Uccidiamolo!», inseguendo un tizio con gli occhiali
che cercava riparo dietro la squadra di rugby di Viadana.
Ollio con un gesto imperioso riportò la calma. Continuò.
«Insomma. Come avrete capito, se il nostro giudizio sarà
negativo, eh, annienteremo il vostro pianeta, ma...»
Fu in quel momento che si fece avanti Little Tony.
Little Tony, con il suo ciuffo, il giubbotto di jeans, il ditino
alzato, uscì dalla folla per fare una domanda.
«Mi scusi?» disse, a voce alta.
«Sì?» rispose Ollio, in tono educato.
«Ecco, mi scusi, sa, ma io ho letto su Focus che la fine
del mondo è sì prevista dal calendario Maya, ma è prevista
per il dicembre del duemiladodici, e ora siamo in ottobre.
Non le sembra un po’ scorretto, mi perdoni, anticipare un
evento non di una settimana, non di due, ma di quasi tre
mesi? Come se mi ingaggiano per suonare in un locale, non
so, un venerdì sera, io arrivo mercoledì a mezzogiorno e
pretendo di trovare il palco montato e il catering pronto.
Lei capisce, è una cosa poco carina da fare, non le sembra?»
Una cosa è certa.
Se Nostradamus avesse detto: Il primo dialogo della storia
tra umani e alieni si terrà tra il cantante Little Tony e due
alieni camuffati da Stanlio e Ollio, i suoi colleghi veggenti
gli avrebbero stracciato la tessera dell’ordine.
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Di fronte all’obiezione imprevista, Ollio guardò Stanlio.
«E questo chi è?» domandò.
«Sto controllando» rispose Stanlio, consultando un piccolo
globo di metallo. Quasi subito alzò gli occhi. Fissò Little Tony.
«Lei è Antonio Ciacci detto Little Tony?» domandò.
«Sono io.»
«Mi scusi se glielo chiedo, ma lei è cittadino italiano?»
«Io? No. Di San Marino. Lo sanno in pochi, ma...»
«Ah» sorrise Stanlio. Un attimo dopo, Little Tony sparì.
Stanlio alzò gli occhi. Guardò la folla spaventata.
«Ue’, ragazzi, tutto bene» li rassicurò «Non lo abbiamo
mica disintegrato. Lo abbiamo rimandato a casa sua. Non è
italiano. È di San Marino.»
Si udirono cinquantasei milioni di sospiri di sollievo.
«Detto questo» riprese la parola Ollio, e fece una pausa
drammatica ghiacciando il sangue dei cinquantasei milioni
di cui sopra. «La cosa funzionerà così. Noi, portandovi qua,
abbiamo raccolto informazioni su ciò che siete, sulla vostra
psiche, sul vostro modo di vivere. Analizzeremo i dati, ma,
nel frattempo, seguiremo un soggetto sul campo.»
«Uh?» dissero all’unisono i cinquantasei milioni.
«Sceglieremo uno di voi. Soltanto uno. E lo terremo d’occhio
per alcune ore della sua vita, a sua insaputa. Per vedere
come vive. Ma senza farglielo sapere.»
I cinquantasei milioni si guardarono l’uno con l’altro,
centravanti del Catania e chitarristi dei Baustelle, vigili urbani
e tassidermisti.
«Capite» concluse Ollio «se il prescelto sapesse che lo
stiamo seguendo, cercherebbe di barare. Di dare di sé e della
vostra razza l’immagine migliore possibile. Di dipingersi
come amante dell’arte, della bella musica, della poesia, della
natura e degli animali. Be’, ragazzi, vi rivelo una novità: noi
siamo alieni. La nostra scala di valori è tutta diversa dalla vostra.
Non sapete quali saranno i nostri criteri di giudizio.Voi
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pensate: ah, ha fatto una battuta su Ciao Darwin, allora odia
la tv spazzatura. Non è detto: non sapete se Ciao Darwin ci
ha fatto venir voglia di distruggere la Terra per il suo valore
artistico, o solo perché il colore della giacca del quinto
spettatore in terza fila per noi alieni è un affronto intollerabile.
Non sapete niente. In ogni caso, sapere di essere osservato
porterebbe il soggetto a comportarsi in modo innaturale.
Quindi, funzionerà così: al termine del sorteggio per selezionare
il prescelto, tutti, lui compreso, sarete riportati sulla
Terra senza memoria di questo momento. Terminati gli esami,
be’, se sarete tutti salvi, anche se non vi ricorderete nulla,
vorrà dire che il soggetto ha superato il test.»
Il sorteggio del prescelto si svolse in un terrificante silenzio.
Alla fine, il sorteggiato fu invitato a fare un passo avanti.
Era un tizio con pochi capelli, la maglietta dei Pearl Jam
e uno spicchio azzurro nell’iride marrone di un occhio.
«Nome e cognome?» domandò Ollio.
«Gianluca Morozzi.»
«Occupazione?»
«Uh, scrivo.»
«Gianluca Morozzi!» disse Ollio «Ora verrai riportato alla
tua vita, senza memoria di questa conversazione e delle tue
responsabilità. Tutto quel che devi fare è vivere. Se la tua vita
sarà considerata degna, il pianeta sarà salvo.»
«Ma...» provò a dire lo scrittore con la maglietta dei Pearl
Jam, ma non finì la frase.
Quattro secondi dormiva nel suo letto. Lui, come i cinquantasei
milioni di italiani riportati alle loro vite.
Mentre Little Tony, nella sua casa di San Marino, pensava
Ma tu guarda che razza di sogno.
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Eleonora
racconto di Alessandro Sesto
illustrazione di Daniele De Batté
RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO
Henry Bergson nel saggio Il riso afferma che ridere è la
reazione a un’incongruenza. Sempre secondo Bergson, la
più grande e quindi più comica incongruenza possibile, è
vedere il meccanico, il materiale e il ripetitivo nell’essere
umano, che sarebbe invece essenzialmente libero, spirituale,
irripetibile. Per questo, dice il filosofo francese, ridiamo
quando qualcuno inciampa e cade: durante la caduta l’uomo
non appare più come un soggetto con una volontà imprevedibile,
ma piuttosto come un oggetto nelle mani della
forza gravitazionale. Il riso ebbe molta eco ma pochi consensi.
Non tutti ridono per le stesse cose. Bertrand Russell,
vedendo un malcapitato che scivolava, commentò: «Ecco le
cose che fanno ridere Bergson.»
Eleonora entrò in un ospedale per la prima volta all’età
di tredici anni, per visitare suo nonno. Il nonno risultò essere
malato terminale, e la famiglia stabilì dei turni di assistenza,
coinvolgendola. Lei accettò senza entusiasmo ma anche
senza lamentarsi. Dopo le prime esperienze però chiese di
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aumentare le sue ore di assistenza. Col tempo subentrò interamente
al fratello, e quasi interamente allo zio. Nel corso
dei sette mesi di degenza del nonno, Eleonora presenziò al
suo letto molto più assiduamente di ogni altro familiare, e
non per devozione, ma per gusto. Aveva infatti scoperto che
stare in ospedale le piaceva. In particolare amava l’inserzione
di parti meccaniche come cateteri, tubi, valvole, fili, punti
metallici, nel corpo umano. Trovava affascinante anche
l’effetto di analgesici e tranquillanti, specie quando la somministrazione
era regolare e i pazienti avevano un altrettanto
regolare ciclo di attività e dolore, gemiti e maledizioni
crescenti e discendenti con ritmo e modalità costanti nel
tempo. Tutto quello che concerneva i corpi malati l’attraeva,
e anche semplici operazioni come un banale cambio
della sacca delle urine le davano una gioia segreta.
Il tempo trascorso in quell’ospedale di provincia senza
scintillii ebbe un potente effetto sulla sua immaginazione, e
determinò in essa la formazione di un concetto dell’uomo
come di un macchinario molto manchevole, che si guasta
facilmente e viene riparato in qualche modo con dei ricambi
di fortuna. Questa convinzione non era il frutto di una riflessione
intellettuale ma di un’intuizione. Divenne un sentimento
radicato, che ebbe l’effetto quasi religioso di una forza
liberatrice rispetto ai turbamenti della vita terrena. Eleonora
non riusciva più a prendere sul serio i suoi genitori, i
compagni di scuola, i professori, il Manzoni, il Leopardi e
tutti gli altri. Tutti macchinari. Il suo rendimento scolastico
e la qualità delle sue relazioni sociali precipitarono, cosa
che però tutti attribuirono al decesso del nonno, che Eleonora
aveva dimostrato di amare con una devozione superiore
ad ogni aspettativa.
Le persone che le erano più vicine intuirono che Eleonora
era entrata in una fase di distacco mistico, ma pensarono
che si trattasse di misticismo nella forma tradizionale e
che sarebbe svanito col trascorrere del tempo. Non fu così.
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A due anni di distanza, precocemente per il suo ambiente
sociale, Eleonora iniziò ad avere rapporti sentimentali e sessuali.
Il suo potere attivante nei confronti del pene e, seppure
in modo più mediato, nei confronti dell’intero comportamento
dei suoi primi ragazzi, la sprofondò ulteriormente
nella sua personale religione meccanicista. Ansiosa di sperimentare
nuovi automatismi fu molto promiscua, apprese ed
esercitò ogni forma di manipolazione attraverso il sesso e
l’amore romantico. Come molti mistici, non fu compresa dai
contemporanei, il cui giudizio sostanzialmente si riassumeva
in quello del suo primo fidanzato, che icasticamente la
qualificò come «una grande troia.»
Dopo l’università Eleonora non desiderava studiare oltre,
e ancora meno lavorare. Era bella, ma non abbastanza da farsi
mantenere da un uomo davvero ricco, salvo orientarsi
verso persone molto vecchie o con difetti sgradevoli. Sfruttato
il sostegno familiare finché possibile, infine fece innamorare
di sé un bel ragazzo, Matteo, più giovane di lei, di
buon carattere e di famiglia benestante. Matteo in realtà
non era in condizione di mantenerla, né d’altronde vi era
un motivo socialmente accettabile per cui lei non dovesse
lavorare, quindi dopo un mese di relazione Eleonora gli disse
di avere la leucemia e di essere bisognosa di cure fino alla
sua morte, che assicurava sarebbe stata prossima. Lui le
dedicò quindi tutto il suo tempo e le sue energie, caricando
sui suoi genitori, che vivevano in un’altra città, l’intero onere
finanziario della loro sopravvivenza.
L’aveva conosciuta mentre i genitori lo mantenevano all’Università
di Lettere, e il padre accettò la novità continuando
a sostenerlo senza indagare troppo. Era infatti vero
che il figlio aveva abbandonato gli studi per questa fidanzata,
ma non erano già prima studi proficui, e il decesso di
una malata di leucemia appariva un evento più prossimo e
più certo dell’ottenimento della laurea. La coppia visse
quindi un lieto periodo di amore tragico senza la noia di
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impicci quotidiani quali lavoro o studio.
Dopo quattro anni i genitori però, indispettiti dalla longevità
di lei, la confrontarono severamente chiedendo cartelle
cliniche e prove concrete della sua malattia, di cui asserirono
di dubitare. Eleonora inizialmente reagì con indignazione,
ma infine dovette ammettere di non avere la leucemia.
Tuttavia non si arrese, non aveva la leucemia, ma aveva
evidentemente una malattia mentale che la portava ad affermare
falsamente di avere la leucemia, il che non era forse
altrettanto grave ma insomma quasi, ed era comunque sempre
una situazione bisognosa di cure.
Bella e, quando parlava in suo beneficio, appassionata, fu
molto convincente. Con grande sgomento di Matteo, che
continuava ad amarla con la devozione di sempre, pochi
mesi dopo il padre lasciava la moglie per trasferirsi in un
appartamento dove si recava a vivere con lui la stessa Eleonora.
Il dottor Airoldi aveva infatti subito il fascino romantico
della donna giovane e tormentata, e se ne era invaghito.
Insieme a questi sentimenti giovanili conviveva d’altronde
la più matura considerazione che, dovendo comunque mantenere
quella donna, la situazione più giusta e naturale era
che se la scopasse lui. Si sposarono appena poterono.
Così Eleonora trascorse i successivi dodici anni, finché il
dottor Airoldi si ammalò di tumore al pancreas e morì. Eleonora,
godutasi il periodo di assistenza al moribondo, da vedova
condusse un’esistenza casalinga e solitaria, diventando
grassoccia e sviluppando una leggera dipendenza dai social
network.
La pensione di reversibilità le garantiva un’esistenza
tranquilla di televisione, biscotti al cioccolato, chiacchiere e
flirt online. Come è noto, i mezzi di comunicazione via internet
sono provvisti di numerosi gadget che consentono di
esprimere in forma semplificata emozioni positive o negative:
figure sorridenti o aggrottate, piccoli pollici alzati o versi,
punti di reputazione positiva o negativa. In qualche mo-
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do la rappresentazione grafica e il medium elettronico esaltavano
il meccanicismo degli utenti. Eleonora sapeva condizionare
quelle emozioni di pixel, e la sua nutrita truppa di
ascoltatori e ammiratori online suppliva efficacemente al bisogno
costante di verificare la rassicurante disumanità degli
esseri umani. Oltretutto, la sapiente elaborazione delle proprie
immagini le permise di mantenersi molto più giovane
e bella per la comunità telematica di quanto avrebbe potuto
fare per persone in carne e ossa. Giunse a eliminare del
tutto i contatti personali.
All’età di 58 anni scivolò da uno scaletto mentre cercava
di pulire sopra la credenza, e si ruppe la testa. Le cose che
fanno ridere Bergson.
Eleonora rimase a lungo cosciente mentre, immobilizzata,
perdeva sangue. Ora mi spengo anche io, si disse, ma non
immaginava una candela, piuttosto un tostapane. Prima di
morire pensò che se avesse potuto filmare la sua rovinosa
caduta e postarla su youtube avrebbe avuto un sacco di
contatti, la gente adora le cadute. Eppure ormai la natura
meccanica dell’uomo è già data per scontata dai più. Magari
non è tanto il vedere l’uomo che diventa un pupazzo a interessare,
quanto l’uomo che si fa male, che soffre. Infine dovette
abbandonare questi ragionamenti perché non affluiva
più sangue al cervello. La comunità telematica cui apparteneva
si interrogò per oltre una settimana sui motivi della
sua scomparsa dal web.
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Ferrania Pancro
racconto di Marco Alfano
illustrazione di Guido Scarabottolo
Io sono quello in alto a destra. Il ragazzino coi pantaloni
corti che fa la verticale vicino al parapetto. Più lontano, dal lato
delle antenne, c’è Lucia, la ragazza che sta a servizio dai Castelli
– noi all’epoca le chiamavamo le serve, oggi non si usa
più. Lucia sta stendendo la biancheria, e si vede solo la schiena,
che si piega in avanti verso il catino che sta per terra.
In primo piano, Antonio, il portinaio, con gli occhiali e il
berretto – tutti i portinai portavano il berretto, qualcuno
pure la divisa, nei palazzi dei ricchi. Questo non è un palazzo
di ricchi, certo, ma neanche di poveri. Sotto la superficie
del terrazzo – si vede nella foto l’ammattonato, con le piastrelle
di cotto, un piccolo lusso – si estendono verso il basso
cinque piani, ognuno con tre appartamenti. E in questo
momento, nel momento in cui è stata scattata la foto, quasi
in ogni casa c’è qualcuno. A cucinare, a lavorare, a letto con
la febbre. A vivere. Le rare televisioni, posate su autorevoli
catafalchi, si accenderanno solo la sera, le trasmissioni cominciano
alle cinque.
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Fosse una giornata come le altre, dovrei essere a scuola,
ma la mia classe oggi è andata in gita d’istruzione a Pompei,
e io, che sono allergico alla polvere e alle cose vecchie in
genere, sono stato esentato.
La fotografia l’ha scattata Martino, il figlio grande di De
Curtis, il ragioniere. Ha una bella macchina moderna per fare
le istantanee, una Leica che gli ha regalato il cugino che
sta in Germania, e oggi aveva voglia di usarla. Ci ha convocati
tutti qui sul tetto, anzi sul terrazzo, che stamattina c’è
una bella luce, e si vede pure un po’ di mare, in fondo. Quelli
disponibili a salire su erano pochi, anzi quasi nessuno: solo
Antonio e io, che gli stavo appresso in portineria, a far
domande sui postini e i francobolli, sul telefonino e l’ascensore,
ad aiutarlo a infilare le buste nelle buche allineate all’ingresso
del palazzo.
Lucia era già lì, e quando le abbiamo chiesto se voleva
farsi fotografare ha risposto che no, che si vergognava, e
che poi doveva stendere i panni, non poteva perdere tempo,
aveva un sacco di cose da spicciare. Di tempo ne aveva
poco. Pure io, anche se non lo sapevo ancora.
Martino ci ha messi in posa, o quasi. Ci ha inquadrato.
Eccoci qui. Fermi. Ha scattato.
Io sono fermo, faccio la verticale. Sono fermo a fare la
verticale da quarantotto anni. Lucia da allora è curva sui
panni da stendere, e Antonio sorride instancabilmente, col
cappello in testa. Da tutto questo tempo noi tre condividiamo
una strana condizione, che non avremmo mai potuto
immaginare, quando non eravamo ancora morti, come adesso.
Morti e immobili: Lucia, Antonio ed io.
Antonio ebbe un brutto male, e se ne andò dopo quattro
anni. Lucia, che smise presto di lavorare, per l’artrite, e non
riuscì a prendere marito, è morta l’anno scorso, in un ospizio.
Io però fui il primo. Un mese dopo aver fatto quella verticale,
finii per distrazione sotto le ruote di un autocarro
mentre attraversavo la strada. Ero quasi arrivato a scuola.
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Da quel momento vivo – se questa è la parola giusta, ma
forse non lo è – dentro questa foto. Posso vedere il mondo
che ne è contenuto, anche in quei piccoli dettagli che nella
pellicola sono invisibili, e posso guardare pure il vostro, di
mondo, quella che dovrebbe essere la realtà, attraverso la
cornice quadrata che ho di fronte. Che ha fatto scomparire
Martino, la sua giacca larga, la macchina nera davanti al viso.
E che sembra un piccolo palcoscenico, una finestra strana,
alle volte perfino uno specchio.
Certo, quel che vedo, lo vedo capovolto. Non è comodissimo,
ma mi ci sono abituato. E ho imparato ad avere uno
sguardo non ortodosso, ad osservare, letteralmente, le cose
da una diversa angolazione. Sempre. Quando qualcuno si avvicina
a guardare ne vedo il volto attento, gli occhi in basso
con le due sopracciglia simili a baffoni, la bocca in alto. E
capisco lo stupore di ciascuno senza bisogno di raddrizzare
la prospettiva.
Prima che ci incorniciassero – questa foto è esposta da
nove mesi in un museo, in una collezione permanente – capitava
anche che qualcuno capovolgesse la foto per poter
vedere meglio la mia faccia concentrata nello sforzo. Erano
piccoli momenti di vacanza, di ritorno al consueto, che ora
non ho più. Ma non mi mancano troppo.
Sono, siamo stati fortunati. Potevamo restare chiusi per
l’eternità o quasi nelle oscurità polverose di una scatola o
di un album, e avremmo avuto di fronte a noi (Lucia di spalle)
soltanto un rettangolo nero e immobile. Saremmo stati
costretti a passare il tempo sbirciando qua e là solo nel nostro
scenario congelato, dove i colori sono assenti, tranne
forse il giallo, che minimamente, poco alla volta, sta prendendo
possesso del cielo, della terrazza, delle mattonelle,
delle nostre facce e di tutto il resto.
Ci è andata bene. Guardiamo immobili, senza farci notare,
verso quel che c’è oltre il riquadro dal bordino bianco.
Anche Lucia ci riesce: un frammento di vetro del finestrone
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del locale delle cisterne, che è caduto a terra, riflette quel
che appare alle sue spalle. Lucia, anche se ha ossa deboli, ha
sempre avuto una buona vista, e va bene così. Vi vede piccoli,
distanti e un po’ sbiaditi. Ma per noi non è poi così diverso.
Io lo so. So tutto questo.
Lo so perché con Antonio e Lucia posso parlare. Quando
nessuno ci guarda, e le luci della sala dove siamo appesi sono
spente.
Mi sono chiesto spesso – mi chiedo, ci chiediamo molte
cose in tutto il tempo che abbiamo, dobbiamo occupare
l’eternità in qualche modo – perché noi tre ci ritroviamo
proprio qui, in questa particolare fotografia e non nelle altre
che pure ci hanno fatto, in questo istante del tempo che
abbiamo vissuto, tra i miliardi di secondi che abbiamo attraversato
senza farci caso. Il motivo, chissà, è vicino a quello
per il quale siamo stati sottratti al limbo del cassetto, incorniciati
e messi in esposizione. Un dettaglio, magari. Che non
abbiamo notato, presi com’eravamo dalla nostra posa, o dalla
nostra occupazione. Quale?
Non il dirigibile con la réclame dei pneumatici, che pure
dà un tocco particolare allo scenario, quell’ellisse grigia nel
cielo chiaro. Non la sottile curva nera sul bordo del sole, minima
e quasi impercettibile eclissi, durata pochi secondi, e
che noi ignoravamo. Non quel puntino rilucente al limite
estremo del riquadro, riflesso della navicella sovietica che
sta ritornando sulla terra dopo averci girato intorno, col suo
carico di cani eroici e affamati. Neppure il fumo in lontananza,
sopra il mare, prodotto dall’esplosione di una nave
all’ancora nel porto. No.
L’insieme di questi impossibili particolari, la sua invenzione.
L’arbitrio di averli messi insieme.
Nulla di tutto questo c’era davvero nel cielo, quella mattina.
Neanche quel pelo sottilissimo finito sulla lente dell’ingranditore,
e che sembra un punto interrogativo quasi invisibile,
sopra di me. Quei dettagli sono stati presi altrove, da
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alte foto, in altri momenti. Ce li ha messi Martino.
Martino che dicono sia diventato un artista, per essere
stato il nostro demiurgo, l’artefice del nostro piccolo presepe
fasullo in bianco e nero. Martino che non abbiamo mai
più visto, da allora. Di cui ignoriamo la vita e conosciamo
solo un’opera. Martino che non sappiamo dire se sia una
uomo o una divinità, che cammina sulle mani come me, ed
ha testa di cinghiale nero.
Martino che odiamo con tutte le nostre forze, fino a bestemmiarlo.
Martino che si è dimenticato di noi. Di toglierci
da dove siamo. Di raddrizzare la schiena dolente di Lucia, di
togliere il cappello dalla testa accaldata di Antonio e di farlo
smettere di sorridere beota, di farmi tornare a star diritto
sulle gambe, a me, che sono quello che sta in alto a destra,
quello che fa la verticale.
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Il Bar sotto la neve
racconto di Trap
illustrazione di Dimitri Fogolin
La solita partita a scopa della domenica pomeriggio: un
orecchio alla radiolina per le partite, un occhio alla schedina
sul tavolo. E quattro al gioco: i montanari sono gente
semplice e onesta, ma se capita l’occasione, la mossa furba
la fanno.Tanto, più nessuno va al bar con la roncola. Prima
sì, ma erano altri tempi, tempi che tra un bicchiere e l’altro
si giocava alla mura; tempi che certa gente s’era dovuta ritirare
dalle competizioni: un falegname con tre dita riesce ancora
a lavorare; giocare a mura, no.
Quel giorno il Tone pitùr faceva coppia fissa con il Piero
soèr; l’Angelì del’ortaia era invece il socio di Pippo cavrér.
Di solito lui faceva coppia con l’Aldo masadùr, che
però in quel momento era a letto con la badante della
mamma, che aveva il pomeriggio di libertà.
Le partite di calcio erano finite da un pezzo, insieme ai
loro sogni di vincite milionarie. Che poi, mica sapevano cosa
farci con tutti quei soldi. Una domenica che pioveva che
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Dio la mandava, al Tone gli era venuta la malinconia; per
mandarla via, Pippo gli aveva chiesto:
«Te cosa fai se vinci mettiamo due miliardi al Totocalcio?»
Loro, di euro, nemmeno volevano sentir parlare.
«Pota, la casa ce l’ho già; la macchina, ce n’abbiamo due;
a cena fuori c’andiamo quando ci pare e piace; le ferie, non
c’abbiamo l’abitudine in famiglia; l’orologio d’oro me l’hanno
regalato per i cinquant’anni...»
Era rimasto lì un po’ a pensarci su, poi gli era venuto il
mal di testa. Non era nato per fare il milionario, e neanche
gli altri tre. Ecco perché non vincevano mai.
A un certo punto l’Achille, il padrone del bar osteria Maià
e bif, tirò lì un sacramentone che anche quelli della Tivù
fecero gli occhi così.
«Porcapelanda, ecco perché entra più nessuno... ha messo
giù un metro di neve!»
I quattro, imperterriti, finirono la partita, poi andarono a
controllare. Aperta la porta, si trovarono davanti una muraglia
bianca e gelida: il vento aveva schiaffato lì un paio di
metri di neve, non c’era verso di uscire.
«Pota, tocca che ci dai la cena!» rise il Tone.
La Margherita, moglie dell’Achille, ci mise niente a scaldargli
il minestrone e un pollastrello nostrano con le patatine
arrosto. Il Maià e bif era già un buco di suo; con quella
siberia c’erano solo loro quattro insieme ai proprietari e alla
figlia, la Luisona: mica tanto sveglia, ma faceva il caffè che
venivano anche dai paesi vicini a berlo. Sarà che c’aveva
due tette che quando ci buttavi dentro l’occhio, prima di tirarlo
fuori avevi bevuto tanto di quel caffè che potevi vincere
i campionati mondiali di nervoso.
Alle nove di sera aveva messo giù un altro metro e mezzo
di neve, non si usciva neanche dalle finestre. Dopo la scopa
erano passati alla briscola; l’Achille c’aveva dato dentro col
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camino, loro con qualche calicino di rosso della casa.
Il bar sembrava proprio un rifugio di montagna: aveva
ancora i tavoli e le sedie di una volta, tarli compresi, che si
erano ambientati così bene da mettere su uno spaccio di segatura:
la smerciavano all’oste in cambio dell’ospitalità. Brave
bestiole, non davano tanto fastidio, appena un po’ quando
facevano le riunioni di condominio.Volevano che l’Achille
gli serviva da bere, ma reclamavano sempre: a loro il vino
piaceva solo se sapeva di tappo.
Fortuna c’erano appena quattro tavoli piccoli e uno
grande, per quando venivano le nonne a giocare a tombola,
che consumavano spuma e mangiavano il favoloso ciambellone
fatto in casa dalla Margherita. Il segreto stava nella lavorazione
tutta a mano: impastava la Luisona, due mani e
due braccia che sembravano delle presse.
Tre giorni che giocavano a carte; la neve era a più di
quattro metri. La tivù aveva detto: «Ancora isolato il paese di
Prato Chierico, in particolare la località Boàl.»
Proprio quella dove si trovava il Maià e Bif.
L’elicottero non poteva volare e i muli erano tutti in
pensione. La Protezione Civile stava cercando di organizzare
i soccorsi, ma gli abitanti della zona gli avevano mandato
a dire di prendersela comoda: avevano buon rifornimento
di viveri e di liquidi, e stare un po’ in casa al calduccio mica
gli faceva schifo.
A quelli del bar non gli mancava proprio niente, avevano
solo il problema della carta igienica, dopo tre giorni di minestrone
e vino rosso: il Maià e Bif non era attrezzato per
queste emergenze. Meno male che c’erano in giro un bel
po’ di Gazzette vecchie.
Stanchi della scopa, della briscola e del tresette, erano
passati alla briscola chiamata: siccome si gioca in cinque,
presero dentro anche l’Achille.
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Saranno state le nove della sera, che bussarono alla porta.
Chi vuoi che bussi, con la neve che c’è?, pensarono tutti
e tirarono diritto la partita. Bussarono di nuovo.
«Luisona, vai a vedere chi che c’è» grugnì l’Achille.
Lei smadonnò, che stava leggendo la Cronaca Vera, ma
strisciò le ciabatte fino alla porta. La sua vocina da autista di
caterpillar disse:
«C’è qui un pupazzo di neve che vuole entrare.»
«Luisona, raccontagliela a tua sorella.»
«Ma io ce l’ho mica una sorella!»
«Appunto!» scoppiò il papà.
E giù a ridere, con gli altri che facevano il coro.
Dalla porta entrò una folata di vento ghiacciato che corse
a scaldarsi le mani al fuoco.
«Sera fò la porta!» urlò il papà.
«Lo faccio entrare o mica, il pupazzo?»
L’Achille si girò di scatto per dirgliene quattro ma cadde
dalla sedia.
«Po-pota, gua-guardate là!» balbettò.
Sulla porta stava un pupazzo di neve, con sciarpa e cuffia
di lana; sbarbellava dal freddo.
«Fate entrare, per Allah! Io non uomo di neve, io spaventapasseri
di Etiopia. Niente lavoro. Stronzi uccelli poco mangia,
non vola, non scappa, non spaventa. Muore tutti di fame
e lascia me disoccupato. Trovato questo lavoro, ma non bello.
Durare poco e mangiare carote e freddo. Qui caldo, profumo
minestrone e bella tettona.
«Alà, porsèl!» gli gridò l’Achille «Vieni dentro, dai, che ti
scaldi e con un goccio di rosso buono prendi un po’ di colore.»
Gli mise una sedia sotto il culo; la Margherita gli servì il
minestrone con dentro una bella crosta di parmigiano. Il
rosso no, perché era musulmano. Loro invece erano tutti
cristiani, che il Signore benedicesse le loro mamme.
«E dove l’è la Tiopia?» domandò Pippo.
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«Et-tiopia!» singultò l’immigrato, già mezzo sconfitto dall’ubriachezza
passiva.
«Quella roba lì, insomma. Fa niente: ti prometto che
quando ti scade il contratto ti assumo come spaventapasseri
nella mia campagna. Vitto e alloggio gratis e ti metto su
anche le marchette.»
Sul punto di alzarsi in piedi per applaudirlo, decisero
che non era necessario tutto quello spreco di energie: fecero
un caloroso brindisi da seduti. Poi la Luisona portò l’ultimo
giro del suo caffè prima di andarsene a nanna in compagnia
della Margherita.
I maschi rimasero incollati alle loro sedie: tirarono le due
a cantare e raccontarsi storielle. Quelle del forestiero erano
così piene di sole e di deserto che agli uomini gli si seccava
la gola. Fortuna che non mancava il liquido per tenerla umida.
Sarà stato per quello che dormirono tutta notte come
sacchi di legna stagionata.
La mattina, l’omarino bianco c’era più: vicino al camino,
una pozza di acqua, e basta. I cinque ci rimasero male: va bene
andar via senza salutare, ma la pipì almeno falla al gabinetto.
Peccato: era anche simpatico, a parte che per il vino.
«Ma tutte le religioni c’hanno i loro precetti» sentenziò
la Margherita. «La nostra lascia bere il vino perché è come
se fosse il sangue di Nostro Signore: tonifica e salvifica.»
Gli uomini semplici di fronte al sacro non sanno che ammutolire.
Uscirono a spalare la neve.
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Le mie chiappe e il mio smalto
racconto di Maurizio Perelli
illustrazione di Andrea Gualandri
Sono quasi le otto di sera. Io e mio marito siamo in macchina.
Direzione, casa dei suoi. Ascoltiamo un vecchio cd di
Jovanotti. Lui tira fuori il pacchetto di Marlboro che tiene
nella tasca della giacca. Si accorge che gli sono rimaste solo
cinque sigarette. Bestemmia. È sempre nervoso, quando deve
vedere sua madre. L’analista gli ha spiegato che lei ha rischiato
di rovinargli la vita. Mica ci voleva l’analisi, per capirlo.
Non mi sembra una tragedia, gli dico, fermati in una
tabaccheria. Prima che chiudano, però, sennò col distributore
automatico ci serve la tessera sanitaria e ci tocca perdere
un sacco di tempo, e già è tardi. La mia soluzione gli pare
coerente al problema. Alla prima T nera che incrociamo, accosta
in seconda fila. Scende di corsa rischiando di farsi tirare
sotto da un autobus. Dopo neanche trenta secondi risale,
col pacchetto e un accendino. Ci fermiamo a un semaforo,
l’ennesimo, rosso. Tiro fuori dalla borsa le mie Pall Mall.
Prendo l’accendino che ha appena comprato e poggiato
nella buchetta vicino al freno a mano. È uno di quelli con le
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foto attaccate sulla plastica. Ne fanno di tutti i tipi: col faccione
quadrato del Duce, con lo sguardo nel futuro del
Che, con la faccia matta di Lennon, con le pecorelle. Il modello
che ora ho in mano, invece, è di quelli coi culi.
Leonardo si scusa, di fronte alla mia espressione allibita.
«Manco ci avevo fatto caso... mi sembrava uno normale»,
dice sottovoce per giustificarsi.
Taccio. Guardo le natiche sode; su quella destra c’è stampata
una mano con le unghie smaltate di rosso. Non mi dà
fastidio che abbia comprato un accendino del genere. Non
sono arrabbiata. Non sono così bigotta, ringraziando Dio.
Accendo la sigaretta e torno col pensiero indietro nel
tempo, a una quindicina di anni fa...
Sono una studentessa universitaria fuori sede. Al verde,
perché i miei da casa non possono mandarmi tanti
soldi. A Milano la vita costa un occhio e io frequento ragazzi
e ragazze che, invece, beati loro, se la passano bene.
Lavoro come cameriera in un pub, il mercoledì e il venerdì.
Anche gli esami vanno male, quando mi ricordo di
darli. Un mio compagno di corso mi dice che c’è un’agenzia
fotografica che cerca belle ragazze.Tutti mi considerano
una niente male, lo so. Sono consapevole delle potenzialità
del mio corpo: quando cammino per strada i maschi
si voltano. I più rozzi fischiano pure. Mi assicura che
è una cosa seria, nulla di sporco, che il fotografo è un
amico del padre di un amico di suo cugino. Mi dà il numero.
Telefono. Dall’altra parte la voce di una donna mi
dice che sì, hanno bisogno di una bella ragazza per delle
fotografie e che la paga è buona. Prendo appuntamento
per il giorno dopo. Ho bisogno di soldi. Non sto facendo
nulla di male, in fondo. È un lavoro come un altro.
Sono in periferia. Per arrivare ci sono voluti tre cambi
di autobus. Cerco il nome dell’agenzia fotografica sul
campanello di un palazzone di cemento. Suono. Seminter-
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rato, mi dice la stessa voce del telefono. Non sapendo come
vestirmi mi sono messa jeans e maglietta. Mi apre una
tarchiata, la proprietaria della voce, che ora ha anche un
volto. Inespressivo. Si presenta: è la segretaria o qualcosa
del genere. La stanza è disadorna. Ci sono soltanto una
scrivania, un telefono, un computer, un telo bianco e dei
faretti. Tra poco arriva il fotografo, mi dice quella, e intanto
riprende il solitario su Windows che il mio arrivo aveva
interrotto. Chiedo informazioni. Mi spiega scocciata che
lì si fanno foto che poi finiscono in un archivio online, disponibili
per la vendita. Non capisco bene, e per non fare
la figura della scema, taccio. Dopo una mezz’ora arriva il
fotografo. Quarantenne, mal messo, con la pancia. Cerco
di saperne di più. Praticamente, mi dice, qui facciamo fotografie
che poi delle aziende compreranno per usarle. Sono
scettica. Lui intanto mi guarda con occhio clinico. Mi
dice che si tratta di nudi artistici. Sono una ragazza seria,
gli dico. Lui mi rassicura: è tutto ok, non devo preoccuparmi,
uno scatto mille lire. Posso tirarne su anche una cinquantina,
perché non sono male, a sentirlo. Mi dice che
non scatterà foto al mio viso, che nessuno ne saprà mai
nulla. Ho un po’ di timore. Faccio la fame. Mi faccio convincere.
Mi spoglio tra le pareti di cemento. Sono imbarazzata.
È freddo, tra l’altro. La tarchiata non mi fila. Lui, forse
è gay, mi dico, per tranquillizzarmi. Penso di essermi
cacciata in un casino. Dopo neanche un minuto mi ritrovo
sotto i flash. Mettiti così, girati, toccati il seno, tira fuori
il culo, bravissima. Bello smalto che hai. Guarda, fai una
cosa: afferrati la chiappa con una mano... Peeerfetto. Dopo
un po’, mi diverto anche. Alla fine mi paga. Sessantaduemila
lire. Mi dice che ci risentiamo. Io penso di no, che
può bastare così.
«Elisa, che hai? Sei sovrappensiero», chiede mia suocera
durante la cena.
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«No, niente... scusatemi...»
Mi alzo per andare sul terrazzo a fumare. Chiedo a mio
marito da accendere. Mi ripassa il mio culo. La mamma nota
l’accendino, chiaramente disapprova. Esco. Me lo rigiro tra
le mani. Me lo infilo in tasca. Torno di là.
Dopo, in macchina, lui mi chiede da accendere. Gli dico
che gliel’ho ridato. Dice di no. Insisto. Si arrende. Del resto
li perde di continuo, gli accendini.
La notte, a letto, non dormo.
Alle cinque mi alzo. Vado in salotto. Mi rigiro il mio sedere
tra le dita. Proprio sopra il mio culo c’è scritto Foltro.Accendo
il computer e immetto questa parola senza senso in
Google, il quale mi indirizza a una pagina web di un’azienda
di Ascoli Piceno che vende all’ingrosso oggettistica spicciola.
Nella homepage c’è scritto che fol sta per Follini e tro
per Troiani, i due proprietari della baracca. Torno a letto.
Dormo malamente.
Il pomeriggio seguente mi decido.
Scrivo una mail simpatica dove spiego a Follini e a Troiani
l’assurda situazione. Sono curiosa, voglio saperne di più.
Descrivo dettagliatamente il modello di accendino, culo e
smalto. Invio.
Controllo ripetutamente la mia casella per tre giorni. Dopo
mille spam e duemila notifiche Facebook, la Foltro finalmente
mi risponde:
Gentile signora Elisa
tutto quello che possiamo dirLe è che l’accendino per
cui Lei hai posato è prodotto a Fozhou, in Cina. Non sappiamo
quanti ce ne siano in giro per il mondo. Per l’Italia
la Foltro ha l’esclusiva sull’intera linea. Stimiamo una
presenza, tra residui di magazzino e venduto, di circa
cinquantamila pezzi. Questa è forse la mail più assurda
che abbiamo mai scritto.
44
Salgo in macchina e torno in quella tabaccheria. Il mio
culo è ancora lì, nell’espostiore sul bancone. È circondato
da altre arrapanti anatomie di ragazze probabilmente inconsapevoli
quanto me di essere commercializzate da due soci
di Ascoli Piceno. Vedo il prezzo: un euro. Compro un pacchetto
di sigarette. Cinquantamila euro è il valore del mio
culo. In Italia, per lo meno. Ma di certo, paesi musulmani a
parte, sono praticamente in tutto il mondo. Non io, giusto le
mie chiappe e il mio smalto. Rido, tornando a casa. Forse è
isteria. Sono un oggetto riprodotto. Sono un elemento in
una catena di montaggio. Sono un oggetto doganale. Ho il
culo venduto in chissà quante valute. Le mie belle natiche
sono state comprate dai cinesi. E forse sfruttano il lavoro
minorile.
Leonardo rientra che sono passate le otto. La cena è
pronta. Dopo il caffè tiro fuori l’accendino, che nel frattempo
ho conservato, ovviamente, come una reliquia.
«L’ho ritrovato. Cosa pensi, di questo culo?»
Teme una scenata di gelosia. Insisto.Tace. Insisto. Ha paura.
Si scusa. Insisto.
«Si, non è male... ma non volevo comprarlo! Che palle...»,
sbotta, stremato.
«Ti piace di più questo o il mio?»
«Il tuo, perché è vero» risponde sicuro, di getto.
Sorrido. Lo abbraccio. Lo bacio. Non gli spiego tutta la
storia. Se è andata così, mi dico, ho proprio un bel culo.
45
Valzer per marionette
racconto di Luca Dore
illustrazione di Luca Fabbri
Sono le cinque quando accendono le luci del refettorio.
È il momento del cenone di mezzanotte per tutti quelli
che, come te, riescono ancora a raggiungere la sedia senza
deambulatore, per quelli che riescono ad aprire le confezioni
di plastica dura e bucare con la forchetta il cellophane
della mensa.
A te le infermiere e le ausiliarie sorridono ancora; di
fronte agli inabili invece le vedi infastidite agitare le mani e
divellere le linguette con stizza, avvicinare le sedie al tavolo
e dire Non ti sporcare e infilare fazzoletti di spugna dentro
il collo dei pullover.
L’infermiera giovane è quella che di solito ti versa l’acqua
e non te lo fa pesare, forse perché quando torna a casa
la sera ha ancora vent’anni.
Andavi a cavallo tu, a vent’anni.
E il cenone di mezzanotte cominciava a mezzanotte. E
non c’era valzer che non fosse per voi, per quella libellula
dalla risata sottile che era bello veder danzare senza stancar-
47
si fino alle cinque del mattino.
Cosa ti fa pensare che qualcosa sia cambiato da allora?
In fondo andavate a letto alle cinque del mattino e oggi cenate
alle cinque di sera. Qualcuno in modo barbaro ha semplicemente
spostato le lancette, ha rallentato gli ingranaggi,
ha invertito gli AM e i PM.
Qualcuno ha deciso che l’ultima goccia di vigore presente
nel tuo corpo ti permetta ancora piccoli movimenti senza
ambizione, anche se le parole, quelle che un tempo facevano
di te il re della conversazione, quelle sono rimaste saldate
per sempre alle pareti della gola e nulla viene fuori
che non sia un rantolo, un sospiro, un colpo di tosse, certe
volte un Bah!
Per stasera vi hanno promesso il vino, se vino può definirsi
questa alchimia beffarda di uva e gassosa.
«Oggi ci sbronziamo forte...» dice il tizio a fianco a te,
sputandoti in faccia un soffio violento che, se avesse ancora
i denti, potrebbe rivelarsi una risata.
Tutti conficcati dentro al piatto, come maiali all’abbeveratoio,
distratti dal neon che di tanto in tanto si concede
piccole scosse. Col solito carosello di cucchiai e risciacqui
di bocca, come se non fosse nemmeno l’ultimo dell’anno,
procede naturale e senza intoppi anche questa serata.
Almeno fino a quando l’aiutante delle infermiere, quella
specie di zotico mezzo scemo che viene a dare una mano
alla mensa alle feste comandate, quel figlio di cretini che
non è altro si mette in testa di far suonare un disco per allietarvi
la cena. È il modo migliore per farvi sentire tutta la
pesantezza del momento.
Perfino la forchetta sembra di piombo fuso.
Ma chi gliel’ha detto? Chi lo ha permesso?
Quel pazzo criminale ha deciso la tua serata. Con la sua
faccia da guappo e con quel disco di valzer triste e polveroso,
che pensavi di aver dimenticato per sempre.
Non lasciarti coinvolgere.
48
Fatti accompagnare dall’infermiera giovane fino alla camera
e ordinale di spegnere la luce.
Obbligala a chiudere la porta.
Non vuoi sentire altro se non i tuoi capelli che graffiano
sul cuscino.
Tutte storie. Sai bene che è troppo tardi; sei già coinvolto.
Quel valzer maledetto è il diavolo che l’ha mandato. E
forse l’aiutante delle infermiere è un suo suddito, emerso
dall’inferno per costringerti a ricordare.
Con la sua faccia da scampato alla meningite fa girare il
disco ed è come se ti portasse a braccetto nel vostro salone
luminoso di venti, trenta, cinquant’anni prima, addobbato a
festa per il Capodanno di paese.
Scendi le scale con tua moglie, e tutti applaudono e fischiano
al re e alla sua regina e molti non vedono l’ora di
ballare, che gli organetti sembrano animati a manovella da
quanto corrono. C’è tutto il paese, come ogni anno. E voi
avete fatto arrivare i fiori migliori, e quintali di dolci secchi
e avete tirato fuori il vino nuovo e gli agnelli. Il primo valzer
è il vostro e sembra interminabile. Dopo di voi tutti possono
ballare, anche i figli con le mogli straniere con le macchine
straniere coi nipoti che non parlano italiano.
Maledetto. Il vostro valzer nelle mani di un minchione
che beve birra appoggiato allo stipite della porta.
Nemmeno un’infermiera che si avvicina a pulirti il muso.
Le vostre cento luci della sala delle feste raggrumate in
un neon ronzante e velenoso.
I vostri dolci sbriciolati, brutalizzati, condensati nel biscotto
che l’infermiera sta per spingervi in bocca.
Il vostro vino umiliato in questo piscio rosaceo che sa di
medicina.
Tu preferisci fissare il pavimento e la fetta di pane che ti
è caduta all’inizio della cena e che troverai nello stesso punto
domattina.
Anziché piangere come fanno più o meno tutti in questo
49
momento, mediti vendetta.
Sei deciso a spendere l’ultima risorsa di vita sollevandoti
e stringendo nelle mani il bicchiere di vetro, concesso ancora
a chi può reggerlo.
Vorresti la mira di un tempo per centrare il minchione
sulla fronte, ma subito un’infermiera ti si fa accanto per sostenerti.
Per sgridarti. Per punirti.
Vorresti sfigurargli il viso, cancellarlo dalla vista.
Ma dimentichi che sei solo una marionetta fiacca, dal
giorno in cui una nuvola nera ha portato via lo spirito di
tua moglie e le ha mangiato l’anima, e ti sei ritrovato nel salone
delle feste a piangere da solo il fatto che la donna al
tuo fianco non ti riconoscesse più.
Non troverai la forza per ricacciare all’inferno quel valzer
maledetto e il suo dannato banditore.
«Cosa c’è?» ti chiede un’infermiera, «Cosa c’è?» incalza.
«Si sieda» fa un’altra.
«Cosa vuole fare?» ti chiedono, come si usa coi bambini.
Tu col bicchiere in mano ingoi una lacrima di rabbia e
lasci che si mescoli al passato di verdure e al vino e alla
gassosa.
Ti guardi intorno e non sei più nemmeno convinto del
tuo gesto. Falliresti.
Sono finiti i tempi della caccia al cinghiale, del braccio
fermo, del girovagare per tutto il paese con la bestia sopra
il carro.
Evita finché sei in tempo. Il bicchiere finirebbe a cinque
centimetri da te, sui calzoni di lana grigia del compagno di
mensa.
Ma al centro della sala, gravata della tensione nervosa
delle infermiere, sei in ostaggio del tuo stesso imbarazzo
quando senti improvvisa una fiamma che attraversa la gola.
Stanno ritornando, anche se per un momento.
«Cosa vuole fare?» urla l’infermiera.
Parole. È un miracolo. Un miracolo di rabbia.
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È il tuo regalo per l’ultimo dell’anno da parte di Nostro
Signore: un pugno di parole, mentre tutti ti osservano sbigottiti;
alcuni si fanno accompagnare a letto perché non resistono
allo spettacolo di una vecchia marionetta che muove
gli occhi con cattiveria e sputa fuori bava.
Il tuo dono improvviso: un pugno di parole.
Non sprecarle.
La bocca è una vecchia bara che si schiude dopo secoli
di buio.
«Un brindisi», dici soltanto.
E un attimo dopo tutti ridono e piangono e dicono auguri
e buon anno.
51
Le sorelle
racconto di Francesca Marchegiano
illustrazione di Arianna Papini
Ti ho camminato dietro e tu avevi un vestito bianco a maniche
corte uguale al mio, ma di quattro taglie più grande. E
avevi la scollatura che era un principio di essere donna, anche
se nove anni, solo nove ti stavano sulle spalle. E avevi i
capelli raccolti per sembrare signora, ma a me sembrava la
cresta di un gallo tutta dritta così. E avevi in mano il ventaglio
di cocco della nonna. Lo tenevi sempre tu. Era uno scettro,
faceva la differenza. Era l’ala spezzata di un gabbiano, che
battuta con forza ti avrebbe portata fin sopra le onde.
Ti camminavo dietro e tutt’e due andavamo sul bordo
della strada, proprio sulla riga tra l’asfalto e l’erba. Tra l’andare
a scuola e il giocare. Tra i piedi nudi e le scarpe.
Camminavi dritto e io ti venivo dietro inciampando nel
mio vestito, bianco come il tuo. Anzi, proprio il tuo, che da
poco ne avevi un altro. Così me lo tiravo su, stringendo pugni
di stoffa.
Camminavi davanti perché eri più grande e veloce, e perché
avevi il ventaglio di cocco. Passavamo sotto un filare di
53
palme, verdi asterischi contro il grigio del cielo, mentre dalle
case usciva odore di banane fritte e di pollaio dai cancelli
senza la porta.
Tu camminavi ed eri contenta che eri più alta, che avevi
il vestito nuovo e che io dietro sembravo la tua damigella.Tenevo
un invisibile strascico: quattro anni di differenza, quaranta
centimetri d’altezza, quattrocento domande che iniziavo
a fare e di cui tu già sapevi ogni risposta. Anche da dietro
ti vedevo il sorriso, perché le guance ti salivano tonde fino
alle orecchie. Con guance così, i tuoi occhi sempre luccicavano
neri. Mi camminavi davanti ed eri un faro con i punti
più scuri dei gomiti. Anche ad occhi chiusi avrei potuto seguire
la strada, perché strisciavi le infradito di gomma sopra
l’asfalto. Con quei talloni chiari alla fine di gambe carruba.
Camminavi così, e intanto una macchina grigia dal fondo
si faceva più grande e dal centro della strada di lato. Il tuo, il
nostro. Ma tu continuavi il passo deciso e la macchina anche,
ma sempre più piano che le si vedevano le ammaccature
davanti e il vetro con due mezze lune pulite, tra polvere
e sabbia.
Mi si è slacciato il fiocco, quello dietro la schiena. Mi sono
fermata a guardare i nastri bianchi, che improvvisi pendevano
ai fianchi. Visti così sembravano lunghissimi e impossibili
da far tornare dietro senza l’aiuto di un grande. Il
tuo, quello della mamma. La macchina intanto era ferma. Ho
alzato la testa per chiederti di aspettarmi e allacciarmi.
Tu eri lì, senza più guance vicino alle orecchie. Lì con il
ventaglio in fuori come a dover colpire una palla. Ho guardato
in su, ma niente cadeva dal cielo.
Nella macchina un uomo sorridendo si è abbassato di
lato, poi si è aperta la portiera dove non era seduto nessuno,
e il sorriso è tornato dritto dietro il volante. Teneva una
bambola in mano, piccola e rosa. Con i capelli colore del
mais, non crespi e ricci com’erano i nostri. Sembrava sua figlia,
aveva la pelle dello stesso colore. Le ha fatto fare Ciao
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con la mano verso di me, alzandole il braccio. Le ha accarezzato
la testa.
Io ti ero ferma alle spalle, a tanti passi quant’era la distanza
di un vestito slacciato. Ho provato a farci il nodo da sola,
mentre camminavo verso la macchina per vedere da vicino
la bambola. Ma tu hai detto No!, a quella voce all’interno dell’abitacolo.
Che forse avevo sentito nella nostra cucina, qualche
notte che eravamo già a letto e poi si tendeva un filo
dritto di luce dov’era la porta, e la mamma ti chiamava di là.
E poi non si sentiva più niente. Hai continuato con Sì e con
No e silenzi che non erano nostri. Con me non abbassavi
mai la testa così. Anch’io la tenevo bassa, con gli occhi sulla
pancia, per riuscire a stringere in fretta quei nastri. Bassa per
lo sforzo, per fare presto e raggiungerti. Poi la portiera ha
fatto rumore di nuovo. E quando ho alzato la testa, c’era solo
una riga lunghissima che divideva l’asfalto dall’erba.
55
Giovanni “John” La Guaina
racconto di Roberto D’Agostin
illustrazione di Daniela Volpari
Gli speroni agli stivali producevano un suono quasi natalizio.
I quattro vecchi al tavolo interruppero la partita a carte
per voltarsi e guardarlo: di certo quell’uomo non era di
lì. Un passo alla volta si avvicinò al bancone e vi appoggiò il
cappello. Aveva la gola secca come quella di un dannatissimo
canyon.
«Whiskey», disse.
Bevve il bicchiere d’un fiato, poi si ficcò un sigaro in un
lato della bocca con una specie di smorfia di disgusto. Prese
un fiammifero dal taschino della camicia. Lo sfregò sul bancone.
Si accese il sigaro.
«Mi scusi signore», disse il barista indicando un cartello
appeso al muro, «non è consentito fumare nei locali pubblici.
Dal gennaio del 2005.»
«Sto cercando Clemente Bianchini», disse lentamente
Giovanni La Guaina, ignorando le parole del barista.
«Temo che il povero Clemente sia morto proprio ieri, signore,
mi dispiace», gli rispose il barista. «E, per favore, vada
57
a fumare fuori.»
Giovanni La Guaina socchiuse gli occhi in un’espressione
controsole e li rivolse a un orizzonte immaginario. Poi, riportando
lo sguardo al barista, si tolse il sigaro di bocca, lo gettò
per terra e lo disintegrò con ripetuti passaggi in senso orario
e antiorario della punta dello stivale. Uscì, montò su un cavallo
dal destino di bistecca dura e stoppacciosa, e trottò
maldestramente verso la direzione che scelse l’animale.
Arrivò alla città vicina un paio d’ore più tardi. Quando il
cavallo decise di fermarsi, Giovanni La Guaina ormai credeva
di non avere più il culo.
Una volta sulle sue gambe, cominciò a perlustrare i muri
della città in cerca di affissioni che gli indicassero i fuorilegge
da restituire alla giustizia. Benché il bingo nel vecchio
west non esistesse ancora, quando trovò il suo ricercato disse
proprio «Bingo!» e, come d’abitudine, decise per prima
cosa di informarsi al saloon, anche perché aveva la gola secca
come quella di un dannatissimo canyon. Appena entrato,
fu preso in giro per il suo abbigliamento da certi ragazzi
che tirarono in ballo il ristorante indiano a fianco. Giovanni
La Guaina si limitò ad avvicinare la mano al cinturone e ordinare
un whiskey che bevve come fosse acqua, malgrado
una forte gastrite.
«Sto cercando Carmelo Della Vedova», disse rivolto al barista.
«È mio nonno», disse uno dei ragazzi, di colpo serio. «Anzi,
lo era. È morto ieri.» Giovanni La Guaina, aprendo appena
la bocca e stringendo fra i denti un nuovo sigaro, farfugliò
qualcosa che suonava come «maledizione.»
Cominciava ad essere un po’ ubriaco. Non era facile abituarsi
a tutti quei whiskey di prima mattina.
Uscì dal locale barcollante, imprecando a bassa voce
contro quel suo misterioso rivale che da giorni lo precedeva
sistematicamente e senza sbagliare un colpo. Poi si guardò
intorno non sapendo bene cosa fare .
58
In fondo alla strada, proprio in mezzo alla strada, vide un
uomo che lo fissava con insistenza. «È lui. Non può che essere
lui», pensò, benché si trattasse della statua di Cavour. «È
lui, e a quanto sembra vuole togliermi di mezzo.»
Con lentezza risoluta si piazzò a sua volta in mezzo alla
strada, proprio sulle linee di sorpasso, e lì aspettò, pronto ad
afferrare la pistola al primo percettibile movimento di Cavour
e infilargli una pallottola in mezzo agli occhi. Mentre
le macchine gli passavano vicino strombazzando e mandandolo
al diavolo, i passanti cominciarono a raggrupparsi incuriositi
sui marciapiedi, facendosi domande, riprendendo
la scena col telefonino, o semplicemente chiamando i vigili
urbani. Qualcuno l’aveva riconosciuto, l’aveva già visto da
qualche parte su YouTube. C’era chi diceva fosse una trovata
pubblicitaria, chi una candid camera. I cinefili l’avevano
preso a simbolo citazionista, i neosituazionisti a simbolo
neosituazionista, i gay a icona gay e via dicendo.
Poi arrivarono i giornalisti e anche i vigili urbani, che nel
dubbio che quella fosse una vera Colt non sapevano bene
come comportarsi. In tutto questo Giovanni La Guaina
aspettava teso e concentrato, le braccia sospese lungo i fianchi
e la faccia in primissimo piano, trasformando i clacson
in scacciapensieri e gli insulti in cori epici.
I minuti passavano. Pian piano, Giovanni cominciò a ricordare.
Ritornò con la mente a quando aveva deciso di rivedere
Per un pugno di dollari in lingua originale sotto una dose
sconveniente di un allucinogeno fatto in casa. Si rivide
mentre indossava un vecchio costume da cowboy e comprava
un cavallo al macello, mentre si spostava di paese in
paese e di città in città scambiando gli annunci mortuari
per wanted poster, ossessionato da un immaginario rivale
che altri non era se non la morte stessa. Ora era in mezzo
alla strada, e quello laggiù era Cavour. Mentre arrivava a
questa conclusione, lo specchietto laterale del 27 barrato
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lo colpì in piena nuca.
Quando riprese conoscenza, Giovanni La Guaina era di
nuovo convinto d’essere un bounty killer sistematicamente
preceduto da un infallibile rivale che noi sappiamo essere
la morte. Riaperti gli occhi, si vide circondato da infermieri,
qualche giornalista regionale e un paio di cinefili che trovavano
la scena irresistibilmente postmoderna e lo riprendevano
col telefonino.
Una giornalista poco distante spiegava al microfono e alla
telecamera, quindi ai telespettatori, che Giovanni La Guaina,
da poco soprannominato “John”, lavorava in un negozio
di abbigliamento femminile. Uno psicologo trovato lì per lì
sosteneva di essersi da sempre battuto contro i rischi del cinema
western; un altro psicologo, nemico dell’altro, riteneva
invece che il caso fosse da interpretare come una naturale
reazione alle voci sulla sua omosessualità.
Giovanni La Guaina detto “John” si alzò, si spolverò la camicia
e si ricordò immediatamente del rivale con cui stava
duellando poco prima e che noi sappiamo essere la statua
di Cavour. In quell’istante, un uomo vestito di nero che stava
perdendo l’autobus e che poteva effettivamente ricordare
un po’ Cavour gli sfrecciò accanto reggendosi il cappello.
Giovanni La Guaina detto “John” non ci pensò su: afferrò la
pistola, si piegò sulle ginocchia in una posizione da surfista
e fece fuoco. Dopo un primo spavento generale tutti capirono
che la sua era una pistola giocattolo, di quelle che fanno
solo rumore di petardo. Ma quel breve momento di panico
fu fatale a un anziano curioso che si accasciò a terra, colpito
presumibilmente da infarto. Allora il gruppo di persone
che attorniava Giovanni La Guaina detto “John”, composto
da curiosi, infermieri, giornalisti e cinefili che trovarono la
scena molto realistica, si spostò uniformemente di qualche
passo ad attorniare il povero anziano. Giovanni La Guaina
detto “John” si fece largo tra le persone che aumentavano
sempre di più. Riuscì ad avvicinarsi al povero anziano pro-
60
prio mentre gli infermieri ne annunciavano la morte. Ci fu
un lungo silenzio. Uno dopo l’altro tutti si voltarono a guardare
Giovanni “John” La Guaina, che in fondo era il responsabile
di quella tragedia. Giovanni se ne accorse, mentre gli
occhi gli si inumidivano; si portò il cappello al petto e cominciò
a parlare.
«Giudicatemi» disse «giudicatemi pure, perché oggi ho
capito una cosa. Non bisogna voler essere a tutti i costi ciò
che non si è. Un cowboy vive a stretto contatto con la morte,
la cerca, a volte la procura, e non importa se a fin di bene.
E una società senza regole o basata sulla legge del più
forte è una società della morte. La morte invece mi spaventa
e mi fa soffrire. La dipartita, il trapasso, il decesso, la
scomparsa, comunque la si chiami, è una cosa brutta. Tutti
dobbiamo morire, sì, anche tu, ragazzino, e nessuno può vincere
la propria personale battaglia con la morte. Ma possiamo
vincerla tutti insieme, generando più amore e gioia di
quanto dolore e odio lei riesca a procurare a noi. Ora diamoci
la mano e stringiamoci in cerchio attorno a questo cadavere
di anziano curioso, e diciamo tutti insieme no alla
morte!»
«No!» urlò in un boato la folla che ormai riempiva tutta
piazza Cavour.
61
Io sono l’altra
racconto di Edoardo Brosio
illustrazione di Faber
E così vado all’appuntamento, santo cielo. E Boo è lì che
mi aspetta, con la sua aria alla Holly Golightly, davanti a questo
negozio di abiti da sposa: un atelier di periferia con sette
vetrine di manichini senza testa che sembra un rivenditore di
macchine usate. Si è tagliata i capelli, quella strega. Se li è
tagliati davvero, santo cielo. E allora le dico Boo, prova soltanto
a dirmi che l’hai fatto per quello stupidissimo tizio
con cui hai passato la notte e giuro che ti uccido. Boo si
vede con un poliziotto. Non è ridicolo, santo cielo? Non so
nemmeno se questo tizio ha un nome, perché lei non fa che
chiamarlo il poliziotto. Me lo immagino alto e coi baffi, una
specie di spilungone in bianco e nero scappato fuori da una
comica a due rulli. Deve essere romantico, a modo suo, e terribilmente
goffo.
A Boo piacciono i tipi così. A Boo piacciono gli uomini
che le siedono accanto nervosi e a un certo punto le afferrano
la mano e tentano di infilarle un anello al dito sbagliato.
Lei salta su dicendo che non è affatto uno stupido, e che
63
sì,ha passato la notte con lui,e che magari se lo sposa anche,
il poliziotto, perché lui ha davvero un modo meraviglioso di
essere nervoso ogni volta che si baciano in pubblico. Io nemmeno
la sto a sentire. Chi non parlerebbe di matrimonio
davanti a un negozio di abiti da sposa? Eppure sarà per via
del suo nuovo taglio di capelli, ma mi viene spontaneo trattenere
il fiato.
Da piccola, tutte le volte che cadevo dalla bicicletta, per
la paura smettevo di respirare e poi svenivo.Questa storia del
poliziotto è come una caduta dalla bicicletta:vorrei battere la
testa sul marciapiede e non pensarci più. Ma faccio finta di
non dare importanza alle sue chiacchiere e inizio a tormentarla
un po’ su questo suo meraviglioso fidanzato, al che lei
attacca a raccontarmi una storia assurda su un certo film di
Buster Keaton e un tizio a cui dobbiamo correre dietro con
addosso degli abiti da sposa presi a nolo, che poi è il motivo
per cui siamo qui; così va a finire che mi trascina dentro il
negozio e del poliziotto non ne parliamo più.
Un passo oltre la soglia dell’atelier ci investe un odore
dolciastro di fiori appassiti da togliere il fiato. Il pavimento è
una distesa di manichini spogliati e fatti a pezzi, una gran
confusione di braccia e gambe e busti di plastica, e ovunque
giri lo sguardo ci sono ragazze con i capelli rossi che si provano
abiti da sposa.
Quando Boo si mette in testa di coinvolgermi nelle sue
storie bizzarre, io non discuto. O magari sì, magari metto su
una luna di traverso e faccio di tutto per rovinarle la giornata;
ma poi, santo cielo, lei è mia sorella, lei è Boo, e io non riesco
nemmeno a respirare, se non ce l’ho tra i piedi.
Boo non si chiama davvero Boo. Si chiama Didi. Siamo
Sara e Didi, ma io la chiamo Boo e lei fa lo stesso con me.
Quando eravamo piccole abbiamo pensato che,visto che eravamo
identiche, non c’era ragione perché avessimo due
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nomi diversi. Che assurdità, santo cielo: perché Sara e Didi,
quando potevamo essere entrambe Boo?
Ci siamo sempre capite al volo, io e Boo. Nemmeno avevamo
bisogno di parlare, una volta. Per anni non abbiamo
fatto altro che giocare a confonderci e a confondere gli altri.
Se qualcuno mi chiedeva chi sei delle due?, rispondevo sempre
io sono l’altra, e Boo faceva lo stesso.
Cerco un posto per sedermi e prendere fiato, ma Boo mi
mette un abito da sposa in mano e mi dice provati questo.
Mi accorgo che lei ne ha già indossato uno che le sta divinamente
e inizio a sentirmi davvero male, peggio di prima se è
possibile, perché lei sembra al settimo cielo e so che potrebbe
anche decidere di non toglierselo più.
Ed è a questo punto che vedo le due ragazzine. Due deliziose
gemelle con i capelli rossi. Nemmeno si accorgono
della baraonda che sta loro intorno, prese come sono a disegnare
chissà cosa su un album che, ci scommetto, deve essere
pieno di scarabocchi meravigliosi. Sembrano tenute assieme
da un filo invisibile, santo cielo: legate da un filo rosso
come il colore dei loro capelli.
Anche io e Boo ne abbiamo uno uguale, ma ultimamente,
ogni volta che ho bisogno di lei, mi tocca percorrerlo tutto,
e praticamente è un po’ di tempo che non faccio altro che
essere terrorizzata dall’idea che prima o poi non troverò più
nessuno all’altro capo e me ne starò lì, a fissare il niente, con
un grosso gomitolo rosso in mano, senza più la forza di andare
da nessuna parte.
E allora prendo su il mio vestito e mi metto in cerca di
Boo, e quando la trovo provo un po’ a piagnucolare e le dico
Boo, tesoro, è proprio il caso che mi metta addosso questo
vestito?,ma visto che non attacca insisto e le dico santo cielo
vuoi darti una calmata e spiegarmi per filo e per segno in
che cosa ci stiamo cacciando?
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Ma di nuovo non c’è tempo per le spiegazioni. Le spose
con i capelli rossi si riversano in strada e io cerco solo di
stare dietro a Boo, che già non sta più nella pelle e che se
potesse schizzerebbe via a rotta di collo fino a casa di quel
poliziotto di cui è tanto innamorata.
Ogni tanto qualcuna delle ragazze mi si avvicina e tenta di
scambiare due parole, ma io me ne sto zitta e mi tiro giù il
velo o fuggo avanti fingendo di essere presa dalla faccenda
della corsa, come se provassi qualche scatto per vedere se
così conciata riuscirò a fare la mia parte. Sembra che quella
scappata fuori da un film muto sia io, quella che se non è
chiusa dentro la sua pellicola non sa come comportarsi e
sembra una svitata o che so io. L’unica cosa che mi viene in
mente e che potrei dire è che io sono l’altra, io sono l’altra,
anche se poi nessuna di loro capirebbe. Nessuna di loro ha il
minimo dubbio su chi sia io delle due.
Quanto a Boo, lei nemmeno fa lo sforzo di capire la mia
situazione, e sembra quasi che se ne stia un po’ alla larga,
come si vergognasse del disastro che sono. Lei parla con le
ragazze e si fa grandi risate e tutto quello che riesco a pensare
mentre la guardo è che il gomitolo sta diventando sempre
più grosso e che, se tanto mi dà tanto, manca davvero poco
alla fine del filo.
Ci fermiamo di fronte a un vecchio stabile che cade a
pezzi, ma non c’è bisogno di aspettare tanto, perché senza
che nemmeno riesca a vederlo far capolino dall’ingresso, un
ragazzo è già schizzato fuori dal portone e sta correndo via,
con la strada che gli scivola via da sotto le suole delle scarpe
e noi che gli andiamo dietro, agitando i nostri bouquet,
come un esercito bizzarro. Ai lati della strada c’è tutta questa
gente, che lo guarda fuggire e guarda noi che lo inseguiamo
e intanto ride.
Io mi incollo a Boo e cerco di prenderla per mano, ma lei
si stacca e dice che se le sto addosso a quel modo non riesce
a correre. Allora le grido dietro Boo, io questo vestito vorrei
66
proprio togliermelo, adesso, santo cielo. Le dico basta, levati
quel velo dalla testa. Le dico torniamo a casa, ora, ti
prego. Ma lei niente, non accenna a rallentare.
Le chiedo se ha notato quelle due ragazzine,al negozio;se
le ha viste bene, santo cielo, e se ha fatto caso a quanto si
assomigliavano, loro due. Se non le manca qualcosa, di quella
vita, del gioco di confondersi e confondere gli altri. Lei si
gira verso di me e non dice una parola: mi guarda e basta.
E allora mi fermo. Basta un attimo che già l’ho persa di
vista, e non c’è modo ora di riconoscerla in mezzo a tutte le
altre, tutte queste ragazze che sanno il suo nome, che la chiamano
Didi, che non si sognerebbero mai di chiamarla Boo.
Non lo so più se Boo esiste. Lei è Didi. Didi che parla, Didi
che sa parlare, Didi che è stata la prima ad abbandonare quel
linguaggio tutto nostro, che nemmeno era fatto di parole;
come se quel cinema muto in cui ci eravamo rinchiuse non
le bastasse più, come se le parole degli altri fossero la sua
unica chance di poter essere riconosciuta, distinta da me.
È a quel punto che giro i tacchi. Ho voglia di tornare al
negozio, cercare quelle due deliziose ragazzine, dare un’occhiata
al disegno che hanno fatto, ricordarmi ancora una
volta cosa significa essere così legate assieme da confondersi
e dimenticare chi si è delle due. Non me n’è rimasto uno,
di quelli che abbiamo fatto io e Didi, quando avevamo la loro
età. Un giorno li butti via, quegli scarabocchi, e mica ci pensi
che potresti averne bisogno ancora, per tentare di cavarci
fuori un sorriso.
Dirò loro di conservarlo. Prima o poi ne avranno bisogno.
Quando anche il loro filo inizierà ad allungarsi, a diventare
più sottile. Quando una si fermerà davanti ai negozi di abiti
da sposa e l’altra cercherà di trascinarla via. Quando una correrà
dietro all’amore e l’altra cercherà in ogni modo di scapparne
via. Quando tutto questo accadrà anche a loro.
67
La begonia
racconto di Rosanna Spinazzola
illustrazione di Margherita Allegri
Con le mani sui fianchi guardo lo spazio vuoto tra un vaso
e l’altro. Deve essere stato il vento di cui hanno parlato i telegiornali
a farlo cadere, la coda di una specie di ciclone con il
centro a diversi chilometri da qui, con i suoi temporali periferici.
Deve essere stato quello.
Ma è impossibile, perché non ci sono cocci rotti per strada,
in basso, oltre la balaustra. C’è una stufa. Incredibile cosa
tenga la gente sul balcone.
Era la pianta preferita di Luca: una rosa Baccarà.
Mentre prendo la paletta e lo scopettone per pulire i resti
di terriccio di forma circolare,penso che potrei buttare via le
altre e farla finita, una volta per tutte.
Ma come spiegarlo a Elvira? Lei,la mia bambina,che è così
contenta di vedere sbocciare le rose a primavera. E l’ibisco, i
gerani, i ciclamini. Tutti i suoi dodici anni racchiusi in queste
stupide piante che infestano la casa. E d’un tratto gliele strappo
via? No, non potrei farlo. Non io.
69
Il rubinetto dov’è attaccata la pompa innaffiatrice gocciola
anche quando la rotella è chiusa. Dovrei sostituire la guarnizione,
se solo sapessi farlo.
Era Luca quello bravo con le riparazioni, non io. Io facevo
il resto. Lui aggiustava le cose rotte, e faceva crescere le piante.
Le loro foglie si arrampicavano sulle pareti del suo
mondo. Ne delimitavano i confini.
Per questo lo amavo. Ne avevo bisogno: non di lui, ma di
essere riparata, e di fiorire come una camelia.
Qualcosa deve essere andato storto. Fin dall’inizio, ora lo
so;tuttavia ho atteso a lungo prima di accettare che non c’era
mai stata terra sufficiente per le mie radici, in quei vasi.
Io odio le piante. Non le sopporto perché con me non
durano, non ho il pollice verde.Tutto quel fiorire ogni volta
mi sbatte in faccia i miei limiti.
Stanno morendo, una dopo l’altra.
Ci ho provato a prendermi cura di tutte queste foglie, del
terriccio e dell’innaffiatura. Ci ho provato, davvero. Ma la
verità è che mi tolgono l’aria, mi rubano lo spazio. Mi sento
in competizione.
La scopa nello sgabuzzino ha il manico arrugginito e ogni
tanto perde lo spazzolone. Si stacca. Dovrei smettere di cercare
di ripararla e comprarmene una nuova.
«Dov’è la rosa?»
«Andata.»
Gli occhi di Elvira si riempiono di lacrime, di colpo.
«Cattiva!»
Cattiva, io? Io sono quella buona, quella che è rimasta.
Quello cattivo è andato via.
Elvira piange a singhiozzi con il viso affondato nel cuscino
del divano.
Proprio non mi riesce di riparare le cose.
70
Il ticchettio della pompa non mi faceva dormire. Ho escogitato
un sistema per attutirlo: ci ho infilato sotto la begonia.
Così magari si strozza da sola, goccia dopo goccia, liberandomi.
Un buon inizio.
Non successe di notte, fuori non pioveva, niente tuoni e
fulmini, nulla di catastrofico. Pomeriggio, sole, profumo di
caffè.Guardavamo le foto del matrimonio,di Elvira,dei nonni.
«Me ne vado.»
Tutto qui. Stretta tra le mani, una foto della prima fioritura
di quella maledetta Baccarà, con i suoi petali quasi neri.
Non afferrai immediatamente il senso di quelle parole.
«Me ne vado» ripeté.
«Ho capito» risposi sottovoce.Ma non avevo capito niente.
«Hai tolto tu la rosa di papà, vero?» ha continuato a chiedere
Elvira. Oppure «È tornato a prendersela? Dimmelo.»
Di notte dormo sul divano così non devo battere contro
lo spazio vuoto del letto matrimoniale. Mi addormento
davanti alla tv, con le briciole di patatine sulla maglietta e
sulle pantofole.
Una di queste notti ho capito cos’era andato storto, perché
non mi aveva coltivata con altrettanta devozione, perché
avevo aspettato invano.Sentivo il ticchettio della pompa e mi
sono alzata a controllare. La begonia era stata rimessa al suo
posto e l’acqua gocciolava sulle piastrelle.
Elvira.
Ho capito che è una questione di limiti. Nessuno può
vedere il sole oltre il proprio orizzonte.
Il mattino dopo ho gettato via la scopa e ho telefonato a
un idraulico per farmi riparare la pompa. Fuori, c’era un temporale.
71
Dissertazione attorno alla lettura
di un quotidiano da parte di un malvivente
racconto di Andrea Cirillo
illustrazione di Claudio Arisi
Il mattino seguente il rapinatore comprò il giornale. La
matematica certezza che lo fece per leggervi le sue peripezie
non la possiamo avere. Forse era solo interessato alla
pagina sportiva o forse era un uomo al quale piaceva tenersi
informato. Pur non essendo degli esperti ipotizziamo che
debba essere importante per un malavitoso sapere, ad
esempio, dove è previsto il rifacimento del manto stradale
o la posa delle tubature per il teleriscaldamento. È chiaro,
però, come oggigiorno alletti tutti apparire sui media. Se il
narcisismo è stato tolto dall’elenco dei disturbi mentali da
parte dell’autorevole American Psychiatric Association un
motivo deve pur esserci.
Sappiamo comunque che arrivato a pagina sette si fermò
e lesse con attenzione i due articoli che lo riguardavano.
Occupavano due terzi della pagina ed erano posti tra:
una schematica tabella riportante il numero e la tipologia
dei delitti sul territorio in data 20 agosto, un articolo su una
cantina adibita ad abitazione e la pubblicità di un noto ca-
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seificio locale. Non avendo ottenuto il consenso dall’autore
né dalla redazione del quotidiano, ci troviamo impossibilitati
a riprodurre in parte o in toto (cosa che peraltro non
avremmo fatto) tali articoli. Ci basti sapere come essi siano
stati ritenuti dal medesimo rapinatore lacunosi e imprecisi.
Nella comodità della sua cucina, seduto al tavolo davanti
a una tazza di caffè, una brioche alla crema e un succo
d’arancia, vide riportate le sue azioni in modo dozzinale, tra
un’abbondanza di refusi e uno stile al quale egli stesso associò
l’espressione “alla minchia”. Si descrivevano solo sommariamente
le due rapine delle quali era stato protagonista
la sera precedente. La prima, avvenuta in una farmacia, era
l’oggetto del secondo articolo. Gli si mettevano in bocca
parole che non aveva mai pronunciato e laddove erano azzeccate
le parole, non lo erano le motivazioni. La ragione
per cui aveva detto alla commessa «Fuori i soldi, questa è
una rapina» non era certo stata per scuoterla dallo shock.
Pur essendo avvezzo all’uso d’armi da fuoco sa perfettamente
che non è cosa da tutti i giorni avere una semiautomatica
puntata in faccia e non poteva biasimare la reazione
della donna, ciò nonostante non spettava a lui consolarla.
No, se aveva detto quella frase era stato per sé, per ricordarsi
che quella era in tutto e per tutto una rapina, per non
perdere il contatto con la realtà, cosa che purtroppo gli capitava
sempre più spesso. La routine, di qualsiasi natura essa
sia, può portare a spiacevoli distrazioni.
Poche righe più avanti, nello stesso articolo, lesse poi
una cosa ridicola, ovvero, di come egli, dopo aver prelevato
il misero incasso della farmacia, fosse scappato nel nulla.
Immergendo la brioche nella tazza e mordendone la punta
imbevuta di caffè, egli ebbe una reazione che noi non esitiamo
a definire proustiana (anche se di un “proustianesimo”
senza dubbio eterodosso). Si figurò un uomo col mantello
camminare nella nebbia fitta fino a divenire invisibile.
Un’immagine a metà tra un racconto gotico e un trucco di
74
prestidigitazione. Sulla falsariga di questo – scoprì seguitando
a leggere l’articolo – veniva detto che il denaro era sparito
nelle sue tasche, cosa che trovò più che ridicola, paradossale.
Nulla era sparito.
Corrispondeva al vero il fatto che avesse chiuso i dipendenti
nel bagno per garantirsi una migliore fuga, ma era
un’illazione dubitare della serietà della sua semiautomatica,
accostandola addirittura a una banalissima scacciacani e a
un gioco per bambini. Era ben conscio di non essere un
Lupin, un Robin Hood o di non far parte di una di quelle
bande di rapinatori di lusso che andavano di moda al cinema
appena qualche anno fa, ma sentiva di avere comunque
una sua professionalità. L’ultimo paragrafo, poi, lo seccò a
tal punto da innescargli un pugno sul tavolo così potente
da scaravoltare la tazzina, fortunatamente già vuota, e da far
straboccare parte del succo d’arancia.Veniva infatti riferito
come, sebbene il rapinatore non avesse nessuna flessione
particolare, non fosse meno probabile che si trattasse di
uno straniero, con l’ampia descrizione di un precedente in
cui un russo aveva riprodotto perfettamente l’aspirata fiorentina
per depistare le indagini.
Il primo articolo, quello che parlava della seconda rapina,
non era migliore, ma la cosa non poté stupirlo. Bevendo
ciò che rimaneva del succo d’arancia, lesse come il rapinatore
– cioè, ma questo ormai è noto, egli stesso – si fosse
impadronito senza pagare di prodotti tecnologici all’interno
di un supermercato. Veniva sottolineato più volte che
due rapine, entrambe a mano armata e a poca distanza
temporale e geografica non potevano essere una coincidenza.
Il rapinatore rifletté a lungo su questa parola e concluse
che invece proprio di questo si trattava, di una coincidenza.
È coinciso, per esempio, che il supermercato in
quell’ora non fosse già chiuso e che solo una cassa fosse rimasta
aperta. È coinciso che il bottino della farmacia fosse
risultato di gran lunga inferiore alle sue speranze. È coinci-
75
so che farmacia e supermercato distassero appena qualche
minuto d’auto uno dall’altro. È coinciso che il giorno precedente
il cellulare gli fosse disgraziatamente sfuggito di
mano mentre telefonava affacciato alla finestra, disintegrandosi
quattro piani più giù. Pensò: la vita è fatta di coincidenze.
E scrollò le spalle.
Una volta terminato anche il succo d’arancia, il nostro
proseguì nella lettura del quotidiano estremamente deluso
per come quel giornalista – del quale si ometteva la firma –
avesse trattato le sue scorribande. Più di tutto non concepiva
come si potesse liquidare in poche righe la frase con cui
era uscito di scena dal supermercato. Riconoscendo anche
noi l’errore, ci sentiamo in dovere di riportare tale vicenda
nella sua completezza.
Alle 19.50, con un telefono di ultima generazione sotto
la giacca e in testa un berretto militare, il rapinatore si avviò
verso la sola cassa rimasta aperta e posò sul nastro un
pacchetto di salviette marca Chilly. Le forti luci al neon
contrastavano con l’oscurità che si stagliava al di là delle
vetrine, mentre una voce registrata, interrompendo la hit
del momento, avvisava che il supermercato era prossimo
alla chiusura. Non c’era più nessun cliente e il poco personale
rimasto era impegnato a ordinare le scansie e a fare di
conto. La cassiera, una ragazza poco più che ventenne, con
capelli rossi e occhi azzurri, ormai alla fine del turno e alienata
dal passare prodotti sul lettore ottico, non sorrise, non
lo guardò, non gli chiese se avesse la tessera fedeltà. Aspettò
il segnale acustico e disse stancamente il prezzo. Il rapinatore
prese gli spiccioli dalle tasche dei jeans, afferrò le
salviette e fece per andarsene, ma naturalmente la placca
antifurto rimasta attaccata alla confezione del cellulare,
passando nella torretta antitaccheggio innescò l’allarme. La
cassiera alzò la testa e ogni suo commento fu reso superfluo
dalla vista del nero abissale della canna della pistola.
Fu a questo punto che il rapinatore disse: «Questo è il mio
76
scontrino». Una frase che conveniamo essere calzante – e
suggestiva, un’istantaneità e una seduttività che farebbero
invidia a un poeta o a un pubblicitario – e che ci rimanda a
certa letteratura pulp. Le fece poi un segno con gli occhi,
un segno di compassione per come si erano messe le cose.
Ma il cappello era forse troppo calato e il nero della pistola
troppo nero.
77
La scheggia nella salsa
racconto di Donatella Azzollini
illustrazione di Giuseppe Braghiroli
Una folata improvvisa andò ad animare il fuoco sotto i
bidoni. Una nuvola di polvere si alzò dal viale, lo scirocco
umido carico di presagi era arrivato per scompigliare cenere
e capelli.
Margherita, voltandosi verso il vento, non si accorse che
il cucchiaio di legno si stava sbeccando nella macinatrice.
Galleggiavano le schegge nella conca azzurra dove si raccoglieva
la salsa e lei, piuttosto che toglierle a pelo e con cautela,
le aveva spinte nel magma di pomodoro, sperando che
nessuno, almeno in quel momento, se ne accorgesse.
Tutti erano impegnati nelle proprie postazioni: Margherita
macinava i pomodori cotti e suo padre, mastro fuochista,
controllava il bollo mentre tra fuoco e sole la faccia gli
evaporava in mille gocce di sudore, rivoli lungo la fronte
spaziosa, tra le pieghe del naso e sulle basette grigie. Poi
c’era chi tappava le bottiglie, preferibilmente uno zio. Anche
quello era un lavoro di concetto: una cattiva chiusura
avrebbe condotto all’entrata di aria nella bottiglia e dun-
79
que all’avaria della salsa stessa. La mamma di Margherita e
le zie travasavano, lavavano gli arnesi e preparavano il
pranzo. I bambini, oltre a bazzicare goliardicamente intorno
al fuoco, sfidando le ire di Peppino mastro fuochista, andavano
a caccia di lucertole e cicale, mentre le bambine infilavano
il basilico nelle bottiglie oppure raccoglievano rucola
da mettere nell’insalata. I fratelli e i cugini di Margherita,
che esplodevano di giovinezza, arrivavano per pranzo,
impegnati com’erano, a volte con un segno di cuscino sulla
guancia, altre volte con uno stampo di rossetto sul colletto.
Arrivavano con le scarpe pulite e si lagnavano sempre
per qualcosa.
Margherita, prima di pranzo, si nascondeva sotto le vigne,
in un angolo dove dalla casina non poteva vederla nessuno,
si toglieva gli abiti chiazzati di salsa e con le unghie
grattava via dalle gambe le bucce secche di pomodori, poi
si lavava con l’acqua fredda della bacinella. La regolarità degli
eventi, la loro liturgica ripetitività a volte concedevano a
Margherita una serenità quasi profetica. Si poteva declinare
al futuro il tempo passato e viceversa. Avrebbero mangiato
il ragù con la salsa nuova e qualcuno prima degli altri
l’avrebbe elogiata come la migliore delle salse possibili, si
sarebbero intessute le lodi dei pomodori e della loro resa.
«Com’è venuta quest’anno non è mai venuta», avrebbe glorificato
Vincenzo mastro fuochista, masticando le penne rigate
intrise di sugo, e tutti in coro con le giaculatorie ausiliarie.Altre
volte quel mondo attorno non bastava a togliere a
Margherita la sete improvvisa e indefinita che le palpitava
subito sotto i capezzoli: smaniava, ansimava come i cuccioli
di cane lupo pronti a recuperare un bastone.
Era stesa sotto i pampini esuberanti a togliere dai piedi
le spine di vasapiìd e sentiva poi qualcuno chiamarla «Margherii...
Margheriiitaaa», di solito sua madre, e allora correva
con i capelli bizzarri come tralci arrotolati e i seni liberi sotto
la maglia, acini acerbi e sodi.
80
«E tu il fidanzato ancora non ce l’hai, Margherì...»
«Se sta sempre qua non se lo troverà mai... dove se lo deve
trovare, in mezzo alla vigna?»
«Sai quante cose si possono fare in mezzo alla vigna!»
E ridevano gli uomini della tavola.
«Tenetevi la forchetta per il secondo e state zitti voi...
che niente ancora avete concluso. Lasciatemela stare un altro
poco a Margherita», diceva la mamma mentre toglieva i
piatti sporchi per rimpiazzarli con quelli puliti.
Margherita ascoltava in silenzio. Avrebbe voluto dire
che lei al fidanzato non ci pensava proprio, che le piaceva
la campagna e ricamare e volare sulla bicicletta, che non
vedeva l’ora di ritornare a casa della signorina Burdi per
chiacchierare e ridere con le sue amiche e imparare a fare
come si deve il punto a intaglio. La bolla in cui si trovava,
però, non le consentiva di far arrivare le parole all’esterno
per come realmente le avrebbe volute dire, ma sempre attutite
e diverse, come deformate. E nemmeno riusciva a
percepire in modo limpido e chiaro le voci degli altri, anche
queste stravolte all’entrata della bolla.Allora restava zitta
e magari rideva anche lei, perché il silenzio non sembrasse
ostile, perché voleva stare in pace.
Poi in un pomeriggio di salsa, arrivò nella campagna di
Pozzo Pulicchio compare Nino a fare una visita di cortesia.
Portava in dono una cassetta di pesche appena colte dal
frutteto che tenevano non lontano da lì. Al suo seguito,
commara Gina con un cesto di cetrioli lucidi e poi Anita
dalla postura irriverente, l’espressione imbronciata e l’odore
amaro della rucola. Quando Margherita li vide, sentì la sua
sete aumentare. Ogni volta che la vedeva, aveva una reazione
strana. Sulla scollatura di Anita i moscerini si affaccendavano,
attirati dal lucido giallo limone della camicetta, andavano
e venivano leggeri come le chiacchiere che in paese
facevano sul suo conto, erano chiacchiere pesanti e cattive
e lei le portava con una leggerezza sfrontata.
81
A Margherita, poi, piaceva guardare le gambe lunghe di
Anita, olivastre e lucide, e quel giro vita così stretto che sembrava
potersi spezzare. Le piaceva così tanto che lei fosse lì
di fronte che avrebbe voluto abbracciarla e tirarle i pizzichi.
«Ho detto a Nino: passiamo un poco da Vincenzo che gli
portiamo due pesche.»
«Accomodatevi che facciamo un caffè: fai un caffè, Margherì.»
Il fuoco sotto i bidoni era ormai spento e si aspettava
che le bottiglie, dopo il bollo, diventassero tiepide al punto
giusto per essere messe nelle cassette e conservate nel garage
o nello sgabuzzino come provvista per l’inverno.
Buona salsa per buone formiche.
Margherita avrebbe potuto giocare ad anticipare nella
sua testa le chiacchiere prevedibili che si stavano srotolando
tra un caffè e un nespolino, ma non poteva ascoltare
niente oltre al sussurro dell’aria che Anita muoveva sventolandosi
la gonna, incantata dalla luce dei gelsi maturi che
portava come occhi.
«La figlia dei compari è una lecca-fiche, stai attenta, Margherì...
ancora finisci come lei!», le avevano detto fratelli e
cugini. Margherita ne risentiva l’eco e le pareva di vederli
mentre a tavola si toglievano con l’unghia del mignolo un
pezzo di carne dai denti e raccontavano tra loro, a voce non
troppo bassa, della fimmina che avevano montato la sera
prima. Margherita per buona parte si sentiva spuria, come
se la polvere servita per i fratelli non fosse bastata, come se
la madre avesse preso un altro po’ di terra sotto la vigna di
Pozzo Pulicchio, una terra un po’ più friabile, per infilarsela
nel grembo gravido.
«Margherì... vai a fare due nocelle che se le portano i
compari.»
Il tono perentorio non aveva smosso Margherita, persa in
divagazioni tanto ascetiche quanto carnali. Allora qualcuno
le prese un braccio gridandole «Ahó... che stai a dormire?!».
82
E Margherita, come svegliata all’improvviso, ebbe un sussulto
di fastidio che si fece sorriso quando vide le labbra di
Anita scoprire i denti e allargarsi in una risata.
Tornarono masticando nocelle, Anita e Margherita, con
risate intime e lievi del tipo di quelle che svelano, senza
volerlo, un nodo appena stretto, un’intesa nuova e fresca. I
genitori stavano già in piedi, vicino al cancello. Margherita
incrociò per un attimo gli occhi di sua madre riconoscendone
la velatura di rimprovero e paura, ma la sua felicità
era troppo densa per essere mischiata con la preoccupazione.
Da quel giorno Margherita prese a incontrare Anita nelle
mattine lunghe della villeggiatura in campagna. Si davano
appuntamento in un vecchio trullo non troppo distante
da lì. Margherita saliva in bici con la scusa di andare a fare
rucola o di riempire il cinque-litri di acqua alla fontana. Pedalava
per un paio di chilometri tagliando a metà il cicaleccio
e il vento fresco e l’odore silenzioso delle vigne, sovrana
indiscussa delle cuccuvasce e delle nolche, regina delle
discese sulla via Appia-Traiana. Il più delle volte Anita era
già lì, appoggiata sul trullo abbandonato, a sgranocchiare
qualcosa o a succhiare una radice di liquirizia. Margherita
si stendeva e si raccontava come non aveva mai fatto, riuscendo
ad abbandonarsi in Anita e nelle sue labbra attente,
in un modo dolcissimo e corposo.
A volte lo scricchiolio di qualche foglia o il tonfo di un
fiorone, troppo maturo per stare sul ramo, spaventavano
Margherita. Il silenzio della campagna aperta amplificava le
sensazioni, le pareva di vedere la sagoma minacciosa del fratello
o di un cugino e sentirne i passi e la voce pesante.
La figlia dei compari è una lecca-fiche, lecca-fiche, lecca-fiche.
Le melagrane avevano preso ormai l’abito rosso pergamenato,
Anita e Margherita pensavano a come poter stare
insieme quando sarebbero tornate al paese, così abituate al-
83
la liquidità contadina. E la gente, la gente in qualche modo
avrebbe parlato.
Era uno dei primi giorni di settembre quando Margherita
scoprì che le ruote della bici erano a terra, ma non per
un buco da vasapiìd o da pietra, di quei buchi che sapeva
ben riparare con una bacinella e un po’ di mastice, le ruote
erano state tagliate con spacchi di cinque o sei centimetri,
visibilmente fatti con un coltello.
Allora Margherita cominciò a correre con tutto il fiato
che aveva in corpo come quando pungi un cavallo e quello
s’imbizzarrisce. Corse verso il trullo, con un terrore che
non poteva dire, né spiegare, ma che l’aveva catturata all’improvviso
come un’intuizione. Anita era in pericolo, qualcuno
aveva tagliato le ruote perché lei non potesse raggiungerla.
Quando Margherita arrivò al trullo non la trovò, si lasciò
cadere e cominciò a respirare forte, fino in fondo ai
polmoni. La faccia s’avvampava per la corsa e per la rabbia,
il cuore pompava violento il sangue nelle tempie e nella
spina dorsale.
Per terra una radice di liquirizia ancora da succhiare.
Allora Margherita corse, corse, e ancora corse fino al
frutteto di compare Nino. Coi muscoli tesi delle cosce, i capelli
bagnati sulla fronte, l’affanno che, a ritmo accelerato,
gonfiava e sgonfiava il petto umido di sudore. La recinzione
del frutteto era chiusa.
«Anitaaa,Anitaaa!»
La voce di Margherita correva tra i peschi carichi, inciampava
nei tronchi contorti degli ulivi, affondava nelle
zolle appena arate sino a cadere, rotta dai singhiozzi, in un
mandorleto.
Quando Margherita tornò a Pozzo Pulicchio, la tavola era
già apparecchiata e i fratelli si lagnavano per le cose solite.
Sua madre la guardò in malo modo, troppo indaffarata per
indugiare in rimproveri. Sembrava volesse dirle dopo facciamo
i conti.
84
«Stamattina al paese ho incontrato compare Nino», disse
il fratello.
«Dice che hanno anticipato il ritorno al paese perché la
figlia gli dà dei problemi e lui deve un po’ registrarla, forse
la mandano da una zia a Bari, per un po’», e il fratello ripassò
il fondo del piatto con l’ultimo maccherone e, ben intriso
di sugo, se lo infilò in bocca.
Ma Margherita non ebbe il coraggio di parlare, non disse
niente. Solo sperò che il fratello si strozzasse con quel boccone,
che una scheggia nascosta nella salsa s’infilasse dentro
il maccherone e poi nei tessuti molli della gola.
85
Autobiografia per E.C.
racconto di Franjo Matanovic
illustrazione di Giorgio Fratini
Riguardo alla data della mia nascita: alcuni dicono una
cosa altri un’altra e Mile Rakic che lavorava all’anagrafe mi
dava il certificato ogni volta dopo che gli pagavo la tassa di
un litro di slivoviz; il che vuol dire che la data è insicura,
ma l’anno potrebbe essere giusto.
Per quanto riguarda le scuole ne ho cominciato diverse,
ma finita nessuna. Alla fine mi sono iscritto alla scuola della
vita con la speranza di finirla.
Per ciò che attiene allo scrivere incominciai ancora prima
delle scuole. A quei tempi mi nascondevano carta e matite
perché non facessi le mie prime poesie. Nemmeno oggi
è diverso, ma ci sono tante fabbriche di carta e di matite.
Non sono stato mai premiato. Al contrario il grande premio
l’ho ricevuto quando ho dovuto scrivere mille volte “io
voglio bene a Jelena” alla quale avevo tirato un poco i capelli.
Io lo avevo scritto per due mille volte e sono stato castigato
perché avevo sprecato la carta.
Mi hanno sempre multato, ovunque e per ogni cosa.
87
Uno dei più grandi castighi in giovinezza fu quando mi
elessero presidente della classe. Avrebbero potuto nominarmi
re o imperatore della classe perché nelle favole non
ci sono presidenti. Perciò non mi piacciono queste moderne
denominazioni.
Riguardo alle pubblicazioni: nei primi tempi scrivevo
sui muri della scuola, sui recinti, incidevo sugli alberi e
ovunque dove arrivavo. Poi pubblicavano in tutta la scuola
chi era l’autore delle scritte e quanti castighi ho meritato.
Dopo pubblicavo autoedizioni che facevo con la mia vecchia
macchina da scrivere e poi nella fabbrica di carri armati
fotocopiavo e le davo a tutti. Quasi tutti ridevano anche
se non capivano, ma poi dopo quando alcuni del governo
e della polizia capirono mi dissero che non si poteva
fare così nella SFR Jugoslavija perché tutto doveva essere
chiaro e non che alcuni capissero il giorno dopo, altri dopo
cinque e altri mai.
Poi in Bosnia hanno pubblicato le mie poesie e questa è
una storia a sé: quando era finita l’ultima guerra in Bosnia
ed era arrivata tutta questa democrazia hanno cercato nella
mia Bosnia qualcuno a cui stampare un libro. Hanno cercato
con tutti i mezzi: con i kalasnjikov e i carri armati, con la
radio e i giornali e poi qualcuno si è ricordato che io avevo
scritto sui muri della scuola ed ecco, il libro fu pubblicato.
La tiratura era di cinquecento copie, il libro l’ho dato a tutti
quelli che conoscevo e cerco ancora a chi darlo e in tanti
scappano via da me per paura di me e dei miei libri.
Adesso sono qui, lontano dalla Bosnia ma tra bosniaci di
tutte le razze, confessioni e nazioni, faccio tubi per le navi e
su ogni tubo scrivo una poesia d’amore. Ma poi tutto viene
verniciato e avvolto con ogni cosa, ma sotto sotto intorno al
mondo naviga il fatto che l’amore è incompreso, ma è l’unica
cosa che rimane per sempre.
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Scrittori e illustratori
Note biografiche
Marco Alfano
Nato nel 1964 a Napoli. Ha lavorato
come musicista con i Panoramics,
realizzando anche lavori per
cinema, tv e teatro collaborando tra
gli altri con Mario Martone, Peppe
Servillo, Andrea Renzi, Enzo Moscato.
Nel 2003 Diego De Silva lo ha selezionato
tra i vincitori del concorso
Angoli di strada della Scuola Holden
di Torino. È stato finalista di diversi
premi letterari e i suoi racconti
sono stati pubblicati in varie antologie,
su L’Unità e su Roma. Fa parte
del laboratorio di scrittura creativa
Lalineascritta, per il quale cura il sito
e i corsi in webconference.
www.cronopio.info
Margherita Allegri
Nata a Codogno (LO) nel 1977.
Diplomata al liceo artistico e laureata
in Conservazione dei Beni Culturali
all’Università di Parma. Ha seguito
vari corsi di perfezionamento
con Svjetlan Junakovic, Linda Wolfsgruber
e Javier Zabala. Si occupa
di didattica del fumetto e dell’arte
collaborando con il Centro Fumetto
A. Pazienza e l’Associazione Mus-e.
Collabora come illustratrice con Il
Messaggero dei Ragazzi. Ha partecipato
a molte rassegne nazionali e
internazionali di umorismo ottenendo
vari premi e menzioni speciali.
www.margheallegri.com
Claudio Arisi
Nato a Torricella del Pizzo (CR)
nel 1957, vive e lavora a Cremona.
Attivo in vari campi espressivi: realizza
installazioni, opere grafiche e
illustrazioni. Produce in proprio comics
underground; vincitore nel
2004 del concorso Centro Fumetto
Andrea Pazienza.
archivioimpossibile.blogspot.it
Donatella Azzollini
34 anni, è nata a Terlizzi, in provincia
di Bari. È laureata in Filosofia
e in Scienze della Formazione. Insegna
nella scuola primaria. Ha lavorato
in pizzeria e, per un po’, è stata
assessora ai vigili urbani. Vive in
campagna con un marito, due figlie,
un cane e una quantità sterminata
di donne, mamme, sorelle, amiche,
piante. Legge molto più di quanto
non scriva. Le piacciono le passeggiate
in bicicletta, le scrittrici, la
parmigiana, il mare, camminare. Ha
scritto diversi racconti, alcuni dei
quali in corso di pubblicazione. Sta
lavorando al suo primo romanzo.
Giuseppe Braghiroli
Nato a Parma nel 1967. Dopo il
diploma all’Istituto d’Arte e gli studi
in Architettura al Politecnico di
90
Milano, lavora come grafico e illustratore.
Nel 2007 apre con la moglie
Monica Monachesi l’atelier OfficinaFantastica
e inizia a collaborare
con diverse case editrici (Franco
Cosimo Panini, Kite, Bohem
Press) e con la Mostra Internazionale
d’Illustrazione Le immagini della
fantasia - Sàrmede (TV). Sue illustrazioni
sono state selezionate ed
esposte in diverse mostre e manifestazioni
di settore. Ha illustrato vari
titoli per Giunti, Il Castoro, Città
Nuova. Conduce corsi e laboratori
sul disegno e l’illustrazione.
foglienuvole.blogspot.it
Edoardo Brosio
Nato a Sanremo nel 1975, vive
da sempre a Torino. Ha iniziato a
scrivere a 25 anni. Nel 2000 ha pubblicato
il romanzo breve Bersaglio
perfetto (ed. Studio Dedalo). Nel
2004 è stato tra i vincitori del concorso
Un racconto per la Scienza,
organizzato dalla Scuola Holden di
Torino e dal CNR. Nel 2005 e nel
2006 ha frequentato i corsi di Racconto
e Romanzo e l’Holden Club
presso la Scuola Holden di Torino e
da allora ha pubblicato alcuni racconti
brevi su diverse antologie. Come
fotografo è attivo dal 2002.
www.aviewofchance.com
Andrea Cirillo
Nasce nel 1982 e vive a Parma.
È laureato in lettere e si sta specializzando
in giornalismo. Ha pubblicato
su riviste come La luna di Traverso
e Maltese Narrazioni, su quotidiani
e siti internet. Alcuni suoi lavori
sono stati inclusi su antologie:
Trenta secondi di universo e Frecce
verso l’altro entrambe edite da Marcos
y Marcos nel 2010; Star (2007,
ed. Tapirulan); Souvlaki (2010, ed.
Tapirulan); I lunatici (2006, Mup
editore). Ha un blog, dove si interroga
sulla letteratura e la scrittura.
storiadelirantedellaletteratura.wordpress.com
Roberto D’Agostin
Nasce in una piccola città del
Friuli famosa per i suoi anagrammi.
Forse è anche per questo che a Bologna
si laurea in Lettere. Ma poi
fonda un duo di finta elettronica,
con cui esplora l’Italia dal punto di
vista dei circoli Arci. Milano non gli
piace, e vi si trasferisce per dedicarsi
al mestiere di pubblicitario.
Daniele De Batté
Nasce a Genova nel 1976. Appassionato
di arti grafiche e design,
inizia a lavorare come grafico freelance.
Ama il disegno e attraverso le
sue illustrazioni dà vita a storie nonsense
e a curiosi personaggi. Nel
2003 fonda, insieme a Davide Sossi,
Artiva Design. Artiva lavora in diversi
settori del design grafico e della
comunicazione multimediale.
www.danieledebatte.it
Luca Dore
Nasce nel 1977 a Sassari, dove
tuttora vive con moglie e due figli.
Da sempre cerca di gestire il proprio
tempo con la necessità implacabile
di scrivere. Autore di romanzi,
racconti, poesie e canzoni, nel
2008 esordisce con un noir, Il segreto
di Muma, presentato al Festival
Mediterraneo del giallo e del noir.
Appassionato di musica e letteratura,
ama raccontare la propria città. Il
fiore di pietra (ed. Taphros) è il suo
primo lavoro per ragazzi, mentre il
suo nuovo romanzo uscirà nei prossimi
mesi (ed. Voltalacarta).
91
Luca Fabbri
Nato a Roma nel 1964. È architetto
e lavora presso un dipartimento
della Sapienza, Università di Roma.
Parallelamente all’attività professionale
si è sempre dedicato al disegno,
all’illustrazione, alla fotografia e
alla pittura. Negli ultimi anni ha
esteso la propria attività anche al
campo della grafica incisa.
www.box64.net
Faber
Nato a Cremona nel 1973. Laureato
in Architettura al Politecnico
di Milano con una tesi incentrata su
spazio, percezione e fragilità dal titolo
6 gradi di separazione, con relatore
Beppe Finessi. Si occupa di pittura,
installazione, fotografia, poesia
e musica. Nel 2008 il progetto Bluesman
è stato selezionato per partecipare
al BAC! 08 Réveille-toi!, IX
Festival Internazionale di Arte Contemporanea
di Barcellona (al CCCB -
Centre de Cultura Contemporània
de Barcelona). Da piccolo avrebbe
voluto essere Capitan Harlock. Attualmente
vive e lavora a Barcellona.
Dimitri Fogolin
Pare che il suo imprinting risalga
a una mostra di Altan ma non si
sa quando né come... Nel 1996 fonda,
insieme ad altri compagni, il magazine
a fumetti faMe!. Nel 1997 nasce
la casa editrice Fame Comics.
Poi incontra Stefano Ratti, autore
delle sceneggiature di Fame Nera,
Don Salvo e Diabolic, strip umoristiche
di cui diventa il disegnatore.
Pubblica inoltre Turno di notte, sceneggiato
da Gianfranco Camin. In seguito
inizia la collaborazione con Luca
Malisan e Paolo Francescutto che
ha portato alla costituzione del Gotem
Studio, che lavora per editori
francesi e americani (Glénat, Delcourt,
Dargaud, Marvel, Vertigo). Nel
tempo libero progetta strategie per
la conquista del mondo dei fumetti
e dell’illustrazione.
www.kromolab.it
Giorgio Fratini
Nato a Prato nel 1976, si è laureato
in Architettura a Firenze dove
vive e lavora. È illustratore e autore
di fumetti. Nel 2008 esce la sua prima
graphic novel, Sonno Elefante -
I muri hanno orecchie (ed. Becco-
Giallo), che ha ricevuto il premio
come Miglior libro di scuola italiana
al Festival del Fumetto e della
Animazione di Roma, Romics. Come
illustratore ha collaborato con riviste
e aziende pubbliche e private.
giofratini.ultra-book.com
Andrea Gualandri
È nato a Reggio Emilia nel 1978.
Si diploma all’Istituto d’Arte di Parma
e si laurea all’Accademia di Belle
Arti di Bologna. Nel 2003 la giuria
della 22 a Biennale Internazionale dell’Umorismo
nell’Arte di Tolentino lo
seleziona per partecipare alla mostra
e lo inserisce nel catalogo. Nel
2005 vince il primo premio e nel
2011 ne diventa direttore aristico.
Attualmente lavora come atelierista
in una scuola dell’infanzia.
www.andreagualandri.it
Francesca Marchegiano
Scrivo perché m’interessano i
cornicioni, le zone di confine, il
bordo dei trampolini. Sulla carta si
può arrivare a sporgersi, a guardare
giù legati a una corda d’inchiostro.
Per questo scrivo. E scrivere mi fa
felice, e siccome mi fa felice è an-
92
che il mio lavoro. Scrivo per il teatro,
per i bambini, per le aziende e
la pubblicità. Racconto e ascolto
storie, le sbroglio, rattoppo, ritaglio,
confeziono su misura. Lo faccio anche
in reparti di ospedale, quelli dove
la vita si misura col contagocce.
Ma sempre, per un momento, le storie
fanno “Liberi tutti!”.
www.francescamarchegiano.com
Franjo Matanovic
Nato nel 1964 in Bosnia-Erzegovina.
Dal 1992 vagabonda lavorando
prima lungo la costa dalmata e poi
in Germania. Dal 1997 vive in Italia.
Pubblica i primi lavori negli anni Ottanta
sul periodico Brodolom e su
diversi giornali e antologie croate.
Usando l’esempio del “samizdat” russo
ha prodotto piccole autoedizioni
delle sue poesie che distribuiva in
tutta la ex Jugoslavia partecipando
nel contempo a vari eventi letterari.
Dal 2008 riceve una serie di riconoscimenti
e di premi per le poesie
tradotte in italiano. Molte sue poesie
sono incluse in antologie italiane.
nedostajemiviski.blogspot.com
Gianluca Morozzi
Nato a Bologna nel 1971. Ha
esordito il 12 settembre 2001 con il
romanzo Despero (ed. Fernandel). I
giornali, quel giorno, hanno parlato
pochissimo di quel brillante esordio.
Il suo quinto romanzo Blackout
(ed. Guanda) è diventato un
film di produzione statunitenese. E
la Bologna del romanzo è diventata
Miami. Il suo ultimo romanzo è Chi
non muore (ed. Guanda).
Arianna Papini
Vive a Firenze, è laureata in Architettura
e ha effettuato la formazione
in Art Therapy a Bologna. Dal
1988 lavora per la casa editrice Fatatrac,
attualmente come direttore artistico.
Scrittrice, illustratrice e pittrice,
collabora con scuole e biblioteche.Tiene
ogni anno numerosi laboratori
artistici con i bambini e corsi
di aggiornamento per insegnanti. Ha
scritto e illustrato più di sessanta libri
(per La Nuova Italia, Fatatrac,
Edicolors, Lapis Edizioni, Città Aperta,
Carocci Editore, Avvenire), con i
quali ha vinto numerosi premi. Ha
partecipato a più di cinquanta mostre
tra personali e collettive, in Italia
e all’estero. È volontaria ospedaliera,
alcuni suoi testi sono messi in
scena dall’attrice Miriam Bardini nei
reparti pediatrici degli ospedali.
www.ariannapapini.com
Maurizio Perelli
Figlio di Settimio e Rita, nasce a
Rieti nel 1982. Sa manovrare discretamente
una moto-pala, cosa che da
bambino non avrebbe mai immaginato.
Ha letto qualche centinaio di
libri ma ancora non ha deciso qual
è il suo preferito. Considera impresa
ardua scrivere una sua breve autobiografia
ed è indeciso se far menzione
della laurea in Antropologia
Culturale. Sua madre gestisce una
baita in montagna e lui ha la nomea
del tutto meritata di essere un oste
scontroso. Gli dispiace terribilmente
di non aver avuto l’occasione di abbracciare
forte Fernanda Pivano.
Guido Scarabottolo
Nato a Milano nel 1947. Si è laureato
in Architettura al Politecnico
di Milano. Lavora dal 1975 come illustratore
e grafico, ha collaborato
con i principali editori e agenzie di
pubblicità, la RAI, quotidiani e rivi-
93
ste internazionali. Attualmente progetta
tutte le copertine per Ugo
Guanda Editore e ne illustra alcune.
Vive e lavora a Milano.
www.guidoscarabottolo.com
Alessandro Sesto
Nato a Napoli nel 1970, vive a
Verona da oltre trent’anni. È laureato
in Legge e fa l’impiegato. Ha iniziato
a scrivere da poco, per diventare
ricco e famoso in tarda età.
Rosanna Spinazzola
Nasce in Lucania in una chiassosa
famiglia di umili origini. Divora i
romanzi che il padre le recupera all’oratorio
e quando a otto anni legge
Un canto di Natale di Dickens decide
di diventare scrittrice. Supera indenne
un’adolescenza ribelle e parte
alla volta dell’Urbe dove, grazie a
una borsa di studio, frequenta Sociologia
e dimora nel magico e rocambolesco
mondo dello Studentato.
Dopo la laurea e alcuni brevi lavoretti,
“si spegne” nell’ufficio fatturazione
di una multinazionale. Un giorno,
guardandosi allo specchio, non si
riconosce più: parte così alla ricerca
della sua identità perduta, che ritrova
dopo molte peripezie dentro una
casa di carta in una foresta di inchiostro.
È lì che si trova ancora oggi.
rosannaspinazzola.blogspot.it
Trap
Coetaneo di Miguel Bosè e di
Veronica Lario (nessuno è perfetto),
Trap è un GIP (Grigio Impiegato
Pubblico).Anonimo per nascita e vocazione.
Consuma vita e suole delle
scarpe nell’Urbe, dopo aver guadato
non poche nebbie in terra orobica.
Non ha mai dato libri né alla luce né
alle stampe. Una trentina di racconti
in antologie tematiche e non; dodici
concorsi vinti in prosa e due in rima;
sei secondi posti; una ventina tra
piazzamenti, segnalazioni e menzioni
varie. Troppo poco per il Nobel.
Lucio Villani
Nato a Roma il 17 marzo 1980.
Veterano di ambienti underground
lontani dalla grande distribuzione,
scarsissimo diplomatico, antitesi del
presenzialismo, riesce a non disegnare
(pur volendo) per medio-lunghi
periodi in virtù di una credibile
copertura di contrabbassista grazie
alla quale riesce a finire spesso in
posti ai confini della realtà, testimone
dell’improbabile. Autoproduzioni
realizzate dal 1999: Lampi Grevi
1 e 2, Krakatoa A, B e C, Marziano
NO, Manuele Bambinello, Ominotondo
contro i Cristoidi. Fonda
con Alessio Spataro, Valentina Pettinelli,
Tuono Pettinato e Federica
del Proposto il gruppo Baffi.
www.bombilozombi.com
Daniela Volpari
Nata nel 1985 a Roma. Dopo il
liceo artistico si diploma con il massimo
dei voti alla Scuola Internazionale
di Comics al corso triennale di
Illustrazione. È stata selezionata in
diversi concorsi del settore quali
Scarpetta D’Oro, Illustrissimi, Lucca
Comics & Games e nel 2010 si aggiudica
il Premio della Critica al
concorso Calendario Duemila10 di
Tapirulan, la cui giuria era presieduta
da Sergio Toppi. Principalmente illustratrice
per bambini e ragazzi, ha
all’attivo alcune pubblicazioni in Italia
e all’estero (Francia, Canada, Nuova
Zelanda). Attualmente sta collaborando
con diversi editori francesi.
danielavolpari.blogspot.it
94
Edizioni Tapirulan
1. Cyclette
2. Star
3. Bufanda
4. Res
5. Bunker
6. Souvlaki
7. Bolle
8. Kona
9. Bombeiros
N.B.
Se trovi questo libro – o qualsiasi
altro libro delle Edizioni Tapirulan –
in giro, in un bar, su una panchina,
per strada, in treno, in autobus, dentro
un tombino, sotto una sedia, in
mezzo al mare, insomma ovunque,
portalo via con te, leggilo, se vuoi
commentalo, correggi gli errori, fai
un tuo disegno, e poi rimettilo in
circolo; abbandonalo in un luogo
qualsiasi, altre persone potranno
trovarlo e leggerlo. Puoi anche collegarti
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ISBN 978-88-97199-14-4
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