Bombeiros
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rato, mi dice la stessa voce del telefono. Non sapendo come
vestirmi mi sono messa jeans e maglietta. Mi apre una
tarchiata, la proprietaria della voce, che ora ha anche un
volto. Inespressivo. Si presenta: è la segretaria o qualcosa
del genere. La stanza è disadorna. Ci sono soltanto una
scrivania, un telefono, un computer, un telo bianco e dei
faretti. Tra poco arriva il fotografo, mi dice quella, e intanto
riprende il solitario su Windows che il mio arrivo aveva
interrotto. Chiedo informazioni. Mi spiega scocciata che
lì si fanno foto che poi finiscono in un archivio online, disponibili
per la vendita. Non capisco bene, e per non fare
la figura della scema, taccio. Dopo una mezz’ora arriva il
fotografo. Quarantenne, mal messo, con la pancia. Cerco
di saperne di più. Praticamente, mi dice, qui facciamo fotografie
che poi delle aziende compreranno per usarle. Sono
scettica. Lui intanto mi guarda con occhio clinico. Mi
dice che si tratta di nudi artistici. Sono una ragazza seria,
gli dico. Lui mi rassicura: è tutto ok, non devo preoccuparmi,
uno scatto mille lire. Posso tirarne su anche una cinquantina,
perché non sono male, a sentirlo. Mi dice che
non scatterà foto al mio viso, che nessuno ne saprà mai
nulla. Ho un po’ di timore. Faccio la fame. Mi faccio convincere.
Mi spoglio tra le pareti di cemento. Sono imbarazzata.
È freddo, tra l’altro. La tarchiata non mi fila. Lui, forse
è gay, mi dico, per tranquillizzarmi. Penso di essermi
cacciata in un casino. Dopo neanche un minuto mi ritrovo
sotto i flash. Mettiti così, girati, toccati il seno, tira fuori
il culo, bravissima. Bello smalto che hai. Guarda, fai una
cosa: afferrati la chiappa con una mano... Peeerfetto. Dopo
un po’, mi diverto anche. Alla fine mi paga. Sessantaduemila
lire. Mi dice che ci risentiamo. Io penso di no, che
può bastare così.
«Elisa, che hai? Sei sovrappensiero», chiede mia suocera
durante la cena.
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