Bombeiros
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Da quel momento vivo – se questa è la parola giusta, ma
forse non lo è – dentro questa foto. Posso vedere il mondo
che ne è contenuto, anche in quei piccoli dettagli che nella
pellicola sono invisibili, e posso guardare pure il vostro, di
mondo, quella che dovrebbe essere la realtà, attraverso la
cornice quadrata che ho di fronte. Che ha fatto scomparire
Martino, la sua giacca larga, la macchina nera davanti al viso.
E che sembra un piccolo palcoscenico, una finestra strana,
alle volte perfino uno specchio.
Certo, quel che vedo, lo vedo capovolto. Non è comodissimo,
ma mi ci sono abituato. E ho imparato ad avere uno
sguardo non ortodosso, ad osservare, letteralmente, le cose
da una diversa angolazione. Sempre. Quando qualcuno si avvicina
a guardare ne vedo il volto attento, gli occhi in basso
con le due sopracciglia simili a baffoni, la bocca in alto. E
capisco lo stupore di ciascuno senza bisogno di raddrizzare
la prospettiva.
Prima che ci incorniciassero – questa foto è esposta da
nove mesi in un museo, in una collezione permanente – capitava
anche che qualcuno capovolgesse la foto per poter
vedere meglio la mia faccia concentrata nello sforzo. Erano
piccoli momenti di vacanza, di ritorno al consueto, che ora
non ho più. Ma non mi mancano troppo.
Sono, siamo stati fortunati. Potevamo restare chiusi per
l’eternità o quasi nelle oscurità polverose di una scatola o
di un album, e avremmo avuto di fronte a noi (Lucia di spalle)
soltanto un rettangolo nero e immobile. Saremmo stati
costretti a passare il tempo sbirciando qua e là solo nel nostro
scenario congelato, dove i colori sono assenti, tranne
forse il giallo, che minimamente, poco alla volta, sta prendendo
possesso del cielo, della terrazza, delle mattonelle,
delle nostre facce e di tutto il resto.
Ci è andata bene. Guardiamo immobili, senza farci notare,
verso quel che c’è oltre il riquadro dal bordino bianco.
Anche Lucia ci riesce: un frammento di vetro del finestrone
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