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WEB_catalogo very regina

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l’ordine degli addendi di cui è composta), una giovane artista, dunque, romana di nascita ma<br />

con lunghi periodi alle spalle di vita e di lavoro fuori dalla Capitale, ha ripreso la tradizione<br />

del travestimento e del lavoro sul corpo e sull’identità, e sulle identità multiple, con grande<br />

rigore formale, un linguaggio fortemente iconico e una forza e una sensibilità del tutto originali.<br />

Vittoria Regina lavora infatti su di sé e sul proprio corpo come spazio aperto, vergine, sul quale<br />

sperimentare di volta in volta visioni impreviste e inaspettate, estratte a sorpresa dall’alveo del<br />

nostro quotidiano, attraverso la creazione, meticolosa quanto professionalmente ineccepibile,<br />

di strane immagini-puzzle di difficile interpretazione, quasi ci si trovasse di fronte a misteriosi<br />

rompicapi visivi e cerebrali, sottilmente, o a volte apertamente, disturbanti, dove la rigidità<br />

dell’ordine formale nelle quali sono inserite e l’imperturbabilità delle espressioni incarnate dalla<br />

sua protagonista sembrano in realtà nascondere le tracce di sottili e oscure ferite esistenziali, che<br />

sembrano aprire varchi verso una diversa interpretazione delle forme stesse del reale. Il carattere<br />

di tali opere è, come avveniva nei quadri dei grandi maestri surrealisti, quello di certi sogni dei<br />

quali ci capita a volte di ricordare non l’intera sequenza, ma soltanto un’immagine, un’istantanea<br />

o anche solo una sensazione, incongrua e sorprendente come appaiono sempre, al risveglio,<br />

incongrue e sorprendenti le immagini e le sensazioni che ci rimandano i sogni, delle quali non<br />

riusciamo magari a decifrare veramente il significato recondito – se di un significato univoco si<br />

può poi realmente parlare –, rendendoci tuttavia conto che esse possiedono, nella loro cristallina<br />

inafferrabilità, qualcosa che ci riguarda nel profondo, che racconta di qualcosa di noi che abbiamo<br />

rimosso o che non abbiamo mai saputo esprimere o analizzare a livello cosciente, e che tuttavia<br />

sappiamo riconoscere come nostro, come appartenente al nostro nucleo esistenziale più intimo e<br />

profondo più di qualsiasi descrizione, o riflessione, logica e razionale.<br />

Sono immagini (o visioni) che sembrano rimandare all’attività onirica secondo la chiave che<br />

proprio Breton restituì al rapporto veglia/sogno fin dal Primo manifesto del surrealismo, quando<br />

parlò della veglia come mero “fenomeno di interferenza” rispetto al momento onirico, che ad<br />

esso rimanda in continuazione come alla vera chiave dei propri comportamenti inconsci, dei<br />

propri lapsus e delle proprie emozioni durante la fase di veglia. È l’eterna storia dell’incerto e vago<br />

procedere del nostro lato ragionante e raziocinante, e del suo sistematico e periodico perdersi,<br />

smarrirsi, lasciarsi andare, pur nel suo “normale funzionamento” diurno, nel corso dunque del<br />

lungo oblìo d’una qualsiasi e “normale” giornata (nel lavoro, nelle relazioni interpersonali, nella<br />

vita quotidiana, in famiglia o con gli amici), a sensazioni, paure, turbamenti, emozioni ed effetti<br />

psicologici che con la razionalità non hanno tuttavia nulla o pochissimo a che spartire, e che<br />

sembrano volersi sempre riallacciare invece – che ci piaccia o meno riconoscerlo –, a quel luogo<br />

che è il più intimo e il più misterioso del nostro nucleo esistenziale, quello che la psicanalisi ha<br />

voluto ribattezzare col nome di inconscio, e che, per similitudine, sembra a sua volta ricollegarsi<br />

in maniera diretta con l’attività che con la parte più irrazionale di noi sembra avere maggior<br />

dimestichezza – quella onirica, appunto. “Per quanto ben fatto esso sia”, scrive Breton a proposito<br />

dello stato di veglia, “il suo equilibrio è relativo; osa appena esprimersi, e, se lo fa, si limita a<br />

constatare che un’idea o una donna gli fa effetto. Quale effetto, sarebbe incapace di dirlo; per<br />

tal via, dà la misura del proprio soggettivismo, e nient’altro. Disperando d’una causa, egli invoca<br />

allora il caso, divinità più oscura delle altre, a cui attribuisce i propri smarrimenti”. Ma, continua

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