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I sette vizi capitali - Chora

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Introduzione<br />

I <strong>vizi</strong>: un sistema ordinato<br />

Ormai la parola virtù non si incontra più se non al catechismo, nelle barzellette,<br />

all’Accademia e nelle operette. L‟affermazione è di Paul Valéry. Probabilmente<br />

dobbiamo ammetterlo anche noi, a quasi cent‟anni di distanza dal poeta<br />

francese: oggi il concetto di “virtù” non gode di grande fortuna e non riscuote<br />

molte simpatie. Sembra ostinatamente richiamare in vita un quadro<br />

concettuale e un lessico ormai inutilizzabili, irrimediabilmente invecchiati e<br />

incapaci di leggere, interpretare e modificare l‟orizzonte etico e psicologico<br />

dell‟uomo contemporaneo. Per usare parole hegeliane, la virtù pare essere<br />

stata sconfitta dal corso del mondo. Troppa austerità, troppa rinuncia, nella<br />

virtù: è difficile pensare di riuscire ad immunizzarsi del tutto dalle passioni<br />

come voleva il saggio stoico, vero maestro di virtù, e ci chiediamo anzi se<br />

proprio in questo sacrificio di sé e delle proprie passioni consista l‟autentica<br />

virtù. Troppa ipocrisia nella virtù: non è facile dimenticare le parole del moralista<br />

francese La Rochefoucauld, secondo cui “spesso le nostre virtù non sono<br />

altro che <strong>vizi</strong> mascherati”. Troppa ingenuità nella virtù: non abbiamo ancora<br />

compreso le parole dell‟“uomo folle” nietzscheano e la sua sentenza: “Dio è<br />

morto!”, che condanna, con ogni divinità, la verità dell‟Occidente e i suoi falsi<br />

valori?<br />

La tanto proclamata “fine della virtù” – che ci impone di domandarci cosa<br />

possa rimanere dell‟etica dopo la virtù – non lascia tuttavia intatto nemmeno<br />

l‟esercito di potenze che per secoli essa ha dovuto fronteggiare e combattere,<br />

la schiera delle temibili forze seduttrici animate dalla concupiscenza: i <strong>vizi</strong>. Il<br />

nichilismo contemporaneo – si ripete spesso – non si cura dei <strong>vizi</strong>, perché non<br />

crede davvero nelle virtù; non può catalogare autentiche degenerazioni o<br />

distorsioni nell‟agire umano, perché non sa individuare norme etiche<br />

inderogabili; non sente il bisogno di parlare di peccati, perché non vede nulla di<br />

sacro da oltraggiare (si ricordi che l‟essenza del peccato, per S. Agostino,<br />

consisteva proprio nell‟“offesa fatta a Dio”).<br />

È vero che la parola “<strong>vizi</strong>o” è oggi spesso utilizzata, ma quali sono, nel<br />

linguaggio comune, i cosiddetti <strong>vizi</strong>? Si parla di “<strong>vizi</strong>o del fumo”, di “<strong>vizi</strong>o<br />

dell‟alcool”, di “<strong>vizi</strong>o del gioco”. Questi “nuovi <strong>vizi</strong>”, in realtà, non rimandano<br />

tanto all‟idea di un modello etico trasgredito o svalutato, quanto ad una serie<br />

di complessi problemi personali non immediatamente riconducibili a questioni<br />

morali. Il termine “<strong>vizi</strong>o”, in altre parole, designa oggi generalmente una<br />

debolezza relativa alla capacità di contenere e gestire le conseguenze che<br />

derivano da determinate scelte ed azioni individuali. Il discorso sui <strong>vizi</strong> viene<br />

allora a collocarsi, paradossalmente, in uno spazio extra-morale, perché<br />

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