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I sette vizi capitali - Chora

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Due esigenze stanno alla base di tale operazione culturale: da un lato, la<br />

necessità di individuare tra le inclinazioni al male quei <strong>vizi</strong> fondamentali che,<br />

come <strong>sette</strong> “teste” (capita), guidano le legioni di satana e inducono l‟uomo al<br />

peccato; dall‟altra, quella di codificare e veicolare l‟immagine di un universo<br />

ordinato e leggibile della colpa, strutturato come un grande albero o come una<br />

grande famiglia con filiazioni dirette. Dice, infatti, Gregorio Magno: I <strong>vizi</strong> sono<br />

legati da un vincolo di parentela strettissimo dal momento che derivano l’uno dall’altro. La<br />

prima figlia della superbia [intesa qui come radice comune degli stessi <strong>sette</strong> <strong>vizi</strong><br />

<strong>capitali</strong>], infatti, è la vanagloria [in seguito destinata a confluire nella superbia],<br />

che, una volta vinta e corrotta la mente, genera subito l’invidia; poiché chi aspira ad un<br />

potere vano si rode se qualcun altro riesce a raggiungerlo. L’invidia genera l’ira, perché,<br />

quanto più l’animo è esacerbato dal livore interiore, tanto più perde la mansuetudine della<br />

tranquillità e, simile ad una parte del corpo dolorante, avverte come insopportabile la<br />

pressione della mano che la tocca. Dall’ira nasce la tristezza, perché la mente turbata,<br />

quanto più è squassata da moti scomposti, tanto più si condanna alla confusione, e una<br />

volta persa la dolcezza della tranquillità si pasce esclusivamente della tristezza che segue tale<br />

turbamento. Dalla tristezza si arriva all’avarizia, poiché quando il cuore, confuso, ha perso<br />

il bene della letizia interiore, cerca all’esterno motivi di consolazione e, non potendo ricorrere<br />

alla gioia interiore, desidera tanto più ardentemente di possedere i beni esteriori. A questo<br />

punto sopravanzano i due <strong>vizi</strong> carnali, gola e lussuria. Ma è noto a tutti che la lussuria<br />

nasce dalla gola, dal momento che nella stessa disposizione delle membra gli organi genitali<br />

sono collocati al di sotto del ventre. Perciò, mentre quest’ultimo si riempie in maniera<br />

sregolata, quelli si eccitano alla libidine.<br />

L‟immagine del <strong>sette</strong>nario si rivela presto particolarmente fortunata: trova<br />

spazio nelle riflessioni di filosofi, teologi, moralisti per tutto il Medioevo. S.<br />

Tommaso dedica ampio spazio alla trattazione dei <strong>vizi</strong> in diversi scritti,<br />

consacrando definitivamente il loro elenco e la loro sequenza; le arti figurative<br />

ne fanno esplodere il potenziale immaginifico e stampano nella mente dei<br />

cristiani l‟orrore dei supplizi infernali destinati ai reprobi dopo la morte; Dante<br />

stesso suddivide il suo Purgatorio proprio in base alla sequenza gregoriana dei<br />

<strong>sette</strong> <strong>vizi</strong> <strong>capitali</strong>. Per tutto il Medioevo, la Cristianità occidentale si rispecchia<br />

e si riconosce nella metafora dell‟anima umana come campo di battaglia in cui<br />

le virtù fronteggiano fino all‟ultimo colpo le <strong>sette</strong> potenze del demonio e<br />

guadagnano, su questo terreno, la possibilità della salvezza.<br />

Il lento tramonto del <strong>sette</strong>nario, che inizia già in età rinascimentale, ha diverse<br />

e complesse ragioni, che si possono in parte individuare: l‟esaltazione delle<br />

virtù laiche e civili, alle quali, più che i <strong>vizi</strong>, si oppone ora la Fortuna<br />

(Machiavelli); la critica protestante alla “sacrilega tirannide” della Chiesa<br />

cattolica e alle sue “invenzioni” (tra cui proprio quella della dottrina dei <strong>sette</strong><br />

<strong>vizi</strong> <strong>capitali</strong>) elaborate, secondo la visione di Lutero, per terrorizzare le<br />

coscienze dei fedeli e disciplinarne i comportamenti; le grandi trasformazioni<br />

economiche, sociali, culturali dell‟Europa moderna, che avviano un processo<br />

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