Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
<strong>DANZA</strong> E <strong>BALLETTO</strong><br />
Prima di ogni altra considerazione storica o estetica, è opportuno esaminare la danza sotto<br />
l'aspetto istintivo, come manifestazione dell'essere umano, organizzazione del movimento<br />
dell’uomo.<br />
In un antico libro cinese si legge: “Nella gioia, l'uomo pronuncia delle parole. Quelle parole<br />
non sono sufficienti, le prolunga. Le parole prolungate non bastano, le modula. Le parole<br />
modulate non sono sufficienti neppure esse; senza che se ne accorga, le sue mani fanno dei<br />
gesti e i suoi piedi fremono...” D'altronde: espressione irresistibile di tutto il nostro essere,<br />
sarà stato il primo tentativo fatto dall'uomo per organizzare i suoi movimenti. Niente ci<br />
autorizza a dichiararlo, non v'è traccia o documento alcuno che stabilisca essere stata la danza<br />
cronologicamente la prima delle arti, ma ciò pare a noi logico (Suzanne K. Langer nel suo<br />
studio «L'immagine dinamica» sostiene che questa è la prima immagine creata, prima ogget-<br />
tivazione della natura umana, prima vera arte è la danza) 1 . Comunemente si suol dire che la<br />
danza sia nata con l'uomo (lo stesso movimento del bambino nel grembo della madre, prima<br />
ancora che se ne ascoltino i vagiti, pare indicare questo fattore primigenio). Umanamente si<br />
potrebbe restare a questa definizione, tecnicamente si può dire che risale ai tempi più remoti<br />
con funzione ludico-rituale-estetica per fini non pratici, generalmente accompagnata dalla<br />
musica. E' la stessa origine primitiva, barbarica, religiosa della danza che rivive oggi in noi ed<br />
è la stessa espressione antichissima che si ripercuote su di noi. Se lo straripare della propria<br />
vitalità o il tumultuare dei sentimenti hanno costretto l'uomo a trovare uno strumento per<br />
esprimerli, è fatale che egli l’abbia trovata in ciò che aveva a sua più diretta disposizione: il<br />
proprio corpo.<br />
1 Suzanne K. Langer, Problemi dell'Arte. «Il Saggiatore », Mondadori (Milano). 1
Potersi esprimere con il proprio corpo ha del meraviglioso, un miracolo, così ci dice André<br />
Maurois. E' anche logico che la reazione dell'uomo primitivo di fronte agli eventi che lo<br />
circondano e premono da tutte le parti avvenga con una manifestazione liberatrice e<br />
distensiva, immediata ed altamente incisiva perché icastica. Se il prodotto di una creazione<br />
d'arte, il momento creativo dell'artista va giudicato, come lo giudichiamo, uno stupore, ogni<br />
volta rinnovantesi, atti stupefatti risultano quelli dell'uomo primitivo nel momento stesso che<br />
l'emozione lo coglie e dà sfogo alla propria natura: nello stupore reagisce, si afferma e si<br />
ritrova.<br />
Tra i mezzi e le tecniche che egli adopera la danza è tra le principali. « Essa altro non è<br />
all'inizio (come il canto una specie di amplificazione, in estensione ed in forma, della parola<br />
umana) che un ampliamento dei nostri movimenti muscolari, un rafforzamento del gesto<br />
spontaneo, quotidiano, o meglio ancora l'esaltazione dei movimenti spontanei dell'uomo,<br />
esaltazione in durata, in ampiezza, in intensità dei gesti naturali. Educati questi movimenti,<br />
sottoposti ad uno studio ritmico, arricchiti dalla moltiplicazione voluta di segni ordinari,<br />
convenzionali, non naturali, dall'impiego di passi ripetuti, di rotazioni, di salti, distensioni e<br />
piegamenti delle braccia e delle gambe, da uno sviluppo di posizioni e figure artefatte,<br />
decorative ed allegoriche, infine dall'ordine metodico di quest'ardente attività sotto il rigore<br />
di una disciplina ritmica, capace di coordinare ad un tempo la direzione, la durata,<br />
l’ampiezza e l'intensità di tutti i movimenti del danzatore, si avrà la danza come mezzo di<br />
espressione artistica » 2 . Così si potrà dare la seguente definizione: la danza è l'arte di muovere<br />
il corpo umano secondo un ordine ritmico in rapporto al tempo e allo spazio. Molto presto,<br />
sin dall'età della pietra si può dire che la danza, nella sua essenza di manifestazione di un<br />
istinto ancestrale, sia all'origine di tutte le arti. La musica dei primitivi staccati dalla danza<br />
non ha valore (danza prima della musica come origine). I danzatori, infatti, suggerivano il<br />
ritmo delle percussioni agli astanti che li accompagnavano (carattere di culto tribale della<br />
danza).<br />
2 Cfr. Jean D’Udine: Qu’est-ce que la Danse?
Premesso che il gesto sia stato sin dai più antichi tempi un’espressione dei movimenti<br />
dell'anima, esso si perfeziona, si evolve e assume aspetti sempre più complessi con il<br />
procedere delle civiltà, cioè coll'approfondirsi delle sensazioni e con l'evolversi delle<br />
emozioni umane. Si viene di conseguenza a stabilire che la danza è la più lontana civiltà del<br />
gestire, forma rozza e primordiale di sentimenti.<br />
Abbiamo accennato all’evoluzione; ebbene, a guardare indietro, la storia della danza ci<br />
appare molto complessa e in continuo mutamento, rinnovamento, superamento di se stessa.<br />
Oggi tante e tali sono le espressioni che la dividono da non avere testa ed occhi bastanti per<br />
poterla seguire. E sarà bene avvertire subito che tutte le varie storie della danza esistenti in<br />
volumi, impropriamente sono dette e ritenute tali, poiché ancora attendiamo, completa ed<br />
esauriente, un’opera sulla storia della danza che è storia dell'umanità.<br />
Tutto ciò che le civiltà hanno conservato di sacro e profano nell'esercizio della danza si è<br />
scisso in arte professionale, in spettacolo teatrale, in atteggiamento mondano. Non ci sono<br />
quasi più preghiere in circolo sacro, non più esorcismi, non più riti. Per fortuna, «ogni grande<br />
civiltà reca ancora in sé, come un germe spirituale, la nozione sacra che ogni movimento<br />
soprannaturale appartiene alla danza». Così ci insegna il Sachs.<br />
Danza e balletto. Ecco due termini da chiarire. La danza è una delle quattro forme d'arte<br />
principali. Il suo posto sta nel centro tra le altre tre, precisamente tra poesia, musica e le arti<br />
figurative (o del segno). Il balletto è una forma del teatro e in questo caso quella in cui il<br />
linguaggio principale è la danza che si realizza in cooperazione con le arti sorelle. Caso<br />
analogo dunque all'opera lirica che è altrettanto una forma di teatro ma nel quale appunto il<br />
linguaggio principale è costituito dalla musica con il concorso della parola, della scenografia<br />
e, qualche volta, in funzione marginale, spesso solo decorativa, della danza. E’ da notare che<br />
ogni tempo ha avuto la sua propria forma di balletto. Il balletto della nostra civiltà occidentale<br />
nacque tardi, ossia appena nel Rinascimento italiano. E' in questo periodo storico-artistico che<br />
si sviluppa e da qui partendo si impongono i suoi frutti pure in altri paesi europei. L'anno<br />
1581 è una data importante nella storia del balletto allorché Baldassarino da Belgioioso (o<br />
Baltazarini), un fiorentino alla corte di Francia, presentò per le nozze del Duca di Joyeuse il
primo balletto che fu detto « Balet Comique de la Royne » e che durò esattamente dalle dieci<br />
della sera alle due del mattino. Di ispirazione mitologica, il balletto prende spunto e inizio<br />
dalla favola della maga Circe. Soggetto e messinscena sono dello stesso Baldassarino che<br />
cambia il proprio nome francesizzandolo, in Baltasar de Beauioyeulx. Baldassarino dice<br />
chiaramente che cosa sia questo genere di spettacolo: « E' una combinazione e fusione<br />
geometrica di più persone che danzano insieme su di una armonia composta da più<br />
strumenti ».<br />
E' da notare che sul finire del Quattrocento esisteva già uno spettacolo coreografico<br />
embrionale con le sue «entrées » di danza, opera di un gentiluomo lombardo: Bergonzio<br />
Botta, specie di «balletto conviviale» nel quale il tema era, data la circostanza nuziale, l'esal-<br />
tazione della fedeltà coniugale.<br />
Proseguendo nel tempo e partendo dal nostro Rinascimento, epoca in cui per l'appunto si fa<br />
nascere il balletto come rappresentazione e spettacolo teatrale (ma in quel tempo rivestiva le<br />
funzioni di trattenimento mondano) noi siamo impossibilitati di tracciare in poche righe un<br />
disegno storico dell'evoluzione del balletto, ma va subito notato come il balletto divenga nella<br />
storia delle varie arti, da allora, parte viva e preponderante (sul finire del Cinquecento e nel<br />
primo Seicento, tra i madrigali del Vecchi e le favole pastorali del Monteveroi, la danza è<br />
chiamata in causa come mezzo espressivo per sviluppare un’azione scenica).<br />
Da un'origine che si vuole popolare, ad un affermarsi fra la gente di corte come passatempo o<br />
manifestazione mondana (si pensi alle mascherate, alle feste dei medici, alle allegorie dei<br />
trionfi carnascialeschi, agli intermedi, alle fastose pompe nei pranzi di corte, a tutto un<br />
apparato scenico-coreografico in cui il meccanismo teatrale funzionava alla perfezione) e nel<br />
passaggio da una corte all'altra, da quella del Magnifico a quella medicea di Francia, giù sino<br />
ai balli del Re Sole che nel 1661 fondò l'Accademia della danza, scrupolosa, rigida, severa e<br />
che ebbe nel musicista Lulli, inizialmente danzatore anche lui, nei librettisti Benserade e<br />
Quinault, collaboratori tanto assidui quanto competenti ed entusiasti, in questo passaggio,<br />
diciamo, sta il procedere del balletto che troverà nel secolo diciottesimo la sua giustificazione
e significazione più elevate. La danza è stata, nei tempi remotissimi, gioco e rito: uno dei<br />
mezzi più caratteristici e primordiali di rappresentazione ed espressione, nonché parte<br />
essenziale di tutti i rituali. Nell'epoca attuale tutto ciò che costituiva spettacolarmente i riti, le<br />
leggende, i miti dell'antichità si è tramutato in due rami distinti: quello della danza colta,<br />
artistica da una parte e l'altro del popolare divertimento, edonistico. Sarebbe come dire: la<br />
danza-arte-religione e il ballo-gioco popolare passatempo. Anche se in quest'ultima funzione<br />
il lato creativo, che sempre esiste in ogni forma popolare, va tralignando per approdare a non<br />
si sa quali risultati, ci rimane la certezza che, pur in mezzo allo sbandamento del gusto e del<br />
costume odierni, stia la volontà imperitura dell'uomo verso le grandi manifestazioni<br />
dell'istinto umano. Al di sopra di queste considerazioni contingenti, oggi noi sappiamo<br />
distinguere il bene dal male e trovare i fili invisibili che ci legano indissolubilmente alle nostre<br />
stesse origini, soprattutto allo sfogo ritmico, all'impulso cinetico, all’esaltazione estetico-<br />
corporale, al piacere ludico.<br />
Il gioco è rimasto in entrambi gli aspetti della danza e del ballo ma anche e soprattutto il rito,<br />
nascosto, e pure evidente, fra le pieghe della danza pura. Ed è opportuno spiegare l'essenza<br />
di questo tipo di danza che è poi la danza stessa.<br />
La danza sarebbe ciò che è più direttamente legato ai valori ritmici e puramente figurativi,<br />
mentre il balletto è una composizione fatta, naturalmente, di più danze e, generalmente, di un<br />
soggetto, ma anche spesso avvivata da pantomime o da semplici espressioni mimiche, da un<br />
apparato scenico, da luci e costumi e da quell'insieme che<br />
lo costituisce e che va sotto la definizione di coreografia. Oggi noi assistiamo, nella incessante<br />
evoluzione della danza, a ciò che sta accadendo, o è già accaduto per la musica. Se il teatro<br />
lirico è stato negli ultimi tempi vivificato da alcuni casi isolati di divismo canoro, mentre<br />
continua a tacere sul piano creativo in una battuta d'aspetto che non avrà probabilmente<br />
soluzione di continuità (generalmente si è soliti indicare due punti di arrivo e di termine<br />
definitivo per il dramma lirico: «Pel1éas et Mélisande» di Debussy» e «Wozzeck» di Berg) è<br />
pur vero che il pubblico si è indirizzato verso la musica pura, verso il concerto, e confortanti<br />
sono le statistiche sulla accresciuta affluenza di spettatori alle manifestazioni concertistiche.
Altrettanto starebbe per effettuarsi nell’ambito della danza pura, del cosiddetto «concerto di<br />
danza» ove, eliminando le varie sovrastrutture sceniche, la danza si libera tutta verso<br />
l'espressione della sua interiorità, come ci vorrebbe indicare la diffusa tendenza che, secondo<br />
taluni, sarebbe più vicina ad un vero spirito di danza se questa ricerca la bellezza del gesto e<br />
non un più facile descrittivismo, vale a dire la differenza fra danza narrativa e danza pura. In<br />
questo senso, la definizione di balletto applicata ad alcune opere di Balanchine in particolare<br />
e, di altri autori contemporanei in generale, parrebbe impropria mentre in alcuni casi si è<br />
assistito alla chiarificazione e puntualizzazione proprio nella denominazione data a questo o<br />
quel complesso teatrale (si veda, per esempio, la compagnia del «Balletto Nazionale<br />
Olandese» e l'altra del «Teatro di Danza» appartenente alla stessa nazione).<br />
Dapprima, nel corso dei secoli in cui si è formato, il balletto ha stentato a liberarsi da tutte le<br />
sovrastrutture che lo impacciavano. Alle sue origini esso era composto di recitazione, di<br />
canto, naturalmente di musica, e con fatica si è venuto ad affrancare da tutti i pesi che lo<br />
legavano ad una tradizione passata, tendendo alla cosiddetta purezza formale. Durante il suo<br />
cammino storico si sono avute varie battaglie e riforme. Ancora nel nostro secolo, pur nella<br />
riforma operata da Diaghilew per togliere al balletto tutto il ciarpame di cui il tardo Ottocento<br />
lo aveva soffocato, ci si è trovati in una nuova «impasse», nel vicolo cieco rappresentato dal<br />
massiccio intervento della «décoration théàtrale». Con «La morte del cigno» Fokine<br />
coreografo e la Pavlova danzatrice-interprete, erano riusciti in quel periodo a stabilire i puri<br />
valori di danza, ma ai tempi nostri, in un cinquantennio circa di esperienze, con l'avvento del<br />
«concerto di danza», si è pervenuti gradatamente alla essenzialità del linguaggio coreutico e a<br />
influenzare anche tanta parte, fatua e vistosa, della scena ballettistica, fatta di fronzoli e<br />
cascami, per lo più protesa verso esteriorità spettacolari e risospinta ogni volta verso temi di<br />
una inzuccherata fantasia fiabesca.<br />
Si deve soprattutto a Isadora Duncan il rinnovamento del teatro di danza agli inizi del secolo.<br />
Intanto fu la prima a danzare musiche non appositamente scritte per essere danzate. I suoi<br />
autori preferiti furono: Schubert, Beethoven, Chopin, Wagner e soleva giustificare questo suo
atteggiamento estremamente estetizzante con la frase: «Ho danzato su questa musica portata<br />
da essa come una foglia dal vento». Fokine stesso ammise di essere stato influenzato da lei<br />
proprio per il balletto «Dafni e Cloe» che egli spogliò di tutte le leziosità accademiche per<br />
restituirlo più libero a1 suo mondo classicheggiante, lo stesso che aveva ispirato la Duncan.<br />
Purtroppo delle scuole che essa istituì numerose nel mondo poco o nulla è rimasto.<br />
Rimangono i postulati della sua arte, rimane<br />
soprattutto il risultato di un seme fecondo. «Bisogna inondare il corpo di aria e di luce», disse<br />
la Duncan; in questa affermazione si poteva scorgere il frutto di un'altra grande opera nel<br />
campo della danza teatrale agli albori del secolo ventesimo, rappresentata dall'apparizione di<br />
Loïe Fwller « scultrice della luce », come fu detto. Proprio Loïe Fuller fu la prima ad<br />
impiegare i giochi di luce per la scena di danza e ad utilizzare modi di illuminazione<br />
differenti e attributi diversi come dei veli per modificare l'apparenza del corpo delle<br />
danzatrici. Ma la luce non era fine a se stessa e la sua danza acquistava, attraverso i colori,<br />
luci ed ombre mai intravisti prima nel movimento di una danzatrice. « Tinte e sfumature si<br />
illuminavano e si spegnevano di volta in volta, sviluppate in spirali, poi ad un tratto agitate<br />
come ali, poi precipitanti in capricciose volute e, nel mezzo di quel flutto di vapori e di veli<br />
mobili, emergeva un busto di donna, spalle e braccia deliziosamente pallide, di volta in volta<br />
atteggiate fra gli enormi petali di una violetta gigante e le ali intagliate di una inverosimile<br />
farfalla» (Jean Lorrain). La Duncan, con quel suo spirito innovatore, gettò le basi a tutta la<br />
danza libera del Novecento. Senza di lei forse oggi non avremmo avuto Martha Graham,<br />
Doris Humphrey, Charles Weidman in America, la Ruskaja e i Sakharoff in Europa, senza di<br />
lei ieri forse non sarebbe nato il gran movimento espressionista centro europeo (Laban-<br />
Wigman-Jooss) che pure ebbe un suo preciso indirizzo e che, nellla danza libera, perciò<br />
polistilistica della nostra epoca, è uno dei filoni a sé stanti. Le leggi della Duncan paiono<br />
ancora oggi fondamentali: «E' essenziale dirigere lo sviluppo del corpo in maniera metodica,<br />
bisogna estrarre da esso tutto ciò che racchiude di forze vitali e farle servire al suo sbocciare<br />
integrale; è il dovere del maestro di ginnastica. Dopo di questo viene la danza. Nel corpo<br />
sviluppato armoniosamente e portato al suo punto estremo di energia penetra la danza ».
Grazie a questa riforma pur lenta, faticosa, graduale ma definitivamente liberatrice dalle<br />
pastoie in cui danza e balletto erano caduti nel tardo Ottocento, oggi la danza risplende in<br />
tutta la sua adamantina purezza. Mai si sono visti, come ai giorni nostri, tanti fondali neutri<br />
alle spalle dei danzatori, mai tante calze a maglia, mai tante pennellate di luci al posto delle<br />
scene, mai la stilizzazione del gesto e del movimento era pervenuta nel passato alla sua<br />
quintessenza, mai il corpo umano si era trasferito in una suprema aspirazione di linee e curve<br />
liberate nello spazio vuoto, protese verso fonti di luci, quasi a ricordarci l'anelito spaziale<br />
della nostra epoca.<br />
Insomma mai, in tempi apparentemente così confusi e dispersivi come gli attuali, si era<br />
assistito ad una presa di conoscenza della funzione spirituale della danza. Era anche logico<br />
che questa coscienza maturasse gradatamente con il tempo. L'estasi coreografica che scatenò<br />
gli anatemi dei Padri della Chiesa quando le danze da religiose si fecero profane, nel<br />
passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo, torna ad essere posta in causa con un nuovo<br />
procedimento inverso. Chi potrebbe negare che questa cosciente maturità, frutto di una civiltà<br />
superiore, stia per risospingere la danza nel rito e che la Chiesa riapra le sue porte<br />
ristabilendo una vera e propria para-liturgia coreutica?<br />
In questo ritorno alle origini, la danza ritroverebbe il suo prestigio, la sua forza, la sua<br />
fierezza, quindi la sua fisionomia più autentica che risiede nella spiritualità.<br />
5
LE PIU' ANTICHE CIVILTA'<br />
La danza nell'antichità si muove all'insegna di una ricostruzione molto vaga che i testi e le<br />
testimonianze ci possono documentare secondo due procedimenti: il figurativo e il letterario,<br />
i soli a nostra disposizione.<br />
Naturalmente il significato di questa danza nelle età primitive è molteplice e varia a seconda<br />
dello spunto motivatore grazie al quale essa è sorta. Nelle varie ere del periodo preistorico, in<br />
quella paleolitica come nella miolitica, la proto-neolitica, la neolitica, i fatti strettamente<br />
connessi all'uomo e alla natura si impadroniscano dell'uomo stesso ed ecco sorgere i tipi di<br />
danza che caratterizzano le più distanti come le più vicine civiltà. In questo passaggio la<br />
danza dei primitivi si perfeziona ed affina: dalle danze convulsive si passa alle convulsive<br />
attenuate come dalle prime culture elementari e dalle prime età la tecnica magico-religiosa si<br />
fa sempre più complessa (basti ricordare le danze di imitazione animale). Un ciclo preistorico<br />
più avanzato è il totemico (venerazione degli oggetti) e delle culture tribali precoci nelle quali<br />
si afferma e si sviluppa una figura frequentissima nella danza sin dalle origini: il cerchio che<br />
resta una delle più semplici e naturale figurazioni e diventa doppio, triplo come suole<br />
accadere per il fronte. Evidente ed innegabile il carattere simbolico di queste figure. Proce-<br />
dendo, le culture tribali diventano medie ed investono l'allevamento del bestiame, nuovo<br />
strumento di lavoro per l'uomo. Con l'età del metallo si hanno le culture tribali evolute.<br />
Appare il solista e la figura del salto, simbolico della fertilità (più esso si spingeva versa l'alto<br />
e maggiormente indicava l'abbondanza a l'esuberanza vitale dell'individuo). Così accanto alle<br />
danze rituali si incomincia ad infiltrare l’elemento spettacolare. L'eterno procedimento che<br />
incontreremo in tutta la storia della danza: la danza colta, aristocratica o signorile che si sposa<br />
a quella paesana, popolare dando origine e forma ad uno spettacolo teatrale vero e proprio.<br />
La contraddanza (dall'inglese: country dance = danza di campagna) si delinea già nel mondo
primitivo con la costituzione del doppio fronte: uomini e donne vis-à-vis (nelle epoche<br />
primitive non esistono danze a coppia mista, esse si svolgono sempre a coppia aperta). Ma<br />
una classificazione della massima importanza vede una netta divisione fra danze estraverse e<br />
intraverse, vale a dire fra le imitative e le non imitative, fra le razionali-naturalistiche e le<br />
irrazionali. Tale distinzione risulta facile e spontanea applicarsi ad alcune opere del nostro<br />
teatro di danza odierno ma è anche vero che bisogna andare cauti nello stabilire questi<br />
paralleli.<br />
Nella preistoria l'interpretazione è quasi sempre di origine magico-religiosa e già risulta<br />
difficile poterla individuare nel suo senso più risposto proprio per la difficoltà di intenderne i<br />
magici segni e quindi per il sua carattere esoterico. Certo che la corrente imitativo-estroversa<br />
risulta di più frequente e chiara applicazione tanto nelle età preistoriche primitive come<br />
presso le antiche civiltà. Una distinzione e chiarificazione va subito fatta: il grado evoluto<br />
delle civiltà antiche ci permette di penetrare con maggior determinatezza nel significato più<br />
preciso delle loro danze e nella complessa simbologia delle figurazioni. Una «danza del<br />
vento» presso gli egiziani, per esempio, ci indica chiaramente la derivazione naturalistica.<br />
Che poi la classificazione comune la ponga fra le danze della fertilità agraria questo è<br />
altrettanto logico: il vento parta i semi e i semi portano il raccolto. Una danza di propiziazione<br />
per un copioso raccolto a sua volta chiamerà la pioggia. Ed ecco l'elemento naturalistico farsi<br />
avanti in tutta la sua inequivocabilità. Come si vede tutto è in rapporto con la natura. La<br />
natura stessa, s'è detto, è il motivo primo dell'agitarsi e dello scatenarsi in ritmiche cadenze<br />
dell'uomo primitiva. L'elemento imitativo proviene dalle figurazioni che imitano una data<br />
cosa, un animale, un oggetto. Nella suddetta danza i danzatori rappresentano gli effetti che il<br />
vento suscita sulle piante. Quel piegarsi e curvarsi degli alberelli mossi dal vento è rappresen-<br />
tato dalla posizione detta « del ponte », una figura che si praticà oggigiorno in ogni corso di<br />
propedeutica della danza.<br />
Lo stesso accade in danze di carattere funerario, astronomico, mentre il quadro naturalistico<br />
si va lentamente attenuando nelle danze spettacolari, di corte, nei banchetti ove l'elemento<br />
acrobatico si fa più sensibile restando fine a se stesso e perdendo ogni significazione (come in
certi nostri balletti di maggiore impronta spettacolare). Nelle accennate danze funerarie<br />
sembra che prevalga realmente il fattore introverso se non proprio nella prima fase quando il<br />
dolore è più acuto, perché più calda la ferita recente, con l'intervento di alcuni oggetti appesi<br />
alle chiome sparse delle « lamentatrici » che fanno pensare per l'appunto al peso del dolore<br />
che trascina e prostra l'individuo (carattere imitativo senza essere naturalistico trattandosi<br />
della raffigurazione di un sentimento o meglio 'di una condizione psichica) ma l'elemento<br />
introverso prevale nella seconda fase in cui atteggiamenti e figure vogliono rappresentare<br />
l'opposizione al dolore. il che sarebbe come dire: la vita continua e subentra un sentimento di<br />
rassegnazione, di accettazione. In queste raffigurazioni (tensioni di braccia e gambe) va<br />
ravvisato il carattere che si diceva introverso, non imitativo, riflessivo.<br />
Un balletto come «La sonata dell'angoscia» di Milloss si potrebbe classificare introverso, non<br />
imitativo,corne non imitativi sono la maggior parte dei balletti, non narrativi, che non<br />
vogliono significare nulla, o meglio, che lasdano allo spettatore l'illazione della soggettiva<br />
interpretazione, nei quali balletti passi e figurazioni contano per se stessi e, nella mente del<br />
loro autore, vorranno pervenire a determinati significati, ad una precisa semantica, ma<br />
possono vivere di vita propria nell'aperto disegno della loro logica strutturale e anche della<br />
bellezza compositiva. Evidentemente siamo andati molto oltre, passando dalla danza di<br />
istinto dei popoli della preistoria, per i quali essa è una manifestazione dell'essere umano in<br />
relazione agli eventi che'Io circondano, alla danza di teatro nellaquale l'artificio scenico di una<br />
tecnica stahilita o di più tecniche sovmpposte è messo al servizio della cultura, del gusto,<br />
della sensibilità e della inventiva del coreografo-creatore. Siamo su piani diversi, ma<br />
procedendo nello studio delle più antiche civiltà, soprattutto delle orientali che hanno<br />
formato la nostra, noi troviamo, senza, sorpresa alcuna, che l'elemento spettacolare o<br />
professionista si consolida, per esempio, presso gli indiani nella «danza religiosa». Si<br />
incontrano «corpi di ballo» veri e propri di sacerdotesse nei templi (la «devadasi » è un tipo di<br />
danzatrice sacra legata alle funzioni del tempio, come i «dervichi», appartenenti ad una setta<br />
musulmana, eseguono un tipo di danza giratoria sino all'esaurimento, di carattere astrale). La<br />
stessa danza indiana, trasmessa sui nostri palcoscenici ad opera di danzatori specializzati,
arricchita di tutti i belletti e le contaminazioni per i quali ogni danza etnica o folcloristica è<br />
sofisticata nella trasposizione del luogo di origine (tempio o campo che sia) al palcoscenico, la<br />
danza indiana ci appare, già all'origine, con tutti i suoi elementi di rappresentazione e<br />
spettacolarità. Questi «specialisti», autentici indiani (ma ve ne sono anche non indiani dei più<br />
impensati paesi e qui l'autenticità appare dubbia, come a stento si acclimata un fiore<br />
trapiantato da un paese all'altro, che non è il suo) questi danzatori, studiosi delle arti e dei<br />
costumi delle regioni nelle quali sono nati e vissuti, rispondono ai nomi di: Nyota Inyoka,<br />
Urlay Shan-Kar, Ram Gopal, Chatunni Paniker, Mrinalini Sarabhai, Usha Chatterji, Yamini<br />
Krishnamurti, ecc.<br />
C'è anche un fattore fisiologico da tenere in considerazione. La danza indiana richiede il fisico<br />
di un individuo indiano (mal sopporta un viso occidentale il falso trucco che vorrebbe<br />
riprodurre le caratteristiche somatiche di quella gente come, in forma attenuata, una danza<br />
spagnola non può essere riprodotta, convenientemente, da un danzatore che non sia nato in<br />
terra iberica o che per lo meno non abbia vissuto a contatto con quell'ambiente, con gli usi e i<br />
costumi di quella terra; e la « terra », per una danza dichiaratamente terrena, ha il suo peso).<br />
La tecnica della danza indiana è di una complessità e difficoltà estreme. Basterebbe<br />
avvicinarsi al cosiddetto linguaggio delle mani, alle «mudras» con le quali si suole<br />
rappresentare cose, fiori ed animali (il cerbiatto, il pavone, l'aquila, la conchiglia, il pesce, il<br />
loto, ecc.) e, tramite le quali, si perviene ad un discorso danzato per lo più attinto dalla più<br />
estrosa favolistica di quel popolo. Splendidi i costumi, vivacissimi i colori. Tecnica<br />
complicata, s'è detto, con il tipico impiego della parte superiore del corpo, attivissima sempre:<br />
ventre, braccia, mani, collo, testa, occhi, mentre gli arti inferiori si affidano alla quasi totale<br />
immobilità, salvo gli improvvisi, scatti e balzi con le sorprendenti falcate di non minore forza<br />
espressiva delle altre figure. Quanto agli stili essi sono: il Bharatanatyam, il Kathak, il<br />
Kathakali, il Manipuri, il Mohini-attam.<br />
Nella danza cinese è il «mimo» a prevalere o l'acrobatismo clownesco. Non si può dissociare<br />
l'impressione che desta uno dei numeri più famosi di Marcel Marceau (Lotta nelle tenebre),<br />
chiaro esempio della classica scuola di mimo francese che ha in Etienne Decroux il suo illustre
esponente, dall'impressione che un quadro dei prestigiosi attori cinesi dell'Opera di Pechino<br />
desta in noi quando due danzatori, in una scena illuminatissima, danno effettivamente la<br />
sensazione di cercarsi nelle tenebre più fitte. Un teatro, il cinese, tutto basato sulla recitazione,<br />
il canto, la danza e la pantomima in una forma inscindibile. Graziosissima, delicatissima la<br />
scena della fanciulla che chiede al barcaiolo di essere traghettata sull'aoltra sponda. Tutti i<br />
trapassi dall’impazienza alla gioia, dalla trepidazione alla paura, sono espressi mimicamente<br />
in maniera mirabile. Stupendo teatro completo e pieno, di una remotissima civiltà,<br />
raffinatissimo nel costume e nel trucco, elaboratissimo, nella serie vertiginosa degli acrobatici<br />
salti degli uomini, nelle aggraziate pantomime, femminili (le ninfee ondulanti su di una<br />
superficie di acqua che non esiste), i combattimenti furiosissimi e pieni di una grazia leggera<br />
(l'assedio alla fortezza) il virtuosismo mimico degli uomini-scimmia «( Pasticci nel regno del<br />
cielo»).<br />
Attraverso questo «moderno» teatro « classico » l'origine dell'Opera di Pechino risale alla<br />
metà del diciottesimo secolo) ci possiamo rendere conto dei caratteri tradizionali di questa<br />
danza che, naturalmente, si è andata evolvendo e trasformando attraverso i secoli.<br />
Intanto, come per la danza indiana nella quale il termine «nat», che significa « danza »,<br />
interviene in ogni forma di spettacolo senza che necessariamente in tutte intervenga un<br />
elemento danzante, così nel teatro cinese noi troviamo che i nomi degli strumenti corri-<br />
spondono ai tanti tipi differenti di danza. Esisteva anche una classificazione come per<br />
qualsiasi danza orientale. Nelle danze di corte vi era un ordine gerarchico secondo una<br />
qualificazione sociale, nelle danze religiose esistevano tanti tipi di danza a seconda<br />
dell'oggetto cui erano dedicate. Tutto il materiale magico-religioso venne poi trasformato,<br />
quando si trattò di farne materia teatrale. Minuziosissima la preparazione dei danzatori-attori<br />
egualmente esperti nella recitazione come nel canto e nella danza.<br />
La danza giapponese è una danza di derivazione; è la risultante della fusione della danza<br />
indiana con l'influsso della cinese e del materiale indigeno preesistente in Giappone, di<br />
carattere rituale. Qui già si riscontra la forma tipica del «legato» appartenente alla danza<br />
nipponica, una danza capace di trascorrere dai movimenti rallentati, vale a dire come se si
vedessero al rallentatore, a degli scatti improvvisi. Questo è il “legato” una tecnica che unisce<br />
i movimenti scattanti del corpo dal più lento al velocissimo. .<br />
C'è un dramma Kabuki come c'è una danza Kabuki, ma c'è soprattutto il « Nò », tipico<br />
spettacolo giapponese che riunisce tutte le discipline teatrali. Le origini della danza Kabuki<br />
risalgono agli antichi tempi delle danze folcloristiche, alle diverse forme della musica di corte,<br />
alle suppliche dei trovatori (hosshi) ai «yokyoku», al periodo « Momoyama» (XVII secolo),<br />
epoca classica degli scrittori e dei coreografi di quel paese. Nata sola e pura, la danza Kabuki<br />
si è via via mescolata, con lo sposalizio al dramma, ma non ha cessato di rivelare la sua<br />
essenza.<br />
Così la danza dei più lontani tempi continua ad emanare il suo fascino ed è un profumo<br />
d'oriente che aleggia nell'aria fra stoffe ricamate e preziose, tempestate di pietre, dalle sete<br />
d’India e di Cina ai variopinti chimoni arabescati del Kabuki...<br />
ORIGINE E PREISTORIA<br />
Nella sua “Analisi del carattere” W.Reich scrive: “……il vivente funziona al di là di tutte le<br />
idee e di tutti i concetti di parole. Il linguaggio parlato………..non è una caratteristica<br />
indispensabile del vivente, funziona molto tempo prima che vi sia un linguaggio…….<br />
Il vivente funziona come forma espressiva anche al di là e prima di ogni formazione di<br />
suono…..”. In effetti la nostra conoscenza dell’universo è stata manuale e pedestre prima<br />
ancor che vi-siva.<br />
Di fatto il feto, prima di vedere, udire etc. si muove. Com’è noto, reagisce a varie<br />
sollecitazioni “ballando” nel grembo materno. La Danza non poteva essere che la prima<br />
espressione dell’uomo. Fin dall’antichità l’uomo se ne è servito come ingrediente<br />
indispensabile per la sua vita. Lo accompagna nella vita quotidiana, nella caccia, nella pesca,
in battaglia, nelle celebrazioni più importanti assumendo toni rituali, magici, drammatici a<br />
seconda delle situazioni. La Danza è la Madre delle Arti.<br />
Musica e poesia si determinano nel tempo, le arti figurative e l’architettura nello spazio: la<br />
danza vive egualmente nel tempo e nello spazio. In essa creatore e creazione, opera e artista,<br />
fanno tutt’uno. Danzando l’uomo ricrea movimento ritmico in una successione spazio-<br />
temporale, senso plastico dello spazio, viva rappresentazione di una realtà visiva e fantastica;<br />
tutto ciò con suo stesso corpo, ancor prima di affidare alla materia, alla pietra, alla parola, il<br />
risultato della sua esperienza.<br />
Nella Danza i confini tra corpo e anima, tra espressione libera dei sentimenti e finalità<br />
utilitarie, tra socialità ed individualismo, tra gioco, culto, lotta e rappresentazione scenica,<br />
tutti i confini che l’umanità ha costruito nel corso della sua evoluzione, si annullano.<br />
Tutto è presente nella Danza:<br />
il CORPO, che , nell’estasi viene trasceso e dimenticato per diventare ricettacolo della<br />
sovrumana potenza dell’anima,<br />
l’ANIMA, che trae una felicità ed una gioia divina dall’accresciuto movimento del corpo<br />
liberato d’ogni peso; il “bisogno” di danzare, perché una prorompente gioia di vivere strappa<br />
le membra al loro torpore; il “desiderio” di danzare, perché chi danza acquista un potere<br />
magico che elargisce vittoria, salute, vita;<br />
un LEGAME MISTICO, che nella danza unisce la tribù tutta, ed il libero manifestarsi della<br />
propria individualità, in una completa aderenza al proprio io.<br />
NESSUNA ARTE HA CONFINI COSI AMPI.<br />
La danza nell’antichità si muove all’insegna di una ricostruzione molto vaga, i soli<br />
procedimenti a nostra disposizione sono il figurativo ed il letterario.<br />
Nell’estasi della danza l’uomo è partecipe dell’aldilà, del mondo dei demoni, dello spirito e di<br />
Dio. “Colui che conosce il potere della danza, vive in Dio”- esclama il commosso poeta<br />
persiano Djamaladdin Rumi.<br />
Non esiste avvenimento nella vita dei popoli primitivi che non sia consacrato dalla danza.<br />
Nascita, circoncisione, iniziazione delle fanciulle, nozze e morte, seminagione e raccolto,
onoranze ai capi, caccia, guerra e banchetti, lunazione ed infermità: per ogni cosa è necessaria<br />
la danza.<br />
Le sole testimonianze che possiamo avere delle danze nel periodo preistorico sono date da<br />
figure incise sulle pareti delle grotte. Troviamo esempi in Francia, grotte di Lascaux<br />
(Montignac) o Les Trois Frères (Montesquieu-Avantés), in Spagna (Altamira), e anche in<br />
Medio Oriente, in Turchia ed in Africa.<br />
Indubbiamente queste testimonianze risultano scarse, soprattutto perché non si può vedere<br />
nelle tracce spesso confuse di queste immagini quanto noi ameremmo trovarvi. Solo<br />
pochissime di queste raffigurazioni permettono un’interpretazione sicura. Dovremmo<br />
accontentarci di immagini confuse dell’origine della danza, se non disponessimo del sussidio<br />
di informazioni, quasi fin troppo ricche, che la danza dei popoli primitivi della nostra epoca<br />
ci fornisce. Ogni civiltà della preistoria europea trova infatti un suo esatto parallelo tra i<br />
popoli delle scimmie antropoidi di Teneriffa.<br />
Queste scimmie, che non avevano mai avuto contatti con l’uomo, eseguono una sorta di<br />
danza saltata, poi girano su sé stesse con le mani alzate, uniscono a questi movimenti un giro<br />
in tondo in modo da formare, alla fine, una danza in circolo.<br />
In queste occasioni, oltre a formare altre figure di danza, le scimmie amano adornarsi con<br />
viticci, fili e tutto ciò che gli è possibile trovare.<br />
10<br />
Nella regione del Rorouna, nelle regioni settentrionali del Sud America, si è potuto osservare<br />
un gruppo di galli cedroni impegnati ad eseguire una sorta di danza, caratteristica di quei<br />
magnifici uccelli. Al centro uno solo dei galli, con le ali spiegate e la coda aperta, saltellano<br />
per lo spiazzo, esegue movimenti come di danza, mentre gli altri siedono tutti intorno e<br />
accompagnano la danza con strani suoni. Appena il gallo, esausto, emette un suono<br />
particolare, subito un altro prende il suo posto e comincia ancora la danza.<br />
Gli studiosi hanno distinto la danza nella preistoria in due tipologie: danze armoniche e<br />
danze convulse.
La danza armonica si caratterizza di movimenti coscienti del corpo, mentre le danze convulse<br />
sono così dette quando i muscoli si contraggono e si rilassano e non c’è padronanza del corpo,<br />
rimane più o meno la coscienza ed il danzatore alla fine cade in estasi.<br />
(foto1)<br />
Reperto trovato nella grotta di Valtorta presso la Cueva Civil in Spagna<br />
(foto2)<br />
Pittura nera su roccia: rappresenta una danza in onore della caccia. Uomini con frecce ed arco<br />
che danzano.
11<br />
LA <strong>DANZA</strong> IN EGITTO<br />
Per l’Egiziano, come per il Greco, danza significa GIOIA. Svariate testimonianze figurative<br />
dell’Egitto rivelano l’importanza della danza nel servizio del culto ma anche nella socialità.<br />
La vita e la morte non erano separabili, la seconda era il completamento della prima. Nel<br />
culto dei morti, gli egiziani erano convinti di una vita oltre la morte.<br />
Sono stati scoperti papiri in cui sono descritte danze rituali risalenti circa al 1900 a.C., un<br />
registro di morti con danze in onore degli dei.<br />
La donna egiziana, nelle cerimonie funebri, danza con grandi passi per richiamare alla vita.<br />
Alcune danze libertine venivano eseguite nel corso di cerimonie funebri e spesso proprio solo<br />
in queste occasioni. Questo motivo è presente anche nell’ambito culturale del Nuovo Regno<br />
Egiziano: un rilievo molto realistico trovato a Saqqàra, conservato ora al museo del Cairo,<br />
mostra due fanciulle con raganelle precedenti un corteo funebre; esse sono seguite e<br />
circondate da un gruppo di donne dalle vesti trasparenti che con le mani levate in alto<br />
sostengono dei tamburini; tutte sembrano in preda ad un movimento si appassionata voluttà.<br />
La vera danza funebre fallica ha riscontri anche nel periodo più recente della civiltà<br />
dell’antico Egitto.<br />
Nel 1800 Derandprè osservò in Congo delle danze funebri con un fallo enorme mosse da<br />
molle. Un simile fallo, ugualmente munito di molle e trascinato da donne, figura nella festa di<br />
Dioniso nell’Egitto ellenizzato, sebbene qui non si possa parlare con sicurezza di danza.
D’altra parte l’antico Egitto, quello del terzo millennio, trae i motivi della sua danza funebre<br />
da una condizione diversa: la magia della vita è affidata ai grandi passi ed al lancio delle<br />
gambe in avanti.<br />
Le sacerdotesse che danzavano, si esibivano anche nell’intrattenimento mondano: la danza<br />
coinvolgeva elementi attivi e passivi, gli esecutori e gli spettatori. Il primitivo indirizzo<br />
religioso continuava ad esistere, ma trasformato in abilità artistica, eseguito da specialisti, da<br />
danzatori professionisti. La danza nell’antico Egitto era sottoposta a regole precise. Lo<br />
dimostrano esempi plastici con danzatrici allineate che ricordano le “revue girls” dei nostri<br />
tempi.<br />
Alcuni tipi di danze di cui abbiamo testimonianze sono:<br />
Danze semiconvulse: l’esempio veramente classico di questo tipo di danza è costituito da<br />
movimenti tremolanti ed ondulatori del tronco, dal gioco dei muscoli del petto e del<br />
dorso. Alcuni autori confondono i movimenti noti come “rectus abdominis” con<br />
movimenti del bacino e li disegnano come danza del ventre. Oggi gli Arabi considerano<br />
egiziano questo tipo di danza. A Celebes, dove essi l’hanno introdotta abbastanza<br />
recentemente, la danza del ventre viene chiamata messeri o masseri, e masri in arabo<br />
significa egiziano.<br />
12<br />
Danze con salto:<br />
esempi particolarmente significativi vengono offerti dalle danze Suk<br />
della Valle del Nilo. L’elemento essenziale di tali danze è proprio il salto: il corpo si<br />
irrigidisce, le braccia incrociate sono strette contro il corpo, mentre le mani poggiano sui<br />
fianchi. Si può giungere facilmente alla conclusione che simili danze saltate in sculture<br />
dell’antico Egitto sono anch’esse nilote e sono documentate anche in Africa ed in Europa,<br />
soprattutto nelle regioni in cui la principale occupazione è la pastorizia. Allo slancio verso<br />
l’alto delle danze saltate fa riscontro lo slancio in avanti delle danze a passi lunghi.<br />
Esempi significativi offerti di nuovo dagli Egiziani e anche dagli Etruschi, sono le figure<br />
danzanti durante la festa del raccolto a suono della raganella, della tomba 15 di Gizah<br />
risalente alla quinta dinastia (2700 circa), e la danza della corsa del re.
Anche il passo lungo può essere diretto verso l’alto. Esso è allora uno slancio della gamba<br />
e nel caso limite diventa una danza acrobatica o di abilità. Rilievi egiziani della sesta<br />
dinastia, risalenti alla metà del terzo millennio, rappresentano intere file di danzatrici che<br />
con il busto piegato indietro, gettano la gamba destra al di sopra della testa di quella posta<br />
davanti con un’angolazione a 135 gradi.<br />
Danze vorticose: “……per una buona mezz’ora gli uomini girano intorno con le braccia<br />
distese, come trottole, la vertigine fa perdere al danzatore il sentimento del suo corpo e del<br />
suo io, finché libero dal proprio corpo egli vince a sua volta la vertigine”. Il significato di<br />
tale danza è chiaramente astrale, è il sole la luna, sono le stelle che girano.<br />
Anticamente tutta la zona mediterranea sembra aver conosciuto questo genere di danza.<br />
E, difficilmente, possono essere diversamente interpretati affreschi scoperti recentemente<br />
dai tedeschi presso Gizah, in una camera sepolcrale che risale all’antico impero d’Egitto:<br />
sembra che i soldati usassero volteggiare su se stessi come trottole.<br />
Danze a torsione:<br />
i particolari movimenti di ipertensione che costituiscono la parte<br />
essenziale delle danze a torsione, appaiono spesso come movimenti ampi arrestati, uno<br />
slancio interrotto. Essi possono moltiplicarsi nelle tre dimensioni ad un punto tale che è<br />
lecito parlare di posizioni “ a trivella” derivanti da un contorcersi a spirale.<br />
Un esempio di qualità ci è dato dalle danze funebri della 18a dinastia egiziana, danze<br />
simili per lo più a quelle del Nuovo Impero dell’Egitto e che sono rappresentate in un<br />
rilievo calcareo molto realistico e vivo del Museo del Cairo.<br />
Danza del Vento: su una pittura parietale egizia, risalente alla 12a dinastia (1900 a.c.) del<br />
regno medio, a Beni Hassan, nell’alto Egitto, tre danzatrici eseguono una pantomima,<br />
intitolata in geroglifici “il vento”.<br />
Una delle danzatrici, in piedi, sembra passare il braccio teso sulla cima degli alberi, la<br />
seconda si curva sotto questo braccio, come farebbe una palma, la terza come una canna<br />
flessibile si piega “ a ponte”.<br />
Danza della fertilità: ( per attirare le piogge)
Un vaso riempito d’acqua per attirare le piogge è una soluzione difficilmente superabile<br />
per la sua fresca ingenuità. Più tardi, si tralascia il recipiente, si trascura il bere, gesto tutto<br />
sommato volgare, e ci si attiene solo all’azione dell’attingere, molto più fertile da un<br />
punto di vista coreografico. La fanciulla si piega dolcemente al suolo e, raddrizzandosi,<br />
solleva le mani riunite a coppa. Ora questo motivo dell’attingere comporta una nuova<br />
concomitanza per l’intervento del concetto di fertilità sacra inerente alla vergine.<br />
Danza della fertilità: (stagioni)<br />
I movimenti carichi di significato devono dar vita, in un perfezionarsi graduale, alle azioni<br />
eroiche dell’uomo ed alle sofferenze dell’umano destino. Il demone della fertilità sarà<br />
sottomesso alla legge che governa la successione ritmica delle stagioni: in primavera ed in<br />
estate sarà ricco di benedizioni, in autunno soccomberà sotto il colpi della forza<br />
distruttrice di ogni forma di vita; nella primavera successiva egli rinascerà vittorioso.<br />
La luna luminosa deve lottare contro la sorella in ombra finché, al compiersi del suo corso,<br />
non viene da quest’ultima sommersa. Il sole combatte le potenze delle tenebre.<br />
Infine tutti questi spiriti, tutte queste divinità ed i loro avversari si calano nel mondo delle<br />
creature e dei destini animali. Animali, avi e demoni si confondono insieme, le leggi e le<br />
tradizioni delle tribù si associano per dare vita ad un dramma grandioso che in uno stesso<br />
tempo conferisce ai destini umani una portata cosmica e agli avvenimenti cosmici un<br />
carattere umano.<br />
A questo punto dell’evoluzione, i ditirambi drammatici dei danzatori greci celebranti<br />
Dioniso vanno a ricongiungersi con i giochi sacri di Abido in Egitto, dove sacerdoti e<br />
popolo rappresentano la morte, la resurrezione di Osiride.<br />
I giochi di Abido segnano per l’Egitto la fine di uno sviluppo che noi possiamo seguire per<br />
un periodo di tremila anni, anche se le testimonianze che ci restano sono talvolta scarse.<br />
I danzatori in maschera: uomini con ornamenti bizzarri sul capo accompagnano con le<br />
loro danze la resurrezione del dio e delle anime con la testa di falco e salutano con grida<br />
di gioia la divinità richiamata alla vita.
Così si compie l’evoluzione della danza propriamente egiziana. Le caratteristiche costanti<br />
sono una accentuata rigidità ed un’ampiezza di movimento, riscontrabili anche nelle<br />
danze delle donne.<br />
Danze solari:<br />
nell’antico Egitto il Re, quale rappresentante del sole, doveva girare<br />
solennemente intorno alle mura di un tempio per “garantire” la continuità del viaggio<br />
quotidiano del sole attraverso il cielo senza interruzioni per eclissi o per altra avversità.<br />
Danze a passi zoppicanti:<br />
le mitologie di quasi tutti i popoli conoscono la figura del dio<br />
zoppo; ora, zoppicare nella concezione mitologica significa essere deboli e anche<br />
incominciare. I grandi dei della natura che vivono nel corso di una stagione per morire<br />
alla fine di essa e rinascere in primavera con rinnovata giovinezza, all’inizio della loro vita<br />
ciclica sono privi di forza e zoppicano. Uno di questi può essere il greco dio Dioniso ed in<br />
Egitto il fanciullo Arpocrate, figlio di Osiride, e quindi la splendida luna crescente che<br />
vincerà l’oscurità della luna calante.<br />
Il notabile egiziano, la cui vita ci è descritta dai monumenti non conosceva la danza in gruppo<br />
nella quale egli avrebbe dovuto unirsi agli altri danzatori, né la danza in coppia, né quella da<br />
solo. Invece, come c’è da aspettarsi, i contadini celebravano in gruppi di danze i loro antichi<br />
riti della fertilità.<br />
Ma come vero paese di civiltà di tipi padronale, l’Egitto, fin da quell’epoca, anche per il<br />
servizio del culto, amava far venire i suoi solisti da certe contrade, particolarmente dotate per<br />
la danza. Ciò è testimoniato dai monumenti e soprattutto da una lettera molto interessante,<br />
quasi appassionata con la quale nel XXIV secolo il re Nefr-Ke-rè domanda ad uno dei suoi<br />
generali di portargli un danzatore nano dell’Etiopia.<br />
Essa dimostra che già nel terzo millennio si faceva ricorso all’arte coreutica delle popolazioni<br />
nane del Nilo. Ciò dimostra che gli egiziani sapevano apprezzare le qualità artistiche della<br />
danza dei nani e li ponevano, quindi, al servizio delle loro divinità.<br />
Il più altro e significativo favore che potesse aspettarsi un egiziano era di poter portare al re<br />
della terra di “Punt” nel sud, uno di questi nani.
Nel 1500, con il Nuovo Regno, assistiamo ad una trasformazione; in quello stesso periodo<br />
quando la conquista del vicino Oriente con la 18a dinastia snazionalizza la musica e le<br />
imprime un carattere femminile ed asiatico, ecco che la baiadera del paese conquistato,<br />
emigrata in Egitto, si ritrova accanto la danzatrice indigena.<br />
La Danza Mistica dei morti è diventata un’apparizione spettrale. Nei festini dei ricchi<br />
d’Egitto, ci racconta Erodoto, dopo il pasto, veniva avanti un uomo portando in una bara<br />
un’immagine in legno della morte. Egli la mostrava ad ogni convitato dicendo: guarda<br />
quest’immagine e poi bevi e sii felice, quando sarai morto, sarai simile ad essa.<br />
Non sono mancati tentativi di ricostruzione della danza dell’antico Egitto su un palcoscenico<br />
di balletto moderno. Per esempio Vaclav Nijinsky nel 1912 a Parigi, tentò nel suo “ Aprés-<br />
midi d’un faune” di rispondere alla musica di Debussy con un tipo di danza bi dimensionale<br />
sullo stile plastico egizio.<br />
DALLA GRECIA A ROMA<br />
La storia della danza è la meno esplorata ed anche la più frammentaria delle storie: nozioni<br />
vaghe, incerte, confuse. Gli stessi documenti che possediamo non sono sufficienti a chiarirci la<br />
danza secondo un criterio estetico.<br />
Il Fertiault, nel libricino “Histoire anedoctique et pittoresque de la danse chez les peuples<br />
anciens et moderes” (1854) ci dice che la danza deve essere antica, come altre poche cose,<br />
quanto il mondo.<br />
Gli ebrei danzarono dopo il passaggio del Mar Rosso e attorno al Vitello d’oro, Davide danzò<br />
davanti all’Arca, Socrate apprese a danzare in tarda età, i soldati spartani andavano all’assalto
itmando passi di danza sul battito dei loro scudi….la danza quindi non era un divertimento;<br />
faceva parte delle cerimonie religiose ed aveva carattere militare o guerresco.<br />
15<br />
Parlando della pratica coreutica presso i Greci, sempre il Fertiault, fa delle suddivisioni molto<br />
nette per spiegare la tecnica di quella danza e parla di tre specie: la cubistica, la sferica e<br />
l’orchestrica che a loro volta erano suddivise nei caratteri di danze sacre, funerarie, profane.<br />
Le danze sacre facevano parte del culto, istituite dai sacerdoti per essere eseguite nel tempio.<br />
Fra queste possiamo distinguere le danze dei sacrifici, dei misteri, di Cerere, i baccanali e<br />
soprattutto la danza astronomica immaginata per rappresentare e propiziarsi il movimento<br />
degli astri. Le danze funebri erano vere e proprie processioni descriventi il dolore e qualche<br />
volta anche l’episodio che aveva causato la morte d colui del quale si celebrava il funerale.<br />
Facendo riferimento ai testi di poeti e filosofi dell’antichità (Omero, Plutarco, Senefonte,<br />
Erodoto, Luciano, Platone ed Aristotele) e agli studi degli storici moderni (Nietzsche,<br />
Emmanuel, Sèchan) possiamo classificare le danze greche in tre categorie: guerriere, religiose<br />
e profane.<br />
Le prime, erano danze armate con uno scopo educativo strettamente legato alla formazione<br />
militare dei giovani. Fra di esse, il “Prosodion” o “Enplion” era una processione armata<br />
eseguita su di un ritmo anapestico nel corso di parate militari tendenti ad incoraggiare ed<br />
esaltare lo spirito guerriero. 3<br />
La “ginnopedia” spartana era una danza sportiva di carattere lirico eseguita da due gruppi<br />
differenti, uno di giovani ragazzi, l’altro di uomini adulti che danzavano e cantavano gli inni<br />
di Talete. Essa tendeva a mettere in lice qualità fisiche ed estetiche del corpo umano e aveva<br />
un carattere nettamente mimetico in quanto si proponeva di imitare gesti e attitudini della<br />
lotta e del pugilato.<br />
Le danze di carattere religioso si dividevano anche in danze pacifiche delle quali la “danza<br />
della gru” era la più singolare e caratteristica. In essa confluivano i tre elementi di ogni danza<br />
preistorica: l’evocativo, il simbolico, l’imitativo.<br />
3 Nel mondo greco vi era una corrispondenza tra le forme metriche letterario- musicali e quelle di danza, vera e propria<br />
integrazione fra danza, poesia e musica.
La disposizione di caratteristica di quattordici giovani (sette ragazzi e sette ragazze),<br />
rappresentava il volo di un gruppo di gru ed aveva una successione di sviluppo ondulatori<br />
per cui quella catena ricordava, a guisa di serpentina, il faticoso procedere di Teseo nel<br />
labirinto di Cnosso. Gli stessi giovani rappresentavano le quattordici vittime salvate da Teseo.<br />
La gèranos (altro appellativo della danza appena descritta), era una danza molto vivace<br />
condotta dal solito “corago” e si sviluppava con una grande mobilità di movimenti.<br />
La “Cariatide” proveniva dalla Carya, regione tra l’Arcadia e la Laconia, ed era eseguita da<br />
fanciulle appartenenti alle migliori famiglie spartane. La sua invenzione era stata attribuita a<br />
Dioscuri e la si eseguiva ogni anno in omaggio alla dea Artemide, come le danze “Partenie”<br />
erano in onore di Minerva.<br />
Il filosofo tedesco Nietzsche, seconda metà dell’Ottocento, classifica la danza greca in<br />
apollinea e dionisiaca. La prima, badava al rigoroso rispetto delle forme, al loro equilibrio,<br />
alle linee calme e regolari, mentre la dionisiaca sottintendeva sfrenatezza, modi disordinati<br />
generati dall’entusiasmo orgiastico. L’aspetto dionisiaco nella orchestica greca è riscontrabile<br />
in tutte le danze eseguite in onore di Bacco, dio del vino e della natura. I gesti attingevano al<br />
grottesco, trasmodavano e sovente raggiungevano l’acme del deliquio: testa rovesciata, corpo<br />
piegato, flessione della testa e del corpo in avanti.<br />
Le danze profane erano eseguite nelle cerimonie non religiose, nei giochi pubblici, nelle feste,<br />
nei banchetti e avevano due caratteri: il cosiddetto cittadino e quello scenico. Le danze<br />
sceniche erano eseguite a teatro. Si possono citare “l’Emmeleia” (tragedia), “Cordax”<br />
(commedia), “Sichimia” (dramma satiresco) e la “Pantomima”.<br />
Due sono i fattori che ci rendono più accessibile lo studio della danza greca: il materiale<br />
figurativo e letterario, da un lato e, l’affinità della nostra civiltà con quella ellenica, dall’altro.<br />
Si è già accennato alle fonti poetiche e filosofiche; più rilevante appare, in questo caso, la<br />
documentazione iconografica grazie alle pitture, alle sculture, agli affreschi, ai bronzi<br />
rimastici. Tutto lo studio dell’elemento coreutico greco può essere condotto solo in base a<br />
questi documenti, per cui non avremo il movimento della danza greca, ma il momento di una
o più danze greche. Impossibile quindi stabilire una vera e propria tecnica di danza che ci<br />
riporti a quella civiltà.<br />
Dal momento che l’Oriente è la culla dell’arte greca, le origini coreutiche greche vanno<br />
ritrovate nella civiltà cretese- micenea. Osservando vasi di terracotta e bronzi, si può<br />
affermare che, mentre nelle danze orientali prevale la forma angolare, nella danza greca la<br />
forma predominante è la rotonda. La fusione tra le due darà luogo ad altri tipi di danze di<br />
altre civiltà, come per esempio quella etrusca.<br />
Per quanto riguarda l’analisi della danza etrusca la situazione è più complicata. La lingua<br />
etrusca è ignota sul piano filologico e archeologico, per cui gli unici riferimenti saranno<br />
affreschi delle tombe, movimenti ed atteggiamenti riscontrabili su vasi e bassorilievi.<br />
Quest’analisi può essere condotta tenendo presente due caratteri della danza etrusca; il<br />
primo, aborigeno, il secondo di influenza greca. Il periodo aborigeno è stato influenzato<br />
dall’origine orientale, una caratteristica particolarmente riscontrabile nella forma angolare di<br />
certi atteggiamenti ritrovati sul reperti del tipo “dell’Anfora della Tragliatella” o nel<br />
danzatore armato del vaso Falerio o ancora nelle danze guerriere del Secchiello di Chiusi.<br />
L’influenza greca è invece riscontrabile nei seguenti frammenti archeologici: “Vaso della<br />
Tomba della Scimmia”, risalente al V sec. A.C.; la “Tomba del Colle Casucani”, VI-V sec. A .C.<br />
etc.<br />
Mentre la Grecia si abbandonava al piacere della danza, Roma era più restia per il suo spirito<br />
severo e militaresco che sembrava potesse precludere l’accesso alle molli dolcezze coreiche.<br />
La forma più tradizionale e compiuta dell’orchestica latina va ricercata nella pantomima. I<br />
mimi infatti ebbero sempre grandi favori sotto qualsiasi forma di governo si producessero.<br />
La pantomima fu portata sotto Augusto al suo massimo splendore da due mimi provenienti<br />
l’uno dalla Cilicia e l’altro da Alessandria d’Egitto, sempre in fiero contrasto l’uno con l’altro.<br />
I loro nomi erano Pilade e Batillo. La pantomima di quest’ultimo proveniva dalla Skinnis e
dal Kordax greci, di carattere brillante; mentre quella di Pilade era grave, triste ed<br />
apparteneva quindi alla pantomima tragica. 17<br />
Gli spettacoli offerti da questi due famosi mimi e la folla di pubblico che vi assisteva quasi<br />
con tifo da stadio per l’uno o per l’altro, costituivano il primo esempio di professionismo<br />
coreutico ereditato dai Greci ad eccezione delle danze rituali.<br />
Riassumendo quanto detto finora, in Grecia la danza fu essenzialmente espressione di<br />
bellezza, ma anche di forza e di armonia fisica, soprattutto in funzione morale ed educativa;<br />
presso i Romani dapprima fu elemento rituale e religioso, più tardi divenne elemento teatrale,<br />
di svago e divertimento popolare.<br />
In Grecia la danza si basava tutta sul sentimento estetico, militare, politico della nazione; a<br />
Roma, con l’Impero, diventa sfrenato passatempo, licenzioso esibizionismo, teatrale<br />
virtuosismo, mancando di un profondo contenuto morale, avviandosi dunque verso la<br />
decadenza.<br />
DAL PAGANESIMO AL CRISTIANESIMO<br />
C’è qualcosa nel corso dei tempi e della storia destinato a ripetersi, a rinnovarsi, a susseguirsi<br />
e a perseguitarci, se è vero che gli antichi Romani vedevano di mal occhio chi si dedicava alla<br />
danza. In tal modo tanta prevenzione di oggi non sembrerebbe del tutto infondata.<br />
Cicerone scrisse: “Nessun uomo sobrio può danzare, a meno che non si tratti di un pazzo”, e<br />
alcuni uomini politici insorsero quando il ballo, ormai introdotto a Roma, prese piede e<br />
succedeva che i giovani delle famiglie patrizie accedessero alle scuole di danza.<br />
Le origini non furono meno stentate ed osteggiate. Se si eccettua la “Bellicrepa”, danza<br />
istituita da Romolo in memoria del Ratto delle Sabine, e la celebrazione, di carattere mitico-
eroico di grandi eventi, compiuta per mezzo dei dodici sacerdoti Salii, un sacerdozio<br />
costituito da Numa Pompilio fra i nobili di nascita (essi ritmavano la loro cadenza marziale al<br />
battito delle spade corte sullo scudo), non si trovano manifestazioni che stiano sullo stesso<br />
piano di altre comunità antiche. Il circo assorbiva tutte le capacità e possibilità di<br />
interessamento del popolo e lo soddisfaceva completamente. Perfino gli istrioni etruschi<br />
venuti a Roma ( “hister” significa saltatore) furono considerati nel senso peggiorativo della<br />
parola tant’è vero che ancor oggi per “istrione” si intende un ciarlatano, un saltimbanco di<br />
second’ordine. Non era così per gli etruschi; questi istrioni chiamati anche “ludios” (ludus è<br />
gioco latino e giocolieri erano questi artisti: un anticipo se si vuole di ciò che troveremo nelle<br />
feste del tardo Medioevo) recarono messaggio pieno di ardore espressivo e di ritmo<br />
appassionato al punto che i romani ne furono subito conquistati. La gioventù romana,<br />
incantata anche dal profumo esotico, colse in quella rivelazione la possibilità di ritmare sulle<br />
nuove, affascinanti cadenze la recitazione dei suoi poemi.<br />
18<br />
Per un popolo bellicoso come il latino ogni danza che non fosse né religiosa né guerriera era<br />
considerata inferiore. Ma un tale stato di cose doveva cessare con le conquiste operate da<br />
Roma. Solo che se la Grecia, vinta, trionfò sui suoi vincitori imponendo loro la sua civiltà<br />
superiore, Roma si trovò a raccogliere quella cultura come un bottino di guerra assimilandone<br />
gli aspetti più esteriori ed immediati, senza entrare nella profondità della sua essenza. Per<br />
fare un esempio, le Menadi in Grecia erano sacerdotesse, a Roma le Baccanti erano donne<br />
dissolute. Si è già detto che l’unico genere un poco serio da prendere in considerazione a<br />
Roma era la pantomima. Così la danza, invece di essere l’elemento principale di uno<br />
spettacolo, fu subordinata alla pantomima che, con il combattimento dei gladiatori, costituì<br />
uno lo spettacolo preferito dai romani. La danza a Roma non era che una parte, un numero<br />
nel teatro, ovvero nei giochi del circo.<br />
I Romani non danzavano, invitavano da fuori i cosiddetti virtuosi: le danze dei Gaditani,<br />
antenati degli attuali andalusi, accompagnate dai crotali (le odierne “castagnette”)<br />
mandavano in visibilio il pubblico romano. Per non parlare poi dei prodotti orientali. Tutta la
decadenza romana è percorsa da nomi di danzatrici che al fascino dell’arte coreutica univano<br />
la seduzione femminile e l’esempio di Salomè ne è uno fra i più famosi con la sua danza,<br />
misto di arte, seduzione e di perversità.<br />
La fine della danza a Roma fu una conseguenza delle invasioni barbariche. Mentre, la stessa<br />
continuò a fiorire nelle altre province del cessato impero. Nella Gallia ballerini “joculatores”<br />
avevano ancora seguaci e spettatori entusiasti. Franchi e Goti tennero in somma<br />
considerazione la danza. Nel passaggio dalla danza pagana alla cristiana, processo iniziato<br />
con l’inizio della decadenza del ballo a Roma, si ha notizia che il culto cristiano avesse<br />
adottato nelle sue cerimonie la tradizione biblico- pagana della danza come elemento del rito.<br />
Così alcune danze in onore agli dei pagani erano state mantenute con una trasposizione nel<br />
carattere da sacro a magico come si riscontra al giorno d’oggi in alcuni festeggiamenti. A<br />
testimonianza di questo il padre gesuita Le Mènestrier descrive analogie tra la tragedia greca<br />
e l’ufficio cattolico del primo Medioevo, nel suo libro “Des ballets anciens et modernes” edito<br />
nel 1683. “ L’ufficio divino era composto di salmi, di inni e di cantici poiché le lodi del<br />
Signore erano recitate cantate e danzate. Il luogo dove si rendevano gli omaggi a Dio venne<br />
chiamato “Coro” a somiglianza di quelle parti della commedia e della tragedia in cui la danza<br />
si univa al canto per formare gli intermezzi. I prelati furono chiamati in latino “praesules a<br />
praesiliendo” perche essi facevano nel coro, per le lodi del Signore, quello che nei giochi<br />
pubblici faceva colui che iniziava la danza e che i greci chiamavano “choragos”. La<br />
recitazione ritmata dei salmi corrispondeva all’azione drammatica e quelle danze alle<br />
evoluzioni del coro. I primi vescovi erano chiamati “praesules” perché guidavano le danze. E<br />
“praesul” si chiamava il capo dei sarcedoti Salii istituiti da Numa Pompilio.<br />
Un altro punto di Padre Menestrièr è da citare: “ Come a quelli morsi dalla tarantola, per far<br />
uscire il veleno, così la danza serve ad equilibrare le passioni pericolose: la paura e la<br />
melancolia rendono il corpo svelto, morbido, leggero e più trattabile; e le altre due passioni<br />
addolcendo i loro scatti con dei movimenti più moderni. Ma, se la danza, è un rimedio nei<br />
confronti di queste passioni, è naturale nella gioia che è essa stessa una danza ed<br />
un’agitazione dolce e gradevole che si fa attraverso l’effusione degli spiriti i quali si spandono
dal cuore abbondantemente attraverso tutto il corpo. È il ragionamento di Platone.”<br />
19<br />
Contro i balli primitivi, marcatamente pagani, la Chiesa non ebbe potere con le sue<br />
scomuniche e le sue condanne. Tutto il cristianesimo primitivo risuona di inni di gioia e di<br />
riconoscenza alla danza: i cristiani danzarono nelle catacombe per onorare i loro martiri, i<br />
primi ordini monastici (“Coreuti”) sarebbero sorti da comunità di danzatori e la fioritura<br />
senza toccare il rigoglio ellenico fu notevole.<br />
I Padri della Chiesa seppero fare distinzioni e non condannarono la danza in generale come<br />
manifestazione umana, si limitarono a condannare il lato peccaminoso di essa qualora fosse<br />
presente. San Basilio, a proposito, in un’epistola dice che la danza è l’unica occupazione degli<br />
angeli in cielo e fortunati quegli uomini che avevano il dono di poterli imitare in terra. Da<br />
tutto ciò traspare come la danza nell’Alto Medioevo avesse un carattere religioso essendo una<br />
sopravvivenza di antichi riti nel culto del cristiano.<br />
IL MEDIOEVO<br />
Dal momento che il Medioevo ricopre un periodo di tempo vastissimo divideremo la danza<br />
che lo caratterizza in otto caratteri diversi, definendo gli otto punti fondamentali per lo stato<br />
della danza nel periodo preso in considerazione.<br />
La <strong>DANZA</strong> SACRA. Fino al XVII secolo quasi tutte le cerimonie religiose erano<br />
accompagnate da danze; si danzava davanti al Sacro Sacramento nelle chiese di Siviglia,<br />
Toledo e Valenza; si danzava nelle “farsas santas y piadosas” (feste sante e pie), specie di<br />
intermezzi rappresentati nelle chiese e nei conventi. Nel giorno del Corpus Domini, in<br />
Galizia, era d’uso ballare la “Pela”, in forma di processione. A dimostrazione dell’importanza
della danza e del suo radicamento nella cultura popolare, quando Don Jaime de Palafox,<br />
arcivescovo di Siviglia, volle sopprimere il balletto dei “Seises” (ragazzi del coro della<br />
cattedrale), questi intrapresero un viaggio verso Roma. Dopo aver ballato di fronte al capo<br />
della cristianità, una bolla del papa Eugenio IV autorizzò il mantenimento di quelle danze nel<br />
rito. Tutto questo risale al 1439, per cui sul finire del Medioevo. Ancora oggi a Siviglia per la<br />
festa del Corpus Domini si ripetono queste danze in Chiesa davanti al Santo Sacramento,<br />
danze ereditate dal rito Mozarabico e appartenenti ad una vera e propria para- liturgia<br />
rituale.<br />
La <strong>DANZA</strong> RELIGIOSA. Si è già detto che più volte papi, vescovi, santi si scagliarono contro<br />
le reminiscenze pagane, più vicine ai modi di Salomè piuttosto che di Davide, ed anche<br />
contro l’uso di danzare nelle Chiese, nei cimiteri, nelle processioni pubbliche. Ma queste<br />
interdizioni il più delle volte non venivano rispettate. Uno dei fenomeni di questa condanna<br />
della danza, sarebbe la punizione inflitta dai vescovi ai fedeli colpevoli di aver danzato in un<br />
cimitero in occasione di funerali. Queste danze dei cimiteri, secondo taluni storici, avrebbero<br />
creato la tradizione delle danze macabre o danze dei morti. Essenzialmente, la danza macabra<br />
non sarebbe altro che una “moralità”, un tema “edificante- satirico” sull’ineluttabilità della<br />
morte espresso in forma di poesia e di pittura. Il fatto che figurativamente i morti (gli uomini<br />
raffigurano la morte sotto l’aspetto che essi prendono quando divengono scheletri) siano in<br />
posizione di danza non significa che le danze macabre fossero eseguite pubblicamente<br />
durante tutto il Medioevo. La forma teatrale sarà gusto e tendenza di un particolare genere e<br />
di una personale ispirazione in musica come in danza, ma alle origini le più antiche danze dei<br />
morti si trovavano unicamente nei manoscritti o nelle figurazioni.<br />
Esistono quindi due forme rappresentative, quella letteraria dei poemi e quella figurativa<br />
delle immagini. Queste si trovano sui muri dei cimiteri come delle chiese e dei castelli.<br />
Secondo altri storici le danze macabre sarebbero dei discorsi mimati, delle prediche in azione<br />
e, secondo l’etnologo, storico e critico Maurice Louis “costituirebbero la messinscena del<br />
dramma morale e cristiano che si trova nel 12° secolo nei sermoni popolari dei predicatori e<br />
degli ecclesiastici il cui fondo è una specie di prosopopea nella quale la morte si rivolge alle
persone di ogni condizione", come afferma nei suoi “Quaderni liguri di Preistoria e<br />
Archeologia”.<br />
In seguito il balletto macabro diventa quadro. La rappresentazione drammatico- letteraria fa<br />
posto alla rappresentazione pittorica. C’è alla base di tutto questo un forte elemento<br />
simbolico. È facile pensare che la fantasia popolare e quella dei poeti, diretta conseguenza<br />
della prima, abbiano contribuito in grande misura a creare il personaggio della Morte.<br />
In un’epoca densa di fumi sulfurei, di timori, di violenze ed oppressioni, pare spontaneo lo<br />
scaturire rappresentativo di un mondo posto sotto la cappa di piombo, l’incubo di punizioni<br />
terribili. Nessuna epoca infatti coltivò tanto l’idea della morte con tanta insistenza come il<br />
primo Medioevo. Essa non era soltanto una pia esortazione (“memento mori”) ma anche una<br />
satira sociale.<br />
Terzo carattere dell’epoca è la <strong>DANZA</strong> PROFANA che comprende le rappresentazioni di<br />
spunto religioso con svolgimento profano. I balletti “ambulatori” o “baladoires” sono ancora<br />
dei balletti che trovano evidenti richiamo religiosi, questo a conferma dell’importanza della<br />
danza religiosa nell’epoca considerata.<br />
In Provenza nel 1462 il buon re Renato d’Anjou, per la vigilia del Corpus Domini, organizzò<br />
una processione, della la “Lou Gouè” che era un vero e proprio balletto ambulatorio, ricco di<br />
scene allegoriche, figurazioni mimate e danzate, la cui tradizione si perpetuò per tre secoli.<br />
Egli stesso aveva allestito lo spettacolo e composto le arie di marcia e di danza. Fu chiamato<br />
per questo il monarca- poeta. Queste scene allegoriche erano chiamate “entremets”, quei<br />
“divertissements” introdotti nei festini e nei banchetti di corte che, per essere fatti tra una<br />
portata e l’altra delle vivande, furono detti in seguito “intermèdes”, intermezzi da noi.<br />
Ecco in breve la stesura dello spettacolo: un Fauno, montato su cavallo alato apriva la marcia<br />
suonando la tromba, seguito da cavalieri armati di lancia. Venivano poi il Duca e la Duchessa<br />
di Urbino su due asine, figurazione allegorico- satirica che per tre secoli proseguì in Provenza<br />
il balletto del Corpus Domini. Seguivano le figurazioni mitologiche di evidente carattere<br />
umanistico: Marte e Minerva, Pan e Selene, Plutone e Proserpina, con fauni, ninfe, tritoni<br />
danzanti al suono di pifferi, crotali, tamburi; quindi il carro dell’Olimpo con Giove, Giunone,
Venere, Amore e le Parche, a chiusura della prima parte del corteo. Nella seconda parte<br />
sfilavano gli ebrei danzanti intorno al Vitello d’oro, la regina di Saba con il suo seguito, i Magi<br />
che seguivano una stella ondeggiante in cima ad una lunga pertica ed una raffigurazione del<br />
massacro degli innocenti. Subentrava infine una rappresentazione cristiana con Gesù<br />
avanzante con la Croce sulle spalle, accompagnato dagli Apostoli e danzatori, uomini d’arme,<br />
mazzieri del re Renato ed ultima la Morte con la sua immensa falce inesorabile che caccia<br />
innanzi a sé quella turba di esseri divini, infernali, di re e di santi, di eroi e di dei.<br />
La stessa cosa successe in Portogallo in occasione della canonizzazione del Santo Carlo<br />
Borromeo, nel 1610, una festa che diede luogo ad una rappresentazione di uno splendore<br />
unico durante la quale gruppi di danzatori mimarono scene edificanti tra i carri della<br />
processione.<br />
Nel Medioevo dunque la danza abbandonò la chiesa per rifugiarsi presso i laici e durante il<br />
carnevale, si sfogava nella sua pienezza in una folle allegria che denunciava l’esplosione di<br />
una gioia di vivere compressa durante l’anno da tante astinenze.<br />
La <strong>DANZA</strong> DI CORTE (O AULICA) era, più semplicemente, di mondano passatempo. I<br />
primi danzatori profani del Medioevo furono i funamboli, i giocolieri che si apparentano agli<br />
istrioni dell’antichità e di memoria etrusca.<br />
I danzatori sulla corda erano celebri e allietarono le feste dei ricchi signori. Questa tradizione<br />
del virtuosismo aereo sarà poi trasferita e mantenuta negli esercizi del circo con i suoi<br />
acrobati e i volteggiatori equestri.<br />
Balletti e mascherate, accompagnamenti d’obbligo in ogni festa presso sovrani e potenti, si<br />
fecero via via più liberi e sfrenati, più licenziosi. Primo fra tutti si ricorda il Ballo degli<br />
Ardenti, nel 1398, presso la duchessa di Berry, nel quale il re Carlo VI, in costume di<br />
selvaggio, rischiò di essere bruciato vivo. Si chiama appunto degli Ardenti perché alcuni dei<br />
partecipanti perirono nelle fiamme delle torce al lume delle quali avvenivano queste feste.<br />
DANZE D’ISTERIA RELIGIOSA o frenesia della danza. Nel 1373 apparve in Francia e nelle<br />
Fiandre a punizione, pare, delle profanazioni compiute con le danze sacre, la malattia che va<br />
sotto il nome di frenesia della danza, appunto. I malati si toglievano gli abiti di dosso e
dimenandosi incessantemente percorrevano le vie e le piazze tenendosi per mano, cantando e<br />
ballando in lunghe file ed entravano in chiesa. Infine cadevano a terra spossati. La singolare<br />
malattia prese poi il nome di “ballo di San Giovanni”. Grosse fasce serravano il ventre degli<br />
ammalati affinché non scoppiassero tanto era l’agitazione che li gonfiava. Nacque addirittura<br />
la setta dei “flagellanti” il cui rito principale consisteva in una specie di danza nel corso della<br />
quale quei devoti si fustigavano fra loro.<br />
Molto più tardi, nella Nuova Inghilterra, intorno al 1800, nacque una specie di eresia detta dei<br />
Jumpers (saltatori) i quali, erigendo la danza a principio religioso, danzavano cantando i<br />
salmi. Giravano per ore intere fino a quando, esauriti, si abbattevano al suolo in preda a<br />
convulsione attraverso la quale pretendevano di raggiungere l’estasi.<br />
La religione continuava perciò ad essere il centro della danza nel Medioevo. Quasi sempre i<br />
divertimenti popolari avevano una sola occasione: le feste religiose.<br />
La <strong>DANZA</strong> DI CARATTERE LETTERARIO. Il “Roman de la Rose” è la più perfetta<br />
espressione lirica del genere letterario. Nei secoli dell’alto Medioevo la danza era ritenuta non<br />
opportuna per la dignità maschile e riservata unicamente alle donne. Le prime e le più<br />
vecchie canzoni a ballo erano eseguite da donne e avevano personaggi femminili. Poi, poco a<br />
poco, anche gli uomini parteciparono alla danza.<br />
Al principio del Duecento, con lo sciogliersi dell’irrigidimento dei costumi, i signori<br />
imitarono il popolo cosicché dame e cavalieri si prendevano per mano e, a mò di circolo,<br />
caratteristica di ogni danza, formando cerchi chiusi e aperti, si abbandonavano al piacere<br />
della “farandole”.<br />
Le ballate scritte in origine per il ballo venivano cantate così: un solista intonava la strofa e il<br />
coro cantava i ritornelli.<br />
Alle canzoni a ballo si accompagnò in seguito anche la musica di strumenti a corda; proprio<br />
questo accompagnamento cantato dava luogo alla famosa “carola” di cui si parla in tutti i<br />
poemi e romanzi medioevali.<br />
Nel trapasso dalla <strong>DANZA</strong> POPOLARE alla <strong>DANZA</strong> DI CORTE, bisognerà insistere sulla<br />
prima per trovare i risultati di un processo nella seconda. A misura che la civilizzazione si
affina, la danza popolare è adottata dalla nobiltà; questa trasposizione avviene in parecchie<br />
tappe assai confuse, caratterizzate da cambiamenti costanti. Sarà bene rilevare la differenza<br />
tra bassa danza e danza alta: la prima, binaria, strisciata, calma e tranquilla, senza salti, era la<br />
danza dei signori; quindi una danza detta anche regolare e adatta ai trattenimenti aulici, un<br />
tipo di danza che andava eseguita con solenne e maestosa dignità. La seconda, invece,<br />
altrimenti detta “par en haut” o irregolare, era caratterizzata da salti, recava i primi rudimenti<br />
della famosa “danse d’école”. Apparteneva quindi al popolo ed era detta danza popolare o<br />
danse balladine, vivace, ternaria, saltata.<br />
Dall’unione tra le due nacque la “suite”, fondamentale nello sviluppo delle forme musicali e<br />
strumentali.<br />
La “pavana” è un esempio di bassa danza, mentre la “gagliarda” di danza alta. Ci furono<br />
anche danze di diversa origine in quanto a provenienza: per l’Italia, le due sopracitate, la<br />
“bergamasca”, il “passamezzo”, la “volta”, la “tarantella” e il “saltarello”; per la Francia la<br />
“bourrèe”, i “branles”, la “gavotta”, la “corrente”; per la Germania l”allemanda” e il “valzer”;<br />
per gli Inglesi la “giga” e la “controddanza”; per i polacchi “polka” e “mazurka”.<br />
Dall’unione in unità artistica dei due modi che vanno intesi come danza per la corte e ballo<br />
per il popolo, si formeranno le prime fonti valide e sicure della danza accademica.<br />
Il trasferimento di alcuni balli dalla pura sfera nazionale a quella del trattenimento di corte,<br />
pezzi inseriti nella commedia classica, darà luogo allo spettacolo autonomo che si chiama<br />
“balletto”, vale a dire un passaggio dal folklore alla danza di corte.<br />
La sfrenatezza popolare si mescolerà alla riservatezza dei nobili che hanno preso gusto ai<br />
“rondes” e alle danze collettive. La stessa cortesia trovadorica affinerà la danza a coppie nei<br />
castelli e questa cortesia verrà a sua volta assimilata e adottata dal popolo, in un vero e<br />
proprio scambio fra le due parti.
IL RINASCIMENTO<br />
Gli ultimi decenni del Medioevo videro le prime coreografie destinate a trionfare nelle grandi<br />
feste rinascimentali. La scelta del soggetto cadeva sempre su di una favola o sulla storia<br />
antica. Molto presto si videro alle corti principesche balletti allegorici che sfoggiavano un<br />
lusso straordinario nei costumi. Un esempio è rappresentato dal balletto allestito da<br />
Bergonzio Botta, gentiluomo lombardo, a Tortona in occasione delle nozze tra Galeazzo<br />
Sforza, duca di Milano, e Isabella di Aragona nel 1498, che fu denominato “balletto<br />
conviviale” in quanto le “entremesses” di intromettevano tra un piatto e l’altro del banchetto<br />
nuziale. Una specie dunque di pantomima eroico- gastronomica in quanto la presentazione di<br />
ciascun piatto del banchetto dava origine ad azioni danzanti in cui intervenivano personaggi<br />
mitici e storici che tessevano le lodi degli sposi. Il tema dello spettacolo era la fedeltà<br />
coniugale. In primo luogo, si assisteva alla filata di donne fedigrafe divenute famose nella<br />
storia e nel mito, gli seguiva una seconda parte in cui le varie Penelopi davano luogo ad una<br />
autentica apoteosi della fedeltà cui si aggiungeva l’incedere pomposo e regale degli sposi<br />
stessi cui era diretto il componimento allegorico.<br />
Questa appena descritta si può definire come l’ultima grande allegoria del Medioevo.<br />
Il Quattrocento è segnato dalla grande fioritura trattatistica, i cui più grandi rappresentanti di<br />
questo periodo furono Domenico da Piacenza o Ferrara, Antonio Cornazano, Guglielmo<br />
Ebreo da Pesaro. Possiamo citare anche Fabrizio Caroso da Sermoneta e Cesare Negri, per il<br />
Cinquecento.<br />
Nel più antico di questi trattati, risalente al 1416, ad opera di Domenico da Ferrara, si fa una<br />
netta distinzione fra danza aulica e danza popolare, sostenendo una vera e propria<br />
nomenclatura di passi, un materiale a disposizione per qualsiasi uso in campo orchestico. Ciò<br />
che emerge è la specializzazione, la nascita di un nuovo tipo di studioso, non ancora
incontrato nell’evoluzione della danza coreutica: il teorico della danza. Domenico da Ferrara,<br />
dà utilissimi consigli sul portamento, sulla grazia, sulla misurazione dello spazio e il<br />
movimento in esso.<br />
Bisogna comunque dire che questa fioritura trattatistica era lo sfogo di una particolare<br />
condizione di vita alle soglie del Rinascimento.<br />
Non è difficile spiegare come sul finire del Medioevo anche la Danza prendesse un suo posto<br />
definito e preciso. La donna, considerata prima da crociati e trovatori creatura angelicata,<br />
scenderà dal suo piedistallo per partecipare alla vita tumultuosa delle feste e dei banchetti di<br />
corte. Tutto si espande: i banchetti per primi con l’accrescersi delle vivande e delle bevande.<br />
Un’euforia popolaresca invade le corti, una felicità di vivere serpeggia fra principi e uomini<br />
d’armi. Ma sotto questa bramosia godereccia si fa strada il serio desiderio per le belle<br />
maniere, le movenze aggraziate, il desiderio per un comportamento che sarà detto del<br />
perfetto cortigiano. Di qui il bisogno di affidarsi a regole e canoni, a leggi precise ed<br />
inflessibili. Conosciute sono le opere di Baldassarre Castiglione, “Il Cortigiano”, di Mons.<br />
Giovanni della Casa, “Il Galateo”, che non trascurano la danza.<br />
L’ingentilirsi delle danze popolari che entrarono a corte si codificava nella precisazione delle<br />
forme sulla cui accurata descrizione abbiamo, tra gli altri, un saggio abbastanza curioso di<br />
Simeone di Zuccolo da Cologna, “La pazzia del ballo” (Padova 1549).<br />
Qui la danza non pare essere presa in considerazione sotto il profilo dell’arte, ma è un<br />
pretesto per rapporti di carattere sociale o sentimentale, qualcosa come i balli da salotto di<br />
ottocentesca memoria.<br />
Per quanto riguarda l’elencazione dei passi, cui prima abbiamo fatto riferimento, si suole<br />
seguire sempre un criterio estremamente meticoloso. Ecco alcune figure che possono<br />
suggerire più facili e decisi accostamenti al vocabolario in uso nella danza teatrale, ancora<br />
oggi in cui esso, con il passaggio alle corti francesi, per gran parte merito di maestri italiani, si<br />
articola nella lingua di quel paese: capriola, pirlotto, intrecciato, zoppetto, cambio, etc.<br />
Il primissimo nome fra i teorici e maestri di danza del Quattrocento è Domenico da Ferrara o<br />
Piacenza. Nacque infatti a Piacenza sul finire del Trecento, ma fu attivissimo a Ferrara alla
corte estense, di qui il dubbio nella denominazione. Il suo Trattato, risalente al 1416, si<br />
intitola “De arte saltandi et choreas ducendi” (il manoscritto è conservato alla Biblioteca<br />
Nazionale di Parigi). Egli ribadisce la divisione tra danza bassa e ballo: la prima “terre-à-<br />
terre” secondo al terminologia adottata in seguito; il secondo invece reca le prime basi<br />
dell’elevazione. Suo discepolo e continuatore fu Antonio Cornazano, pure egli nativo di<br />
Piacenza, morto a Ferrara sulla fine del ‘400. Riprende le teorie del predecessore e maestro, le<br />
perfeziona e da perfetto umanista, oltre che poeta, conia addirittura un “Libro sull’arte del<br />
danzare”, nel 1455.<br />
Ma a superarli tutti per vastità di concetti ed importanza di trattazione è Guglielmo Ebreo da<br />
Pesaro vissuto attraverso tutto il Quattrocento sino all’80. Il suo libro più importante si<br />
intitola “De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum”, scritto verso la metà del secolo. In<br />
questa “Pratica” vi sono sei regole fondamentali che bisogna ricordare; esse vorrebbero<br />
assommare le virtù richieste ad un perfetto danzatore e sono:<br />
Misura che corrisponderebbe all’abilità di mantenere il tempo.<br />
Maniera, la capacità di coordinamento dei movimenti delle braccia e del corpo.<br />
Memoria, la facoltà mnemonica di ricordare la successione dei passi appresi.<br />
Partire del terreno o Compartimento di terreno, ossia l’abilità di commisurare le evoluzioni<br />
alla superficie ove si danza ed alle eventuali limitazioni.<br />
Aire, ovvero il modo di presentarsi, la presenza e le maniere del ballerino.<br />
Movimento corporeo, sintesi di tutto il resto e l’atto perfetto del danzare.<br />
Con l’affermarsi del teorico e maestro di danze, la danza di corte cessò di essere<br />
improvvisazione, creazione magari spontanea, ma sempre contingente, per avere una sua<br />
tecnica definita con combinazione scritta di passi. Quindi si differenziò dalla danza popolare,<br />
pur continuando questa ad esercitare sull’altra il suo influsso di immediatezza e spontaneità.
LA <strong>DANZA</strong> PRE-ACCADEMICA<br />
La consuetudine di intercalare danze in un banchetto derivava da una tradizione romana<br />
quando gli imperatori solevano rallegrare i loro convivi con interventi mimati e danzati.<br />
L’uso si trasferisce anche in Francia ove avvengono, a partire dalla metà del Quattrocento,<br />
delle “intromesse” di carattere mitologico sullo stampo di quelle divenute famose grazie al<br />
balletto conviviale di Bergonzio Botta. Questi, pur non essendo un danzatore, né coreografo,<br />
né maestro di danza, radunava in sé quelle doti di perfetto cortigiano che gli permisero di<br />
allestire uno spettacolo gradito alle corti italiane e francesi del Rinascimento.<br />
In Francia, per un passaggio da corte a corte, abbiamo la descrizione della famosa bassa<br />
danza originaria, come si è detto, del Medioevo e poi praticata attraverso tutto il Tre, Quattro<br />
e Cinquecento, proveniente dalla caròla, codificata dai teorici italiani nel Livre des Basses<br />
Danses appartenuto a Maria di Borgogna e conservato nella Biblioteca di Bruxelles. Ma solo la<br />
celeberrima “Orchèsographie” di Thoinor Arbeu anagramma di Jehan Tabourot, canonico di<br />
Langres, ci fornirà l’esatto compendio, con la pubblicazione avvenuta nel 1588-89 dello stato<br />
della danza in Francia durante l’esercizio di due secoli a partire dal “Ballo degli Ardenti”,<br />
tipico esempio di mascarade molto in voga in Francia e in Inghilterra.<br />
L’opera di Arbeau, segue di otto anni il “Balet comique de la Royne”, primo esempio teatrale<br />
nella storia della danza come termine e forma di spettacolo.<br />
Questo trattato scritto in forma di dialogo tra un anziano maestro di ballo (l’Arbeu stesso) e u<br />
allievo chiamato Capriol, “attraverso quale dialogo tutte le persone possono facilmente<br />
apprendere e praticare l’onesto esercizio delle danze”, è fondamentale sia dal punto di vista<br />
storico che didattico. L’autore ci presenta e descrive i passi allora in uso con una notevole<br />
preparazione musicale che gli permette di sincronizzare le misure di danza con il rigo<br />
sottoposto. Egli ci mostra la maniera di rappresentare le danze del suo tempo: Bassa danza,<br />
Pavana, Gagliarda, Volta, Corrente, Allemanda, Gavotta, Canario, Moresca, Pavana di<br />
Spagna e 23 varietà di Branles.
Altro avvenimento decisivo ai fini dell’introduzione della danza nella pratica e nel<br />
professionismo, è l’istituzione, avvenuta a Milano nel 1545, della prima scuola di ballo nobile<br />
tutta basa sulla trattatistica quattrocentesca.<br />
Fondatore e maestro è Pompeo Diobono che preparerà un gran numero di provetti ballerini<br />
fra cui quel Baldassarino (o Baltazarini) da Belgioioso che, invitato a Parigi nel 1554 con il suo<br />
maestro Maresciallo de Brissac, governatore francese di Milano, vi resterà facendo parte, da<br />
ottimo violinista che era, della “bande de violons” del Diobono. Dalla corte di Enrico II il<br />
Baldassarino passerà a quella di Caterina de Medici che, alla morte del re, lo chiamerà al suo<br />
servizio come “valet de chambre” e gli darà l’incarico di allestire il famoso spettacolo in onore<br />
delle nozze del Duca di Joyeuse con Margherita di Vaudemont, sorella della Regina (1581).<br />
L’anno 1581 è importantissimo perché vede coincidere due avvenimenti: la creazione del<br />
“Balet comique de la Royne” ad opera di un italiano alla corte di Francia e l’uscita di un<br />
classico della teoretica orchestica. “Il Ballarino” di Fabrizio Caroso da Sermoneta, ballerino,<br />
musicista come tutti i danzatori e teorici dell’epoca, cortigiano squisito, vissuto tra il 1525 ed i<br />
primi del Seicento. Egli dedica le sue opere a Don Ranuccio Farnese e Margherita<br />
Aldobrandini, duchi di Parma e Piacenza. Nel 1605 uscirà una nuova edizione a Venezia con<br />
il titolo “Nobiltà di Dame”. Il ritratto presenta un aspetto letterario, con frequenti sonetti, tra<br />
cui uno di Torquato Tasso, figurativo, l’elemento più strettamente coreutico, con la<br />
descrizione dei passi, e il musicale con un primo tentativo di scrittura di danza oltre a quello<br />
che si potrebbe definire morale con i frequenti suggerimenti onde non sfigurare nelle feste e<br />
nella società dell’epoca.<br />
Ma torniamo per un momento al “Balletto” del Baldassarino. La rappresentazione dello<br />
spettacolo, intitolato “Circè et ses nymphes” avvenne al palazzo del Petit Bourbon, prossimo<br />
al Louvre, presenti Caterina de Medici ed il figlio Enrico II, il re, nel 1581.<br />
L’elemosiniere del re ebbe il compito di verseggiare la trama, Beaulieu e Thibaut de Courville<br />
scrissero le musiche, mentre la scenografia era di Jaques Patin, pittore del re. Vi assistette una<br />
folla immensa, superiore alla capienza della sala; la vicenda narrava, con l’aiuto di un prologo<br />
in versi, esplicativo, della maga che trasforma gli uomini caduti nella sua trappola in animali.
Ecco la descrizione dello spettacolo. Scenografia: Boschetto di Pan, a destra in fondo il<br />
giardino ed il palazzo di Circe. Un cavaliere trafelato e fuggiasco spiega con la mimica ed in<br />
verso il suo terrore verso la maga della quale è prigioniero. Appaiono quindi con il carro<br />
d’oro, su cui stanno la Regina, la Principessa di Lorena e le dame del seguito, una folla di<br />
sirene e tritoni, naiadi di danzanti al suono degli archi nascosti sotto la volta di destra. La<br />
rappresentazione si protrae sin verso le quattro del mattino e prosegue col racconto della<br />
storia di Circe in danze, canti, versi, con un gran balletto finale e distribuzione di medaglie<br />
d’oro al re e ai gentiluomini presenti da parte della regina e delle sue dame.<br />
Importante è la struttura tecnica utilizzato in quel tempo; il divertimento si articolava in una<br />
“Ouverture” che esponeva il tema, nelle “entrèes” pessi destinati agli assoli dei danzatori, ed<br />
un “grand ballet” finale che vedeva tutta la massa dei ballerini impegnata. Paragonabile allo<br />
schema ternario in musica: andante- adagio- allegro con il corrispettivo coreografico tema-<br />
variazioni- coda nelle composizioni di più stretto carattere accademico senza una base<br />
narrativa ma appoggiate unicamente al supporto musicale.<br />
Così la danza di corte andava sviluppandosi gradatamente per conoscere il suo apogeo sotto<br />
Lulli e Luigi XVI, la cui opera segna il raggiungimento di tutte le affinità musicali e<br />
coreografiche che esistono tra la Francia e l’Italia dopo il Rinascimento.<br />
Sotto i regni di Enrico IV, di Luigi XIII e Luigi XIV la danza di corte si è modellata sulla danza<br />
popolare. Tutti danzavano anche in vesti femminili, dal momento che fino alla fine del XVII<br />
secolo non si incontrano apparizioni femminili, in ciò che si considera la danza teatrale perché<br />
a corte era in gran uso il ballo a coppie. Spesso, nei balletti, ruoli muliebri erano tenuti da<br />
uomini. Il gran balletto di corte era geometrico. La disposizione era orizzontale per cui si<br />
comprenderà che il balletto, trasferito dalla sala al palcoscenico, usufruirà di un palco<br />
leggermente inclinato per permettere agli spettatori di vedere il gioco di piedi nell’evoluzione<br />
dei passi 4 . Non bisogna dimenticare, per comprendere meglio la definizione di geometrico,<br />
che il balletto aveva soppiantato i tornei ed i caroselli. I primi balletti ricordavano, in qualche<br />
modo, i tornei, ne avevano la rigida schematicità ed il disegno delle linee estremamente<br />
4 Palcoscenici di teatri antichi appaiono ancor oggi con quella caratteristica, mentre i teatri moderni hanno inclinato<br />
notevolmente la platea.
composite ed intersecate. Questa specie di balletto richiama alla memoria il già menzionato<br />
tipo di Ballet- mascarade.<br />
Siamo ancora nel balletto di corte, spettacolo completo, dapprima composto da entrate un po’<br />
gratuite, poi ordinato intorno ad un tema mitologico; ma intanto va evolvendosi passando<br />
attraverso la commedia, la tragedia, l’opera, per diventare, nel XVIII secolo il balletto<br />
d’azione. Il Ballet- mascarade si ispira a qualche fatto reale ma spesso resta nel fantastico ed il<br />
tono è tra il popolaresco, il parodistico ed il satirico. Qualche titolo: il “Balletto d’Alcina”, il<br />
“Balletto delle quattro parti del mondo”, “La follia di Orlando”, la “Liberazione di Rinaldo”,<br />
“L’avventura di Tancredi nella foresta incantata”, il “Balletto degli Argonauti”, il “Trionfo di<br />
Minerva”, etc.<br />
In Italia, dove il balletto si può dire sia nato, il favore è meno intenso che in Francia. Uno stato<br />
diviso in tanti staterelli, nel quale l’uno ignora l’altro e fa a sé in un altezzoso egocentrismo e<br />
divisionismo, ma anche in un pericoloso isolazionismo, lo stesso vede ancor oggi una<br />
dispersione di valori, mentre lo scambio e la cooperazione non farebbero che giovare all’arte<br />
comune. Ciò nonostante emerge l’operosità della corte medicea con un suo gruppo di<br />
coreografi e ballerini diretti da Agnolo Ricci. A Parma, presso i Farnesi, come a Mantova e<br />
Venezia, a Milano, a Siena , a Roma, a Napoli, il balletto di corte dispiega il suo fasto. A<br />
Torino, capitale del ducato di Savoia, si ha una lunga serie di opere coreografiche<br />
considerevoli. Il grande animatore del balletto a Torino sarà il Cardinale Maurizio di Savoia<br />
unitamente al Marchese Ludovico d’Agliè, poeta e “regista”, si potrebbe dire, con termine<br />
moderno. Gli succederà sullo stesso piano mecenatesco e creativo il nipote Filippo. Il<br />
Cardinale Maurizio aveva fondato nel suo Palazzo romano addirittura un’accademia d’opera<br />
e di ballo. E Mazzarino, verso il 1640, fece rappresentare a Roma melodrammi con balletto.<br />
Il già citato padre Mènestrier ci parla dello splendore coreografico della corte torinese, così<br />
come M. Cahuzac nel suo “Trattato storico della danza” (1754) dice che i balletti di Torino<br />
avevano uguagliato in magnificenza quelli di altri luoghi e di altre corti. A Lodovico d’Agliè<br />
si devono balletti tra lo storico, il mitologico e l’epico- fantastico.
Alcuni titoli: “Prometeo”, “La presa di Cipro”, “Il soccorso a Rodi”, “I baccanali antichi e<br />
moderni”, etc. E un balletto venne esportato dai Savoia a Parigi e fu nel 1631 con “Le ballet<br />
des montagnards” che ebbe molto peso nella valutazione italiana.<br />
A parte resta l’opera di Monteverdi, musicista in unione a Rinuccini, poeta, cui è legata la<br />
nascita della Camerata fiorentina con il balletto melodramma “Il ballo delle ingrate”<br />
rappresentato a Mantova il 4 giugno 1608. Questa storia veramente melodrammatica di<br />
anime ingrate femminili condannate all’inferno per essere state in terra troppo crudeli con gli<br />
uomini, ha una sua innegabile potenza rappresentativa nella danza. Ma un’altra grande opera<br />
di Monteverdi è da ricordare, “Il combattimento di Tancredi e Clorinda” stupendo madrigale<br />
danzato sulle<br />
celebri ottave della “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso nel quale le tre voci del Testo,<br />
di Clorinda e Tancredi, sono modernamente doppiate da due danzatori sulla scena e stanno<br />
quasi ad indicare un nuovo mezzo o impiego della danza in un teatro essenzialmente<br />
musicale.<br />
In generale, nel Seicento, il ballo, in Italia, si unisce alla forma melodrammatica. Appaiono<br />
pure balli in funzione di “intermezzi” in commedie, equivalenti alle “intromesse” medioevali<br />
ed alla contemporanea “comèdie- ballet” di origine francese.<br />
LA <strong>DANZA</strong> ACCADEMICA
Il Seicento è il secolo delle grandi macchine teatrali, delle scenografie macchinose, dei grandi<br />
nomi di architetti e scenografi. Ciascuno porta il nome italiano all’estero: sono il Bibiena a<br />
Vienna, il Torelli a Parigi, il Vigarani, Burnacini e Galliari.<br />
Il secolo sarà caratterizzato dall’istituzione e dal fiorire delle Accademie, dai tre nuovi stili di<br />
spettacoli coreografici, dall’imporsi di studiosi, maestri e ballerini che daranno alla danza<br />
accademica il suo aspetto definitivo.<br />
Nominiamo alcune accademie sorte nel periodo. Nel 1571 sorge, quale derivazione della<br />
“Pleiade”, “L’Acadèmie de Musique et de Poèsie”. Nel 1661 viene fondata da Luigi XIV<br />
l”Academie Royale de Danse” che nel 1671-72 si trasformerà in “Acadèmie de Musique et<br />
Danse”. Primo direttore sin dal 1661 è Charles Louis Beauchamps (1636-1719) ballerino,<br />
coreografo, maestro fra u più importanti nella storia del balletto. Egli è pure sovrintendente ai<br />
balletti di corte del Re Sole ed interprete delle sue coreografie. Danzerà fino a tarda età. La<br />
sua rilevanza è data per aver codificato le “cinque posizioni”. Non è vero che le abbia<br />
inventate ma c’è da dire che le ha perfezionate portando l’en-dehors ad un angolo di 90° (i<br />
180° saranno conquista e prerogativa dell’Ottocento.)<br />
Pierre Rameau ci rivela nel suo “Maitre a danser” (1725): “ le posizioni sono state aggiornate<br />
grazie alle cure di Beauchamps….non le si conoscevano prima, ciò prova la sua penetrazione<br />
in questa arte….da lui ho potuto sapere che, seguendo le regole del suo tempo, si contavano<br />
cinque posizioni della danza”. Da questa testimonianza si può quindi concludere che<br />
“l’infuori” e le posizioni sono nate nel circolo di Beauchamps, che egli ha avuto un ruolo<br />
fondamentale nel loro perfezionarsi e che, in tutti i casi, ha codificato le posizioni. Secondo<br />
altri storici fu, se non il primo, fra i primi inventori di un sistema di notazione coreografica.<br />
Ma questa è andata perduta.<br />
Arrivati a questo punto, è d’obbligo fare riferimento al momento in cui il balletto, non solo<br />
sale sul palcoscenico, ma si mescola ad uno spettacolo drammatico.<br />
Fu Molière ad avere l’occasione di far intercalare entrate di balletto tra gli atti della sua<br />
commedia “Les Facheux”, nel 1661. La formula piacque a lui come a Lulli che ne era il<br />
musicista. La collaborazione fra il commediografo e il musicista-coreografo era nata ed anche
un genere era nato: la “comèdie-ballet”. Essa si ispirava contemporaneamente all’antico<br />
balletto di corte e alla commedia dell’arte. Già il “Balet comique de la royne”, misto di<br />
recitazione (poesia), danza (coreografia), preludeva a tutto questo e il titolo “comique” non in<br />
senso di comico, ma di appartenente alla commedia, ne ribadiva il concetto. Anche in balletti<br />
moderni assistiamo a questo mantenimento della tradizione tra le danze dell’antico balletto di<br />
corte e la pantomima della commedia dell’arte.<br />
La danza dunque, da piacere individuale che era, divenne spettacolo e il danzatore non danza<br />
più per se stesso ma per lo spettatore, trasferendosi su di un piano di esibizionismo. Lo stesso<br />
succederà con la “tragedie- ballet” quando Lulli volle rinunciare al burlesco della comèdie per<br />
qualcosa di più serio e grave. Ma soffermiamoci un momento sulla straordinaria carriera del<br />
più volte citato, fiorentino Giambattista Lulli (1632-1687). A 21 anni era già alla corte di Luigi<br />
XIV come ballerino nel famoso “Balet Royal de la Nuit” nel quale il superbo monarca<br />
rappresenta il sole. Ben presto Lulli divenne “Maitre de la musique royale”. Versatile, geniale,<br />
brillante, egli trascorre facilmente dall’esecuzione danzata alla creatività della coreografia,<br />
dalla composizione musicale alla direzione orchestrale e incanterà tutti quanti. Soprattutto<br />
piacerà, e con loro collaborerà, a due illustri personaggi dell’epoca: il Re e Moliere. E la<br />
duplice conoscenza coinciderà con un ricevimento regale nel parco di Vaux. Sarà la fortuna<br />
per tutti, per Lulli, per Moliere, per il re e per l’arte del balletto che da allora conoscerà uno<br />
splendore non conosciuto prima. Da quell’unione artistica nasceranno “Il malato<br />
immaginario”, “Il matrimonio per forza”, i citati “Facheux”, il famoso “Borghese<br />
gentiluomo”, con le varie entrèes sulle danza dell’epoca allora in uso, il balletto turco e il<br />
divertissement finale e molti altri capolavori teatrali. Esempi questi di teatro totale, ossia<br />
un’alleanza fra i generi teatrali, fra la commedia, la poesia e la danza. Il “ Trionfo<br />
dell’Amore” del 1681, un balletto di venti entrate, vede impegnati nello stesso lavoro i<br />
librettisti Benserade e Quinault, Lulli per la musica, Berain per i costumi e le scene, Pècour e<br />
Beauchamps per la danza e la coreografia.<br />
Quanto alla tecnica, come si è detto, progressivamente si perfeziona e si consolida. Il “Largy”<br />
di Arbeau viene spinto oltre dai maestri italiani. Ci si stacca da terra alzando i talloni (demi-
pointe), si aggiunge alla semplice capriola quella intrecciata, nasce “L’entrechat” nella sua<br />
giusta accezione di gambe che si incrociano al passaggio e sfregamento dei polpacci nel<br />
movimento a seconda che essi passino due o più volte, si descrive il “tour en l’air” ed il<br />
“double tour en l’air”.<br />
In questo modo si comincia a delineare un vero e proprio professionismo coreutico, anche<br />
grazie alla presenza di un re come Luigi XVI che contribuì a valorizzare e promuovere<br />
l’evoluzione di un’arte come il balletto che si impose più di ogni arte e spettacolo al gusto e<br />
alla sensibilità oltre che all’attenzione di un’epoca.<br />
L’opera- ballet segna una tappa nella storia dell’opera in musica, come in quella della danza. I<br />
passi scivolati fanno posto a quelli saltati. L’opera dell’Ottocento manterrà questa tradizione<br />
del divertissement interposto tra il canto con il pretesto di un festeggiamento, di un gran<br />
ballo. L’opera- ballet risultò gradita alle corti francesi ma anche in Inghilterra, dove lo<br />
sviluppo della danza converge tutto verso i mummings, o meglio ancora, verso il maske,<br />
mascherate eseguite nel corso dei balli reali ai quali era sempre assicurata la presenza del<br />
monarca. Era uno spettacolo veramente composito, comprendeva canti, recitazione di versi e<br />
danze naturalmente. Uno degli autori più noti di questi trattenimenti di corte fu Ben Jonson;<br />
il maske ebbe grande fortuna sotto i regni di Enrico VIII e Edoardo VI, l’ultima mascherata fu<br />
data a Londra nel 1640; con l’affermarsi del teatro pubblico, i trattenimenti cortigiani<br />
divennero inutili, dato che il re assisteva di persona in teatro.<br />
Sul finire del secolo, il genere aveva cambiato carattere e teneva più dell’opera che del<br />
componimento recitato, cantato, danzato come era stato il maske. Si avrà così quella “Fairy<br />
Queen” di Henry Purcell ispirata a Shakespeare, il Sogno, che ha tanti punti in comune con<br />
l’Opera- ballet. Ecco l’esempio positivo di una corte che balla, magari solo per diletto, ma che<br />
nel suo dilettantismo dà l’avvio ad un gruppo di persone che si dedicano con serio impegno<br />
allo studio della danza approfittando dell’Accademia esistente e dell’evolversi della tecnica<br />
che si precisa e si rafforza sia nella nomenclatura che nella scrittura.<br />
Ma i primi professionisti sono ancora uomini, esclusivamente. Il più celebre fra essi è Louis<br />
Pecour (1655-1729) colui che nel 1687 succedeva a Beauchamps anche in qualità di maitre de
allet. Altrettanto famosi sono stati Blondy e Jean Ballon, celebre per la sua leggerezza, il cui<br />
nome passò ad indicare quella particolare predisposizione allo staccarsi da terra e rimanere<br />
sospeso in aria per ricadere con pari leggerezza.<br />
Il primo a far danzare le donne era stato Lulli, precisamente nel sopra citato Trionfo<br />
dell’amore: Mmes. Lafontaine, Roland, Lepeintre, Fanon, tutte già professioniste.<br />
Nasce la figura del solista, che si contraddistingue sempre di più dalle danzatrici e danzatori<br />
del corpo di ballo, per affermare la propria personalità. I solisti richiedevano delle entrèes ove<br />
poter dimostrare il loro virtuosismo. La coreografia si lanciava dunque all’adeguata ricerca di<br />
attitudini e passi complicati. Questo virtuosismo degenerò fatalmente in divismo che, a sua<br />
volta, fu tutto imperniato sulla rivalità fra gli stili diversi di danza suscitando ondate di<br />
entusiasmi e di polemiche fra i partiti opposti dei ballettomani dell’epoca. Questo indirizzo<br />
non giovò all’arte in genere; semmai chiarì le possibilità di una tecnica ( quella della futura<br />
danza accademica) il cui uso intelligente avrebbe potuto dare frutti quanto mai interessanti e<br />
in funzione di lontani sviluppo. Tali risultati di verificavano già nell’arte di Luois Duprè<br />
(1690-1774) detto il Grande, David Dumoulin e i Lany, fratello e sorella. Tra le danzatrici<br />
bisogna ricordare la Subligny, la Des Chars, la Prevost, la Sallè e la Camargo. Quest’ultima, di<br />
nascita belga, e la francese Marie Sallè ben presto si staccarono l’una dall’altra per lo stile<br />
diverso.<br />
Lo stile della prima era tutto teso a sbalordire sul piano tecnico, brillantissimo, con una serie<br />
di entrechats sorprendenti in un elemento femminile per quale questo exploit della tecnica<br />
non parrebbe congeniale, bensì riservato all’elevazione degli uomini. Mentre, la Sallè tendeva<br />
forse più all’espressività e Noverre, del quale si parlerà in seguito, la elogerà molto per<br />
questo. Entrambe brave le definì Voltaire, senza sbilanciarsi. Erano nate tra i primi del<br />
Settecento e terminarono entrambe dopo la metà del secolo. Danzarono pressappoco gli stessi<br />
balletti. Sarebbe interessante a questo punto cercare di stabilire se anche nella pura e sola<br />
tecnica non vi sia un’autentica poesia derivata esclusivamente dal movimento al di là del<br />
fenomeno virtuosistico ginnico- saltatorio e quindi una espressività a suo modo, o se questa<br />
vada cercata solamente laddove la tecnica è annullata. Sarebbe come dire: la tecnica fine a se
stessa da una parte e la tecnica come mezzo per arrivare ad un altro risultato, eterno<br />
problema.<br />
Un’altra danzatrice dell’epoca molto celebre fu Barbara Campanini, detta Barbarina. Nata a<br />
Parma nel 1721 era giunta a Parigi giovanissima; fu bravissima pare a battere l’entrechat-<br />
huit, superando in quel modo le rivali del suo tempo. Fra le altre virtuose si ricordano: Louise<br />
Madeleine Lany, famosa per il suo entrechat- six, e Marie Guimard, rivolta maggiormente<br />
verso la danza di carattere e la pantomima, quindi con maggiori facoltà espressive.<br />
LA RIFORMA:LA NASCITA DEL <strong>BALLETTO</strong> AUTONOMO<br />
Nel clima dell’Enciclopedia e dell’Illuminismo si trovano molte persone reazionarie contro<br />
l’edonismo virtuosistico, tese verso una riforma severa della danza giunta ad un formalismo<br />
preoccupante, ad un’esteriorità che escludeva ogni intervento contenutistico, scartando le<br />
peculiarità di un’arte. Ci volle l’opera non solo di un riformatore, ma soprattutto anche di un<br />
divulgatore teorico, e questi fu Noverre. Non è che non vi siano stati dei precursori, ma egli<br />
ebbe il grande merito di codificare le sue ricerche e di lasciare un monumento teorico che va<br />
sotto il nome di “Lettere sulla danza”.<br />
È attraverso la riforma del costume che si operò dapprima la rivoluzione coreografica di<br />
Noverre. Dal costume, alleggerito ed accorciato per ragioni estetiche, ed anche per dare<br />
maggiore disinvoltura ai movimenti, Noverre passò alle maschere che furono soppresse nel<br />
1772, grazie al suo intervento. Esse toglievano ogni possibilità espressiva al danzatore e<br />
riuscivano, oltretutto, molto scomode a portarsi durante la danza.
È d’obbligo comunque parlare prima di chi gli fu accanto e preparò il terreno o è, in ogni<br />
modo, considerato un precursore della sua riforma, soprattutto nella nota teoria del “balletto<br />
d’azione”. Secondo la storia Franz Anton Hilverding Van Wewen (Vienna, 1710-1768)<br />
maestro di Gasparo Angiolini, fu il precursore di Noverre. L’Hilverding lavorò fra Parigi e<br />
Vienna soprattutto, ballerino e coreografo di un genere che fu detto “pantomimico”; andò<br />
anche in Russia e quando tornò a Vienna, ebbe l’incarico di maestro di ballo e di corte che<br />
trasmise a Noverre nel 1767 all’epoca del suo soggiorno viennese. Sembra però assodato che<br />
più importante del suo maestro Hilverding e così pure del Noverre, sia stato Angiolini per<br />
una vena compositiva più diretta senza la mediazione programmatica che faceva velo a<br />
Noverre. Difatti Angiolini fu in polemica con Noverre, gli rimproverava l’eccessiva<br />
programmaticità nei suoi balletti. In definitiva, l’opera di Noverre era carica di riferimenti<br />
letterari e troppo concettosa. Angiolini, invece, badava maggiormente all’immediatezza<br />
dell’ispirazione e dell’estro creativo. Egli diceva: con i soli precetti non si crea nulla, semmai<br />
essi possono venire dopo le creazioni, esserne figli, derivazioni logiche. C’è sempre pericolo,<br />
soprattutto in un teatro di danza che, a caricare i lavori di spiegazioni e di concetti, si finisca<br />
di non trovarvi nulla di quanto si era voluto programmare con tanta enfasi. Parte di questa<br />
polemica si trova nelle “Riflessioni sopra l’uso dei programmi nei balli pantomimi” (Londra<br />
1775) scritte dall’Angiolini. Questi, nato a Firenze nel 1731, apprese la danza, e pure la<br />
musica, dai genitori. Nel 1757 diventa coreografo al teatro regio di Torino. Nota è la stretta<br />
collaborazione tra Angiolini e Gluck; ad Angiolini si devono la creazione del “Ballo-<br />
pantomima tragico”, “Don Juan”, con lui stesso protagonista, le danze dell “Orfeo ed<br />
Euridice” (!762), il balletto “Semiramide” (Vienna, 1765) tratto dalla tragedia di Voltaire e poi,<br />
sempre con la musica di Gluck, “L’orfano della Cina”, Vienna 1774, ancora tratto da Voltaire.<br />
Egli non operò solo a Vienna, fu a Pietroburgo nel 1766 dove venne nominato maestro di<br />
ballo della Corte Imperiale, (si ricordi che nel 1738 venne fondata presso il Teatro Marijnskj di<br />
quella città l’Accademia di danza che cominciò a dare i frutti che tutti conoscono).
Angiolini vi rimane per sei anni e un balletto come “La partenza di Enea o Didone<br />
abbandonata, basato sul melodramma di Metastasio, ha molto successo. In Italia lavora a<br />
Venezia e Milano, poi torna in Russia.<br />
Quando torna a Milano, nel 1797, si schiera, in pieno fermento della Rivoluzione francese,<br />
dalla parte giacobina. Le sue opere rivelano anche questa sua mentalità e per questa presa di<br />
posizione è imprigionato dagli austriaci nel 1799. Muore a Milano nel 1803.<br />
Nella riforma Settecentesca, Angiolini giganteggia, anche se non da solo ma in buona<br />
compagnia, per aver contribuito all’evoluzione pantomimica della danza per lo meno nella<br />
stessa misura di Noverre.<br />
Il Don Giovanni è comunque il primo capolavoro del genere nella storia del balletto e nacque<br />
anteriormente alle opere maestre di Noverre. Al posto delle evoluzioni virtuosistiche, questo<br />
balletto fu subordinato ad un racconto. Esso era una rappresentazione danzata di un<br />
dramma, come l’opera gluckiana ne era la rappresentazione cantata. Ecco il caso parallelo:<br />
Angiolini crea la pantomima misurata al posto di quella camminata noverriana, e Gluck<br />
perfeziona il recitativo arioso contrapponendolo a quello secco dei suoi predecessori. E visto<br />
che il “Don Juan” precede “Orfeo ed Euridice”, si può concludere che è stata la riforma del<br />
balletto a dare avvio a quella dell’opera. Ancora il nome di un italiano nel balletto d’azione:<br />
Vincenzo Galeotti (Firenze, 1733- Copenaghen, 1816) messaggero di quest’arte nel Nord<br />
dell’Europa. Fu maestro di ballo e coreografo al Teatro di Copenaghen, creandovi una scuola<br />
e stile ancora oggi seguiti e fiorenti in Danimarca. I suoi “Caprices de Cupidon et du Maitre<br />
de ballet”, rappresentati per la prima volta al Teatro dell’Opera Reale Danese a Copenaghen<br />
il 31 ottobre del 1786, sono infatti nel repertorio del Kongelige Danske Ballet a cura di Harald<br />
Lander che li allestì all’Opèra di Parigi il 27 febbraio 1952 con scene e costumi di Chaplain-<br />
Midi. Questo, insieme a “La fille mal gardèe”, è il più vecchio balletto del repertorio europeo<br />
pervenuto sino a noi.<br />
Jean Georges Noverre nacque a Parigi il 29 aprile 1727 e morì a Saint Germain en Laye il 19<br />
ottobre 1810. Di ascendenza svizzera da parte di padre, fu educato da lui che lo voleva
indirizzare alla carriera militare; ma la passione per la danza e per il teatro era più forte e così<br />
lo condusse alla scuola di Duprè. Il suo debutto come danzatore avvenne in sordina nel 1742<br />
a Fontainbleu davanti alla corte di Luigi XV. Por si reca a Berlino da Federico II il Grande, ma<br />
non si trova d’accordo con la rigidezza delle feste reali. Torna quindi in Francia, nel 1747, e<br />
due anni dopo è all’Opera Comique di Parigi ove allestisce molti lavori nello stile del<br />
divertissement. Di questo genere sarà considerato un epigone e “Les fetes chinoises” del 1754<br />
ne saranno l’ultima testimonianza. Nel 1755 va in Inghilterra e stringe amicizia con il grande<br />
attore shakespeariano David Garrick il quale, a sua volta, definirà Noverre lo Shakespeare<br />
della danza. Noverrè rimase incantato dalla potenza dell’attore, dalla sua completezza<br />
scenica; dopo averlo visto recitare, maturò in lui la convinzione di poter trovare nell’arte della<br />
coreografia un equivalente dell’espressività drammatica. Tornato in Francia non gli riesce<br />
l’accesso all’Opèra, nonostante i vari tentativi di Mme de Pompadour di cui è il protetto. Si<br />
accontenta dunque del posto di maître de ballet al teatro di Lione ove rimane tre anni, dal<br />
1758 al 1760. È proprio li che Noverre stende le sue famose “Lettres sur la danse et sur les<br />
ballets”. In procinto di lasciare Lione ne pubblica la prima edizione contemporaneamente a<br />
Stoccarda dove si trasferisce chiamatovi dal Duca Carlo Eugenio del Wurtemberg.<br />
Bisogna segnalare almeno tre opere del periodo lionese, “Il geloso senza rivale” e due<br />
turqueries: “L’amore corsaro” e “Le feste al Serraglio”.<br />
A Stoccarda gode di tutta la munificenza del piccolo stato che è uno dei centri europei più<br />
importanti della danza. Noverre dispone di un corpo di ballo di cento elementi e come primo<br />
ballerino spicca il fiorentino Gaetano Vestris, ospite dall’Opèra di Parigi. Al mecenate,<br />
Noverre dedica le sue Lettere, per le quali riceve apprezzamenti da Voltaire e Diderot, fra gli<br />
altri.<br />
A Stoccarda, Noverre allestisce un numero considerevole di balletti, tra i quali i più<br />
importanti sono i seguenti: “Le jugement de Paris”, “Venus et Adonis”, “Mèdèe”, “Antoine et<br />
Clèopatra”, “Psychè”. Nel 1770 è chiamato a Vienna in qualità di sovrintendente alle feste per<br />
il matrimonio dell’Arciduchessa Carolina, Regina di Napoli. Noverre, dopo aver dato alla<br />
Corte una dozzina di balletti, è nominato maitre de ballet, direttore delle feste di corte,
maestro di danza dell’Imperatrice Maria Teresa e della famiglia imperiale, carico di onori e di<br />
favori, lodatissimo da tutti. Finalmente nel 1776 riesce ad entrare all’Opèra grazie anche<br />
all’interessamento di Maria Antonietta, sua allieva dei tempi trascorsi ed ora Regina di<br />
Francia. Noverre viene quindi nominato maestro di balli in capo dell’Accademia Reale di<br />
Musica e Danza, e dirige le feste del Petit Trianon; a l’Opèra crea i famosi “Petits riens” 5 tutti<br />
pervasi di smagliante grazia francese, e presenta “La toilette de Venus”. Nel 1781 l’Opèra<br />
brucia; viene ricostruita al più presto ma un altro incendio è alle porte, la rivoluzione.<br />
Noverre si rifugia a Londra dove compone “Le nozze di Teti” e “Ifigenia in Aulide”. Morirà<br />
nel 1810.<br />
Ma perché è così importante Noverre? Di certo l’eredità lasciataci nelle sue Lettere ci permette<br />
di capire in cosa consista la Riforma. Ci sono varie edizioni delle Lettere, la più completa è<br />
quella delle edizioni Lieutier di Parigi (1952) ricca di note e documentazioni.<br />
Noverre fece una distinzione fra danza meccanica e danza d’azione. Con la prima intendeva<br />
definire la danza che si affidava al puro tecnicismo; mentre con la seconda si voleva<br />
specificare un genere di danza che si basava su di un racconto e che per esprimersi aveva<br />
bisogno sia dell’intervento pantomimico, onde spiegare i vari casi della vicenda, sia della<br />
danza pura per circoscriverli e concluderli.<br />
Un altro postulato noverriano era l’imitazione della natura secondo i tempi e le teorie<br />
ricorrenti. Egli scrive nella lettera XII sulla composizione dei balletti “La poesia, la pittura e la<br />
danza non sono, mio Signore, o almeno non dovrebbero essere che una copia fedele della<br />
bellezza della natura.”<br />
Per constatare quanto a Noverre premesse un’affermazione completa della Danza come arte,<br />
e come strenuamente si battesse per imporla e farla apprezzare al mondo intero, citiamo un<br />
altro passo che chiude la lettera XIII (regole da seguire nella composizione dei balletti).<br />
“ converrò che l’esecuzione meccanica di questa arte è portata ad un grado di perfezione che<br />
non lascia nulla a desiderare; aggiungerò anche che talvolta essa ha delle grazie, ma la grazia<br />
non è che una piccola parte delle qualità che deve avere. I passi, la facilità e il brillìo del loro<br />
5 Una parte della musica gli viene fornita dal giovane Mozart.
coordinamento, l’equilibrio, la stabilità, la rapidità, la precisione ecco ciò che chiamo il<br />
meccanismo della danza…….che un uomo di genio disponga le lettere, formi e leghi fra loro<br />
le parole, e la danza cesserà di essere muta, parlerà con tanta forza quanta energia e i balletti<br />
allora divideranno con i migliori lavori del teatro la gloria di intenerire, di commuovere fino<br />
alle lacrime, e di sedurre, divertire e piacere nei generi meno seri. La danza, abbellita dal<br />
sentimento e guidata dal genio, riceverà infine, con gli elogi e gli applausi che tutta Europa<br />
accorda alla poesia e alla pittura, i riconoscimenti di cui queste sono onorate.”<br />
Un danzatore che si esibisce e ha doti di bella presenza o semplicemente di grande capacità<br />
tecnica o possiede entrambe le qualità, sia donna che uomo, ha certo una presa molto facile<br />
sul pubblico. Per un creatore che non appare alla ribalta e sta dietro le quinte, ma grazie al<br />
quale, tutto ciò che avviene sul palcoscenico è opera sua, il delirio del pubblico non lo tocca.<br />
Solo uno spettatore attento conoscitore dell’arte o un critico competente o uno studioso sa<br />
quanta fatica è costata all’allestitore il coordinamento di tanti e svariati fattori positivi<br />
nell’economia dell’opera rappresentata.<br />
Gaetano Vestris (1729-1808) fiorentino come Angiolini, allievo di Duprè come Noverre, fu il<br />
grande danzatore di cui parliamo, Le dieu de la danse come amò chiamarlo il pubblico, ma<br />
come coreografo solo un modesto imitatore di Noverre. Egli non aveva doti fisiche; dovette<br />
perciò lottare contro un limite, in compenso la sua tecnica e la sua espressività erano<br />
sbalorditive.<br />
Vestris debutta all’Opèra di Parigi ma la lascia ben presto per seguire una tournèe europea<br />
con i fratelli, da Berlino sino a Torino dove al Regio presenta il suo primo balletto: “Giacomo<br />
sacerdote”, nel 1775. Parigi lo riaccoglie in trionfo. Vestris lavora anche a Stoccarda con<br />
Noverre nel ’63 e nel ’68 è all’Opèra direttore- coreografo del balletto del teatro.<br />
Il figlio Augusto lo eguagliò; danzò fino a tarda età, fu il classico virtuoso dell’epoca,<br />
millantatore vanesio come può esserlo soltanto un virtuoso, ma era amatissimo dal pubblico.
Ma non tutto l’accademismo va inteso in funzione sola ed esclusiva di virtuosismo.<br />
Accademismo vuol dire regola, canoni, purezza di linee e di forme, un ritorno al classicismo.<br />
E ciò fu rispettato anche dai suddetti riformatori del balletto.<br />
Dunque solo il contenuto e la forma autonoma, fatta esclusivamente di pantomima, danza<br />
espressiva e danza ornamentale, ovvero ormai senza recitazione parlata e cantata, si sono<br />
mutati.<br />
La danza accademica continua a fiorire, ma, per influenza della nuova drammaturgia, essa si<br />
evolve spiritualmente.<br />
NUOVI SVILUPPI SINO ALL’APOGEO DELLA RIFORMA<br />
La danza accademica è pervenuta con il tardo Settecento alla maturazione della sua tecnica<br />
attraverso gli stadi che si sono esaminati e nel primo Ottocento si presenterà pronta ad<br />
accogliere tutti i mutamenti dell’arte che sempre si rinnova pur essendo legata allo<br />
svolgimento incessante della tradizione. Così le idee della Rivoluzione francese si vedono<br />
riflesse anche nell’arte. Si cercano, fra l’altro, soggetti che abbiano qualcosa in comune con la<br />
realtà dei tempi nuovi. Il più tipico balletto che immette nell’azione danzata un elemento di<br />
carattere realistico è la “fille mal gardèe” di Dauberval. I personaggi di questo celebre balletto<br />
sono desunti dalla vita quotidiana. Esso tratta dei contrasti di una coppia di innamorati sullo<br />
sfondo di una campagna e di una fattoria con il suo colore e la sua nota pittoresca.<br />
Persone di tutti i giorni dunque s’incontrano nella vita, una rinuncia al fasto macchinoso del<br />
balletto eroico, allegorico, mitologico che ritornerò a spuntare con Viganò in pieno<br />
neoclassicismo e con la tendenza al ritorno ai grandi temi dell’antichità e del classicismo<br />
greco- romano. Perciò il periodo sarà detto neoclassico.
Jean Dubervalle, allievo di Noverre, è importante non solo per il balletto sopra citato, ma<br />
anche come danzatore. Egli nacque nel 1742 e morì nel 1806. La sua “Fille mal gardèe” fu<br />
destinata a restare nel repertorio dei grandi complessi di balletto. 6<br />
Altri due notevoli danzatori e coreografi furono i fratelli Gardel. Soprattutto si ricorda Pierre;<br />
il fratello Maximilien fu maestro di ballo all’Opèra e si dice abbia inventato il “rond de<br />
jambe” (ma esiste una rivendicazione da parte di Vestris).<br />
Max Maximilien Gardel (Mannheim 1741- Parigi 1787), debuttò all’Opèra di Parigi nel 1775,<br />
interprete dei principali ruoli creati da Gaetano Vestris, nominato maestro di ballo aggiunto<br />
di Dauberval nel 1773 e poi ne 1781, dopo il congedo di Noverre, autore di numerose<br />
coreografie. Rifiutò per primo l’uso della maschera.<br />
Pierre più giovane di lui (Nancy 1758- Parigi 1840) con una vita artistica molto più lunga, fu<br />
eccezionale “danseur noble”, prima di diventare coreografo. Rimpiazzò suo fratello nel 1787<br />
come maestro di ballo e coreografo.<br />
Pierre Gardel compose dapprima alcuni divertissement nelle opere, poi allestì balletti fra cui<br />
spicca, per il suo carattere decisamente politico o patriottico, l’Offrande à la libertè (1792).<br />
Questo balletto era accompagnato dalla musica della Marsigliese ed aveva uno spiccato<br />
carattere giacobino, secondo i tempi rivoluzionari.<br />
Un ritorno al passato è la “Dansomanie” che reca la data del primissimo Ottocento, una<br />
coreografia tutta basata sul fasto e sul virtuosismo. Fra le danze di moda appariva il primo<br />
valzer. Da notarsi che questa danza, sul finire del secolo XVII, recava il nome di volta, per il<br />
volteggiare delle coppie, caratteristica di questo ballo di società passato anch’esso, come altri,<br />
dalla piazza alla sala, in feste pubbliche e private, parallelamente all’evoluzione della danza<br />
teatrale.<br />
Fra le danzatrici e i danzatori del tempo, così ricco di fermenti e di innovazioni, si ricordano i<br />
nomi di Anne Heinel (1773-1808), moglie di Gaetano Vestris ,molto lodata da Noverre e alla<br />
quale gli storici assegnano l’introduzione della piroetta in Francia; M.lle Duthè, la Auretti,<br />
una danzatrice italiana molto popolare a Londra, Giovanna Bacelli Zanerini, interprete di<br />
6 Si ricorda la versione curata per il Royal Ballet, al Covent Garden di Londra da Frederick Ashton.
Creusa nel balletto “Medea e Giasone” di Noverre e membro della Compagnia che<br />
quest’ultimo istituì a Londra nella sua prima stagione al King’s Theatre nel 1774; Marie<br />
Allard (1742-1802) particolarmente adatta al genere brillante, allieva di Gaetano Vestris,<br />
anche suo partner da cui ebbe un figlio, il celebre Augusto; Marie Madeleine Guimard (1743-<br />
1816) ballerina di “demi caractère”, vale a dire più portata per i ruolo espressivi che per la<br />
danza virtuosistica; Charles Le Picq (1749- 1806), Louis Duport (1793-1853), Jean Etienne<br />
Desprèaux (1748-1820) marito della Guimard, danzatore e maestro di ballo all’Opèra di<br />
Parigi, anche scrittore e poeta.<br />
In tanto fervore di iniziative sorse anche un pre- romanticismo coreografico: in Francia fu<br />
rappresentato da Louis Milon con il suo “Paolo e Virginia” (1806) ricavato dal celebre<br />
romanzo di Bernardin de Saint- Pierre.<br />
Salvatore Viganò fu l’uomo destinato a risolvere i problemi stilistici manifestatisi nei contrasti<br />
tra le esperienze divergenti di Noverre e Angiolini. Egli non accettò la suddivisione dei mezzi<br />
espressivi del balletto in pantomime, siano camminate o misurate, e in danze, siano<br />
espressive o ornamentali, ma puntò decisamente verso una perfetta sintesi: tutto deve essere<br />
danza in un balletto, danza nei molteplici aspetti della sua qualità d’arte rivelatrice di<br />
qualsiasi ispirazione. Il Viganò cercò di rappresentare i suoi temi in movimento puramente<br />
coreografico, espressivo ed architettonicamente disciplinato e costruito. Egli fu l’inventore del<br />
genere chiamato “coreo- dramma”, vale a dire che l’azione era effettivamente espressa tutta<br />
in puri termini di danza: il dramma della danza. Viganò risulta essere il primo anello di una<br />
lunga catena che unisce Noverre agli esponenti odierni della danza- dramma. Altra<br />
caratteristica di Viganò era dunque l’estremo scrupolo compositivo anche nell’associazione<br />
musica- danza.<br />
C’era sempre nella condotta del suo disegno coreografico un “leit- motiv” per cui, non solo si<br />
riconosceva la mano del coreografo ma si perveniva alla tanto conclamata coerenza formale: i<br />
passi e le evoluzioni non erano lasciati al caso, ma scaturivano da una vera e propria necessità<br />
compositiva che si era fatta scientifica e dava luogo alla chiara unità dell’opera. Si dice che i<br />
suoi balletti fossero molto difficili ad eseguirsi e da ricordare. Cosa molto probabile perché
per seguire il filo della composizione, succedeva che le varianti in uno stesso brano danzato o<br />
in una variazione fossero minime sempre per assicurare l’omogeneità dell’impianto e della<br />
costruzione generale. La sua maestria nelle scene di massa fu grande ed unica.<br />
Grazie a Viganò, la Scala divenne un centro coreografico di fama mondiale e le sorti del teatro<br />
si alzarono di molto. Il massimo teatro milanese si inaugurò la sera del 3 agosto 1778 con<br />
un’opera del Salieri e due balli. Il gusto per lo spettacolo coreografico crebbe con gli anni al<br />
punto che si ritenne necessaria la costituzione di un corpo di ballo stabile dal quale il teatro<br />
potesse attingere per le sue rappresentazioni di balli, i quali solevano accompagnare o<br />
melodrammi secondo la tradizione ottocentesca.<br />
Collaterale al teatro sorse, nel 1813, la Imperial Regia Accademia di Ballo, dalla quale<br />
uscirono le migliori danzatrici dell’epoca e i migliori maestri, Carlo Blasis fra i primi.<br />
I movimenti rivoluzionari, s’è visto, in Francia come in Italia, avevano suscitato un<br />
equivalente interesse nel campo coreografico. In riferimento a questo bisogna ricordare il<br />
“Ballo del Papa” (1797) divenuto famoso più sul piano della disputa patriottica che su quello<br />
artistico.<br />
Era una competizione di chiaro contenuto anticlericale, una satira contro Pio VI e la sua<br />
politica anti- francese. La storia o la politica come materia per una trama di balletto non è cosa<br />
nuova ma ne ha fatte sempre le spese il buon gusto.<br />
Ma torniamo a Salvatore Viganò per capire lo stato della danza teatrale in Italia nella prima<br />
decade del secolo diciannovesimo. Egli nacque a Napoli nel 1769 e proveniva da una famiglia<br />
di danzatori. Anche la musica faceva parte della vita della sua famiglia, visto il nome dello<br />
zio, Luigi Boccherini. Quindi ricevette studi musicali e coreutici con successivo debutto a<br />
Roma in giovanissima età. Ben presto in Spagna è scritturato come danzatore dal famoso<br />
coreografo Dauberval e ha occasione di conoscere una danzatrice: Maria Medina, che<br />
diventerà sua moglie. Insieme percorreranno l’Italia in lungo ed n largo, danzando in coppia,<br />
ed ebbero molto successo anche a Bordeaux, Londra, Amburgo, Praga e Dresda.<br />
Nel 1797 Viganò è all’Opèra di Berlino già anche come coreografo. Ma il suo grande momento<br />
è quello di Vienna: il 28 marzo 1801, in cui crea “Le creature di Prometeo” ed è Beethoven che
gli scrive le musiche. Seguirono “I giuochi istmici” e “Il noce di Benevento” per il quale<br />
balletto Stendhal fece un paragone con Shakespeare: “ Il balletto alla Viganò ha una rapidità<br />
alla quale Shakespeare stesso non può arrivare”. Questi balli fantastico- allegorici denominati<br />
da Carlo Ritorni “pantomimo- drammi” fanno parte della prima maniera di Viganò.<br />
Nel 1804 torna in Italia e chiarifica il contenuto coreografico, spesso oscuro per eccesso di<br />
emozione e di motivi allegorici, semplificandolo attraverso il realismo storico come nella<br />
tragedia pantomimica del “Coriolano” (da Shakespeare) rappresentato al teatro Carcano di<br />
Milano nel 1804. Altri balletti minori presenta a Milano, Venezia, Roma, Padova. Proprio alla<br />
Fenice di Venezia, nel 1809, “Gli strelizzi” con scenografia di Alessandro Sanquirico hanno un<br />
grande successo. Questo balletto che narra della congiura degli Strelzi sul finire del Seicento,<br />
raggiunge la grandezza tipica del coreodramma di Viganò, superamento del ballo d’azione di<br />
Angiolini e Noverre e del divertissement fine a se stesso. Sarà il Prometo, rifacimento del<br />
grande ballo viennese delle Creature, a consolidare quella conquista artistica del dramma<br />
danzato di Viganò. Dramma epico con grande impiego di masse e un notevole sviluppo della<br />
forma architettonica, richiese un lungo periodo di prove, da parte del suo autore, una<br />
dedizione completa e struggente. Il balletto andò in scena il 22 maggio 1813, fra gli interpreti<br />
la Pallerini, scene in stile neoclassico del Sanquirico, musiche di Mozart, Beethoven, Haydn e<br />
dello stesso Viganò. La critica spese per quest’opera fiumi d’inchiostro, risultato fu il conio di<br />
una medaglia in onore di Viganò. L’ultimo suo grande coreodramma prima della morte, fu “I<br />
titani” con musiche preponderanti di Rossini, apice un poco magniloquente e pretenzioso<br />
dell’arte coreografica viganoviana. Viganò muore prematuramente nel 1821.<br />
Diamo ampio spazio a questo artista perché rappresenta la figura che domina incontrastata<br />
agli inizi del secolo diciannovesimo, tutta aureolata del romanticismo che cominciava a<br />
delinearsi ed ad espandersi attraverso gli spiriti di Goethe e Beethoven.<br />
Viganò compose una cinquantina di balli: quindici appartenevano alla cosiddetta prima<br />
maniera, i restanti a coreodrammi, balli comici e divertissements. I contemporanei lo<br />
esaltarono, solo per alcune opere più complesse e strutturalmente ardite ci fu incomprensione<br />
e intolleranza, ma la lode fu in genere entusiastica e l’epigrafe adeguata alla conclamata
grandezza. Ci fu indubbiamente una notevole riforma tecnica ed estetica del ballo grande.<br />
Tutto ciò che avevano vagheggiato o tentato i suoi predecessori fu attuato da Viganò e gli<br />
imitatori che seguirono non furono all’altezza.<br />
Viganò raccolse da Dauberval, di cui fu allievo, l’eredità noverriana. La tecnica brillante ed<br />
aggraziata era certamente francese, la l’espressività che immetteva nei suoi balli era piena di<br />
fuoco mediterraneo. Con il passaggio totale alla coreografia, la personalità di Viganò si<br />
afferma. Ciò avviene nel periodo milanese. Sulla vasta scena della Scala egli può manovrare<br />
un’armata di danzatori e comparse, avendo come collaboratore Sanquirico.<br />
Secondo Prunières, prima di Viganò si ignorava l’arte dei gruppi. Con Viganò, invece, ogni<br />
danzatore conserva la propria individualità nell’insieme.<br />
Nemmeno Viganò fu comunque esente da critiche, non tutti ne apprezzarono il talento, e ci fu<br />
chi lo accusò di sacrificare la brillante tecnica francese per l’intensità dell’intenzione<br />
drammatica.<br />
In ogni modo, Viganò agli albori dell’Ottocento è l’anello di congiunzione che lega il<br />
Classicismo al Romanticismo. Forse solo nell’arte del balletto classico e romantico riescono a<br />
toccarsi, fondersi, identificarsi. Ma classico non significa soltanto armonia di forme e di linee,<br />
compostezza ritmica e figurativa ma trasporto elegiaco, struggimento poetico, impulso<br />
drammatico e battagliero. Così romantico non è solo lunare trasparenza e lirico abbandono,<br />
ma impeto caldo e sanguigno; allora possiamo dire che l’ora era già scoccata per il<br />
Romanticismo di danza, proprio mentre il balletto accademico stava cristallizzandosi e Blasis<br />
era li pronto a lavorare una pietra dura come il diamante, sfavillante di una luce che ancora<br />
oggi getta su tutto il mondo del teatro di danza i suoi accesi bagliori.<br />
IL <strong>BALLETTO</strong> PRE-ROMANTICO
Il balletto pre- romantico inizia a delinearsi sul finire del secolo diciottesimo prima ancora del<br />
grande movimento iniziato da Viganò e si innesterà poi con le correnti degli epigoni<br />
viganoviani per sfociare nel gran ballo romantico.<br />
Precursore del Romanticismo, Louis Didelot (Stoccolma 1767- Kiev 1836) è considerato il<br />
fondatore della scuola russa per aver lavorato in Russia molti anni su di un terreno che era<br />
stato preparato alla semina da Hilverding e Angiolini. Nato in terra svedese da genitori<br />
francesi, Didelot operò per gran parte della sua vita all’estero e creò il balletto russo per cui le<br />
rivendicazioni nazionalistiche sono tre: svedese, francese e russa.<br />
La formazione avvenne sotto la guida di Dauberval (a Bordeaux), Lany, Noverre, Vestris<br />
(all’Opèra di Parigi). Debuttò a Parigi nel 1790 accanto alla Guimard e nel 1796 allestì il più<br />
famoso dei suoi balletti “Flore et Zèphire” al King’s Theatre di Londra. In questo balletto si<br />
assistette, per la prima volta, all’introduzione dello “Stile volante” grazie al quale le ballerine<br />
comparivano in scena dando l’impressione di volare mediante l’aiuto delle funi. Le teorie di<br />
Noverre influenzarono tutta l’opera di Didelot dalla coreografia all’innovazione dei costumi.<br />
Didelot va a Pietroburgo nel 1801 e torna a Parigi nel 1811 per presentarvi il suo capolavoro:<br />
“Flore et Zèphire” nel 1815. Ritorna in Russia l’anno successivo, dove si stabilisce per il resto<br />
della sua vita. A Pietroburgo allestisce molti balletti e riforma l’insegnamento delle Scuole<br />
Imperiali. Il balletto sotto Didelot diventa intelligibile e leggibile , sviluppa il movimento<br />
delle masse, alleggerisce il costume, valorizza la plastica corporale e l’architettura<br />
complessiva della costruzione coreografica.<br />
Prima di parlare di Carlo Blasis, colui che è considerato il fondatore di un metodo vero e<br />
proprio di danza dal quale discenderanno gli altri del tardo Ottocento e primo Novecento, è<br />
d’obbligo elencare quegli artisti che proseguirono l’opera di Viganò o operarono<br />
parallelamente a lui nel campo della danza accademica sempre con la predilezione per i<br />
soggetti storico- mitologici, e che furono sostanzialmente classici, sia nella forma, che nello<br />
spirito.<br />
Parliamo di Gaetano Gioia (Napoli 1765-1826) autore di “Ritorno di Ulisse in Itaca”,<br />
“Andromeda e Perseo”, “Saffo”, “Cesare in Egitto”, “Gli Orazi e Curiazi”, “Gabriella d
Vergy”, ballo composto di musiche di Rossini e Meyerbeer con Antonia Pallerini,<br />
protagonista, Francesco Clerico, Louis Henry, Giovanni Galzerani (“Il corsaro”), Giovanni<br />
Casati, Antonio Cortesi (Pavia 1796- Firenze 1879) preannunciante forse un primo<br />
Romanticismo italiano, come vedremo Milon per la Francia. Il gusto di Cortesi era però<br />
troppo legato al neo- classicismo delle arti figurative e alle argomentazioni seguaci del teatro<br />
drammatico del tempo, con una predilezione per le arti mimiche su quelle danzate e una<br />
conseguente frattura. Maestro di perfezionamento della Reale Scuola di Ballo al Teatro Regio<br />
di Torino, egli compose per questo teatro numerosi balletti nel periodo 1826- 1829 e fra questi<br />
citiamo “Ines di Castro” del 1829; altro successo fu “Imelda e Bonifacio” del 1831.<br />
Ma passiamo al sopracitato Carlo Blasis. Egli si ricollega all’illustre tradizione trattatistica e<br />
didattica del Quattrocento italiano. Il suo “Codice di Tersicore” è destinato ad occupare un<br />
posto preminente nella biblioteca dello studioso di danza. Il suo “Traitè èlèmentaire, teorique<br />
et pratique de l’art de la danse” esce in lingua francese a Milano nel 1820 e dieci anni dopo a<br />
Forlì o lingua italiana, a cura del primo ballerino Piero Campilli.<br />
Fra le altre edizioni va ricordato, come ulteriore approfondimento dello studio della danza<br />
accademica, testo fondamentale, il “Code of Terpsichore” apparso a Londra nel 1828 e<br />
tradotto in lingua francese, due anni dopo, da Paul Vergnaud, per le edizioni<br />
dell’enciclopedia Roret con il titolo “Manuel complet de la danse”, composto di sei parti e<br />
completo di numerosissime figure di danza e di alcune musiche composte dallo stesso Blasis.<br />
Vi sono altre edizioni che escono a Parigi nel periodo 1866-84.<br />
Questo volume si compone di una storia della danza e del balletto e di uno sconfinamento<br />
nella danza folcloristica (italiana e spagnola). Le altre pari riguardano la teoria della danza<br />
teatrale, la pantomima, la composizione coreutica, la classificazione dei generi di balletto e la<br />
danza di società.<br />
Un altro libro scritto da Blasis appartenente ai primi anni della sua attività, pubblicato a<br />
Parigi, è “de l’origine et des progrès de la danse ancienne et moderne”. Nel 1847 egli pubblicò<br />
a Londra “Notes upon dancing” e nel 1864 uscì a Mosca un altro volume di carattere generale<br />
e sulle danze nazionali.
Il suo lavoro più ambizioso, non molto conosciuto, è “L’Uomo fisico, intellettuale, e morale”<br />
uscito a Milano nel 1857, illustrato da molti disegni dell’autore, perché Blasis era danzatore,<br />
coreografo, insegnante di danza, scrittore, compositore di musica, disegnatore e filosofo.<br />
“L’Uomo” è un monumento che sarebbe sufficiente alla gloria di un uomo. Vi sono studiati<br />
tutti i sentimenti umani come i principi fisici, e per primo il centro di gravità (cosa essenziale<br />
per un danzatore) già esaminato nel “Trattato elementare” partendo da tutti i movimenti<br />
propri a l’uomo, vale a dire, le direzioni. Questi studi si appoggiano al “Trattato della Pittura”<br />
di Leonardo da Vinci del quale riprende esempi e per il quale dimostra un vero culto. D’altra<br />
parte Blasis studia attentamente le grandi opere del passato della scultura e della pittura<br />
dando consiglio ai suoi allievi di prendere modello da quei capolavori soprattutto della<br />
scultura greca che sono un esempio sublime della perfezione delle forme umane e<br />
dell’espressione naturale. Blasis s’intrattiene particolarmente nel consigliare un buon studio<br />
con professori capaci, usciti da una buona scuola, che si siano distinti nell’esecuzione stessa<br />
della loro arte: “ Un semplice teorico non è sufficiente per l’esatta dimostrazione dei principi<br />
della danza. Maestri mediocri, in luogo di aumentare il numero dei buoni danzatori, non<br />
fanno che diminuirlo, perché tutto dipende dai primi elementi, una cattiva piega una volta<br />
presa è quasi impossibile cancellarla”.<br />
Un’edizione moderna del “Trattato” del 1820 è stata pubblicata in America, dal Kamin<br />
Publishers a cura di Mary Stewart Evans e, in Italia, nel 1965 a cura di Ugo Dell’Ara.<br />
Per capire meglio il procedere e il passaggio dalla grande scuola accademica francese a quella<br />
italiana basterà ricordate in ordine di tempo la successione dei maestri fondatori dei vari<br />
metodi da Beauchamps, primo maestro di ballo dell’Accademia di Danza (1661), a Louis<br />
Pècour (1653-1729) che gli successe , da Louis Duprè, il Grande, maestro di maestri, a Jean<br />
Georges Noverre (1727-1810), da Dauberval e Gardel a Carlo Blasis, Lepri e Cecchetti.<br />
Ma soffermiamoci sulla vita di Blasis. Nacque a Napoli nel 1795. La famiglia, quando è ancora<br />
bambino, si trasferisce in Francia. Egli studia lettere e arti e ciò porrà le basi umanistiche della<br />
sua formazione di futuro maestro di danza e coreografo. Dopo aver danzato a Marsiglia e<br />
Bordeaux nella stagione 1816-1817, fresco degli studi con Dutarque entra all’Opèra di Parigi e
vi compie un festoso debutto nel “pas de deux” di un’opera, con coreografia di Pierre Gardel.<br />
In seguito ballò in altre opere di Grètry e Winter, apprezzato per le doti di danseur noble.<br />
L’anno dopo è alla Scala in “Dedalo” e “La spada di Kenneth” di S. Viganò. Nel 1918 alla<br />
Fenice di Venezia danza accanto alla Pallerini nella “Mirra” di Viganò. Il suo debutto come<br />
coreografo avviene proprio alla Scala nel 1819 con “Il finto feudatario” che non ebbe successo<br />
e fu fischiato. Nel 1820 pubblica il suo primo libro, “Traitè èlèmentaire”. Prosegue nella sua<br />
attività di ballerino sino al 1834, girando praticamente tutta l’Italia.<br />
Successivamente passa a Londra al King’s Theatre. In Inghilterra compone alcuni balletti e<br />
scrive il “Code of Terpsichore”, nel 1828. Sul finire del 1830 lo troviamo alla Fenice di Venezia<br />
e un’incisione del tempo ce lo presenta come primo danzatore del Teatro del re a Londra,<br />
attuale primo danzatore nel grande teatro La Fenice, 1831. Una cronaca della “Gazzetta di<br />
Venezia”, ce lo descrive abilissimo artista dedito non ai salti, agli aerei balzi, alle pirouettes<br />
per stupire, ma tutto proteso verso una grazia di disegno ed equilibrio.<br />
Nel febbraio 1832 al Carlo Felice di Genova incontra Annunciata Ramaccini che sposa. Il 1834<br />
fu l’ultimo anno che Blasis si presentò come ballerino; l’anno seguente compose tre balli alla<br />
Pergola di Firenze ed altri mise in scena a Milano e Mantova nel 1836. Nel novembre 1837<br />
Blasis venne nominato Direttore della Imperiale Accademia di Ballo della Scala insieme alla<br />
moglie, vice direttrice, e ci rimarrà per sedici anni lasciando un seme fecondo, pedagogico e<br />
didattico. Tutta la sua attività sarà imperniata a Milano ove compose per la Scala e la<br />
Carnobbiana molte danze, balli, divertissements con brevi assenze a Londra, Parigi, Varsavia<br />
e Lisbona, nel 1861-1863 fu coreografo ed insegnante al Bolchoi di Mosca. Tornò a Milano<br />
nell’autunno del 1864 e riprese a scrivere. Morì nel 1878 nella sua villa sul lago di Como.<br />
Blasis è un ponte gettato tra la tradizione accademica (Noverre- Viganò) ed il balletto<br />
romantico appena sorgente. Grandi interpreti usciranno dalla sua scuola ed il suo<br />
insegnamento teorico- pratico sarà destinato ad avere una grandissima influenza su tutto il<br />
balletto della seconda metà dell’Ottocento e anche oltre. La danza è vista da Blasis sotto una<br />
luce umanistica: le arti sorelle concorrono veramente alla formazione dell’individuo e<br />
dell’opera d’arte.
La danza è una sintesi delle arto e il grande merito, la indiscutibile prerogativa di Blasis,<br />
consistono in questo enciclopedismo che era non solo dell’epoca per ragioni storiche e<br />
contingenti, ma nella sua stessa sensibilità di uomo ed artista, tutto rivolto al perseguimento<br />
di un ideale di classica bellezza.<br />
La scuola di Blasis è la scuola del ballerino classico; il balletto classico realizza con lui la sua<br />
entelechia. Non solo Blasis esercitò in tutto il secolo un’influenza grandissima e quindi anche<br />
sul balletto romantico, ma gli allievi dei suoi allievi ebbero il compito di recare al balletto<br />
moderno il seme di una didattica e le basi della scienza della quale oggi risplende tutto il<br />
mondo della danza accademica.<br />
IL <strong>BALLETTO</strong> ROMANTICO<br />
Con questa denominazione si suole indicare quel genere di danza teatrale, detto per<br />
l’appunto “balletto romantico”, sorto intorno al 1830. Il Romanticismo era nell’aria, nella<br />
letteratura, nelle arti, nel sentimento; normale quindi che la danza ne assimilasse l’essenza<br />
più evanescente.<br />
Il Romanticismo era nel costume, nella società e nella danza che questa società praticava. Si<br />
danzava il valzer ovunque. Il ritmo dei ¾ si era impossessato di tutto. Con il tempo avverrà<br />
un vero e proprio incrocio di questa danza con altre che ne subiranno l’influenza sino alle più
impensate combinazioni. Non v’è danza che sia entrata con maggior insistenza e fortuna nella<br />
danza teatrale in genere e nel balletto accademico (si ricordi il “pas de valse”, specie di<br />
“balancè” ricorrente e caratteristico di molte coreografie). Ma si tenga per chiara norma che<br />
non v’è danza popolare o di società che non sia stata immessa in quella teatrale.<br />
Se dopo l’evoluzione della danza in giro, vorticosa, sognante, carezzevole e trascinante come<br />
le volute stesse della musica sulla quale si appoggia, c’è stata un’involuzione progressiva<br />
proprio nella forma con lo staccare l’individuo e portarlo ad una ridicolizzazione di se stesso,<br />
questo è dovuto all’adozione di danze d’importazione; afro- americana da una parte, ispano-<br />
americana dall’altra, con il notevole svantaggio da parte europea, di poterle assimilare e<br />
convenientemente rappresentare in quella che è la loro caratteristica principale: la manifesta<br />
istintività.<br />
Per tornare al valzer, questa danza girata in tempo di ¾ derivata dall’austriaco e rusticano<br />
“ländler” la cui origine, o meglio, la cui apparizione si fa risalire intorno al 1780 ma che aveva<br />
un suo antecedente nella “volta” pure in 3/4 , questo valzer che rappresenta un’epoca,<br />
s’impossessò di tutti quanti, creatori ed esecutori, Strauss per primo, con il nutrito drappello<br />
delle grandi danzatrici dell’epoca romantica, che è fra le più lunghe che si ricordano nella<br />
storia dell’arte e del costume.<br />
Si potrebbe compilare un albero genealogico del valzer. Basterà ricordare che un embrione di<br />
valzer sta nel mozartiano “Don Giovanni” ed è sotto la veste dell”Allemande, nome generico<br />
per indicare il valzer, e precisamente quando le tre orchestre, alternandosi e fondendosi,<br />
accostano un minuetto, aristocratico, alla contraddanza, paesana, e alla popolare Allemande.<br />
Il 1840 segnò una svolta patriottica per i moti che agitavano il mondo un po’ ovunque e così<br />
sorsero la “krakoviak” (cracovienne in francese), la “polonaise”, la “varsovienne” e le<br />
internazionali “polka” e “mazurka”.<br />
Esiste un prezioso libretto, “danse des salons”, con gli incantevoli disegni di Gavarni, famosi<br />
per le innumerevoli riproduzioni, e un maestro del genere s’impone, è Cellarius. È alla moda,<br />
richiesto e conteso, idolo del momento e maestro della furoreggiante polka.
Così folklore, danza di società, danza accademica fanno comunella, si prendono per mano<br />
allora come oggi, e danno vita a quell’espressione meravigliosa dell’essere che è la danza.<br />
Non ci sono più tendenze, stili, principi, esiste solo la Danza, questa grande arte del corpo<br />
umano e dello spirito.<br />
È d’obbligo affrontando il capitolo del balletto romantico, partire subito dal principio<br />
motivatore dello stesso, e chiarire il concetto di romantico nel balletto.<br />
Nel vasto capitolo riguardante la danza teatrale succede, verso il 1830, che la tecnica del<br />
balletto giunta al perfezionamento del suo stile e al consolidamento del suo impianto<br />
strutturale grazie all’intervento di grandi maestri, si trasformi secondo gli spiriti del tempo e<br />
dia l’avvio al balletto romantico, il quale immette nella sua sostanza l’espressione del<br />
Romanticismo. Una delle principali caratteristiche del balletto romantico fu l’ispirazione del<br />
contenuto letterario- librettistico dell’epoca. I soggetti prendevano spunto, non più dagli<br />
argomenti classico- mitologici, ma dai racconti di carattere romantico di Goethe, Heine,<br />
Gautier. Lo stile, che aveva raggiunto con i primi dell’Ottocento uno sviluppo definitivo, subì<br />
delle modifiche, alcune delle quali furono raccolte dal Romanticismo. Per esempio: la tecnica<br />
della punta è d’origine romantica, anche se tutti i passi sulla punta provengono dalla mezza<br />
punta. Si dirà forse meglio che la danza comunemente detta classica, prese in tal modo un<br />
carattere romantico. È l’evoluzione della danza unita al movimento dei tempi nel nuovo<br />
indirizzo del costume, del sentimento, della letteratura. Uno dei moduli base di questa<br />
trasformazione estetica è il concetto della donna silfide, dell’immaterialità femminile,<br />
dell’ewigweiblich goethiano (l’eterno femminino) che domina su tutta la concezione del<br />
periodo e della sua letteratura. Quindi, prima della danza, viene la danzatrice, questo essere<br />
sovrannaturale, frutto di una idealizzazione simbolica. Appare perciò perfettamente naturale<br />
il ricorrere al sublime artificio della punta, al perfezionamento dell’èlèvation, congeniale<br />
all’innalzarsi e al librarsi del corpo della danzatrice, allo stile detto “ aèrien” appunto per quel<br />
tendere costante all’aereo, all’incorporeo, data la natura dei personaggi e le alette delle spalle<br />
segneranno questa tendenza al volo, mentre la vaporosità del tutù aggiungerà la sua parte di<br />
trasparenza materiale. Questi esseri fra la realtà ed il sogno, sono personaggi in verità un
poco sfuggenti dapprima ed edulcorati dopo dalla soverchia tradizione, ma molto<br />
rappresentativi del periodo. E non tutto sarà centrato sulla lievità delle figurazioni e quindi<br />
sull’aspetto più esteriore; sotto sotto scaturisce il dramma degli amori infelici, dell’impossibile<br />
raggiungimento di una gioia intensa perché breve, così prossima all’eterna malinconia<br />
dell’uomo che fu peculiare del Romanticismo.<br />
L’applicazione in sede coreografica di questa essenza romantica la si avrà con il balletto “La<br />
Sylphide” ed una data è importante, il 1832 segnerà, se non proprio la nascita, la<br />
puntualizzazione di quel movimento che fu detto balletto romantico. Esso è legato ad una<br />
grande danzatrice, Maria Taglioni. Per lei il padre, Filippo Taglioni, comporrà quella famosa<br />
coreografia destinata a divenire il modulo per tante altre silfidi della scena del balletto. La<br />
vicenda fu tratta dalla novella “Trilby” di Charles Nodier ad opera di un cantante lirico:<br />
Adolphe Nourrit. Si diede il caso che costui entrasse in amicizia con Filippo Taglioni<br />
nell’occasione di un divertissement da questi allestito per la figlia Maria, nell’opera “Roberto<br />
il diavolo” di Meyerbeer nella quale cantava appunto il tenore Nourrit. Nacque un’intesa e<br />
una possibilità di collaborazione fra i due.<br />
La prima edizione di quest’opera fu presentata a Parigi nel 1832, con musiche di Jean<br />
Schneitzhoeffer, con la presenza del ballerino Mazilier nel ruolo di James, di Mme. Eliè nella<br />
parte della strega, della scenografia di Ciceri, dei costumi di Lormier. Il balletto ambientato in<br />
Scozia, con quel tema di un essere sovrannaturale che s’innamora di un mortale compendiava<br />
il movimento romantico della letteratura. Nel momento in cui, grazie ai sortilegi di una<br />
strega, James riesce a catturare la diafana creatura, questa muore. Saranno le sue compagne a<br />
trasportarla nel loro regno immortale.<br />
Per ciò che riguarda la tecnica bisogna dire che la Taglioni trovò nella punta la sua ragione e<br />
sublimazione. Altre, forse più brave di lei, la impiegarono con risultati di arditezza<br />
virtuosistica, ma pare che la Taglioni divenisse un mezzo di espressione tramite il quale tutto<br />
il personaggio di delineava e modellava. Quella fragile aderenza al terreno sulla sola punta<br />
di un piede in una arabesque dalla quale si potrebbero tendere fili infiniti, altrettanto<br />
evanescenti, era l’esatta misura del personaggio, di un sentimento e di una situazione.
Più avanti con la decadenza del tardo Romanticismo, purtroppo, varrà soprattutto la bravura<br />
un poco o molto circense dei manèges e dei fouettès più ripetuti.<br />
Qualcosa della vita della grande Maria: nacque a Stoccolma il 23 aprile 1804, da madre<br />
svedese. Fu il padre , Filippo, figlio d’arte con fratelli danzatori, a provvedere all’educazione<br />
coreutica della figlia. La fece debuttare, diciottenne, a Vienna, nel giugno del ’22 in un piccolo<br />
e grazioso balletto, “La rèception d’une nymphe au temple de Terpsichore”. Poi danzò nella<br />
“Vestale”, opera di Spontini, e nel citato “Roberto il diavolo” nel 1831. L’anno dopo segna il<br />
trionfo della “Silfide”. Sempre su coreografie del padre danza in “Nathalie ou laitière suisse”<br />
e nella “Figlia del Danubio” (1836), musica di Adolphe Adam. Dal ’37 comincia il periodo<br />
delle tournèes della Taglioni a Pietroburgo, Londra, ed è scritturata nel ’41 alla Scala in<br />
concorrenza con Fanny Cerrito nella stessa serata. Il ’45 a Londra è molto importante: il<br />
coreografo Jules Perrot riesce a riunire quattro differenti temperamenti di danzatrici<br />
mettendole tutte e quattro nella giusta luce, senza intaccare la suscettibilità di ognuna,<br />
componendo un delicatissimo quadretto allo “her Majesty’s theatre” di Londra con il “Pas de<br />
quatre” sulla musica di Cesare Pugni.<br />
Le quattro stelle furono Maria Taglioni, Fanny Cerrito, Carlotta Grisi, Lucile Grahn. Nel ’47<br />
venne ripreso dalla Rosati al posto della Grahn.<br />
La sensazione fu grande; prima di allora, le quattro più grandi danzatrici dell’epoca non<br />
erano mai apparse insieme. La Taglioni danza ancora nel ’48 in Inghilterra, poi è la<br />
sospensione ed il ritiro dalle scene causato dal persistere del suo male al ginocchio.<br />
Napoleone III la nomina ispettrice all’Opèra” di Parigi nel ’59 e lei si dedica all’insegnamento.<br />
Compone per una sua allieva, la giovanissima Emma Livry, un balletto su musica di<br />
Offenbach “Le papillon”.<br />
La fine della Taglioni non fu brillante, morirà a Marsiglia nel 1884, in seguito a delle ustioni<br />
riportate durante una prova di ballo.<br />
Il balletto romantico, oltre all’affermazione della Taglioni, accomuna grandi nomi di<br />
coreografi e danzatori ma spesso sono fattori estranei all’arte ad avere il sopravvento specie<br />
negli elementi femminili. Il danzatore, il partner, di fronte alla prevalenza della danzatrice
quasi scompare per lasciare il posto, galantemente, alla stella trionfatrice della serata. Sono<br />
per lo più rivalità, intrighi a dominare la scena coreografica dell’Ottocento.<br />
La più grande rivale della Taglioni fu Fanny Elssler (Vienna 1810- 1884), rivale nel senso che<br />
entrambe avevano lo stesso grado di celebrità ma contavano, sullo stesso genere, su due<br />
temperamenti completamente opposti.<br />
La Elssler si spingeva verso il cosiddetto “demi-caractère”, vale a dire quel genere di danza<br />
con basi accademiche , pur con uno spirito sempre romantico, che immetteva nella tecnica<br />
una stilizzazione desunta dal folklore, da passi appartenenti al patrimonio popolare di questo<br />
o quel paese oppure da una maggiore espressività funzionale. Suoi cavalli di battaglia furono<br />
“le diable boîteux” di Coralli, “La Gypsie” di Mazilier, “La tempête” di Coralli, “Faust” di<br />
Perrot (1851) con il quale darà il suo addio alle scene a Vienna.<br />
Temperamento fortissimo, irrequieto e focoso, suscitò entusiasmi popolari ancora più vistosi<br />
di quelli della Taglioni ma visse anche vicende turbolente come le ostilità antiaustriache alla<br />
Scale, che dovette per queste abbandonare.<br />
Altra Fanny della danza fu la Cerrito (Napoli 1817-Parigi 1909) nota anche come la moglie del<br />
coreografo Arthur Saint- Lèon. Debuttò nella città natale; fu allieva di Perrot, Saint-Lèon,<br />
Blasis. Fu interprete di balletti come “Alma” di Perrot, “Ondine” “Jugement de Paris” “La<br />
Vivandière” su musica di Cesare Pugni e affiancata nella danza da Saint-Lèon, “Rosida”.<br />
Fu una delle più grandi ballerine della sua epoca, sul piano della Taglioni, senza averne la<br />
incorporea spiritualità. Vivace, energica, briosissima, ebbe una lunga carriera.<br />
Altra danzatrice di rilievo fu Carlotta Grisi (Istria 1819- Ginevra 1899) moglie del coreografo<br />
Jules Perrot; appartenente ad una famiglia di cantanti e ballerini. Studiò a Milano alla scuola<br />
di Blasis, danzò con Perrot, che divenne suo marito, e con Lucien Petipa, e si distinse con lui<br />
in un divertissement della “Favorita” di Donizzetti. Fu la grande ispiratrice di Thèophile<br />
Gautier che per lei scrisse il libretto do “Giselle”, e la prima interprete di grandi balletti<br />
dell’Ottocento romantico, oltre a Giselle che creò. Ecco gli altri balletti: “Jolie fille de Grand”<br />
(1842), “La Pèri” (1843), coreografia di Coralli, “Esmeralda” di Pugni e Perrot (1844),
“Paquita” (1845), “Pas de quatre” e “Le diable à quatre” (1845). La si può definire una via di<br />
mezzo tra la Taglioni e la Elssler; riuniva la spiritualità dell’una e la vivacità dell’altra.<br />
Su di un piano minore era Lucile Grahn, una delle quattro interpreti del balletto di Perrot.<br />
Nacque a Copenaghen nel 1819 e morì a Monaco di Baviera nel 1907. Fu l’interprete della<br />
“Silfide” danese di Bournonville. Danzò in Belgio, Germania ed anche in Italia, alla Scala.<br />
Viste le ballerine più significative, ci soffermiamo ora sui coreografi principi dell’epoca. Primi<br />
fra tutti, Jean Coralli, Peracini e Jules Perrot, creatori di “Giselle”.<br />
Per la prima volta nel balletto romantico si trovano riuniti sullo stesso piano d’importanza e<br />
di validità artistica due elementi, il letterario ed il musicale. Sul piano letterario, Giselle è<br />
dovuta a Thèophile Gautier che ne stese il libretto in unione a Vernoy de Saint Georges.<br />
Musicalmente, con motivi orecchiabili com’era in uso all’epoca e perciò forse un po’ facili,<br />
mai volgari o banali, funzionali certo per un balletto che doveva seguire una trama<br />
prestabilita. Proprio musicalmente i punti corrispondono a ciò che la coreografia si<br />
proponeva di narrare; Adolphe Adam diede con “Giselle” il suo capolavoro ballettistico.<br />
“Giselle” è forse il più bel balletto romantico che esista. Scene e costumi della prima<br />
rappresentazione all’Opèra di Parigi (1841) erano ancora del Ciceri. Nei tre ruoli principali di<br />
Giselle, Albrecht e Myrtha figuravano: Carlotta Grisi, Lucien Petipa, Adèle Dumilâtre. In un<br />
passo del libro sulla Germania, il poeta e romanziere Heinrich Heine descrisse la leggenda<br />
delle villi, delle fanciulle fidanzate e morte prima di andare a nozze. Come villi hanno il<br />
lunare destino di errare nottetempo intorno alle loro tombe, nei cimiteri. Giselle, giovane<br />
contadina, innamorata corrisposta del principe Albrecht, accortasi di essere tradita,<br />
impazzisce e muore. Venuto egli presso la tomba di lei a piangerla, incontra nuovamente<br />
l’amata ma questa è irraggiungibile perché gli appare come villi per sparire nuovamente<br />
sottoterra al sopraggiungere del nuovo giorno.<br />
Il personaggio di Giselle richiede nell’atto primo una grande ed intensa forza drammatica con<br />
altre punte di espressività mimica e nel secondo una bravura tecnica, una leggerezza, una<br />
vaporosità frammezzo passi, atteggiamenti, evoluzioni fra il patetico e l’evanescente davvero<br />
eccezionali. Per questo Giselle, alla distanza di tanti anni è ancora grande, arduo banco di
prova d’ogni danzatrice che si rispetti nell’ambito romantico. Qualcosa del genere accadrà<br />
per il duplice personaggio di Odette- Odile di “Lago dei Cigni”. Di “Giselle” si ricordano<br />
grandi nomi, grandi interpreti: dalla Grisi alla Elssler, Grahn, Cerrito, Rosati, Ferraris,<br />
Preobrajenska, Zambelli, Pavlova, Karsavina, Spessivtseva, Markova, Ulanova, Toumanova,<br />
Chauvirè, Darsonval, Vyroubova, Finteyn, Beriosova, Struchkova, Maximova, Fracci. Jean<br />
Coralli (1779- 1858) oltre che a “Giselle” creò “La Pèri” e “Le diable boîteux”.<br />
Jules Perrot (1810-1892) fu coreografo e danzatore di molto merito, riconosciuto per lo stile<br />
maschile “aèrien”, uno dei più grandi danzatori che la storia del balletto ricordi. Fu<br />
fecondissimo come coreografo. “Esmeralda (da Victor Hugo), “Pas de quatre”, “Ondine”,<br />
“Quattro stagioni”, “Les èlèments”, “Le jugement de Paris”.<br />
Arthur Saint-Lèon (1821-1870) ballerino e coreografo, si ricorda come teorico per la sua<br />
“Stènochorèographie”, che pubblicò nel 1852, metodo di scrittura o notazione per registrare i<br />
balletti. Creò “Le violon du diable”, “Giselle”, “La vivandière” in unione con la moglie<br />
Cerrito, “La source”, ma il suo capolavoro resta “Coppelia” (1870) o “La ragazza dagli occhi<br />
di smalto” con la trama stesa da lui insieme a Nüitter e desunta da un racconto di Hoffman<br />
per la musica di Lèo Delibes, rappresentata all’Opèra di Parigi nel 1870 con Giuseppina<br />
Bozzacchi nel ruolo di Swanilda. è uno dei balletti più popolari che si conoscano con un<br />
ritorno al “ballet d’action” dopo l’esclusione del movimento puramente romantico. Il balletto,<br />
sempre nella sua forma originale, è stato rappresentato svariate volte. Fra le molte versioni è<br />
da segnalare quella del Balletto Reale Danese che la rappresenta dal 1896.<br />
A questo punto è opportuno parlare della scuola e della tradizione illustre dei Bournonville:<br />
Antoine nacque nel 1760 a Lione e il figlio Augusto a Copenaghen nel 1805. Lo stile è quello<br />
francese di Noverre e di Vestris ed è rimasto pressoché immutato.<br />
Antoine fu scritturato nel 1782 come primo ballerino da Gustavo III di Svezia per allestire e<br />
danzare in seguito a Stoccolma il suo primo balletto: “les meuniers provençaux” (1785). Nel<br />
179 andò a Copenaghen ove fu mirabile interprete dei balletti del Galeotti, l’italiano in terra<br />
danese come Bournonville fu il francese in terra di Danimarca. 7<br />
7 Da segnalare che il balletto svedese e soprattutto il danese ancora oggi vivono dell’eredità lasciata da quegli artisti.
Dal 1816 Antoine Bournonville, succedendo a Galeotti, divenne maitre de ballet e direttore<br />
del ballo dell’Opèra Reale Danese. Morì nel 1843. Suo figlio, August, è considerato ballerino e<br />
coreografo danese essendo nato e vissuto a Copenaghen. Li diresse la Scuola di danza e poi<br />
divenne maître de ballet all’Opera reale. Egli creò trentasei lavori tra balletti e<br />
divertissements. Ricordiamo, “Waldemar” (1835), “Sylfiden” (1836) “Festen i Albano” (1839)<br />
“Toreadoren” (1840) “Napoli” (1842) etc.. In seguito troviamo August a Vienna, dal 1855 al<br />
1856, e poi al teatro Reale di Stoccolma dal 1861 al 1864. Si ritirò nel 1877 e venne nominato<br />
cavaliere. Scrisse la sua autobiografia “Ma vie thèatrale” e due volumi teorici dei quali<br />
“Etudes chorègraphiques” del 1861 resta una chiara sintesi dell’estetica bournonvilliana<br />
mirante al raggiungimento di una grande limpidezza stilistica: eliminazione di ogni parvenza<br />
di sforzo e uno sviluppo dei mezzi quanto mai fluido. Morì nel 1879.<br />
Il suo stile è quello francese di Vestris rimasto intatto ai nostri giorni. Egli rianimò il balletto<br />
danese formato alla scuola francese. Splendido stile il suo, detto poi anche “danese” per una<br />
sua fisionomia e con la precisa impostazione della “mezza punta”. Itinerario cosmopolita tra<br />
Milano, Stoccolma, Vienna e Mosca, ma a Copenaghen soprattutto fu attico e della “Silfide”<br />
con la Grahn diede una versione particolare. Di questa “Silfide” ancora Harald Lander ce ne<br />
offrì una copia nel 1962 a Firenze quando il Balletto Reale Danese fu ospite del Maggio<br />
Fiorentino alla Scala, qualche mese prima, con il complesso scaligero, Carla Fracci<br />
protagonista, accanto a Mario Pistoni, mentre Erik Bruhn la preparò per la primavera del 1966<br />
l Teatro dell’Opera di Roma nuovamente con la Fracci, questa volta accanto a Rudolf<br />
Nureyev, avvenimento di portata storica.<br />
Nelle vicende coreografiche di Danimarca e Svezia va ricordato Christan Johansson<br />
(Stoccolma 1817- Pietroburgo 1903), danzatore e insegnante svedese. Studiò alla Scuola del<br />
Balletto Reale di Stoccolma e fu allievo di Bournonville a Copenaghen. Nel 1837 fu partner di<br />
Maria Taglioni a Stoccolma e ultimo partner di lei in Russia nel 1842. Johansson debuttò a<br />
Pietroburgo nel 1841 nel balletto “LA gitana”. Il suo insegnamento iniziò nel 1860 e la carriera<br />
di danzatore terminò nel 1869 quando divenne principale insegnante alla Scuola Imperiale di
Pietroburgo formando allieve come la Kschesinska, Prèobrajenska, Pavlova, Karsavina e<br />
influenzando danzatori come Pavel Gerdt e Nicolas Legat.<br />
Altro tardo “prodotto” bournonvilliano è Joseph Hansen, belga (1842-1907). Fu maestro di<br />
ballo al Bolchoi di Mosca dal 1873 al 1889 e all’Opèra di Parigi, nel 1887. Molte sue coreografie<br />
furono allestite a Londra per l’Alhambra Theatre nel periodo 1884-87. Dobbiamo pure<br />
ricordare un’edizione del “Lago dei Cigni” ad opera sua a Mosca nel 1882.<br />
IL <strong>BALLETTO</strong> DEL TARDO ROMANTICISMO<br />
Con il “Lago dei Cigni” siamo nella seconda fase del Romanticismo di danza. Vediamo come<br />
vi è pervenuto il balletto russo. Dopo il 1850 il balletto romantico declina in Europa. Ciò<br />
avviene anche con il progressivo ritiro delle principali danzatrici che abbiamo passato in<br />
rassegna. La scuola italiana e francese si ritirano in Russia. Ed è proprio la che si conoscerà<br />
l’epoca d’oro del cosiddetto tardo Romanticismo. La nascita del balletto russo coincide con la<br />
fondazione dell’Accademia di Danza presso il Teatro Marijnsky di San Pietroburgo, nel 1783.<br />
Maestri grandi e famosi, austriaci come Hilverding, italiani come Angiolini, francesi come<br />
Diderot recarono in Russia il contributo delle loro esperienze.<br />
Mentre nella seconda metà dell’Ottocento da noi il Romanticismo s’inquina degenerando in<br />
un’arte non solo appariscente e magniloquente con la tendenza al mastodontico e al più<br />
dichiarato cattivo gusto, l’apporto dei maestri francesi ed italiani sarà fondamentale per la<br />
formazione di una vera e propria tradizione ballettistica russa. La Russia è infatti l’unica<br />
nazione a mantenere negli ultimi decenni dell’Ottocento la posizione gloriosa e di privilegio<br />
del balletto. È anche l’epoca d’oro dei grandi balletti di Ciaikovski, Petipa, delle grandi<br />
danzatrici italiane come Carlotta Brianza, Carolina Rosati, Antonietta Dell’Era, Virginia
Zucchi, Claudina Cucchi; nel periodo detto del tardo romanticismo in cui il balletto romantico<br />
trova la sua espressione ed evoluzione sia sul piano tecnico- virtuosistico come su quello<br />
artistico con un notevole rafforzamento del tessuto drammatico. Nasce o rinasce il divismo e<br />
con esso il mito della danzatrice, oltre ad affermarsi il grande momento interpretativo della<br />
coreografia per cui non una danzatrice assomigliò all’altra.<br />
Mentre in Italia e in Francia il balletto romantico esaurì tutte le possibili linfe della sua<br />
vitalità, in Russia fu assorbito e portato a suoi estremi sviluppi sulla traccia di “Giselle” o di<br />
“Sylphide”. Non si tratta di neo romanticismo, bensì del tardo romanticismo che si sviluppa<br />
principalmente e massimamente in Russai. I moduli musicali sono quelli di Adam e Delibes, i<br />
coreografi sono gli stessi dell’impostazione cara ai vari Taglioni, Perrot, Saint-Lèon, Mèrante<br />
della tradizione. Lo stesso Ciaikovski, il meno russo fra i compositori russi, si lascia<br />
influenzare dalla vena francese ed immette nelle sue ricche partiture richiami folcloristici<br />
della sua terra da una parte ed un’amabile grazia sognante francese dall’altra. Ma Ciaikovski<br />
è da ricordare soprattutto, e da stimare in questo caso, per aver dato al genere del balletto un<br />
carattere ed una qualità che serviranno di esempio ad una folta, ricchissima letteratura<br />
coreografica che ha in Stravinsky il suo alfiere più degno e convinto nell’età contemporanea.<br />
Quella dei Petipa, danzatori e coreografi è una dinastia. Già Lucien e Marius erano figli di<br />
Jean Petipa; Maria, danzatrice di molti balli di Ciaikovski era figlia di Marius, nato a<br />
Marsiglia nel 1822 e morto a Pietroburgo nel 1910, autore del primo e terzo atto di “IL lago<br />
dei cigni” mentre Lev Ivanov (1834-1901) provvide al secondo e quarto.<br />
Caratteristica di Marius era il grande balletto in molti atti che occupava l’intera serata con la<br />
sequenza delle variazioni nel “pas de deux”, variazioni condotte abilmente sul filo di una<br />
sapiente costruzione tematica: variazione, variazione, coda. Esse sono ancora oggi di una<br />
bellezza e di una perfezione compositiva difficilmente superabili. Petipa è il grande<br />
continuatore della tradizione romantica e con lui si estingue poiché tutte le correnti succedute<br />
dopo e che avrebbero voluto riprenderla per forza di cose non ne hanno avuto più né<br />
l’immediatezza, né la genuinità. Egli proveniva dall’insegnamento di Augusto Vestris. Venne<br />
scritturato a Pietroburgo nel 1847 come primo ballerino di “Paquita” dopo aver danzato in
molte città d’Europa e d’America. Nel 1862 succederà a Jules Perrot come maître de ballet<br />
creando il suo primo balletto “La figlia del faraone” (interprete Carolina Rosati). Poi nel 1869<br />
crea a Mosca il famoso “Don Chisciotte” (musica di Minkus), “La Camargo” (1872), “La<br />
Bayadère” (1877), “La bella addormentata nel bosco” (1890) e, in unione a Lev Ivanov “Il<br />
Lago dei Cigni” (1895), “Raymonda” (1898), “Le stagioni” (1900). Altri suoi balletti sono una<br />
“Cenerentola” del 1893 in collaborazione con Enrico Cecchetti, “Arlequinade”, destinato alla<br />
coppia di Anna Pavlova e Michel Fokine.<br />
Dei tre balletti Ciaikovski sinceramente non si saprebbe a quale dare la palma; se<br />
“Schiaccianoci” è più importante sul piano del valore musicale e “La bella addormentata”<br />
riccamente si adagia sul fiabesco- spettacolare, il “lago” li supera per la straripante, calda<br />
vena romantico- crepuscolare, per la poesia del tema d’amore e anche della rinuncia, per il<br />
perfetto bilanciarsi fra la parte lirica del secondo e quarto atto, più congeniale all’Ivanov e<br />
quella fortemente drammatica e mossa nel dispiego dei gruppi di Petipa.<br />
Una vita difficile per “Il Lago dei Cigni”. La prima versione avvenuta al Bolschoi di Mosca il<br />
4 marzo del 1877 non ebbe successo, e si dice che lo Zar, presente, insoddisfatto,<br />
abbandonasse la sala prima della fine. Scenografia e costumi apparvero modesti, la<br />
coreografia senza invenzione e la musica addirittura rivoluzionaria. Altre riprese nel 1880 e<br />
’82, con altra coreografia, non incontrarono il favore del pubblico; di fatto Ciaikovski, che<br />
morì nel 1893 non riuscì a vedere la prima realizzazione del suo capolavoro avvenuta nel<br />
1894 n un concerto commemorativo, dello stesso Ciaikovski, durante il quale venne eseguito<br />
al Marijinsky di Pietroburgo solamente il secondo atto. La prima rappresentazione integrale<br />
del balletto avvenne l’anno successivo, nello stesso luogo, con Pierina Legnani e Pavel Gerdt<br />
nel ruolo del Principe Sigfried riscuotendo un successo immediato. 8<br />
In occidente si ricordano la prima rappresentazione londinese all “Hippodrome” nel 1910 con<br />
Olga Preobrajenska, a capo di un gruppo di elementi del Balletto di Pietroburgo e di Mosca.<br />
Durante la seconda edizione di Diaghilew (1911), Matilde Kchessinska danzò Odette- Odile e<br />
8 Una ripresa del “Il Lago dei Cigni” a Mosca nei primi anni del secolo fu curata e rielaborata da Gorsky ed è quella<br />
riprodotta ancora oggi dal balletto sovietico.
per l’occasione scritturò il famoso violinista Misha Elman che suonò l’assolo dell’adagio del<br />
secondo atto.<br />
Una prima esecuzione completa del balletto in Inghilterra avvenne nel 1934 al “Sadler’s Wells<br />
Theatre” con Alicia Markova e Robert Helpmamm.<br />
Esistono varie versioni di questo grande balletto, ma “Il Lago dei Cigni” è inseparabile<br />
dall’atmosfera in cui nacque, dalla veste che Petipa e Ivanov gli diedero, dalla conoscenza che<br />
lo spettatore ne ha per averlo visto almeno una volta. Questo balletto mantiene il più largo<br />
favore del pubblico in qualsiasi angolo del mondo esso appaia, nella più ampia veste dei<br />
quattro atti o in quella riassuntiva dei due atti, oppure nell’altra dell’atto secondo, condensata<br />
in uno solo, con il finale ricavato dal quarto. Ci saranno sempre attese ed occhi attenti per<br />
Odette, per la lunare apparizione ed il suo cadere nelle braccia dei due amici e il risollevarsi,<br />
per i quattro cignetti e il sincrono girare della testa mentre i piedi eseguono il brillante gioco<br />
delle “batterie”, per l’assolo del Principe con i suoi due spettacolari giri di “coupès jetès en<br />
tournant”, per i “petits battements sur le coup de pied” di Odette, battito d’ali trasferito per<br />
incanto al fremito di una gamba o i suoi nervosi “échappés” della coda nella variazione di<br />
Odette e per qualsiasi altra figura tradizionale. Qualunque sia l’interprete, il “Lago” resta caro<br />
alle folle e continua ad appassionarle pur con un suo bagaglio di vecchia favola un poco<br />
ingenua ed enfatica ma piena di patetico lirismo o proprio forse per questo, per il bisogno che<br />
c’è sempre ancora in fondo a noi di sentirci e restare irrimediabilmente romantici.<br />
“La bella addormentata nel bosco”, nel quadro dei tre grandi balletti appartenenti al tardo<br />
Romanticismo, è da considerarsi il capolavoro di Marius Petipa (se si pensa che il lago è frutto<br />
di una collaborazione con Ivanov e Schiaccianoci appartiene tutto alla vena creativa di<br />
quest’ultimo essendosi Petipa ritirato per malattia).<br />
La prima rappresentazione di “La Bella Addormentata” risale al 1890 a Pietroburgo, Teatro<br />
Marijinski. Prima interprete di Aurora fu un italiana, Carlotta Brianza; al suo fianco stava<br />
Pavel Gedt nei panni del Principe Florimondo. Il balletto, ricavato dalla fiaba di Perault, si<br />
avvaleva di un numero considerevole di collaboratori per la parte scenografica e costumistica:
Levogt, Botcharov, Shishlov, Ivanov, Vsevolojiski. Questo balletto, grazie alla piena intesa fra<br />
il coreografo ed il musicista, si può definire come un balletto d’azione secondo i dettami<br />
stabiliti da Noverre un secolo prima.<br />
Al confronto con “Il Lago dei cigni”, la Bella Addormentata è un balletto molto meno<br />
romantico; esso rivela chiaramente il principio classico, avvertibile in tutta l’impostazione di<br />
una danza fine a se stessa con un dramma che rischia di perdersi per strada, talvolta riaffiora<br />
ed emerge soprattutto nella calda onda romantica degli interventi della Fata buona e<br />
protettrice. Ma questo balletto ci mostra come il balletto del periodo romantico e tardo<br />
romantico, possa anche essere detto classico. Ed esso lo è più di ogni altro del periodo, per<br />
l’abilità virtuosistica richiesta a tutte le danze, autentici pezzi di bravura disseminati nel<br />
contesto coreografico. Dal momento che l’essenza di un balletto classico sta in un racconto<br />
ridotto a pretesto per rivelare tutte le possibili combinazioni di uno sfoggio della tecnica<br />
accademica, dobbiamo concludere che proprio “La bella addormentata” è l’apoteosi di questo<br />
genere. Ciaicovski e Petipa hanno infatti costruito insieme un impianto calibratissimo, nel<br />
quale soggetto, coreografia, musica concorrono veramente all’unità dell’opera d’arte e alla<br />
sua piacevolezza estetica.<br />
Questo balletto, classico nella forma, romantico nella sostanza, storicamente definito tardo<br />
romantico, è nel repertorio delle compagnie del mondo occidentale ed orientale in molte<br />
versioni differenti.<br />
“Lo schiaccianoci” è musicalmente forse il più bello ed il più ricco di sostanza dei balletti di<br />
Ciaikovski. L’italiana Antonietta Dell’Era ne fu l’interprete principale alla prima<br />
pietroburghese del 1892 accanto a Pavel Gerdt e N. Legat. Anche qui varie sono le versioni, in<br />
ambito russo ricordiamo quelle di Gorsky nel 1919 e Vainonen nel 1934; mentre in occidente<br />
si conoscono le versioni di Serghiev, Romanoff, Beriozoff sino a quella di Balanchine per il<br />
New York City Ballet.<br />
Fra le grandi danzatrici russe un posto a parte lo occupa Anna Pavlova, interprete patetica<br />
della famosa “Morte del cigno” sulla musica di Saint-Saëns che il coreografo Fokine creò per<br />
lei e che molte altre tentarono di imitare, una creazione personalissima, irripetibile e
insuperabile. Mentre per l’arte interpretativa, per l’impegno pedagogico, per la tecnica<br />
perfezionata o per l’estro creativo, oltre alla Pavlova e a Fokine sono da elencare: Tamara<br />
Karsavina (1885) anche scrittrice interessante di memorie, Lubov Eogrova (1880), Agrippina<br />
Vaganova (1879- 1951) autrice di un trattato “Fondamenti di danza classica” (1934), Olga<br />
Preobrajenska (1871-1963), Olga Spessivtzeva (1895), Adolph Boln (1884-1951), Boris<br />
Romanov (1891-1957) sino ai grandi Nijinsky, Vaslav e Bronislava, fratello e sorella.<br />
Sul finire del secolo diciannovesimo si è già accennato che in Italia si accusa, più che una<br />
mancanza di coreografi- creatori o di danzatori- interpreti, una spaventosa deviazione del<br />
gusto. In mezzo a questo bailamme si salvano naturalmente Adam e Delibes, quest’ultimo<br />
anche con i suoi pittoreschi ed anche ispirati balletti: “Coppelia” (1870), “Sylvia o la Ninfa di<br />
Diana” (1876), “La source” (1866), “Pas de fleurs” (1867).<br />
Così pure non sono pochi i ballerini e le ballerine ad eccellere in quello scorcio di fine secolo:<br />
Sofia Fuoco, Claudina Cucchi, Virginia Zucchi, Amalia Ferraris, Carolina Rosati, Giuseppe<br />
Lepri, Pierina Legnani, Carolina Pochini, Guglielmina Salvioni, Giuseppina Bozzachhi, Rita<br />
Sangalli, Enrico Cecchetti, Antonietta Dell’Era, Carlotta Brianza.<br />
Siamo in pieno clima liberty o floreale il cui maggiore o peggiore esponente sarà il balletto<br />
“Excelsior” di Luigi Manzotti, che va in scena alla Scala nel 1881, scene e costumi di Alfredo<br />
Edel, musica di Marenco, celebrazione del progresso tutto improntato alla spettacolarità, un<br />
genere che pare fosse nel gusto oltre che nel favore del pubblico. Non c’erano parti di<br />
coreografia quintessenziata ma tutto era in funzione di un dispiego imponente di masse e di<br />
macchine teatrali. Altri lavori di Manzotti furono: “Rolla” e “Pietro Micca” (1875), “Sieba”,<br />
“Amor” (1886), “Sport” (1897), “Luce” (1905) e “Brahama”.<br />
Tra l’invenzione elettrica, le prime conquiste scientifiche e sportive, la scienza, il progresso, la<br />
politica, la patria, l’amore e la fratellanza dei popoli, il tema coloniale e quello pseudo storico<br />
o, peggio ancora, patriottardo, nulla era sfuggito a quei signori scivolati paurosamente nella<br />
piena retorica.<br />
Naturalmente si salva un grande esempio, che ci offre un grande maestro, Enrico Cecchetti,<br />
nato a Roma nel 1850. Ballerino straordinario tecnicamente, trasmise un metodo didattico che
il suo maestro Lepri, attraverso Blasis, gli aveva fatto apprendere. I russi come gli inglesi, gli<br />
americani come i francesi, sono stati non solo influenzati, ma formati dal suo insegnamento in<br />
questi ultimi scarsi ottant’anni dei storia coreutica.<br />
L’opera dei grandi balli di Ciaicovski fu favorita dal contributo di Cecchetti. Questi debuttò<br />
alla Scala nel ’70, a Londra nel ’75 e a Pietroburgo nell’87. Qui preparò grandi danzatori quali<br />
Karsavina, Preonrajenska, Kschessinska, Fokine etc. La Pavlova fu una sua devota allieva<br />
privata. Nel 1909 seguì Diaghilev con la sua compagnia e di questa fu l’insegnante stabile<br />
limitandosi all’interpretazione di ruoli mimici. Tutti i ballerini di quel periodo passarono<br />
sotto il suo ferreo controllo didattico e il metodo Cecchetti, a cura del ballerino Idzikovski,<br />
uscì a Londra nelle edizioni di Beaumont.<br />
Fu chiamato in Italia alla Scala, nel 1925, tardo richiamo, dal momento che morì sul<br />
palcoscenico scaligero tre anni dopo. Nel 1922, su proposta di Beaumont, era stata istituita a<br />
Londra, onde perpetuare il suo insegnamento, una “Cecchetti Society”.<br />
LA <strong>DANZA</strong> LIBERA<br />
Al principio del secolo succede che, accanto all’involuzione della danza accademica, arenata<br />
su moduli deteriori e stanchi, tutti improntati ad una dilatazione sempre più preoccupante<br />
del fatto spettacolare di gusto mastodontico da una parte, e alla riforma del balletto russo di<br />
Diaghilev, dall’altra, si fa strada una evoluzione, un vero e proprio rinnovamento della danza<br />
teatrale. Questo movimento è denominato “danza libera” che non si riferisce ad una scuola<br />
isolata, e neppure ad un indirizzo unico, bensì è il frutto di diverse esperienze ed origine, con<br />
l’intento di affrancare la danza dagli schemi accademici, logorati dal tempo e dall’uso, e<br />
quindi giungere ad una completa, libera affermazione dell’individuo del ventesimo secolo. Si
tratta di una vera e propria rivoluzione anti- accademica contro gli artifici del balletto dei<br />
quali “le punte” resta il principale anche se sublime.<br />
Si potrebbe individuare come iniziatrice e diffusore di questo movimento l’americana Isadora<br />
Duncan, nata a San Francisco nel 1878. La danza, secondo lei, deve esprimere uno stato<br />
naturale dell’uomo e tende verso una liberazione spirituale e corporea: “l’Eleuteron” greco.<br />
Si ispirò quindi al mondo ellenico, alla sua capacità figurativa ed alla sua essenza. La riforma<br />
fu drastica e completa: via il tutù e le scarpette di raso, via la calzamaglia per una maggiore<br />
semplicità e naturalezza dei movimenti, quindi piedi nudi e tuniche di velo drappeggiate.<br />
Il debutto in America non fu dei più incoraggianti, ma la Duncan non si perse d’animo;<br />
giunse a Parigi ai primi del secolo ed ottenne successo, negatogli in patria; in seguito aprì una<br />
scuola a Berlino. Nel 1905 andò in Russia e pare che Fokine non fosse del tutto indifferente<br />
alle teorie proposte dalla Duncan, per cui alcune di queste si trovano applicate, nell’ambito<br />
del balletto accademico, in “Dafni e Cloe”.<br />
Ritornata in America, le arrise il successo. Le sue varie scuole sparse per il mondo non<br />
facevano che attestare il carattere ramingo e disperso della danzatrice. Molto rilevante il suo<br />
contributo al gusto nella scelta delle musiche destinate all’accompagnamento delle sue danze.<br />
Il cosiddetto movimento della “sinfonia coreografica” che ebbe, intorno al 1930, il grande<br />
propugnatore in Massine, seguito poi da Balanchine, si fa risalire appunto al preciso gusto<br />
della Duncan nell’adattare musiche del passato, sorte espressamente per la danza, alle sue<br />
evoluzioni condotte sulle volute o sui ritmi dei grandi classici e romantici.<br />
Alcuni cenni sulla sua vita. Il marito, il poeta russo Esenin, muore suicida; i figli muoiono<br />
anch’essi, annegati nella Senna. Lei stessa ha una fine ingrata, strozzata dalla sciarpa che<br />
portava al collo impigliatasi nelle ruote dell’automobile; avvenne a Nizza nel 1927. Scrisse un<br />
libro, “La mia vita”, pubblicato l’anno seguente la tragica morte.<br />
La Duncan non restò isolata e sorsero altre azioni collaterali, seppur con orientamenti diversi,<br />
tutte tese verso un unico fine, quello di liberare la danza accademica dalle pastoie nelle quali<br />
era caduta.
Sul tema del rinnovamento del teatro di danza 9 citiamo un’altra artista americana, amica della<br />
Duncan, Loïe Fuller (1862-1928). Il suo apporto alla danza investe, più che la coreografia, la<br />
tecnica dell’illuminazione e della scenografia. Facendo muovere delle bacchette tra i veli che<br />
la coprivano tutta, creava straordinari cromatismi ed effetti grazie alle strisce luminose che la<br />
investivano da ogni parte e giocavano tra il fluttuare delle sciarpe e dei drappeggi. Famose<br />
nel suo repertorio furono: “La danse du feu” e “La danse serpentine”. I cronisti di allora si<br />
chiesero se si trattava realmente di una danza o piuttosto di una proiezione di luce o di una<br />
evocazione spiritistica. Scrisse in libro di memorie “Quinze ans de ma vie” pubblicato a Parigi<br />
nel 1908.<br />
La semplice evocazione di una particolare atmosfera ricavata da elementi figurativi (Duncan,<br />
Alessandro e Clotilde Sakharoff), l’ispirazione da un mondo primitivo o da suggestioni di<br />
temi orientali (Ruth St. Denis, Saint M’Ahesa), la rievocazione libera del valzer viennese<br />
(sorelle Wiesenthal), sono tutte azioni di ricerca e di liberazione.<br />
Altra corrente di danza libera è quella promulgata dall’ungherese Rudolf von Laban (1870-<br />
1958). Egli elaborò un’analisi ed una filosofia della danza di grande portata culturale,<br />
entrambe innestate al filone dell’espressionismo del centro Europa. È considerato il più<br />
importante innovatore della danza libera in Europa.<br />
La sua passione per la danza nasce da un attento studio delle scienze matematiche e delle arti<br />
figurative. Fondamentali sono le sue leggi relative al tempo e allo spazio, la codificazione<br />
delle dodici direzioni del moto con la figura geometrica dell’icosaedro e la celebre notazione o<br />
scrittura di danza con la quale si può fissare qualsiasi specie di danza, di gesti o di<br />
movimenti, che apparve in volume nel 1926 con il titolo di “Choreographie”. Egli concepisce<br />
il suo metodo dell’arte in movimento in questo modo: prima esiste un movimento interiore,<br />
funzione dell’intensità di una concentrazione di pensiero dalla quale scaturirà il gesto<br />
esteriore. Con Laban ogni forma inerente alla danza concorre alla dimensione della sua<br />
espressione coreografica (recitazione, scenografia, pittura, scultura, architettura). Egli debutta<br />
come insegnante nel 1905, in Svizzera ed in Germania; nel 1911 fonda a Monaco di Baviera la<br />
9 Fokine e Nijinski sono da considerarsi a parte, perché appartenenti al balletto accademico, e la loro opera si svolse<br />
unicamente in quel campo senza toccare punte rivoluzionarie.
Scuola di danza libera del centro Europa avendo tra gli allievi Mary Wigiman che diventa sua<br />
collaboratrice dal 1913, e Kurt Jooss dal 1921. Celebri alcune opere coreografiche di Laban<br />
senza musica oppure accompagnate da percussioni. Si ricordano soprattutto: “Prometeo”,<br />
“Titan” e il “Don Giovanni” (Gluck). Con l’aiuto di Joos e Doussia Bereska elabora il citato<br />
sistema della notazione del movimento, chiamato negli Stati Uniti “Labanotation”. Il suo<br />
insegnamento si espande e raggiunge l’Inghilterra (1938) ove, nel verde Surrey, istituisce<br />
“L’Art of Movement Center”.<br />
Due grandi personalità uscite dall’insegnamento di Laban sono, Mary Wigman e Kurt Jooss.<br />
La prima, nata nel 886, studiò anche sotto la guida di Emile Jacques-Dalcroze, famoso<br />
elaboratore di un metodo di insegnamento della musica attraverso il movimento detto<br />
euritmia, materia di insegnamento all’Istituto di Hellerau secondo la quale l’educazione<br />
corporale al ritmo accresce gli impulsi ritmico- musicali.<br />
La Wigman aprì una scuola a Dresda nel 1920; con lei si rafforza il nuovo concetto<br />
leggermente anti- teatrale ma non anti- drammatico della danza libera e il suo costante sforzo<br />
di emanciparsi ad ogni elemento scenico preponderante o soffocante del disegno e del<br />
contenuto espressivo. Si elimina l’apporto scenografico e così il risultato è un’azione ridotta<br />
da parte della musica talvolta insignificante, talvolta addirittura eliminata, un’identificazione<br />
fra creatore e interprete per cui il ballerino è lo stesso compositore di danza. Con questo<br />
movimento nasce il concerto di danza e il danzatore da concerto. La Wigman offre questo<br />
tipo di spettacolo con gruppi di danzatori in Germania e negli USA a partire al 1932. Le sue<br />
danze sono eseguite senza accompagnamento musicale, in seguito userà gli strumenti a<br />
percussione.<br />
Artisticamente dà un grande valore allo sviluppo della personalità dell’interprete,<br />
tecnicamente fonda sulla respirazione il suo metodo didattico (Aspannung- abspannung:<br />
tensione e distensione).<br />
La caratteristica principale di questa scuola è l’eliminazione della codificazione di un<br />
vocabolario, tipica invece della danza accademica. Esistono solo leggi generali, principi come<br />
quello prima accennato. Del resto è nota l’avversione della danza libera ad un discorso basato
su regole prestabilite. Conta soltanto il risultato espressivo, non importa come ottenuto e<br />
attraverso quale procedimento. E l’indirizzo di Laban, Wigman e Jooss appartiene<br />
dichiaratamente al movimento espressionista tedesco.<br />
Una delle ultime coreografie della Wigman “La sagra della primavera” ottiene un<br />
memorabile successo alle settimane berlinesi del 1956. Fra i suoi allievi sono stati: Harald<br />
Kreutzberg, Yvonne Georgi, Greta Palucca, Vera Skoronel, Hanya Holm, Birgit Akesson.<br />
Kreutzberg (1902-1968) è il caratteristico prodotto del danzatore da concerto, solista che<br />
interpreta le sue composizioni e che all’infuori delle sue creazioni, davvero straordinarie per<br />
intensità drammatica, non lascia il segno di un solco, tracciato da un chiaro indirizzo<br />
pedagogico. Ma chi ha visto alcune delle sue danze o ha assistito alle dimostrazioni didattiche<br />
non può aver dimenticato l’incisività del suo messaggio tutto teso verso un’espressione<br />
icastica riproducente la condizione umana con le sottili annotazioni attinte da un esplicito<br />
cinismo e da un senso macabro, spesso attraverso grossi effetti grotteschi, sottolineati dall’uso<br />
di maschere, di fantasiosi costumi, di un trucco sapiente. Si ricordano particolarmente:<br />
“L’angelo dell’Annunciazione”, “Il maestro di cerimonie”, “Tango di mezzanotte”, “Orfeo<br />
piange Euridice”, “Giobbe contese Dio”, “Il primo uomo”, “Oreste”, “Il cerchio eterno”, “Till<br />
Eulenspiegel”, danze quasi tutte scandite dall’aspra musica di Friedrich Wilkens, fedele<br />
accompagnatore al pianoforte.<br />
Jooss costituisce un ponte tra il balletto accademico e la danza libera. Celebre “la teoria<br />
dell’otto”, movimento compiuto dalla gamba e dal braccio che contempla con eguale cura i<br />
passaggi dal “En dedans” al “en dehors” e celebre balletto, tuttora in repertorio, potente<br />
documento di satira politica e morale: “Il tavolo verde” su musica di Fritz Cohen, ricordando<br />
tra l’altro “La grande città” e “Pandora”.<br />
Questa danza di morte, come Jooss ha voluto chiamare il Tavolo verde, reca in sé tutto il<br />
senso morale e satirico che fu proprio della danza macabra del medioevo e l’inizio come la<br />
fine restano i due quadri più vivi, così abilmente stagliati nello scatto marionettistico, degli<br />
uomini politici a congresso, che si fanno riverenze e salamelecchi e decidono della vita degli
altri ad un tavolo da gioco, il tutto in un clima di macabra buffonata che una musica da<br />
cabaret sottolinea con appropriata vena caricaturale.<br />
Jooss allestì all’Opèra di Parigi nel 1934 per Ida Rubenstein “Persefone” di Strawinsky. Gli<br />
ultimi lavori, fra cui “Phaesen” e “L’après midi d’un faune” sembrano denunciare un<br />
impallidirsi del vigore compositivo, dello humour sferzante, dell’aperta denuncia dei mali<br />
dell’uomo e della condanna di una società corrotta. Allievi suoi sono fra i più importanti,<br />
Hans Zullig, Sigurd Leeder e Jean Cebron.<br />
Joss lascia la Germania nel 1934 per trasferirsi in Inghilterra ove rimane per quindici anni e<br />
fonda la sua scuola a Dartington Hall e poi a Cambridge; durante la guerra, in collaborazione<br />
con Leeder, dirige un’importante centro d’insegnamento frequentato da allievi di tutto il<br />
mondo. Oltre la danza vi insegna la scrittura del movimento.<br />
Di ritorno a Essen nel 1949 ricostituisce il suo gruppo che si scioglierà nel 1953 per<br />
ricostituirsi nuovamente con la denominazione già adottata agli inizi della carriera,<br />
“Folkwangbühne” e “Folkwangballet”.<br />
Questo movimento centro Europeo si sposterà nel secondo dopoguerra in America, dove la<br />
denominazione di danza libera si tramuta in Modern Dance. Non esiste più una vera e<br />
propria danza libera, esiste una danza moderna che può essere una sovrastruttura alla tecnica<br />
accademica (Bèjart), come una Modern Dance con leggi proprie (Graham) o ancora un balletto<br />
moderno occasionalmente ispirato al folklore e al jazz (Robbins); ma la danza libera è un<br />
movimento tipico degli anni venti con le infinite propagazioni che si sono avute e gli<br />
indirizzi più svariati.<br />
Positiva l’enorme influenza esercitata dalla danza libera su tutto il balletto moderno. Ma è<br />
anche vero che una danza libera, completamente liberata a se stessa, si è andata lentamente<br />
attenuando, quando non si è offuscata. Il proposito di soppiantare la danza accademica si è<br />
rivelato quanto mai inconsistente e da questo colpo, la danza accademica è rinata a nuova<br />
vita, più bella e più forte di prima.<br />
È soprattutto in America che si è potuto dimostrare la compatibilità e coesistenza delle sue<br />
discipline. L’educazione contemporanea del balletto negli Stati Uniti alla scuola libera e a
quella accademica è un fatto indiscutibile. Tutto il balletto moderno americano di Tudor, de<br />
Mille, Robbins, che si basa sull’accademica, ha potuto sconfinare nella tecnica che era stata dei<br />
predecessori parlanti il linguaggio espressionista centroeuropeo.<br />
I BALLETTI RUSSI DI DIAGHILEV<br />
Quel movimento artistico e culturale che va sotto la denominazione di Balletto Russo e che<br />
caratterizzò la vita teatrale in modo così definitivo al principio del secolo va inteso non solo<br />
come evoluzione dell’arte della danza ma anche delle arti dello spettacolo in genere, della<br />
decorazione teatrale e della musica. Una delle principali caratteristiche di questo movimento<br />
è per l’appunto di aver dato alle arti cosiddette sorelle una più stretta collaborazione,<br />
un’unione più intima.<br />
Dunque non fu solo evoluzione del balletto come pura rappresentazione, ma specificatamente<br />
della musica in funzione di una prestabilita azione coreografica, della pittura in relazione al<br />
contributo scenografico indispensabile in un’opera ballettistica. Del resto, in un’epoca come la<br />
nostra così incline al piacere dello spettacolo e della vista, organo più sensibile e ritentivo<br />
dell’udito, se un teatro musicale esiste (e pur se l’opera, particolarmente da noi, ne è sempre<br />
stata l’incontestata beniamina), il balletto, per la sua congenialità al nostro spirito di moderni<br />
va riguardato con particolare attenzione.<br />
Lungi dall’asservire la musica alla danza è importante stabilire come l’intuito, la scelta, il<br />
gusto di Diaghilev imposero al mondo coreografico del secolo scorso una fisionomia che è la<br />
stessa alla quale si rifà tanta parte del teatro di danza contemporanea. Strawinsky, su<br />
commissione, compone “L’uccello di fuoco”, “Petruska”, “La sagra della primavera” per la<br />
compagnia dei Balletti russi. Altre volte una partitura offre lo spunto per un balletto, come
Diaghilev si servì di musiche scritte espressamente per la danza e che si rivelarono adatte in<br />
modo sorprendente all’uso che egli ne fece.<br />
Bisogna dire, che già Isadora Duncan adoperò isolatamente grandi musiche del passato,<br />
sinfoniche o cosiddette “classiche” per le sue visioni danzate. L’esempio così romanticamente<br />
esalante della Duncan, con tutto il decadentismo che comportava, non passò inosservato. Il<br />
dubbio mondo greco che ella volle risuscitare lo rianimò pure Fokine, in altra maniera, con<br />
“Dafni e Cloe” ed egli confessò quel movente ispiratore. Nulla avviene per caso in arte, senza<br />
preparazione; vi è sempre il frutto di un divenire, di un processo evolutivo, di assimilazioni<br />
vicine e lontane che si perdono e che solo vagamente si riescono ad individuare.<br />
Diaghilev sentì che bisognava rompere definitivamente con il balletto logoro e stanco del<br />
tardo romanticismo, con il suo bagaglio stereotipato nella musica, nella figurazione danzata,<br />
nelle scene e nei costumi; non fu una rivoluzione la sua, bensì un’evoluzione naturale e<br />
diretta che si ripercuoterà persino nella moda. L’orientalismo o bizantinismo, tanto in voga<br />
allora, si riflessero negli atteggiamenti di tanta letteratura e di tanto cinema e Ida Rubenstein,<br />
creatura dannunziana, ne fu il riflesso più lampante. I principali lavori musicali, di Stravinsky<br />
e Prokofieff, recarono quel mondo policromo. “L’Uccello di Fuoco”, “Chout” sono vivide<br />
facole che dell’Oriente recano tutto il colore e il preziosismo affascinante di una stoffa<br />
arabescata o di un sottile profumo.<br />
Le fasi in cui si svolse il Balletto Russo, furono due: la prima precedente alla prima guerra<br />
mondiale e l’altra del dopoguerra. Un gusto propriamente francese o parigino e più<br />
direttamente a contatto con certe tendenze di music-hall (in cui la pantomima si sposa al circo<br />
e la danza diviene alleata dell’acrobatismo) si farà strada in quell’epoca satura di esperimenti<br />
e di espedienti.<br />
Questo fenomeno che rappresenta il Balletto Russo, è una superba lezione di gusto, di<br />
intuizione, di capacità realizzatrici. Diaghilev sentì che il teatro di danza non poteva<br />
continuare nel virtuosismo esteriore e macchinoso nel quale l’ultimo Ottocento lo aveva<br />
gettato e gli oppose qualcosa di nuovo, di vivo, di significante. Anche il melodramma se ne<br />
avvantaggiò.
È sul finire del diciannovesimo secolo che Serge de Diaghilew ( 1872-1929) fa il suo ingresso<br />
nella vita artistica. Nel 1899 egli fonda la rivista “Mir Iskoustva” (il mondo dell’arte) che<br />
comprende un certo numero di sostenitori ed amici fra i quali Walter Nouvel. Esattamente<br />
dieci anni dopo, molti di essi formeranno lo Stato Maggiore dei pittori-scenografi della<br />
Compagnia dei Balletti Russi: Benois, Bakst, Roerich, Korovine, Golovine, Serov, etc..<br />
Ma chi era Diaghilew? Fu prima di tutto un impresario, non un creatore. Scrisse anche<br />
qualche articolo, una monografia, ma non è ricordato per questo; compose della musica ma<br />
nessuno l’ascoltò; non fu critico, non coreografo, né tanto meno teatrante; eppure fu lui<br />
l’iniziatore attivo di un movimento critico ed estetico che doveva rinnovare il teatro,<br />
inserendosi nella coscienza viva dell’artista moderno. Bisogna anche aggiungere che, a<br />
beneficiare di tale evoluzione, non fu direttamente il pubblico russo bensì quello occidentale.<br />
È pur vero che la maggior parte dei suoi collaboratori erano russi e molto del decorativismo<br />
come del contenuto drammatico s’ispirava al mondo orientale, ma il movimento si sviluppò<br />
in occidente; per cui si dice Balletto Russo e si indica particolarmente quella stagione, quel<br />
ventennio dal ’10 al ’30. I russi di oggi infatti non riconoscono la riforma daghilewiana. Agli<br />
occidentali toccò in sorte l’eredità dello straordinario rinnovamento spirituale e artistico che<br />
fu russo d’origine, ma che investì ogni angolo ed ogni aspetto della vita occidentale.<br />
Tecnicamente formidabile, il balletto sovietico di oggi ignora il Balletto Russo di ieri e rimane<br />
sulle posizioni di un intransigente conservatorismo.<br />
Il rinnovamento di Diaghilew è servito al balletto contemporaneo, come l’espressionismo di<br />
danza centro europea è servito da Laban alla Wigman, da Jooss alla Graham all’espansione<br />
della danza moderna.<br />
I due coreografi di cui Diaghilew si è più servito rispondono ai nomi di Fokine e Massine.<br />
Essi rappresentano i capisaldi del movimento coreografico instaurato da Daighilew.<br />
Bisogna anche ricordare Vaslav Nijinsky e Bronislava Nijinska, fratello e sorella, per i<br />
fermenti che hanno saputo recare in quella compagnia, e anche Boris Romanov. Il primo<br />
elaborò idee straordinarie recategli dal geniale impulso del danzatore, percorrendo strade e<br />
forme moderne, ma non riuscì ad affermarsi come vero e proprio coreografo.
La Nijinska è autrice di molte coreografie delle quali due sono state riprodotte in seguito a<br />
Londra: “Les Biches”, e “Les Noces”. La Nijinska è, in fondo, con Balanchine, che ne è<br />
considerato l’inventore, la prima a dare impulsi al movimento detto “neoclassicismo di<br />
danza”. Boris Romanov compose per Diahilew un solo balletto, “La Tragèfie de Salomè”<br />
(1913) e gli intermezzi danzati dell’opera “Le Rossignol” di Strawinskj, ma la sua opera fu<br />
vasta ed intensa. Innanzitutto come danzatore di carattere per il quale ruolo fu scritturato da<br />
Diaghilew nel periodo fra il 191 ed il 1914. Nel 1918 lasciò la Russia e fondò a Berlino una<br />
compagnia detta del “Teatro Romantico Russo”. La carriera del coreografo di svolse e si<br />
ampliò soprattutto a Milano e Torino.<br />
Michel Fokine è da considerarsi l’innovatore del balletto contemporaneo. Fu danzatore e<br />
coreografo. Entrò alla Scuola Imperiale del Balletto del Teatro Marinsky di Pietroburgo. Si<br />
diplomò nel 1898 e fu subito scritturato da Marinsky in qualità di solista. Si mise a studiare<br />
coreografia sotto la guida di Johansson e cominciò l’insegnamento nel 1902.<br />
I suoi primi balletti, nel 1905, sono “Aci e Galatea” e “La morte del cigno” per Anna Pavlova.<br />
Il primo balletto per il Teatro Imperiale è “Le pavillon d’Armide” (1907) e “Une nuit<br />
d’Egypte” (1908) che divenne poi “Clèopâtre” nel 1909 per il Balletto di Diaghilev. Ed è con<br />
questa compagnia che egli dà il meglio di sé e le sue opere s’iscrivono per la maggior parte<br />
nei programmi della prima stagione parigina 1909-10-11. In quell’occasione si hanno le<br />
riprese di “Le pavillon d’Armide”, “Clèopatre” e anche “Chopinana” che diventa “Les<br />
Sylphides”, baleltto dai toni crepuscolari, estremo prodotto del Romanticismo, specie di<br />
variazione sul tema, capolavoro dell’impressionismo coreografico. Per questo balletto sono<br />
state usate molte scenografie, persino una di Corot, ma quella di Alexandre Benois resta la<br />
più pertinente all’atmosfera che si è voluto creargli intorno. In quegli anni Fokine crea un<br />
divertissement intitolato “Le Festin” e le danze poloveziane del Principe Igor. Egli collabora<br />
con la compagnia per tre anni consecutivi allestendovi altre opere destinate non solo ad<br />
imporsi ma a lanciare, quasi come un eco alle teorie enunciate in una lettera al Times del 1914,<br />
un messaggio quanto mai vivificatore e rinnovatore per l’arte coreutica in genere. Già “Le<br />
Silfidi” avevano rivelato le possibilità dell’interpretazione musicale in termini coreografici,
una via aperta alle future grandi sinfonie coreografiche di Massine e di Balnchine, quando<br />
“Petrouchka” a sua volta, dimostrò chiaramente le possibilità, da parte del balletto, di<br />
configurarsi ad espressione delle più complesse sensazioni umane.<br />
Fokine crea nel 1910: “Shèhèrazade” sulla musica di Rimsky-Korsakov, “Carnaval” di<br />
Shumann, “L’Oiseau de feu” di Stravinsky, “Les Orientales” sulle musiche di vari autori. Del<br />
1911 sono: “Narcisse”, “Sadko”, “Le spectre de la rose” e il citato “Petrouchka”. Nel 1912<br />
abbiamo, “Le Dieu bleu” sulla musica di Reynaldo Hahn, “Thamar” musica di Balakirev,<br />
“Daphnis et Chloe” musica di Ravel. Una breve parentesi in patria si compie a cavallo fra il<br />
1913 e il ’14. Ma subito torna con Daghilew e presenta “Papillons” sulla musica di Shumann,<br />
“La lègende de Joseph” musica di Riccardo Strauss, “Midas” musica di Steinberg e “le coq<br />
d’or” opera-ballet di Rimsky-Korsakov. Tornò in Russia nel 1914 e vi rimase sino al ’18, poi di<br />
nuovo in occidente dove firmò numerose coreografie in Inghilterra, in Francia ed in America.<br />
Le concezioni coreografiche di Fokine si possono riassumere nel modo seguente:<br />
Non accontentarsi di rappresentare combinazioni di passi di danza fissi e stabili, ma<br />
creare ad ogni composizione una nuova forma corrispondente allo stile sviluppato<br />
tenendo conto dell’epoca, del tempo e del luogo dell’azione trattata;<br />
Danza e mimica devono concorrere all’espressione dell’azione drammatica; ogni<br />
divertissement o digressione estranea al tema del balletto deve essere scartata;<br />
La mimica non deve limitarsi ai gesti convenzionali delle mani ma deve estendersi al<br />
corpo intero. Tutte le parti del corpo devono essere espressive alla stessa maniera. L’uso<br />
del gesto convenzionale è ammesso soltanto quando richiesto dallo stile del balletto.<br />
I gruppi e gli “assieme” devono essere in accordo con i solisti per ciò che concerne il<br />
carattere dell’espressione.<br />
Il balletto deve liberarsi dalla tutela delle altre arti, musica e pittura, e allearsi con esse per<br />
creare un’unità. Il balletto rifiuta di essere schiavo della musica e la più completa libertà<br />
deve essere accordata tanto al musicista come allo scenografo.<br />
Applicando questi principi si è pervenuti non solo allo sviluppo dell’arte coreografica ma a<br />
quella che è oggi l’arte della coreografia.
Fokine parte evidentemente da Noverre per ciò che riguarda gli stretti rapporti di<br />
interdipendenza tra musica, pittura, danza, ma considera pure lo sviluppo della mimica e<br />
l’unità di stile nell’opera creata. Gli toccò in sorte un compito non superiore alle sue forze, un<br />
compito che egli affrontò con grande sapienza, ma dovette creare quasi dal nulla un’opera<br />
originale e una nuova estetica coreografica. Fokine lasciò agli altri un’eredità preziosa<br />
facilitata da un’esperienza che egli fece a proprie spese. Le parti corali di “Petrouchka” non<br />
sufficientemente elaborate, riprese e lavorate da altri, portarono quel balletto alla<br />
compiutezza del capolavoro, ma intanto egli aveva profuso estro e sapienza compositiva<br />
negli assoli.<br />
Piuttosto non si capisce bene che cosa sia successo negli ultimi anni all’attività di Fokine, un<br />
affievolimento dell’ispirazione, un indebolimento dello slancio creativo, un impoverimento<br />
nei temi affrontati. Diede molto all’inizio Fokine, spettò agli altri riprendere il messaggio<br />
lanciato con tanto fervore. In un certo senso Fokine fu il profeta del balletto moderno; senza<br />
rinunciare alle leggi della danza accademica, le diede nuova vita, nuovo vigore, nuova linfa<br />
espressiva.<br />
Leonide Massine si formò alla Scuola Imperiale di Mosca. I suoi primi reali interessi partono<br />
dall’arte teatrale in genere, una tendenza che sarà decisiva in tutta l’opera di questo<br />
coreografo. Come Lifar è considerato il coreografo- danzatore e Balnchine il coreografo-<br />
musicista, così Massine è considerato il coreografo- drammaturgo. Se tutta l’opera di<br />
Balnchine è in termini di poesia, quella di Massine lo è in termini prosastici, narrativi. Con ciò<br />
non vuol dire che si avvicini alla poesia e alla danza, la sua impostazione è classico-<br />
accademica.<br />
Sembra proprio che l’incontro con Diaghilew sia stato decisivo ai fini della carriera nel teatro<br />
di danza poiché Massine aveva optato fin dall’inizio per la carriera di attore drammatico.<br />
Vedendolo danzare e osservando attentamente la composizione dei suoi personaggi più<br />
caratteristici si capisce molto bene come la drammaturgia presieda a tutta la sua opera.<br />
Quando Massine incontrò Diaghilew, questi era alla ricerca di un nuovo artista che potesse<br />
sostituire Nijinsky. Era il 1913 e Diaghilew affidò il giovane alle cure di Cecchetti. L’anno
dopo Massine otteneva subito un grande successo interpretando il personaggio principale<br />
nella “Leggenda di Giuseppe” all’Opèra di Parigi con la coreografia di Fokine. Non ancora<br />
ventenne, Massine produsse una grande sensazione in quella parte proprio per la<br />
straordinaria immedesimazione espressiva. L’anno dopo creava la sua prima coreografia con<br />
la stessa compagnia: “Soleil de nuit”, un balletto appartenente al folklore russo. Da quel<br />
momento Massine diviene il coreografo dei Balletti Russi, senza smettere di danzare. Egli<br />
trascorre con facilità da un genere all’altro ma è soprattutto sul racconto danzato che egli<br />
punta. Ecco “Les femmes de bonne humeur” (1917) ricavato dalla commedia omonima di<br />
Goldoni, musica di Scarlatti, scene e costumi di Bakst e, nello stesso anno, il balletto cubista<br />
“Parade”, musica di Satie, argomento di Cocteau, siparietto, scena e costumi di Picasso, e<br />
ancora il balletto folclorico “Les contes russes” sulla musica di Liadov, con l’allestimento<br />
scenico di Larionov. Il 1919 è un anno particolarmente fertile: crea “La boutique fantastique”<br />
sulla musica di Rossini e Respighi, scene e costumi di Andrè Derain ed avviene la creazione<br />
del “Tricorno”, uno dei balletti più eseguiti e destinato al repertorio dei grandi complessi di<br />
danza, modello insuperato di commedia coreografica costruita sulla celebre musica di de<br />
Falla con il dècor Picasso, sulla traccia letteraria di Alarcon. Per questo lavoro Diaghilev<br />
scritturò a Madrid il danzatore Fèlix Fernandez Garcia, con l’intenzione di insegnare la danza<br />
spagnola al corpo di ballo della compagnia e di farlo collaborare un qualità di consigliere<br />
tecnico con Massine alla realizzazione della coreografia del balletto in questione, che si<br />
sarebbe poi presentata al teatro Alhambra di Londra. Appassionato coltivatore del genere<br />
folcloristico, Massine tornò altre volte alla danza spagnola, egli stesso danzatore di grande<br />
abilità tecnica e di vibrante temperamento.<br />
Nel periodo 1914-20 Massine compose anche “Pulcinella” sulla musica di Pergolesi e<br />
Strawinsky con la scenografia di Picasso e una nuova versione di “Le sacre di printemps” di<br />
Strawinsky, altra coreografi destinata per molti anni a far testo negli annali del balletto<br />
contemporaneo, allestita in vari teatri europei su richiesta di molti compless. Dal 1920<br />
Massine lavora a Londra e a Parigi alternando alla danza l’insegnamento. Richiamato da<br />
Diaghilev consegnerà puntualmente un balletto all’anno dal 1924 al ’28.
Con la morte di Diaghilew nel 1929, Massine diresse la sua attività verso la compagnia dei<br />
Balletti Russi di Montecarlo e presentò nel 1932 “Jeux d’enfants”, con musica di Bizet, sipario,<br />
scena e costumi di Joan Mirò e, nel 1933, le riprese di “Scuola di Ballo” e “Le beau Danube”<br />
con le creazioni: “Beach”, musica di Francaix; “Prèsages” sulla Quinta sinfonia di Ciaikovski,<br />
e “Choreartium” sulla Quarta Sinfonia di Brahms. Gli ultimi due balletti appartengono al<br />
nuovo movimento detto della sinfonia coreografica che sarà adottata, e poi liberata da<br />
Balanchine, da ogni sovrastruttura di genere libro- espressionista perfezionandosi nella<br />
struttura e purificandosi nel contenuto.<br />
Nel 1960 Massine assunse la direzione artistica del Festival Internazionale del Balletto di<br />
Nervi fondando il Balletto Europeo che si presentò pure al festival di Edimburgo. In quel<br />
tempo egli riprese alcuni lavori del suo repertorio e creò. “La commedia umana”, tratta dal<br />
Decamerone di Boccaccio, “Bal des voleurs” e “Il barbiere di Siviglia”.<br />
Il giudizio su un’opera tanto vasta e complessa è assai difficile a formularsi. Positiva la<br />
rinuncia alla danza pura e al virtuosismo fine a se stesso; anche le sue sinfonie coreografiche<br />
non rinunciano alla varietà dei temi e ad un’illustrazione molto concreta. Si potrebbe dire che<br />
la sua danza si svolge “terra a terra” proprio per la natura delle situazioni reali che egli crea.<br />
Quando ricorre alla irrealtà, allora non rinuncia agli elementi più esornativi del balletto<br />
accademico. In verità egli ha apportato il suo stile ad ogni soggetto trattato: dalla commedia<br />
dell’arte al mistero religioso, dal folclore spagnolo all’operetta, dal balletto sinfonico all’opera.<br />
Le coreografie di Massine, al contrario di quelle di Balanchine, sono in fondo sempre<br />
anorganicamente composte: esse vivono per le idee singole, attraenti malgrado la loro<br />
complessità, ma sempre irrisolte; l’invenzione è ricca, piena di fermenti circostanziali che<br />
colpiscono e questo vale tanto per i suoi balletti sinfonici che per quelli d’azione i quali ultimi<br />
però, specie le commedie, hanno riscosso, proprio per la loro vivacità, i maggiori successi.<br />
Vaslav Nijinsky è la più grande figura della danza maschile del secolo scorso ed insieme la<br />
più patetica e leggendaria. Figlio di danzatori di origine polacca, compì i suoi studi alla<br />
Scuola Imperiale del Teatro Marijnsky di San Pietroburgo con Nicolas Legat, Anatole<br />
Oboukhov e Cecchetti, iniziandoli nel 1900. Il debutto ufficioso avviene in “Aci e Galatea” nel
1905 e stupisce la critica, ma il vero debutto avviene nel 1908, suscitando l’ammirazione<br />
incondizionata del pubblico per le rare qualità tecniche a dispetto di un fisico non perfetto.<br />
Sarà la sua stessa conformazione fisica a decretare in lui l’interesse della personalità artistica e<br />
della forza espressiva. Sotto la guida di Cecchetti egli continua a conseguire dei progressi<br />
notevoli e può così, mediante l’incontro con Diaghilew, debuttare nella sua celebre<br />
compagnia di balletti nella stagione 1908-09. Nello spazio di cinque anni, e nel corso della<br />
prima stagione parigina dei Balletti russi, egli incanterà tutti quanti per lo straordinario<br />
potere di elevazione, per la foga dionisiaca, per la maschera espressiva, per l’incredibile<br />
magnetismo e il fascino orientale con la sveltezza dei giri nervosi commista alla morbida<br />
grazia sensuale. Nel 1909 Nijinsky appare in due balletti di Fokine: “Le pavillon d’Armide” e<br />
“Le Festin”. Nel 1910 consegue un notevole successo interpretando lo Schiavo di<br />
“Shèherazade” e lo scattante Arlecchino del “Carnaval”, altri due balletti di Fokine. Più<br />
adatto ai furori tragici che non ai languori romantici, Nijinsky riesce a bilanciare le due<br />
espressioni regalando le interpretazioni indimenticabili e basilari della sua carriera in “Le<br />
spectre de la rose”, dove lo slancio dionisiaco si sposa alla grazia apollinea, e in “Petrouchka”,<br />
personaggio misto di tenerezza e di dolore. Altri balletti di Fokine che interpreta con<br />
altrettanta bravura sono, “Narcisse” e “Le Dieu bleu”. L’anno 1912 vede la sua prima opera<br />
coreografica. La sua cultura si allarga grazie all’influenza di Diaghilew ed alla conoscenza di<br />
Jacques Dalcroze, i suoi interessi acquistano nuovi incentivi; Nijinsky studia gli antichi<br />
bassorilievi greci e compone, ispirandosi al famoso poema di Mallarmè, sulla musica di<br />
Debussy, “L’apres midi d’un faune”, un’opera tutta spigoli ma anche condotta su di uno<br />
schema scultoreo abbastanza originale ed audace, molto vicina allo scandalo che scoppia, in<br />
realtà, alla prima rappresentazione parigina. Riceve i complimenti di Rodin ma il pubblico<br />
resta scandalizzato da alcune soluzioni più libere e si apre la polemica. Nello stesso anno<br />
danza in “Dafni e Cloe”.<br />
Nella primavera del 1913, Najinsky presenta la sua seconda coreografia, “Jeux” sulla musica<br />
di Debussy, ancora con scena e costumi di Bakst, egli stesso interpreta accanto a Karsavina e<br />
Schollar, un balletto nel quale la gara sportiva si mescola alla contesa amorosa.
Ma è “Le sacre du printemps” ad assorbire la vivacità della discussione sia per il tessuto<br />
musicale che per il disegno coreografico tutto arbitrario per i seguaci dei canoni accademici.<br />
Si sarebbe dovuto tener presente che sotto il titolo vi era scritto “quadri della Russia pagana”,<br />
e l’asprezza della musica come la soluzione irregolare dei ritmi non potevano fare altro che<br />
suggerire posizioni contorte, flessioni, rovesciamenti più prossimi ai modi di una danza libera<br />
che non a quelli della danza accademica. Per i conservatori quell’improvviso disdegno verso<br />
il classico “en dehors” costituì un oltraggio imperdonabile.<br />
Nel corso di una tournèe in America del Sud, Nijinsky sposa la danzatrice ungherese Romola<br />
de Pulsky. Diaghilev, che si trovava in Europa, venutone a conoscenza rompe il contratto con<br />
il danzatore. Rimasto solo Najinsky fonda una sua propria compagnia e debutta a Londra nel<br />
1914, ma, causa l’inesperienza nella nuova impresa, le cose non vanno nella giusta direzione.<br />
È internato in Ungheria durante la guerra per via della sua nazionalità ed è liberato onde<br />
poter partecipare ad una tournèe in America nella primavera del 1916. Si riavvicina alla<br />
compagnia di Diaghilew. Al Metropolitan di New York presenta la sua quarta ed ultima<br />
coreografia nel quadro degli spettacoli del Balletto russo, “Till Eulenspiegel”, sul poema<br />
sinfonico di Richard Strauss, scena e costumi di Robert Edmond Jones, nel 1916, altra<br />
coreografia abbastanza avanzata. Egli pretende di essere il solo come direttore artistico ma la<br />
compagnia non regge e si disintegra. Nijinsky riesce a portare a termine ancora una tournèe<br />
spagnola e una in Sud America nel 1917, data che segna la fine della sua collaborazione con i<br />
Balletti Russi. Morirà nel 1950 a Londra, dopo aver vissuto gravi problemi di salute mentale.<br />
Ci restano le memoria della moglie e uno sconcertante “Journal” scritto da lui nel 1919.<br />
Delle sue coreografie non vi è traccia, ma il ricordo della sua danza rivive straordinariamente<br />
limpido in coloro che ebbero la fortuna di vederlo. Una ricca bibliografia, fiumi d’inchiostro,<br />
giudizi ed impressioni di uomini di cultura, di artisti e poeti sono la testimonianza preziosa<br />
del fuggevole passaggio di questo danzatore sull’effimera scena della danza. Come danzatore<br />
lo si ricorda per la tecnica straordinaria nell’elevazione e nel ballon, cui aggiunse un lato<br />
interpretativo non meno sorprendente: la potenza dell’espressione e della trasfigurazione<br />
scenica. Per quanto riguarda il contributo creativo alla coreografia moderna si è già accennato
alle difficoltà, da parte di Nijinsky, di inserirsi e rimanere in un movimento che gli<br />
appartenga. Ma il suo “apres midi d’un faune” va considerato il primo balletto importante<br />
dell’epoca moderna. Egli aveva capito la necessità di liberarsi dall’impaccio di un<br />
accademismo che avrebbe imbrigliato le sue idee. Si richiamò ad una plasticità neo-<br />
ellenistica , ricreandola.<br />
Bronislava Nijinska, sorella di Vaslav, è importante principalmente come coreografa. Compie<br />
i suoi studi alla Scuola Imperiale di San Pietroburgo e nel 1908 debutta al Teatro Marijnsky<br />
che lascia nel 1911. Raggiunge i balletti russi di Diaghilew nel 1909.<br />
Danzatrice di carattere ha al suo attivo alcune interpretazioni in “Carnaval”, “Petrouchka”,<br />
“Narcisse” non prive di rilievo. Ritorna Kiev dove nel 1920 pubblica un libro di riflessioni<br />
ispiratole dalla pratica coreutica intitolato, “L’ècole du mouvement, thèorie de chorègraphe”.<br />
La Nijinska si fa subito partigiana delle teorie di Rduolf von Laban. Essa non ripudia la scuola<br />
classica e non ambisce a fondarne una nuova, ma vuole completare ed arricchire la tecnica<br />
accademica integrandovi le scoperte dei principali maestri della danza libera. Uno dei<br />
principali frutti di questa iniziativa è la sua prima opera coreografica, “Etudes”, del 1920, su<br />
musica di Bach, realizzata dagli allievi della sua scuola, ripresa poi a Parigi nel 1931, a Buenos<br />
Aires e a Montecarlo nel 1934.<br />
Nel 1921 lascia la Russia e ritorna con Diaghilew. Egli comprende la forza creativa e la<br />
capacità organizzativa di questa artista e le affida l’incarico di maestra di ballo oltre all’invito<br />
di numerose coreografie fino al 1926. Lei realizza la ripresa e l’arrangiamento di “La belle au<br />
bois dormant” a Londra nel 1921 e “Le mariage d’Aurore” a Parigi nel 1923. Nel 1922 realizza<br />
il suo primo balletto importante: “Renard”, e “Les noces”, entrambi con musiche di<br />
Srawinsky, che restano i due capolavori dell’artista.<br />
Allontanatasi da Diaghilew nel 1926, la Nijinska trascorre una vita artistica movimentata<br />
passando da una compagnia all’altra.<br />
È stato detto che la Nijinska inizia lo stile neoclassico della danza. Infatti, vi è un grande<br />
spirito di ricerca nella sua opera: una sua arabesque non corrisponde alla versione classica
della stessa. Nello stesso tempo, nella vastità della sua opera, vi sono linee e disegni che<br />
potrebbero essere ispirati alle pitture bizantine come agli affreschi dell’età classica greca.<br />
Fra gli altri numerosi collaboratori di Diaghilew non ancora citati sono da ricordare: Anna<br />
Pavlova, Anton Dolin, Alicia Markova, Ninette de Valois.<br />
Anna Pavolva (1882-1931) fu essenzialmente danzatrice e si può dire che la più grande del<br />
primo trentennio del secolo scorso. Anche lei studiò alla Scuola del Teatro Imperiale di San<br />
Pietroburgo con Gerdt e Cecchetti. Debuttò al Marijinsky nel 1899 e fu promossa prima<br />
ballerina nel 1905. Sin da allora la Pavlova fu danzatrice isolata, andò all’estero in tournèe a<br />
Copenaghen, Praga, Stoccolma, Vienna, Berlino, danzando con Adolph Bolm e Nicolas Legat.<br />
Nel 1909 è scritturata da Diaghilev e danza “Le Silfidi”; lo stesso fa a Londra e a New York<br />
nel 1910 accanto a Mikhail Mordkin 10 . Ancora nel 1911 la Pavlova è ospite dei Balletti russi ma<br />
decide di staccarsi da Diaghilev e fondare una compagnia propria. Ritorna in Russia e poi si<br />
stabilisce a Londra. Suoi partner di quegli anni sono eccellenti danzatori come Mordkin,<br />
Novikov, Volinine, Vladimirof.<br />
L’influenza della Pavlova sul balletto moderno fu pressoché nulla. Essa non amò i mutamenti<br />
dell’arte, gli avanzamenti della tradizione, preferì le situazioni tranquille e non coltivò che un<br />
registro, quello lirico di tarda derivazione romantica. Non fu coreografa e tutti la ricordano<br />
come patetico cigno morente, la danza che Folkine allestì nel 1905, il suo cavallo di battaglia.<br />
Anton Dolin, Alicia Markova e Ninette de Valois furono gli ultimi interpreti di Diaghilev e i<br />
primi a formare il balletto nazionale inglese.<br />
Anton Dolin (pseudonimo di Patrick Healey Kay) di origine irlandese fu danzatore di bella<br />
tecnica, ed è da considerarsi riproduttore accurato e coscienzioso di opere appartenenti al<br />
repertorio del passato ed insegnante. Importante fu il suo influsso sul nascente balletto<br />
inglese. Debuttò nei balletti russi di Diaghilev e fu interprete in “Le train belu”, “Le Bal”,<br />
“Les facheux”. Nel periodo 1931-35 è interprete dei principali ruoli al Vic-Wells Ballet e dal<br />
1935 al ’38 fa parte della Compagnia Markova- Dolin. Dal 1939 al ’46 è animatore<br />
dell’American Ballet Theatre e nel 1950 fonda il London’s festival Ballet. Compone e danza da<br />
10 Mordkin (1881-1944) fu un danzatore che, uscito dal Bolschoi di Mosca, percorse una brillante carriera emigrando negli<br />
Stati Uniti, fondando n New York una scuola e una compagnia che diventò la base del “Ballet Theatre”.
solo il “Bolero” di Ravel; ricostruisce il famoso “Pas de quatre” di Perrot- Pugni; scrive alcuni<br />
libri dei quali il più importante è “Pas de deux, the art of partnering” nel 1949.<br />
Alicia Markova (Alicia maeks nata a Londra nel 1910) è stata definita la più grande ballerina<br />
romantica contemporanea, un riflesso in terra britannica di Anna Pavlova che l’aveva ispirata<br />
durante gli spettacoli londinesi.<br />
I suoi studi si compiono con Astafieva, Legat e Cecchetti. Raggiunge i balletti russi di<br />
Diaghilev nel 1925 con i quali interpreta “Le Rossignol” e “Le Chatte”. In seguito danza con la<br />
Camargo Society e diviene la stella del Ballet Rambert danzando con Dolin al Vic-Wells Ballet<br />
sino al 1935 e poi nella compagnia di questi celebri danzatori. Partecipa al balletto russo di<br />
Montecarlo e con il Ballet Theatre. Ritorna nel 1948 in Inghilterra per danzare come ospite al<br />
Covent Garden. In seguito sarà ospite del London Festival Ballet, del Grand Ballet du<br />
Marquis de Cuevas, del Festival di Nervi. Il suo nome è legato al personaggio di Giselle.<br />
Ninette de Volis (Edris Stannus, Irlanda 1898) danzatrice e coreografa di origine irlandese va<br />
ricordata soprattutto come organizzatrice e direttrice del Royal Ballet britannico già Sadler’s<br />
Wells Ballet. Inoltre ha contribuito con Marie Rambert allo sviluppo del balletto inglese. Fu<br />
allieva di Cecchetti, ed entrò nella compagnia di Diaghilev nel 1923 dove subito venne<br />
nominata solista. Fu per lei di grande esperienza il quotidiano lavoro nella Compagnia e<br />
l’approfondita assimilazione di ogni principio e della solida struttura del complesso. Nel<br />
1926, abbandonato Diaghilev, apre a Londra una scuola detta “Accademia di Arte<br />
Coreografica”. Il 1931segna una data importante: Lilian Baylis direttrice dell’Old Vic<br />
ripristina il teatro del Sadler’s Wells e invita la de Valois a trasportarvi la sua scuola. La<br />
piccola compagnia si sviluppa gradatamente e diventa la grande e celebre compagnia del<br />
Sadler’s Wells Ballet che nel 1956 riceve l’aulica etichetta di Royal Ballet. Alla danzatrice e alla<br />
coreografa subentra la dinamica, volitiva, ostinata creatrice di uno dei più grandi complessi<br />
del mondo ballettistico. Accanto ad un’attività così ricca di interessi e di iniziative, non manca<br />
di farsi strada un lato creativo abbastanza interessante specie laddove vi è rievocazione di<br />
certa vita inglese del passato. Ciò vale per “The Rake’s Progress”, 1935 sulla musica di Gavin<br />
Gordon. Sono per lo più balletti contenenti, per la loro natura descrittiva, molte danze di
carattere. Tendente all’astratto è “Chekmate” del 1937, con musiche di Arthur Bliss. Altri<br />
balletti passati in repertorio sono “Job”, 1951, “The haunted ballroom”, 1933, “The Gods go a-<br />
begging”, 1936, “The prospect before us”, 1940, “Don Quixote”, 1950.<br />
Si è rimproverato a Diaghilev, da più parti, di aver voluto allargare troppo il confine del<br />
balletto e di disperdere la sua vera natura in una ricerca di apporti marginali. Una cosa è<br />
certa, mai la danza era stata beneficiata di tanta squisitezza estetica.<br />
ELENCO DEI PRINCIPALI BALLETTI REALIZZATI DA DIAGHILEV<br />
1909 - «Le Pavillon d'Armide", «Le Prince Igor" (danze poloveziane); « Le festin" (suite di<br />
danze), «Les Sylphides", «Cléopatre ».<br />
1910 - « Carnaval », «Shéhérazade ",« L'oiseau de feu, «Giselle », «Les Orientales".<br />
1911 - « Le spectre de' la rose ». «Narcisse », « Petrouchka", « Sadkò" (opéra-ballet), « Le lac<br />
des cygnes ".<br />
1912 - « L'après mi di d'un faune", « Daphnis et Chloe", «Le Dieu bleu », «Thamar ».<br />
1913 - «L'Oiseau d'or », « Jeux », « Le sacre du printemps", «La tragédie de Salomé". .<br />
1914 - « Le coq d'or », « Papillon", «La légende de Joseph"1 «Le Rossignol" (opéra-ballet)I<br />
«Midas".<br />
1915 - « Le soleil de nuit".<br />
1916 - «Till Eulenspiegel », « Las Meniflas », «Kikimora ».<br />
1917 - « Jeux d'artifice », « Les Femmes de bonne humeur », « Lescontes russes », « Parade ».<br />
1919 - « La boutique fantasque », « Le tricorne ».<br />
1920 - « Le chant du rossignol », «Pulcinella », «Le Astuzie femminili» .(opéra-ballet).<br />
1921 - «Chout », «Cuadro Flamenco", « The Sleeping Princess» (riproduzione da Petipa).<br />
1922 - «Le mariage de la belle au bois dormant" (riproduzione),« Renard ». 1923 - « Les<br />
noces".<br />
1924 - «Les tentations de la bergère ou l'Amour vainqueur", «Les biches"1 «Cimarosiana", «<br />
Les facheux", « La nuit SUl' le<br />
Mont .Chauve", « Le train bleu ».<br />
1925 - « Zéphire et Flore", « Les matelots", «Barabau".
1926 - « Roméo et Juliette » (musica di Constant Lambert), «La Pastorale », «Jack-in-the-Box »,<br />
«The Triumph of Neptune".<br />
1927 - «La chatte », «Mercure» ( « Poses plastiques»), « Le Pas d'acier ».<br />
1928 - «Ode », «Apollon musagète », « The Gods Go a-Begging» ,( «Le Dieux mendiants.).<br />
1929 - «Le baI., «Le fils prodigue..<br />
PRINCIPALI COLLABORATORI DEI «BALLETTI RUSSI» DI DIAGHILEV<br />
Danzatrici:<br />
Anna Pavlova, Elena Smirnova, Sophie Fedorova, Tamara Kar. savina, Ida Rubinstein, Vera<br />
Fokina, BronisIava Nijinska, Matilde Kchessinska, Ludmilla SchoIlar, Lydia Sokolova, Lubov<br />
Tchcrnicheva, Vera Nemchinova, Vera TrefiIova, Olga Spcssivtzeva, Felia Dubrovska, Alice<br />
Nikitina, Alessandra Danilova, Alicia Markova.<br />
Danzatori:<br />
VasIav Nijinsky, Michel Fokine, Adolph Bolm, Alcxandrc Orlov, Léon WOizikowsky,<br />
Stanislas Idzikowsky, NicoIas Zverelf, Léonidc Massine, George BaIanchine, Sergeo Lifar,<br />
Anton Dolin, o Théodor Siavinsky, Piene VIadimirov, AnatoIe Vilzak, Constantin Tcher-<br />
okass, Nicholas Efimov.<br />
Coreografi:<br />
Michel Fokine (1909-12 e 1914), vaslav Nijinsky (l912-16), Léonide Massine (1915-20 e 1925-<br />
28), Bronislava Nijinska (1922-26), George BaIanchine (1926-29), Boris Romanov (1913).<br />
Maitre de baIlet:<br />
Enrico Cecchetti.<br />
Musiciti-composit ori:<br />
Nicholas Tcherepnine, Igor Strawinsky, Claude Debussy, Malirice RaveI, Reynaldo Hahn,<br />
FIorent Schmitt, Vincenzo Tommasini, Eric Satie, Manuel de Falla, Ottorino Respighi, Serge
Prokofiev, Francis Poulenc, Georges Auric, Darius Milhaud, Vittorio Rieti, Henri Sauguet,<br />
Nicholas Nabokov.<br />
Pittori scenografi:.<br />
Alexandrc Benois, Nicholas Roerich, Léon Bakst, Constantin Korovine, Alexandre Golovine,<br />
Josè Maria Sert, Nathalie Gontcharova, Michel LariQnov, Mstislav DOboujinsky, Robert E.<br />
Joncs, Giacomo Balla, Pablo Picasso, André Derain, Juan Gris, Marie Laurencin, Georges<br />
Braque, Maurice Utrillo, Max Ernst, Joan Mirò, Henri Matisse, Georges Rouault, Pedro Pruna,<br />
PaveI TcheIichev,André Bauchant, Giorgio De Chirico, Robert e o Sonia Delallnay,Gabo e<br />
Pevsner.<br />
Direttori d'Orchestra:<br />
Soudeikine, Léopold Survage, Carlo Socrate, Valentin Serov, AIexandre Schervachidzé, Henri<br />
Lourens, Iacoulov, Bilibine, Boris Anisfeld, Fortunato Depero, Piene Charbonnier, NichoIas<br />
Tchercpnine, PauI Vidal, Gabricl Piemé, Piene Monteux, Desiré Emile IngheIbrecht, Richard<br />
Strauss, René Baton, Ernest Ansermet, Grégor Fitelberg, Edouard FIament, Roger Desormière,<br />
Sir Thomas Beecham.<br />
IL <strong>BALLETTO</strong> EUROPEO E AMERICANO DOPO DIAGHILEV SINO AD<br />
OGGI<br />
Si potrà discutere il gusti dei russi di oggi, non certo la levatura tecnica e artistica dei<br />
complessi di danza, la preparazione del pubblico e la sua assimilazione, le provvidenze che lo<br />
Stato elargisce a quest'arte, come non si può certo disconoscere il livello cui è pervenuto il<br />
balletto in America. Se si deve parlare del balleto europeo le cose cambiano, il giudizio<br />
generale si fa più dispersivo, le varie tendenze, le iniziative restano circoscritte all'ambiente in
cui sono nate e cresciute e ciascuna istituzione si tiene salda nell’ambito delle sue<br />
caratteristiche. Mentre il balletto sovietico sta a sé, ha una sua delineata fisionomia e così pure<br />
il balletto americano, a suo modo, in mezzo al convergere delle razze che lo compongono, in<br />
Europa ogni nazione com’è naturale, reca la chiara impronta di un gusto definito, di<br />
tradizioni assimilate, di processi storici, culturali ed artistici, come tante ramificazioni che si<br />
dipartono dalla radice che è una, indivisibile: la tecnica accademica. Persino l'Inghilterra, da<br />
nazione senza tradizione ballettistica, è riuscita ad averne una.<br />
Questa tradizione è conforme al gusto, alla storia ed al costume di quel paese com’era facile<br />
pensare già nel 1931, quando un piccolo pugno di volonterosi diede vita al balletto britannico.<br />
Oggi si dice che il balletto inglese è tradizionalista come lo si diceva di ogni evento che<br />
toccasse la vita, le usanze, il carattere, quindi anche l'arte del popolo anglosassone. Si è<br />
parlato di impassibilità per le danzatrici del «Royal Ballet» e dello stile un poco compassato e<br />
uniforme da etichetta di corte (un riferimento all'antico balletto aulico?) dei danzatori. Questo<br />
è anche vero. Se non ci fossero in quell’istituzione due artiste come Margot Fonteyn o<br />
Svetlana Beriosova, la prima inglese, la seconda russa, con palpiti e voli poetici addirittura<br />
commoventi e di anno in anno sempre nuove e fresche immissioni, il balletto inglese<br />
rischierebbe veramente di infilarsi su di un binario morto. Del Royal Ballet (ex Sadler's Well<br />
Ballet) bisogna parlare come di quegli organismi stabili e perfetti, come il balletto scaligero<br />
suggerisce di essere ed è solo in parte per difetto di direzione coreografica e di cultura<br />
coreutica. Alle sorti del Royal Ballet ha presieduto quella straordinaria donna ed artista che è<br />
Ninette de Valois, forgiatrice del complesso, battagliera e indomita come la carica esige, con al<br />
fianco, coreografo «princeps», Frederick Ashton, succedutole ora nella direzione e in piena<br />
efficienza creativa, al quale va il merito, negli ultimi anni, di aver dato un balletto come<br />
«Ondine» e ricreato « La fille mal gardée » di dàubervaliana memoria, tutto pimentato di<br />
umorismo moderno, di «vis comica», di piacevolezza mimica 11 . Intorno a queste due<br />
11 Frederick Ashton (Guayaquil, Ecuador, 1906) è uno dei più importanti coreografi del nostro tempo e il primo, in senso assoluto, del<br />
movimento britannico. I suoi studi si svolsero in Inghilterra con Massine, Marie Rambert e Nijinska. La sua attività di danzatore si è<br />
esplicata per lungo tempo nella danza di carattere (ancora recentemente egli è apparso, accanto a Robert Helpmann, nel personaggio di<br />
una deIle « Ugly Sisters» in « Cenerentola» di Prokoficv del quale balletto egli creò la coreografia nel 1948). Fra le sue opere più notevoli
personalità stanno i coreografi della « nouvelle vague» inglese: Alfred Rodriguez (1921), John<br />
Cranko (1927), Kenneth Mac MiIIan (1930). Essi hanno ereditato il meglio del balletto<br />
psicologico ed intimista di Anthony Tudor. (Londra, 4 aprile 1909), ora operante in America,<br />
l'autore non dimenticato di «Pillar of fire», sulla «Verk1aerte Nacht» di Schoenberg, e «Jardin<br />
aux Lilas», sul «Poème» di Chausson, due pietre miliari nell'evoluzione del balletto<br />
contemporaneo. Straordinaria l'inclinazione di Tudor al racconto danzato. I succitati balletti<br />
ne sono un chiaro esempio oltre alla considerazione che essi hanno di essere due distinti<br />
capolavori. Generalmente Tudor rivolge la sua ispirazione verso testi musicali a programma<br />
«La Notte trasfigurata» di Schoenberg ne è una prova, ma vanno ricordati, per la patetica<br />
partecipazione al dramma, i «Kindertotenlieder» di Mahler, un balletto affidato, con il titolo<br />
«Dark Elegies», alle cure e al repertorio di Marie Rambert. Riscqperto e rivalutato<br />
recentemente, Mahler gode di un particolare favore presso i coreografi britannici che hanno<br />
chiesto alla sua musica ispirazione per le loro visioni coreografiche, altrettante trasposizioni<br />
visive del mondo sonoro mahleriano attraversato dai lampi della tragedia umana. Kenneth<br />
Mac MiIlan, a sua volta, si è cimentato con «Das Lied von der Erde», rappresentato a<br />
Stoccarda (1965) e Londra (1966). Cranko ha messo piede stabile a Stoccarda ove dirige il<br />
Balletto statale con un gruppo di danzatori di fresca estrazione e alcune creazioni, le migliori,<br />
improntate ad un «humour» tutto britannico 12<br />
si ricordano: « Façade» (1931), « Les Patineurs» e « Wedding Bouquet» (1938), «Symphonic Variations» (1946), « Scènes de baIlet»<br />
(1948), «Dafni c Cloe» (1951), «Sylvia» (1952, nuova versione ridotta 1968), i citati « Ondine» (1958) e « La Fille mal gardée» (1960); «<br />
Les Deux Pigeons» (1961), «Marguerite and Armimd» (1963), « The Dream» (1964), «Monotones» (1965-66), «Jazz calendar» (1968).<br />
Nei «Monotones », su musiche di Satie, egli prolunga sapientemente le linee tracciate neIle Variazioni sinfoniche suIlo sfondo a spirali di<br />
Sophie Fedorovitch e in questa traiettoria egli si dimostra un sicuro, infallibile dominatore degli spazi in una astrazione che è all'opposto<br />
dei suoi più celebri racconti danzati.In «Enigma variations» (suIla musica omonima di Edward Elgar, Covent Garden 25-10-1968) è un<br />
ritorno al tipo di baIletto che non è « concertante» e nemmeno strettamente «d'azione» ma sta .nel mezzo, in quello di tipo « pSicologico»<br />
nel quale, attraverso simbologie diverse, si coglie l'essenza tutta interiore dei personaggi di uno scorcio di vita «fin de sièce» e con un<br />
ritratto biografico del compositore inglese. .<br />
12 Tudor e Mac MiIlan, come moltissimi altri artisti coreografi, non sempre con positività di risultati beninteso, sentirono la necessità di<br />
dare visione e dramma (nel senso di azione) a quella musica non sorta per essere danzata, esattamente come successe a molti musicisti, e<br />
continua a succedere di dare suono e vita. drammatica a parole non sorte per essere musicate (i cinque testi dei « Canti dei bambini morti"<br />
di Frledrich Riickert, come le antiche poesie cinesi del «Canto della terra» ne sono una prova lampante). Il piegare un testo poetico ad una<br />
«interpretazione» musicale non differisce dall'associazione interpretativa che si suole dare, in sede coreografica, di una musica. Nel caso<br />
di Tudor e Mac Millan la trasposizione si attua in duplice veste: dal piano poetico a quello musicale e dal musicale al coreografico.
Pure da ricordare, di Andrée Howard (1910-1968), è « La Fete étrange» che; datato 1940, è<br />
stato superato oggi da altre simili creazioni. A questo proposito basterebbe citare il recente «<br />
Invito» di Kenneth Mac Millan che avrà sbavature e ridondanze, ma conta più di un<br />
momento di alta tensione drammatica e di forte espressività con una patetica interprete: Lynn<br />
Seymour. Così dicasi per l’«Antigone» di Cranko (ma Cranko ha allestito pure un'ottima<br />
versione del «Romeo e Giulietta » di Prokofiev per il Balletto dell'Opera di Stoccarda).<br />
Gli allestimenti britannici sono sempre molto, forse troppo, elaborati: Nicholas Georgiadis per<br />
« L'invito» (musica di Matyas Seiber), Rufino Tamayo per l' «Antigone » (musica di Mikis<br />
Theodorakis). L'insieme è molto curato, le danzatrici eccellono, gli uomini, s'è detto, meno: un<br />
po' uniformi, risentono la buona tecnica persino leccata che esclude le vibrazioni, i fremiti, i<br />
momenti di più acceso trasporto (è questo il guaio principale dei complessi stabili). Di Margot<br />
Fonteyn sempre la stessa, Dama della regina, bisogna dire che la sua danza si è talmente<br />
smaterializzata da assurgere ad una vera e propria trasfigurazione com’è avvenuto nel ruolo<br />
di Giselle, che pure non le è congeniale, accanto a Nureyev danzatore ospite, per cui ai tardi<br />
giorni della sfolgorante carriera di questa danzatrice si è assistito senz’ombra di dubbio ad<br />
una resa compiuta del celebre personaggio, uscito dalla fantasia di Heine e dalla penna di<br />
Théophile Gautier.<br />
L'abbiamo ritrovata al Festival di Nervi del 1962 e tornata cigno, creatura soprannaturale, per<br />
la delizia di tutti coloro, e sono moltissimi, i quali intravedono in questi personaggi della più<br />
fantasiosa letteratura romantica l'espressione rispondente al concetto che si sono fatti della<br />
danzatrice cosiddetta « classica ». Le limitazioni, in questi come in altri casi, sono<br />
dannosissime.<br />
Che il personaggio di Odette-Odile sia congeniale alla Fonteyn s'è avuta ancora una<br />
dimostrazione. Ella resta<br />
nel nostro mondo occidentale un'interprete del celebre personaggio sotto più aspetti ideale.<br />
C'è chi parla di freddezza, di interpretazione stereotipata, di artificiosità artificiosamente<br />
dissimulate. Sarà tutto questo, ma la Fonteyn dà soprattutto l'impressione di una grande
purezza forse più stilistica ed interpretativa che strettamente tecnica. Non ci sono prodigiosità<br />
virtuosistiche, direi anzi che la sua interpretazione è spoglia d'ogni virtuosismo. La tecnica:<br />
esiste naturalmente, sta di sotto, non si fa prepotente, schiacciante e il gioco resta un poco<br />
compassato, discreto, ma ancora quasi sempre lieve, morbidissimo e trasparente come cristalli<br />
rifratti da preziosissime luci. Non è una danzatrice romantica e nemmeno strettamente<br />
accademica (le manca il brillìo tecnico travolgente), la si potrebbe indicare come il prototipo<br />
della danzatrice classica vagheggiata dal pubblico che lo stesso balletto britannico, senza<br />
avere una tradizione, è riuscito ad instaurare fra il '30 e il '40 e a portare sino ai nostri giorni<br />
rifacendosi alla vera tradizione dei «masques» e del teatro rinascimentale che esiste radicata.<br />
Le interpretazioni di Aurora e Ondine restano le sue migliori. L’antagonista della Fonteyn, la<br />
splendida Beriosova, reca per esempio il tipo della danzatnce classica di oggi, moderna per<br />
sensibilità, temperamento e stile, esemplato su quello accademico. Sono differenze<br />
sottilissime che hanno il loro peso. Della Fonteyn, come del suo partner Rudolf Nureyev,<br />
straordinaria tempra di «danseur noble» che alla tecnica formidabile accoppia una vibrante<br />
forza espressiva, molto si è detto, anche a vanvera, notizie private che nulla hanno a che fare<br />
con la loro serietà di artisti. Semmai la funzione di ambasciatrice della Fonteyn (ma ormai da<br />
tempo il Dottor Arias ha dato le dimissioni di ambasciatore del Panama alla corte di San<br />
Giacomo) e le varie lauree «honoris causa» servono a consolidare quel tono di dignità<br />
pensosa e di aristocratica finezza che ella reca sulla scena. Dire di Rudolf Nureyev significa<br />
sceverare fra le mille espressioni fatte del linguaggio corrente per un danzatore: Questo russo,<br />
venato di melanconia, di misticismo nell'arte, transfuga dalle file del Balletto Kirov di<br />
Leningrado, è l’apportatore nel nostro mondo occidentale di una calda ventata d'arte slava di<br />
un furore dionisiaco come nell'altro anteguerra Nijinskvy recò il suo e il mondo fu al suoi<br />
piedi.<br />
Nadia Nerina, Antoniette Sibley, Merle Park, Annette Page, Georgia Parkinson sono le altre<br />
danzatrici da ricordare; Alexander Grant, Brian Shaw, David Blair, Desmond Doyle,<br />
Christopher Gable, Anthony Dowell, Derek Rencher, Donald McLeary, Graham Usher, Keith<br />
Rosson i danzatori più in evidenza accanto alle giovani leve: Kenneth e Monica Mason,
Deanne Bergsma, Michael Coleman, Davide Drew, Vyvyan Lorraine, Robert Mead, Keith<br />
Martin, Carole Needham, David WalI. Il repertorio è considerevole: va da Ba1anchine a<br />
Massine, a Ashton a quelli che si sono detti.<br />
Un esempio di organismo saldo che riunisce tutte le forme che intorno al 1930 si trovarono<br />
concordi per dar vita ad un balletto nazionale a cominciare da Marie Rambert con il suo Ballet<br />
Club, oggi divenuto Ballet Rambert ed ancora operante. Questa compagnia fu per anni la<br />
fucina nella quale si prepararono. gli artisti del nuovissimo balletto britannico: Antony Tudor,<br />
Ninette de Valois, Robert Helpmann, Andrée Howard, Frederick Ashton, Walter Gore 13 .<br />
Che poi il gusto del balletto inglese risenta dell'ambiente dove si è formato, che lo stile<br />
prediletto sia un poco sempre quello cosiddetto jam (noi diremmo caramelloso) e, in alcuni<br />
più importanti lavori narrativi si oscilli tra un classicismo molto di maniera e un<br />
espressionismo di mano pesante, sono mende queste che non influiscono sul grado tecnico<br />
del complesso che si fa apprezzare soprattutto per l'affiatamento e l'omogeneità dello stile. Si<br />
parla del Royal Ballet.e si pensa aduna grande prova di buona volontà, di coraggio, di<br />
disciplina, un creare dal nulla qualcosa che ha dell'esemplare e la lezione per popoli di ben<br />
più ampie risorse, passate e presenti, pare difficile da apprendersi.<br />
Per esempio, la Francia, così ricca di eventi coreografici, così generosa negli annali del balletto<br />
ha avuto il suo momento di sosta che si è protratto a lungo. E' lo stesso Roland Petit<br />
(Villemomble, 13 gennaio 1924) a ritentare oggi il risveglio francese dopo la parentesi<br />
all'Opéra (Notre Dame de Paris, dicembre 1965) con il nuovo spettacolo «op» e «pop»: «Elo-<br />
gio della follia» al Théatre des Champs-Élysées (marzo 1966), ove aveva debuttato verso la<br />
13 Ma forse i fermenti più immediati andrebbero ricercati nella più giovane scuola delle piccole compagnie di balletto, che si potrebbero<br />
definire da camera. Ne esiste almeno una di non pochi meriti attiva per lo più a Londra, denominata « Western Theatre Ballet» e diretta da<br />
Peter Darrell che la fondò nel 1957 insieme a Elisabeth West. I suoi interessi vertono verso l'umano e verso la crisi esistenziale dell'uomo<br />
moderno. Si è capito che la tendenza di rappresentazione è dichiaratamente realistica come lasciano intendere « Mods and Rockers 1963»<br />
su musica dei Beatles e « Non Stop» che è dell'anno di fondazione della compagnia, su musica jazz. Egli dice: « Ciò che più mi interesa è<br />
la geate intrappolata in un dato ambiente o in una situazione senza via di uscita. Nessuno è semplice e lineare. Mi piace mostrare<br />
qualcuno che arriva al punto di esplodere ». E' evidente che Darrell si rivolge ai giovani, al teatro e alle idee di oggi. E' interessante perciò<br />
la costante ricerca dei temi attuali come lo è la tecnica impiegata che appartiene al balletto moderno di derivazione accademica ma che<br />
proprio per questo si serve degli apporti derivantigli da tutte le esperienze condotte in quel campo.
fine della guerra. Questo balletto è una nuova testimonianza, qualora fosse stata necessaria,<br />
dell'incontestabile senso del teatro di questo artista, con una vitalità creativa eccezionale<br />
anche quando, come si vedrà, non è sempre stata ben dosata. Il balletto si presenta sin<br />
dall'inizio con tutti gli ingredienti, gli effetti e le misture soliti a tanta parte del teatro<br />
coreografico contemporaneo con il risultato di un prodotto di alchimia. Jean Cau, autore<br />
dell'argomento, ha preso in prestito ad Erasmo solo il titolo: niente che fare con l'opera<br />
dell'umanista: olandese. Questo «Elogio» non è che un seguito di nove capitoli dedicati ad<br />
alcune delle più vistose follie della nostra epoca. La scultura animata che costituisce il si-<br />
parietto di Jean Tinguély non è che una macchina messa in moto da un danzatore che pedala<br />
ostinatamente. Molto bella a guardarsi questa curiosità meccanica, ma è un effetto: Martial<br />
Raysse e Nicki de SaintPhalle faranno il resto quanto a procedimenti tecnici. La coreografia è<br />
altra cosa ed essa si sviluppa poi su di una musica seriale dell'abile Marius Constant con<br />
quella ricerca puntiglio sa, spesso straordinaria di Petit verso forme nuove,. piene di forza e<br />
con un senso naturalista sviluppato all'eccesso, non di rado terrificante, al limite del gusto,<br />
dell'equilibrio e del possibile, con una sua innegabile bellezza tutta risolta nel valore si-<br />
gnificante. Ci si trova di fronte ad un’opera nuova che non ha alcun rapporto con i balletti<br />
precedenti da «Cannen» a «Il Lupo».<br />
Il passato di Petit è il seguente: subito dopo la guerra un gran fervore ed ecco i Ballets des<br />
Champs Élysées ad indicare un nuovo tracciato e quel gusto tipicamente parigino del music-<br />
hall fatto bene, che non può avere imitatori, così com'è prerogativa francese la straordinaria<br />
vita della canzone. Oggi di quel movimento non esistono che le briciole e tutto è scaduto nel<br />
music-hall commerciale, un pò d'occasione, qualche volta di fortuna, ora sguaiato, talvolta<br />
insignificante. Peccato per degli artisti come Roland Petit e Renée Jeanmaire. Tempi<br />
straordinari quelli degli ultimi anni di guerra e dell'immediato dopoguerra, quasi quanto dei<br />
Balletti russi di Diaghilev. Animatori: Roland Petit, danzatore transfuga dall'Opéra e<br />
coreografo in fieri di promettentissime qualità e Boris Kochno, anziano collaboratore di<br />
Diaghilev, librettista di molte risorse, una specie di direttore artistico. Dietro di loro la<br />
supervisione di due esperti di teatro: Christian Bérard e Jean Cocteau, memori del loro
passato a fianco di Diaghilev. Roland Petit lavorava in coppia con Janine Charrat sotto<br />
l'organizzazione di Irène Udova in spettacoli detti «Soirées de la Danse» al Teatro Sarah<br />
Bernhardt. Erano rappresentazioni portate a termine in condizioni difficili durante il<br />
turbolento 1944, ma fu in seno a questo gruppo che si rivelarono Babilée, la Vyroubova,<br />
Colette Marchand, Ethery Pagava, Irène Skorik, Nathalie Philippart, Renée Jeanmaire, gli<br />
stessi Charrat e Petit. Bérard e Kochno proposero a Petit di produrre qualcosa di più<br />
duraturo, una compagnia. Fu Les Forains il primo balletto a schiudere la nuova vita dei Ballets<br />
des ChampsÉlysées: una garbata e patetica vicenda nel piccolo mondo dei saltimbanchi<br />
girovaghi da un’idea di Kochno, con scena e costumi di Bérard e l'intelligente coreografia del<br />
giovanissimo Roland. La poesia, in questo balletto, si librava alta sul volo delle colombe, di-<br />
stendendosi triste e amara sulla scena degli spettatori che si allontanano negando il compenso<br />
mentre i poveri saltimbanchi riprendono il loro bagaglio di lavoro e di pena. Da quel<br />
momento felice fu una successione continua di piccoli capolavori, di collaborazioni fervide e<br />
intelligenti fra musicisti, coreografi, pittori, danzatori francesi, non solo di nazionalità ma nel<br />
gusto, di derivazione e di cultura. Ecco: Jeu de cartes (Strawinski - Pierre Roy - Janine Charrat);<br />
Le jeune homme et la mort sulla Passacaglia di Bach, musica d'accompagnamento, puro sfondo<br />
sonoro contrastante nella sua calma solenne con !'impeto del dramma (il balletto era stato<br />
provato su di un'altra musica, molto ritmata, con sincopi di jazz e solo alla vigilia si seppe che<br />
gli era stata opposta, volutamente, quella bachiana in funzione indipendente), soggetto<br />
raccontato da Jean Cocteau a Roland Petit coreografo, scena di Georges Wakhevitch,<br />
interpretazione potente di Jean Babilée e Nathalie Philippart; Les amours de Jupiter (Ibert<br />
Kochno- Jean Hugo- Petit); Treize danses (Grétry - Petit - costumi di Christian Dior) balletto<br />
ispirato a Verlaine, venato di surrealismo, pieno di charme e gusto francesi; Le bal des<br />
blanchisseuses (Vèrnon Duke - Kochno - Stanislas Lepri - Petit), rivelazione della danzatrice<br />
acrobatica Danielle Dannance; Le Rendez-vous di Jacques Prévert, musica di Joseph Kosma,<br />
allestimento del pittore Mayo e del fotografo Brassai con un siparietto di Picasso; Portrait de<br />
Don Quichotte (Petrassi - Tom Keogh - Milloss); L'Amour ct son Amour (Franck - Cocteau -<br />
Babilée). Alla fine del '47, dopo tante belle prove e tanti successi incoraggianti, Petit si urta
con la direzione della Compagnia edè dimissionario. Si trova esattamente nella situazione dei<br />
suoi poetici saltimbanchi. A questo primo periodo ne successe un altro, breve del pari,<br />
sempre con la direzione artistica di Boris Kochno e Victor Gsovsky, maitre de ballet.<br />
Chiamato dall'America venne David Lichine che mise in scena La Création, balletto senza<br />
musica e La Rencontre ou Cedipe et le Sphinx, argomento di Kochno, musica ai Henri Sauguet,<br />
scenografia di Christian Bérard, grande rivelazione della piccola Leslie Caron Massine stesso<br />
viene in vitato e dà Le Peintre et son modèle, musica di Auric, scene di André Balthus, così pure<br />
in seguito Ruth Page crea Revanche, trasposizione in termini di balletto del verdiano Trovatore<br />
con una sorprendente scenografia di Antoni Clavé. Sciolti si definitivamente Les Ballets des<br />
Champs mysées, Roland Petit fa compagnia isolata, così pure Janine Charrat. Nascono, con<br />
l'aiuto di un principe mecenate, i Ballets de Paris e nasce o rinasce Carmen, creatura<br />
inquietante. E' una trasposizione coreografica del celebre racconto di Mérimée e dell'opera di<br />
Bizet. Sarebbe errato volervi cercare qualcosa della novella o dell'opera, non essendo nelle<br />
intenzioni di Petit. Lo scopo era di rappresentare con i mezzi a sua disposizione, vale a dire<br />
con i colori della sua fantasiosa tavolozza, un aspetto dell'erotismo in una coppia la cui forza<br />
d'amare è disperata e vi arrivò con rara potenza figurativa, aiutato dall'estro pittorico di un<br />
Clavé, senza cadere nel volgare o nell'osceno, senza opera sacrilega come si gridò da più parti<br />
all'annuncio, limitandosi a rappresentare, secondo i mezzi della danza e della sua tecnica, un<br />
celebre amore, un ambiente, un racconto famoso, nulla concedendo al pittoresco e al facile<br />
folclore. Fu un successo enorme per lui e per Renée Jeanmaire che raggiunse in quel ruolo<br />
finezze ed intensità da grande commediante, non avvertite prima. Con la collaborazione di<br />
artisti come Jean Anouilh, André Derain, Darius Milhaud, Georges Neveux, Jean Françaix,<br />
Léonor Fini, Jean Carzou, Paul Delvaux, Jean Genet, ancora Clavé, Georges Auric, Henri<br />
Dutilleux, Georges Simenon, Maurice Thririet, André Beaurepaire, Bernard Buffet, Raymond<br />
Queneau, poeti, pittori, musicisti, scrittori, drammaturghi, di varia estrazione e tendenza,<br />
Petit riuscì a rinnovare i fasti del Balletto russo.<br />
Per un destino che sembra perseguitare la danza, per la sua stessa natura fragile e fuggevole,<br />
quel gruppo si estinse anche prima del previsto. Baudelaire aveva avuto ragione con i suoi
versi «lnsaisissable et fugitive danse - que rien ne fixe et ne retient jamais », ma anche Valéry era<br />
nel giusto quando nel famoso dialogo L'anima e la danza aveva riconosciuto a Tersicore la rara<br />
potenza della sua espressione umana ed artistica identificando nel moto la ragione dell'essere<br />
«al di fuori di tutte le cose» e nello stesso tempo ne aveva sentenziato la caducità: “tout va<br />
sous terre et rentre dans le jeu” .<br />
Non così concertati apparvero sin dagli inizi i Balletti del Marchese de Cuevas (v.) dalla vita<br />
molteplice ed. avventurosa. Grande pregio quello di riunire eccellenti solisti (Hightower,<br />
Golovine, Melikova, Daydé, Vyrotibova, Polajenko, anche Nureyev per un certo periodo), un<br />
corpo di ballo quasi sempre omogeneo, grandi nomi di coreografi, grandiosi allestimenti, ma<br />
grave difetto la mancanza di una salda ed unificatrice direzione coreografica. Maestri di ballo<br />
e coreografi come John Taras, Daniel Seillier, Bronislava Nijinska, Robert Helpmann, non<br />
hanno servito negli annali di questo celebre complesso a dargli una fisionomia unitaria. Il<br />
virtuosismo, lo sfarzo, la gioia degli occhi non bastano. Il pubblico parigino ricambia a questa<br />
compagnia la simpatia affollando il teatro ove si dà «La belle au bois dormant» di Ciaikovski<br />
e acclamando ad un'edizione tutta improntata alla «féerie» per la quale i parigini vanno<br />
ancora matti, sulla quale inclinazione si sarebbe tutti d'accordo se non fosse una certa<br />
concessione allo stile «Folies Bergère» a farsi strada per solleticarli maggiormente.<br />
L'attenzione si è appuntata sul gruppo più spoglio, ma significante per i fermenti che lo<br />
agitano, di Janine Charrat (Grenoble, 24 luglio 1924). Esso ha agito senza di lei per un certo<br />
periodo di tempo in attesa che tornasse alla danza dopo il tragico incidente del dicembre 1961<br />
ed è già tornata visto che la danza stessa è un miracolo, come dice André Maurois, perché è<br />
«una vittoria del corpo sul corpo». A dodici anni la Charrat interpreta un «petit rat» nel film<br />
«La mort du cygne» (1936) di Jean Benoit Lévy, accanto a Chauviré, Slavenska, Lifar<br />
coreografo. «Jeu de cartes» la rivela come coreografa accanto a Roland Petit nel 1945 con i «<br />
Ballets des Champs-Élysées». Poi, con Lifar, lavora nel «Nouvean Ballet de Montecarlo». NeI<br />
1947 è all'Opéra Comique di Parigi e all'Opera di Budapest dove allestisce «Jeu de cartes».<br />
Nel 1949 è a Berlino e nel 1950 con il «Grand Ballet du Marquis de Cuevas».
Un passo a due di stile neoclassico è «Concerto» sulla musica di Grieg nel quale essa stessa<br />
danza e che rimarrà a lungo nel repertorio del suo gruppo. Per la sua compagnia crea: «Le<br />
massacre des amazones» (1952); «Les algues» (1955); «Les liens» (1957). La compagnia<br />
effettua numerose tournées in Europa e nelle Americhe. Al Teatro Colon di Buenos Aires crea<br />
« Le joueur de flûte» di Pierre Rhallys e Marius Constant (1956) che ripropone nel 1957 al<br />
Teatro Massimo di Palermo. Trovando dei punti di contatto con l'opera di Béjart, collabora<br />
con lui alla «Monnaie» di Bruxelles e crea per suo conto dei balletti che seguono il genere di<br />
«balletto-teatro totale» com'è il caso di « Elettra» di Rhallys-Pousseur (1960).<br />
Maurice Béjart (Marsiglia 10 gennaio 1927) sembra non sia gradito ai francesi. Si è perciò<br />
appoggiato al Théàtre de la Monnaie di Bruxelles associandosi ai suoi elementi e<br />
divenendone il direttore coreografico, trovando terreno favorevole pure in Germania, come<br />
era da prevedere. I francesi hanno sempre fatto il muso duro all'espressionismo che continua<br />
ad essere, proprio nel balletto, il rovescio di una situazione. Essi sono rigidamente impiantati<br />
nella «danse d'école», non proprio retrogradi ma ostili ad ogni rinnovamento (si ricordi la<br />
fredda accoglienza riservata a Martha Graham nel 1950 e la sala dei Champs-Élysées<br />
pressoché deserta e Pierre Tugal scandalizzatissimo).<br />
Dopo i primi anni alla scuola della sua città, con un esordio nel 1945 al Teatro dell'Opera,<br />
Béjart proseguì la sua formazione con maestri di Parigi: Léo Staats, la Rousanne e Nora Kiss<br />
per completarla in seguito a Londra con la Volkova. Le sue prime esperienze di palcoscenico,<br />
dopo il debutto marsigliese, si svolsero con i «Ballets de Vichy », all' «International Ballet» di<br />
Londra e all'Opera Reale di Stoccolma, ma il vero esordio in qualità di coreografo, alla testa di<br />
una propria compagnia autonoma, strumento malleabile della sua vena creatrice, avvenne al<br />
Théàtre de l'Étoile di Parigi. La direzione di questo complesso, chiamato dapprima «Ballet de<br />
l'Étoile» e in un secondo tempo «Ballet des étoiles», fu assunta oltre che da Béjart, da Jean<br />
Laurent a partire dal 1954. Anche il repertorio mutò ad un tratto e Béjart passò da balletti e<br />
pas de deux di stile classico a tentativi via via più audaci sul piano tecnico ed espressivo della<br />
danza moderna applicata alla base accademica. Prima che l'incontro col compositore Pierre<br />
Henry provocasse in lui un acceso entusiasmo per la musica concreta unita ad una azione
danzata, egli continuò a comporre balletti secondo una sintassi tradizionale. Primo balletto su<br />
musica concreta di Pierre Henry in unione a Pierre Schaeffer è «Symphonie pour un homme<br />
seul» (1955) che ebbe subito al suo apparire un incontrastato successo di pubblico e di critica.<br />
Su quello stesso tessuto sonoro nasce subito dopo «Haut voltage» (1956) sulla musica di<br />
Marius Constant in collaborazione con Pierre Henry. Ci troviamo di fronte all'eterno tema<br />
della lotta del Bene contro il Male, con una trasposiziorie in chiave moderna abbastanza<br />
artificiale per il concorso di vari elementi come gli scoppi delle voci, le parole inarticolate, ecc.<br />
che non aggiungono nulla all'essenzialità sonora che nella «Sinfonia» diventa mezzo di<br />
grande forza poetica. «Le teck» ripropone la tematica della provocazione e punizione, un<br />
passo a due condotto su di una scultura astratta, di legno teck, che serve alla danzatrice come<br />
trappola di ragno per catturare gli uomini, ma alla fine essa stessa è catturata dall'ordigno.<br />
Frequente torna in Béjart il tema della donna ostacolo all'uomo come nel balletto «Le cercle»<br />
«Prométhée», argomento di Pierre Rhallys, musica di Maurice Ohana, è un balletto che,<br />
rappresentato nel '56, subirà un rifacimento ed ampliamento nel 1962 con una nuova versione<br />
per la compagnia del «Ballet du XXe. Siècle» al Théàtre de la Monnaie di Bruxelles.<br />
Ispirato al dramma «A porte chiuse» di Sartre è « Sonate à trois » sulla sonata per due<br />
pianoforti e per cussioni di Bartòk. La vena di Béjart si espande in altri temi insoliti per lui,<br />
ora lo diverte il contatto con la musica di Strawinsky su temi di pergolesi ecompone<br />
«Pulcinella» con un argomento da commedia dell'arte, ora tocca i toni leggeri e caricaturali e<br />
sfiora il mimo di stampo chapliniano come ne «La voix» o in «Chapeaux» che appartiene ai<br />
toni facili e funamboleschi ai quali non conviene la musica concreta, adatta soltanto<br />
all'espresione tragica o semplicemente drammatica (questo balletto si serve di una musica<br />
«western» di Copland).<br />
Con «L'étranger» torniamo ad un argomento letterario. L'anno 1958 vede nascere «Orphée»<br />
una riproposta del celebre mito ancora sulla musica concreta di Pierre Henry. In seguito<br />
Béjart ci offre una discutibile versione del «Sacre» di Strawinsky, pieno di ottime cose<br />
equivalenti ad una salda costruzione dell'insieme, senza pervenire a quella accensione<br />
graduale che è nella partitura musicale. Fedele ai suoi principi egli ha derussificato
intieramente il tema, universalizzandolo. Le esperienze estetiche di Béjart condotte in uno<br />
«spirito di prospettiva» si orientano in più riprese verso il «teatro totale», esperienza non<br />
nuova che in Béjart finisce per approdare ad effetti facili ed in «prospettive» confuse («IX<br />
Sinfonia», «Romeo e Giulietta» , «Messa del tempo presente», «Ni fleurs ni couronnes»).<br />
Anche se l'inventiva di Béjart si espande vieppiù verso ricerche sensazionali e nuovi<br />
procedimenti di associazione artistica (combinazioni di recitazione, canto e danza)<br />
l'impressione di un arresto della creatività e di un affievolimento dell'ispirazione non è<br />
dissociabile da una perplessità su ciò che sarà in un prossimo futuro l'arte di Béjart. Qualche<br />
critico non ha esitato a parlare della difficoltà esistente in seno al «Ballet du XXe Siècle» di<br />
proseguire nella sua fisionomia o mutarla. Béjart dovrebbe accogliere altre voci, se queste si<br />
rivelassero idonee al canto da lui intonato in dieci anni di operosa attività.<br />
Egli cominciò molto bene: partì dal «classico» ed approdò al « moderno» attraverso un<br />
contatto con lo stile centroueropeo della danza libera. Esistono pure assonanze con il mondo<br />
di un Petit, di un Robbins, escludendo i pericoli di un neoverismo e puntando i suoi simboli<br />
sulla realtà di ogni giorno. Si potrebbe parlare di un neoespressionismo anche se questa<br />
definizione pare non sia gradita a Béjart. Ci sono poi i motivi ideologici, il tema base della<br />
solitudine ora affrontata tragicamente («Symphonie pour un homme seul») ora<br />
umoristicamente «La voix» e c'è soprattutto una tendenza all'erotismo, al sadismo, con una<br />
compiacenza descrittiva per il «disfacimento inevitabile» e la tematica amore-odio fra uomo e<br />
donna che non sopporta tenerezze e confidenze ma solo violenza, un conflitto che finisce<br />
sempre in una uccisione simbolica o in un assassinio reale anche quando è monomane. C'è in<br />
Béjart un incontestabile senso della teatralità il che spesso eclissa le qualità puramente<br />
coreografiche. I problemi dell'uomo contemporaneo in lotta con le esigenze della sua natura e<br />
i principi della società che lo opprimono, costituiscono comunque il tema conduttore più<br />
convincente di Béjart. Fin dove egli spingerà questa sua ricerca, quanto le resterà fedele?<br />
Vorrà tornare alla pura danza abbandonando i meccanismi elucubrati di una confusa<br />
messinscena? Sono tutte domande che sottintendono risposte non meno perplesse.<br />
Preferiamo tornare ad una definizione che si poteva dare di lui ai tempi del suo gran
momento creativo: quello del metafisico «Orphée» o dell'allucinante «Haut voltage» o del di-<br />
sperato « Homme seul ». Uomo di lettere, filosofo, forse c'è troppa letteratura in lui, molta<br />
filosofia, non certo poca danza, ma il discorso coreografico qualche volta si fa oscuro, rischia<br />
di divenire monologo, resta al di là della quarta parete; il pubblico rimane disorientato e tutto<br />
il travaglio dell'artista Béjart è impresso su quel viso scavato dall' emozione, quando si<br />
presenta a ringraziare ancora preso nel suo gioco e nel dramma di uomo solo, con la sua<br />
angoscia e il delirio panico.<br />
L'Opéra di Parigi, per un trentennio circa, è stata il dominio di Serge Lifar. Ciò significa che lo<br />
stile coreografico predominante si è uniformato allo stile neoclassico di lui, instaurato sin dai<br />
primi tempi, dopo il '30, con la sua clamorosa entrata nel Palazzo Garnier.<br />
Del resto ogni atto di Lifar è avvenuto sempre entro un'aura, se non proprio scandalistica, di<br />
grande rumore, spesso mondano. Vediamo di ripercorrere questo cammino.
Egli è scoperto da Bronislava Nijinska nel 1921 e per caso, nel suo studio di Kiev. La Nijinska<br />
raggiunge un giorno Parigi per incontrare la troupe di Diaghilev: occorrono cinque dei suoi<br />
allievi migliori per completare il quadro dei danzatori della compagnia. La fortuna di Lifar è<br />
fatta. Diciottenne, Lifar non ha ancora ricevuto una preparazione tecnica completa, ma la vo-<br />
lontà è molta e il giovane riesce a bruciare le tappe, favorito dalla bella linea. Diaghilev lo<br />
manda a Torino a perfezionarsi alla scuola di Enrico Cecchetti. Ben presto dalla danza passa<br />
alla coreografia e il suo primo saggio è la nuova versione di «Renard» di Strawinsky nel 1929.<br />
Nell'agosto di quell'anno muore a Venezia Diaghilev: discepolo devoto, Lifar gli è vicino<br />
nell'istante supremo. Un'improvvisa malattia di Balanchine gli permette di assumere le redini<br />
direttoriali della coreografia all'Opéra di Parigi per «Le Creature di Prometeo» di Beethoven<br />
(siamo ancora nel 1929). Il suo terzo balletto, in collaborazione col pittore-scenografo<br />
Christian Bérard, è «La Nuit » (musica di Renri Sauguet) che viene allestito nel 1930 per la<br />
«C.B. Cochran's Revue» a Londra, primo saggio teatrale di Bérard e di balletto realista. Dal<br />
1930 al '40 le tre pratiche di danzatore, coreografo (o coreautore come egli amò definirsi) e<br />
scrittore si intensificarono ed in ciascuna di esse recò il contributo del suo fervore<br />
organizzativo, dell'entusiasmo e dell'appassionata competenza. Come danzatore, senza avere<br />
una tecnica eccezionale per il semplice motivo che non poté usufruire di una preparazione<br />
completa e metodica, si fece ammirare per la bella linea, la forza dell'espressione e<br />
dell'intenzione drammatica, favorito dalla bellezza fisica come dal carattere della fisionomia.<br />
Come coreografo, Lifar aprì una corrente compositiva detta «neoclassica », un po' carica e<br />
pesante, da alcuni definita barocca, non in senso negativo ma per spiegarne gli ornamenti<br />
ridondanti delle figurazioni, grande uso dei «tours en l'air» e degli «entrechats » per gli<br />
uomini e in genere una esasperazione calligrafica della «danse d'éçole». Al coreografo<br />
subentra il maestro di ballo, il teorico, l'innovatore. Alle tradizionali cinque posizioni della<br />
tecnica accademica Lifar aggiunge una sesta e settima posizione nelle quali i piedi dei<br />
danzatori vengono ad assumere la struttura «en dedans» anziché quella del «en dehors »
caratteristica nel balletto classico. Di queste ed altre innovazioni, come considerazioni e<br />
suggerimenti di varia natura, è ricco il suo «Trattato di danza accademica» (1949), come lo è<br />
dei problemi concernenti la coreografia l'altro «Trattato» del 1952. Per le sue creazioni e<br />
interpretazioni dal 1924 al '32 è bene consultare l'opera di André Levinson: «Serge Lifar:<br />
destih d'un danseur ». L'azione di Lifar all'Opéra di Parigi fu drastica e decisiva. Molto dello<br />
spirito russo e alcuni fra i più importanti postulati estetici e artistici della riforma di Diaghilev<br />
entrarono nel Palazzo Garnier. Nel 1935 con l'uscita del libro «Le Manifeste du chorégraphe »,<br />
uno dei suoi libri più rivoluzionari, appare «Icare» balletto senza musica, nel quale<br />
l'innovazione è solo apparente e sta nella costruzione coreografica che precede il testo<br />
musicale, soli e semplici schemi ritmici dettati da Lifar stesso e poi realizzati in suono da<br />
Szyfer. Visto in tempi recenti, il lavoro stupisce più per la realizzazione classico-figurativa che<br />
per la novità del procedimento. Attentissimo sempre ai rapporti e ai conseguenti problemi<br />
intercorrenti fra l'opera coreografica e quella musicale, Lifar diede alle stampe nel 1955: «La<br />
musique par la danse» e concludeva, senza timore di contraddirsi: «Jadis on écrivait de la<br />
musique pour un ballet. Ensuite, on a règlé les chorégraphies pour une musique. A présent la jonction<br />
est faite: il existe une forme déterminée, à la fois musicale et chorégraphique, possédant ses propres lois<br />
comme la sonate ou la symphonie: le ballet ». Accanto alle grandi interpretazioni di «Le Roi nu»,<br />
«David triomphant », «Le cantique des cantiques», «Alexandre le Grand», piene di risonanze<br />
religiose, mistiche e allegoriche, si ricordano i grandi balletti di anno in anno passati al<br />
repertorio dell'Opéra: «Bacchus et Ariane» (1931), «La Vie de polichineIle» (1934), «L'après<br />
midi d'un faune», «Salade», (1935), «Oriane et le Prince d'Amour» (1938), «Entre deux<br />
rondes» (1940), «Le Chevalier et la Damoiselle », «Istar », «Boléro» (1941), «Joan de Zarissa»,<br />
«Les animaux modèles» (1942), «Suite en blanc» (1943), «Guignol et Pandore», «Les mirages»<br />
(1944), «Zadig» (1948), «Roméo et Juliette», musica di Ciaicovski (1949), «Septour»,<br />
«L'inconnue», «Les Chevalier errant», «Phèdre» (1950), «Blanche-Neige» (1951), «Les Indes<br />
galantes», in collaborazione (seconda e quarta «entrée ») con A. Ayeline, H. Lander (1952),<br />
«Cinéma» (1953), «L'oiseau de feu », «Nauteos» (1954), «Les noces fantastiques», «Romeo et<br />
Juliette» musica di Prokofiev (1955), «Chemin de lumière» (1957).
Al tempo della Liberazione Lifar dovette lasciare l'Opéra accusato di collaborazionismo,<br />
essendo stato attivissimo durante l'occupazione tedesca, mentre non fece che approfittare di<br />
un periodo felice e ricco di ispirazione per la sua vena creativa e la sua arte. Andò a<br />
Montecarlo ove raccolse alcune delle forze più valide del balletto francese e fondò una<br />
compagnia che venne in seguito assorbita dal Marqués de Cuevas. Per questo complesso egli<br />
creò i seguenti balletti: «Dramma per Musica», «Salomè», «Chota Roustaveli», e «Aubade».<br />
Parigi lo richiamò nel 1947 come «maitre de ballet». Egli riapparve all'Opéra nel suo celebre<br />
pezzo dell' «Après midi d'un faune» nel febbraio 1949. Purtroppo gli anni erano trascorsi;<br />
sorse qua e là qualche rimpianto e non furono solo nostalgie ma anche attacchi severi. Il<br />
congedo dalle scene avvenne il 5 dicembre 1956 in «Giselle». Lifar continuò nella direzione<br />
coreografica sino al 1° ottobre 1958. Oggi che egli è lontano dall'Opéra e, richiamato, fra i<br />
capricci e non accetta la riassunzione dopo i patetici addii del '56 nei panni di Albrecht, molte<br />
delle sue produzioni continuano ad essere rappresentate con successo e, delle più valide,<br />
volentieri si richiederebbe la riproduzione: «Mirages» di Sauguet-Cassandre con Chauviré,<br />
per esempio, o il più retrodatato «Joan de Zarissa» di Egk-Brayer ove si assiste ad una<br />
conciliazione fra lo stile espressionista e il neoclassico tipico di Lifar o il più recente «Phèdre»<br />
di Auric-Cocteau con Toumanova.<br />
Con le sue qualità e i suoi difetti, con la molteplice attività, l'instancabile opera suscitatrice,<br />
l'apparente trascuratezza e semplicità, poi l'amore per lo scandalo pubblicitario e nello stesso<br />
tempo l'indomito fervore nel condurre ogni battaglia che sia in favore del l'arte prediletta,<br />
Serge Lifar occupa saldamente un posto di rilievo e di grande merito nella storia del balletto<br />
degli ultimi trent'anni. In Lifar va soprattutto ricordato ed esaltato il danzatore per chi non<br />
avesse avuto la ventura di vederlo o lo avesse visto nei tardi anni della sua carriera. Per poter<br />
avere oggi una visione chiara e serena si è dovuto operare un processo onde eliminare le<br />
molte, troppe scorie di certo manierismo e delle inevitabili incrostazioni prodotte dalla<br />
«routine» scenica. Ne sono venute fuori in tutta la giusta luce la nobiltà del portamento, la<br />
bellezza apollinea della figura, la grazia elegante, perfettamente aderenti ad alcuni dei suoi
migliori e preferiti personaggi che si richiamano per l'appunto alla bellezza greca: Icaro e<br />
Dafni, fra le più' dolci e riposanti visioni che ci abbia dato l'arte del balletto.<br />
Se si è voluto rompere con la tradizione, talvolta polverosa dell'Opéra, si è ricorsi a Gene<br />
Kelly (Pittsburgh 1912) e ad un balletto abbastanza divertente e scanzonato com'è nei suoi<br />
modi: «Pas de dieux» sul «Concerto in fa» di Gershwin (1960). Si è gridato allo scandalo in<br />
quell' occasione perché uno stile tipo Chàtelet (dei nostri giorni, non certo del tempo glorioso<br />
dei balletti russi) si era infiltrato all'Opéra. Non era qui la questione. Bisognava invece<br />
denunciare la superficialità, della coreografia tutta esteriore, tutta hollywoodiana sullo<br />
schema di alcuni dei migliori film del celebre ballerino-attore e, conviene dire, anche un poco<br />
«démodée ». Volendo rompere per una volta con la tradizione del «grand ballet» perché non<br />
invitare Robbins? Ma Gene Kelly in altra maniera ripete quel barocchismo estetizzante caro<br />
alle scene coreografiche dell'Opéra e prediletto da Lifar. Quel balletto rivelava anche due<br />
danzatori pieni di freschezza, di «verve», di simpatica giovinezza: Claude Bessy e Attilio<br />
Labis, il quale ha poi anche tentato la coreografia («Arcade », 1964, su musiche di Berlioz).<br />
Negli ultimi tempi alla successione direttoriale coreografica si è fatto il nome di Roland-Petit<br />
ma poi la sua azione si è limitata all'allestimento dello spettacolo: «Notre Dame de Paris » dal<br />
romanzo di Victor Hugo, musica di Maurice Jarre, scene di René AIlio, costumi di Yves Saint<br />
Laurent, con una nuova interprete del personaggio di Esmeralda: l'affascinante Claire Motte e<br />
lo stesso Petit, nel ruolo di Quasimodo. Nella medesima serata un nuovo «divertissement» su<br />
musica di Poulenc orchestrato da Jean Françaix e ancora i costumi di Yves Saint Laurent (con<br />
il quale Petit ha più di un punto in comune dall'eleganza all'estro malizioso): «Adages et<br />
variations». 14<br />
14 Due abiti su misura di Petit per Nureyev sono «Paradiso perduto» (Cdnstant-Raysse) allestito a Londra per il Royal Ballet accanto a<br />
Fonteyn (febbraio 1967) e «L'Estasi» sul « Poema dell'estasi» di Scriabin, scenografia di Giorgio de Chirico (Scala settembre 1968; Opéra<br />
di Parigi - novembre 1968). Se il primo manca stranamente di calore, il secondo dimentica l'estasi facendosi traditore, non si sa quanto<br />
consapevole, del pensiero scriabiniano per inseguire ancora una volta l'Uomo nel suo cammino tta Amore e Morte (e le tre danzatrici che<br />
lo accompagnano in questo viaggio tremendamente faticoso sono i vermi striscianti dai quali egli non riesce a liberarsi sino ad una<br />
presunta trasfigurazione).<br />
In più Petit fa qui il verso a Béjart con l'insistenza della seconda posizione spinta al parossismo in una coreografia forzata, sospinta verso<br />
l'acrobatismo erotico che gli è proprio. In «Turangalila» (musica di Olivier Messiaen, scene di Max Ernst, Opéra di Parigi 21-6-1968) la
Inutile fare i nomi delle «stelle» e dei maestri dell'Opéra poiché ultimamente è stata una<br />
girandola incessante di inviti, alcuni dei quali veramente stimolanti, come l'apparizione di<br />
Maya Plissetskaya, ospite proveniente dal Bolschoi. Si potrà tutt'al più indicare ,oltre ai citati,<br />
Michel Descombey per la coreografia e l'incarico di «maitre de balIet», Nanon Thibon, Joset-<br />
tete Amiel, JacqueIine Rayet, Christiane Vlassi, Noella Pontois, Martine Parmain, Peter van<br />
Diyk, Flemming Flindt, Jean Piml Andreani, Cyril Atanassoff, Jean Pierre Bonnnefous,<br />
ballerini «étoiles» della grande scena coreografica francese. Al coreografo Descombey si de-<br />
vono, in particolare, i seguenti lavori: «Symphonie Concertante» (1962), sulla musica della<br />
Petite Symphome Concertante di Frank Martin, scenografia di Bernard Daldé: «But» (1963),<br />
musica di Jean Casterède, nel quale balletto si assiste addirittura, in termini coreici, a una<br />
partita di «basketball»; «Saracenia» (1964) su musica di Bartok; una riedizione di «Coppélia»,<br />
il celebre balletto di Delibes-Saint-Léon; «Bacchus et Ariane» (1967), un vecchio balletto di<br />
Albert Roussel ridotto a pretesto «psichedelico» (libretto iniziale di Abel Hermant). Altro<br />
frutto della direzione artistica di Georges Auric è l’invito a Vladimir Bourmeister, maitre de<br />
ballet sovietico, il quale ha allestito «Il Lago dei cigni» (21 dicembre 1960). La triplice<br />
distribuzione per i due ruoli di Odette-Odile e del Principe radunava: Josette Amiel e Peter<br />
van Diyk, Claude Bessy e Attilio Labis, Claire Motte e J. P. .Andreani oltre a Flindt con<br />
l'Amiel. Sempre splendente di arte e di tecnica Yvette Chauviré, consigliera artistica e tecnica,<br />
rinnova in qualità di artista ospite i fasti del recente passato e crea una nuova «Dame aux<br />
camélias», ispirata naturalmente a Dumas, sulla musica di Henry Sauguet, accanto a Georges<br />
Skibine (alla prima rappresentazione parigina del 1960) con la coreografia di Tatiana Gsov-<br />
skye le scene di Jacques Dupont. La Chauviré riappare pure nel suo alato cavallo di battaglia:<br />
«Giselle insieme con Erik Bruhn».<br />
Serge Lifar, svincolato da ogni incarico con il teatro, continua a presentare al Palais Garnier e<br />
altrove alcune delle sue coreografie, affida alla sua penna non doma le memorie più recenti in<br />
un libro che s'intitola « Ma vie» (1965) e al Labis il gran cimento dell'interpretazione di<br />
sua scrittura coreografica si fa più chiara, si scioglie in un lirismo che è «canto d'amore», « inno alla gioia».
«Icare», nel 1962, che vidè trionfare il suo autore sulle scene dell'Opéra nel lontano 1935, una<br />
delle sfide più coraggiose e provocatorie lanciate in un teatro di danza in nome della bellezza<br />
assoluta e a favore dell'autonomia del linguaggio coreografico. 15<br />
All'infuori dell'orbita dell'Opéra, si fa un gran parlare del coreografo Joseph Lazzini, operante<br />
all'Opera di Marsiglia. Ecco alcuni titoli indicativi della sua opera recente, non senza esimerci<br />
dal formulare ogni ap-prezzamento o giudizio in attesa che essa si sviluppi e mantenga le<br />
ambiziose promesse: una versione dell «Orfeo» di Strawinsky; un «Concerto pour basson»<br />
(musica di Marcel Landowski); «Concert champetre», sulla partitura omonima di Francis<br />
Poulenc; «La scaux », balletto ispirato alle celebri grotte e ai non meno celebri graffiti di<br />
quindicimila anni fa che ne ricoprono le pareti con i temi ormai «classici» della coreografia<br />
primitiva del tardo «paleolitico»: la caccia, la fecondità, la morte; una ennesima<br />
interpretazione coreeografica de «La valse» di Ravel; un'altra del famoso Concerto per<br />
pianoforte e orchestra di Grieg, piegato ancora una volta ad esigenze ballettistiche e del<br />
«Figliuol prodigo» di Prokofiev (interprete Jean Babilée) sino a quelli che sono considerati i<br />
suoi balletti di punta: « Ode des ruines » e «E =MC2 » («l'uomo schiacciato dalla tecnologia e<br />
il culto che le ha dedicato »).<br />
Un capitolo a parte, importante nella storia del Principato di Monaco, è riservato agli<br />
spettacoli dei Balletti di Montecarlo a cura non di una ma di diverse compagnie succedutesi<br />
come filiazione diretta dei Balletti Russi di Diaghilev a partire dal 1933. Alla morte di<br />
Diaghilev nel 1929, due animatori, due mecenati si unirono per fondare i Balletti Russi di<br />
Montecarlo: il Colonnello Vassili de Basil (Kaunas 1888 – Parigi 1951) e René Blum (Parigi<br />
1878- Germania 1944), il primo direttore generale e il secondo direttore artistico. La<br />
formazione avviene nel gennaio 1932 e i vecchi esponenti dei disciolti Balletti Russi di<br />
15 L'attesa «rentrée» lifariana del 22 gennaio 1969 ha annoverato il tradizionale «Défilé» dell'intera Compagnia seguito da «Constel-<br />
lations» sul 1° Concerto per pianoforte di Liszt (interpreti: Yvette Chauviré e Jean Pierre Bonnefous); «Le grand cirque» sulla «suite»<br />
«Masquerade » di Khachaturian, come una specie di curioso preludio al vecchio balletto «Istar» che Lifar creò nel 1941 sull'omonimo<br />
poema sinfonico di Vincent D'Indy, oggi con scene e costumi di Bernard Buffet. La serata si chiudeva con «Mirages », uno dei più felici<br />
balletti di Lifar ultima maniera (musica di Sauguet, scene e costumi di Cassandre) niente di mutato secondo la precedente edizione del<br />
1947 alI'Opéra di Parigi.
Diaghilev come Serge Grigoriev, (Pietroburgo 1883 - Londra 28 agosto 1968), danzatore e «<br />
regisseur» della troupe (autore pure di una raccolta di ricordi: «The Diaghilev Ballet », 1953),<br />
Boris Kochno, librettista, segretario di Diaghilev e consigliere artistico, George Balanchine,<br />
Léonide Massine, Felia Dubrovska e Léon Woizikowsky, si uniscono alla compagnia. Non è<br />
avventato affermare che molta dell'attuale popolarità del balletto è dovuta a questa<br />
istituzione. Arnold Haskell scrisse: «Ogni ballettomane ha verso di lui (de Basil) un grande<br />
debito di gratitudine. Egli gettò un ponte tra l'era di Diaghilev e l'attuale periodo di<br />
Compagnie nazionali. Egli creò un pubblico mondiale, incitò i neofiti, riempì le scuole di<br />
danza. Non' guadagnò mai un soldo per se stesso, ma lasciò tutti noi ricchi: e non solamente<br />
di ricordi ».<br />
Il debutto avviene a Montecarlo, poi la compagnia effettua una tournée nel Belgio e nei Paesi<br />
Bassi e la prima stagione parigina avviene al Théàtre des Champs Elysées nel giugno 1932. Il<br />
complesso passa quindi a Londra e nel 1933 negli Stati Uniti, presentato da Sol Hurok.<br />
Notiamo fra le danzatrici le cosiddette «baby ballerinas»: Tamara Toumanova, Irina<br />
Baronova, Tatiana Riabouschiriska, e fra gli elementi maschili: Massine, Eglevsky, Lichine,<br />
Petroff, Woizikowsky oltre ai già citati Balanchine, Grigoriev. Balanchine nello stesso anno<br />
lascia la compagnia per fondare i «Ballets 1933». Nel 1936 René Blum abbandona la compa-<br />
gnia e il Colonnello de Basil ne prende la direzione da solo con la denominazione «Ballets<br />
russes du Colonel de Basil». Nella prima compagnia si, annoverano balletti divenuti famosi<br />
rappresentati nel mondo intero, tutti di Massine: «Jeux d'enfants» (1932), «Beau Danube»<br />
(1933), «Présage» e «Choréartium» (1933). Dopo la rottura con Blum la compagnia debutta in<br />
Spagna, va a Londra nel 1936, al Metropolitan di New York, in Australia e Nuova Zelanda. In<br />
Inghilterra il complesso prende il nome di «Covent Garden Ballet». Fra gli artisti principali,<br />
qui come negli Stati Uniti, si contano: Lubov Tchernicheva, Alexandra Danilova, Tamara<br />
Toumanova, Irina Baronova, Tatiana Riabouschinska, David Lichine, Yurek Shabelevsky,<br />
Roman Jasinsky, Paol Petroff. Al Covent Garden Léonide Massine presenta: «Symphonie
fantastique» sulla musica di Berlioz con la scenografia di Bérard. Alla fine del 1939, con il<br />
passaggio di de Basil alla direzione dell'« Educational Ballet », la compagnia prende il nome<br />
di «Original Ballet Russe». Dopo una tournée in Australia, la compagnia si stabilisce a New<br />
York nel 1940 e percorre l'America latina: Brasile, Argentina, Messico. E' in questo gruppo che<br />
si inserisce nel repertorio il fortunato balletto di Lichine «Graduation Ball» (il Ballo dei<br />
Cadetti). Nel 1946 la compagnia torna a New York (Metropolitan) e vi collaborano Rosella<br />
Hightower e Alicia Markova. Nel 1947, l' «OriginaI Ballet Russe» dà una stagione a Londra al<br />
Covent Garden e appare al Palais de Chaillot di Parigi. Con la morte nel 1951, del Colonnello<br />
mecenate la compagnia si dissolve, nonostante i generosi tentativi di Gregoriev di tenerla in<br />
vita. Cerchiamo di seguire dall'altra parte il cammino isolato percorso da René Blum dopo la<br />
rottura con de Basil nel 1936. Appoggiato dall' «Universal Art» presieduto da Serge Denham<br />
e Julius Fleischmann, il complesso prende il nome di «Les Ballets de Montecarlo» sotto il<br />
patronato del Principato di Monaco. La troupe riunisce Nemchinova, Vilzak, Kirsova,<br />
Krassovska con la collaborazione di Fokine che riprende molti suoi balletti e crea «L'épreuve<br />
d'amour» sulla musica di Mozart con la scenografia di Derain e «Don Juan» musica di Gluck,<br />
scene di Mariano Andreu (1936). Nel 1938 la direzione artistica passa a Léonide Massine che<br />
allestisce lo stesso anno a Montecarlo: «Gaité parisienne» e «La settima sinfonia» (Beethoven).<br />
«Tournées» trionfali a Londra (Drury Lane), Stati Uniti, Italia (Maggio fiorentino), Parigi<br />
(Palais de ChaiIIot, giugno 1939).<br />
I membri di questo balletto, di ritorno negli Stati Uniti nel 1940, si ritrovano sotto la direzione<br />
di Denhame la ompagnia prende la. denominazione di «Ballet Russe de Montecarlo». Essa si<br />
assicura la colIaborazione di numerosi artisti come Danilova, Krassovska, Nora Kovak, Maria<br />
Tallchief, Frederick Franklin, Alicia Alonso, Igor Youskevitch, George Zoritch.. In questo<br />
periodo Agnes de Mille crea «Rodeo» (1942) e Balanchine presenta «Nihgt Shadow» (1946)<br />
che diventa poi il celebre balletto «La sonnambula». L'attività della compagnia si svolge<br />
principalmente negli Stati Uniti e in Canada.<br />
In Europa succede che nel 1942 il direttore del Teatro di Montecarlo forma un'altra<br />
compagnia di balletti la quale reca la denominazione di «Les nouveaux ballets de
Montecarlo». L'attività si prolunga sino alla primavera 1944; principali danzatori della<br />
compagnia: Ludmilla Tcherina, Geneviève Kergrist, Marcelle Gassini, Gérard Mulys,<br />
Edmond Audran, Boris Trailine, Paul Goubé, Serge Golovine. Nel 1945 il Principe Luigi II di<br />
Monaco dà all'impresario Eugène Grunberg l'incarico di ricostituire una compagnia di<br />
danzatori che diventa «Le nouveau Ballet de Montecarlo» sotto la direzione artistica di Serge<br />
Lifar. Vi partecipano Yvette, Chauviré, Janine Charrat, Ludmilla Tcherina, Renée Jeanmaire,<br />
Wladimir Skouratoff, Youly Algaroff, Alexandre Kalioujny. Nel 1947 il Marchese de Cuevas,<br />
che nel 1940 aveva intrapreso negli Stati Uniti la sua opera di mecenate della danza, prende la<br />
direzione del «Nouveau Ballet de Montecarlo», vi aggiunge la sua, propria compagnia<br />
americana e da questa fusione nasce il «Grand Ballet de Montecarlo». Prima rappresentazione<br />
a Vichy 12 luglio 1947 con il seguito di una stagione a Parigi (Théàtre Alhambra) nell'autunno<br />
dello stesso anno. Sfilano i balletti: «Constantia» (Chopin-Dollar), «Les Biches» (Poulenc-<br />
Nijinska), «La fille mal gardée» (Hérold-Petipa-Balachova), «Tableaux d'un éxposition»<br />
(Mussorsky-Nijinska), «Les variatioIis de Brahms» (Brahms-Nijinska), «La nuit sur le Mont<br />
Chauve» (Moussorgsky-Nijinska), «Sebastian» (Menotti-Caton), «Aubade» (Poulenc-Lifar),<br />
oltre al repertorio: «Il Lago dei Cigni», «Le Silfidi», «Schiaccianoci», «Giselle». Principali<br />
interpreti di questo nuovo gruppo: Higbtower, Eglevsky, Adabache, Marjorie TalIchief,<br />
Skibine, Pagava, ecc.<br />
Dal 1947al ‘50 la compagnia svolge numerose tournées in Europa, in Africa, nell'America del<br />
Sud e del Nord.<br />
Nel 1950, il Marchese rompe con la direzione di Montecarlo e acquista la sua autonomia con<br />
la nuova denominazione «Grand Ballet du Marquis de Cuevas» conservata sino al 1958 anno<br />
in cui diventa «International Ballet of the Marquis de Cuevas». La compagnia nel giro di dieci<br />
anni percorre il mondo intero. Al repertorio classico ogni anno si aggiungono al programma<br />
nuove creazioni non tutte felici, poche le significative. Ricorderemo fra queste: «Annabelle<br />
Lee» (Schiffmann-Skibine,1951), «Il prigioniero del Caucaso» (Kachaturian-Skibine, 1951),<br />
«Dona Ines De Castro» (Serra-Ricarda, 1952), «Piège de lumière» (Damase-Taras, 1952),<br />
«Idylle» (Serette-Skibine, 1954). Nel 1960 la compagnia presenta al pubblico parigino un
grosso spettacolo: la versione integrale da Petipa di «La Belle au bois dormant» realizzata da<br />
Robert Helpmann. Nel febbraio 1961 il Marchese muore; nel luglio 1962 la compagnia dà le<br />
sue ultime rappresentazioni parigine. Con lui termina la grande stagione mecenatesca in<br />
favore del Balletto: Diaghilev, de Maré, de Basil, Blum, de Cuevas. Non sono più tempi da<br />
mecenati, ma la loro opera fu vasta, decisiva e la nostra gratitudine di oggi pare tanto<br />
illimitata quanto inadeguata alla loro azione.<br />
L'Olanda, un paese grande come il Piemonte, ha tre compagnie stabili di Balletto. Nel 1961<br />
Sonia Gaskell (Kiev, 1904) insegnante e poi direttrice del Balletto Reale olandese fonda ad<br />
Amsterdam il Balletto Nazionale. Nel repertorio, accanto ad opere classiche, figurano altre<br />
recenti come: «I Quattro temperamenti» (Balanchine-Hindemith), «Caprichos» (Ross-Bartok),<br />
«Jungle» (van Dantzig). Principali danzatori di questa compagnia sono stati: Marianna<br />
Hilarides, Sonja van Beers, Panchita de Peri, Billy Wilson, Leonie Kramer, in alternanza con<br />
altre giovani emissioni dalla fusione del «Nederlands Ballet» (dir. S. Gaskell) col «Ballet der<br />
Lage Landen» (Balletto di Amsterdam, dir. Mascha ter Weeme). Il «Teatro di danza olandese»<br />
è l'altra compagnia, diretta da Benjamin Harkarvy. Per il « Balletto Nazionale di Amsterdam»<br />
il giovane Rudi van Dantzig ha composto molte coreografie piuttosto libere e spregiudicate<br />
nei temi che investono scottanti problemi psicologici della gioventù d'oggi, come<br />
«Monumento per un ragazzo morto (1965)» glorificazione dell'amicizia fra due giovani, ove il<br />
tema scabroso è soccorso dall'abilità del mestiere e dal buon gusto dell'autore. Nel secondo<br />
gruppo la maggior parte delle coreografie è firmata da giovani artisti come Hans van Manen,<br />
Job Sanders, lo stesso Harkarvy e Glen Tetley 16 , i primi due olandesi e gli altri due americani<br />
16 Glen Tetley (Clevelana, Ohio, 1926) va ricordato, oltre che come ballerino (studi moderni alla scuola di Hanya )Holm e classici con<br />
Tudor e Margaret Craske come coreografo di vena e inventiva felici con inizi nel 1960 e lodi di un critico non certo facile come John<br />
Martin. Le preferenze di Tetley vanno al balletto drammatico-psicologico e, nello stesso tempo, non propriamente narrativo ma nemmeno<br />
« astratto ». Nel 1965 si recò in Israele ove riprese per la compagnia Batsheva di Tel-Aviv un suo balletto creato l'anno prima per il<br />
Teatro di Danza Olandese: « Sargasso" (musica di Krenek) e anche «The My~hical Hunters ». Sono pure da ricordare «Pierrot Lunaile»
(ma Job Sanders, trasferendosi negli Stati Uniti, non ha fatto che assimilare gran parte del<br />
mondo americano, con felicità di risultati nella vena caricaturale).<br />
Più interessante di tutti e quattro è parso, nella visita al 9° Festival dei Due Mondi di Spoleto<br />
(1966), Hans van Manen con una netta predisposizione per lo stile balanchiniano se esso non<br />
apparisse gravato da pesanti, talvolta nebulose, elucubrazioni tesistiche. Lo «Scapino Ballet»<br />
ha un compito divulgativo e presenta accurati spettacoli di danza per ragazzi. Il gusto e<br />
l'amore per il balletto oggi nei Paesi Bassi non è che la diretta conseguenza di una solida<br />
tradizione coreutica affermatasi agli inizi con fatica e perplessità, come sempre è avvenuto<br />
nella storia degli annali della danza di ogni paese. Proibita la danza nelle chiese e nei cimiteri,<br />
sul finire del Trecento, come in tutto il Medioevo, questa si andò gradatamente liberando dai<br />
pregiudizi e si affermò nella sua pienezza.<br />
Del Balletto Reale danese i fautori sono: Vincenzo Galeotti, Auguste Bournonville, Hans Beck,<br />
anche Michel Fokine che vi allestì alcuni dei balletti del periodo di Diaghilev, ma soprattutto<br />
Harald Lander, allievo di Fokine, nominato «maitre de ballet» nel1932.<br />
sulla partitura di Schonberg; «The Anatomy Lesson» (mus. di Landowski) e il recente «Embrace' Tiger and Return to Mountain»<br />
consegnato alle cure del Ballet Rambert (22-11-1968).
Dopo l'Opéra di Parigi non si trovano tradizioni altrettanto remote (duecento anni) e illustri<br />
del pari. Oggi il repertorio coreografico all'Opera di Copenhagen annovera lavori come «I<br />
capricci di Cupido» di Galeotti, « Napoli» di Bournoville e « La Silfide », ripresa pure alla<br />
Scala di Milano nella stagione 1961-62 grazie alle cure dello stesso Lander (da Bournonville)<br />
sulla musica del Loevenskjold. Altra ripresa italiana di questo celebre balletto fu dovuta ad<br />
Erik Bruhn che lo allestì nel corso della stagione 1965-66 al Teatro dell'Opera di Roma<br />
(interpreti la stessa Carla Fracci e Rudolf Nureyev nel personaggio di James, interpretato,<br />
nell'edizione scaligera, da Mario Pistoni). Altra versione, assai apprezzata per l'attendibilità,<br />
resta quella di Eisa Marianne von Rosen con il «Ballet Rambert» (Londra, « Sadler's Wells<br />
Theatre», 20 luglio 1960) vista, occasionaImente, in Italia durante la «tournée» del nuovo<br />
«Ballet de l’Opéra de Montecarlo» (dir. Marika Besobrasova) nella quale edizione (aprile<br />
1968) la stessa Rosen interpretava, con grande efficacia pantomimica, il personaggio di<br />
Madge, la strega e tutto l'insieme faceva molto Bournonville con Effie, la fidanzata respinta<br />
,sulle «mezze punte» a differenziarla giustamente dal personaggio alato della Silfide, con lo<br />
stretto necessario del personaggio, rientrato nel « demi-caractère» dal quale lo avevano fatto<br />
uscire le arbitrarie esigenze dello spettacolo plateale. Ma questa « Silfide» bournonvilliana<br />
non è da confondere con l'altra creata da Filippo Taglioni per la figlia Maria. Di «Silfide»,<br />
nell'epoca romantica, non si suole conoscere che lei e perciò ogni riferimento va sempre alla<br />
Taglioni. Fra i nuovi lavori, Lander ha composto coreografie originali divenute ben presto di<br />
repertorio: «Quartsiluni» (1942) e « Etudes» (1952). Coreografi di valore sono pure Birger<br />
Bartholin e Borge Ralov. Le porte dell'Opera di Copenhagen sono sempre state aperte alle<br />
opere di Fokine, Massine, Balanchine ( «Apollo» e «Serenata»), Dolin, Taras, Lichine, Ashton<br />
(«Romeo e Giulietta », musica di Prokofiev), Cullberg, de Valois, Petit ( «Cannen» e « Cyrano<br />
de Bergerac»). Gli elementii maschili eccellono sin dall'epoca della gloriosa dinastia dei<br />
Bournonville: Fredbjorn Byomsson, Flemming Flindt, Niels Kehlet, Erik Bruhn, Henning<br />
Kronstam, Niels Bjorn Larsen, Svend Erik Jensen, Frank Schaufuss, alcuni di loro anche<br />
coreografi di belle speranze. Fra le danzatrici si ricordano: Margrethe Schanne, Inge Sand,<br />
Mona Vangsaa, Kirsten Ralov, Kirsten Simone, Toni Lander, Ruth Andersen, Mette Mollerup,
Kirsten Petersen, Solveig Ostergaard, Anna Laerkesen, ma la loro irrequietezza come il valore<br />
delle loro quotazioni sul mercato ballettistico si manifestano spesso in una cerchia molto<br />
vasta di ubiquità, ospiti come sono di questo o quel compleso. Tutto il balletto danese deve<br />
all'esperienza di Vera Volkova, fra le migliori maestre del momento, una delle risultanti deci-<br />
sive sul grado di preparazione tecnica di ciascuna individualità. Erik Bruhn, Flemming Flindt,<br />
Henning Kronstam, hanno conservato purissimo lo stile di questa scuola.<br />
Il balletto svedese non è da meno. Anch'esso ha tradizioni illustri e antecedenti che si<br />
richiamano ai Bournonville, esattamente ad Antoine, padre di Auguste. Qui i principi di<br />
Noverre si pongono per interposta persona con i messaggi parigini di Gardel e la presenza<br />
anche di Filippo Taglioni. A noi sembra che per una certa qual deviazione nel gusto il puro<br />
classicismo di Bournonville, così ben conservato presso i danesi (quel delizioso stile primo<br />
Ottocento, purissimo, della «mezza punta») si sia un poco inquinato presso gli svedesi con<br />
forme non sempre chiare, oscillanti fra un simbolismo sovraccarico ed un espressionismo<br />
tenebroso che mal si addice all'arte del balletto. C'è stato, è vero, un movimento di danza<br />
svedese ma fuori patria (periodo 1920-24) nel clima parigino cosiddetto d'avanguardia,<br />
animatore il famoso Rolf de Maré (Stoccolma 9 maggio 1888 - Barcellona 28 aprile 1964) con<br />
direttore Jan Borlin (Haernoesand, 13 marzo 1893-New York 6 dicembre 1930) anche dan-<br />
zatore e coreografo notevolissimo. Collaboratori affiancati nella compagnia che si intitolò<br />
«Balletti svedesi di Rolf de Maré»: Picabia, Léger, de Chirico, Bonnard, Foujita, Jean Rugo.<br />
Non si potrebbe dire che questo gruppo abbia influenzato gli svedesi di oggi del Balletto<br />
Reale di Stoccolma. Grosse realizzazioni furono: «L'homme et son désir», libretto di Paul<br />
Claudel, musica di Darius Milhaud, scene di Fernand Léger; « La création du monde »,<br />
argomento di Blaise Cendrars, musica di Milhaud, scene di Léger; «Les mariés de la Tour<br />
Eiffel», musiche di Germaine Tailleferre, Georges Auric, Arthur Honegger, Francis Poulenc e<br />
Milhaud, scene di Irène Lagut, costumi di Jean Rugo; «La jarre» (da Pirandello) musica di<br />
Alfredo Casella, scene di Giorgio de Chirico, balletto destinato alla celebrità; «Rehkhe»,<br />
balletto-farsa di Francis Picabia con proiezione del film di René Clalr «Entracte » e sulla<br />
musica di Erik Satie. Tutte le coreografie erano opera di Jan Bodin.
Più che un movimento coreografico vero e proprio va considerato come un ingegnoso<br />
procedimento per risolvere una messa in scena teatrale che poco concede alla musica e alla<br />
coreografia e molto alla pittura, alla «décoration», protagonista autentica (proprio se condo<br />
Borlin: «la pittura può essere il punto di partenza della prima ispirazione», concetto dell'arte<br />
ispiratrice di un'altra arte). Quanto al vocabolario di danza, siamo naturalmente lontani<br />
dall'accademismo: un folclore di maniera, di ispirazione nordica fa capolino di quando in<br />
quando e lo spettacolo è quasi sempre grave e pesante. Gli svedesi di oggi hanno dimenticato<br />
le esperienze dei connazionali di ieri e sono tornati al classicismo dei fratelli scandinavi.<br />
Talora si fa strada la rievocazione di un qualche dramma nazionale, antiche saghe, il tono<br />
diventa letterario, i modi attingono all'espressionismo (si veda «Mademoiselle Julie» desunto<br />
dal dramma di Strindberg, nella coreografia di Dirgit Cullberg, allieva di Jooss, con quadri<br />
riecheggianti le tele del Munch e, pure della Cullberg, dal dramma di Ibsen, «Lady from the<br />
sea», ricco di accorgimenti figurativi, ma anche carico di simboli). A sua volta, un danzatore<br />
influenzato dalla Cullberg è Iyo Cramer ( «Le fils prodigue» ). Un caso simile ai vari casi<br />
Didelot, Galeotti; Bournonville, succede a George Gué, di origine finlandese e fondatore del<br />
balletto in Finlandia. Egli lavora in Francia con il Balletto di Montecarlo ed è direttore del<br />
Balletto all'Opera di Helsinki (muore nel 1962). Con l'arrivo di Joel Berglund si assiste al<br />
rinnovamento del balletto svedese. Egli invita. Antony Tudor che mette in scena per la<br />
compagnia due dei suoi migliori balletti: «Jardin aux lilas» e «Gala Performance». Nel 1953 lo<br />
stesso Berglund scrittura Mary Skeaping che, in seguito, diventa direttrice del complesso.<br />
L'espressionismo svedese è rappresentato da Birgit Akesson (Malmo, 1908) allieva alla scuola<br />
di Mary Wigman («Sisyphus », 1957; « tMinautor », 1958; « Rites », 1960, quest'ultimo in<br />
collaborazione con Kare Gundersen).<br />
In memoria dei «Balletti svedesi» e del suo collaboratore Borlin, prematuramente scomparso,<br />
de Maré fondò in unione a Pierre Tugal «Les archives internationales de la danse» (1931) per<br />
poter raccogliere un’importante documentazione sui balletti svedesi e sui grandi artisti della<br />
danza. Questa associazione si scioglie nel 1950 e una parte della collezione è trasferita al<br />
Museo dell'Opéra di Parigi, l'altra si trova a Stoccolma.
Incompatibile fu sempre con il gusto centroeuropeo il balletto classico. Si sa, quasi tutti i<br />
movimenti di danza libera o comunque moderna dell'altro dopoguerra, si devono ai popoli<br />
parlanti la lingua tedesca. Anche in Svizzera sono sorti seminari, «Ferienkurse», ecc. nei quali<br />
le applicazioni, vuoi che si rifacessero alla ritmica dalcroziana, vuoi ai canoni di Wigman,<br />
Jooss o Laban, furono frequenti in quelle direzioni. Nell'ultimo dopoguerra bisogna dire che il<br />
risveglio per la danza accademica è stato considerevole. Che un artista come Milloss scelga<br />
Colonia per poter dar vita alle sue nuove creazioni è un dato abbastanza sintomatico sulle sue<br />
tendenze moderne di ieri, gradite ai popoli di lingua germanica. Del resto la più gran parte<br />
degli insegnanti e dei coreografi che operano oggi in Austria in Germania ed anche in<br />
Svizzera è straniera.<br />
Proprio in Svizzera si ricorda che a Zurigo è stato chiamato alla direzione coreografica un<br />
maestro Come Nicholas Beriozoff, a Ginevra un danzatore del tempo dei Balletti de Cuevas:<br />
Serge Golovine, a Basilea un coreografo della tempra di Vaslav Orlikowsky.<br />
A Janine Charrat si deve per esempio un intersante «Abraxas» sulla musica di Wemer Egk,<br />
rappresentato alla «Städtische Oper» di Berlino Ovest nel 1949 ma creato a Monaco di Baviera<br />
nel 1948 da Marcel Luipart, primo danzatore e coreografo tedesco di stile accademico del<br />
dopoguerra. Gise Furtwangler e Erich Walter sono gli unici tedeschi che seguano oggi la<br />
danza accademica impostasi dopo l'ultima guerra in tutti i teatri della Germania<br />
indubbiamente per l'iniziativa ed opera di Tatiana Gsovsky a Berlino e Victor Gsovsky a<br />
Monaco di Baviera, superando la moda della danza libera dominatrice della vita coreografica<br />
tedesca nei precedenti quindici-venti anni. In seguito erano sempre più invitati maestri e<br />
coreografi stranieri (Milloss, Berioloff, Cranko, Bolender, ecc.) per dare nuovo assetto alla<br />
fisionomia del balletto tedesco, il che permetteva poi anche la collaborazione temporanea di<br />
coreografi internazionali ospiti (Balanchine, Massine, Tudor, MaoMillan, Béjart, CulIberg,<br />
Lander, ecc.).<br />
Victor Gsovsky (Pietroburgo, 12 gennaio 1902) coreografo ed insegnante, ha svolto opera
fertilissima nella danza accademica soprattutto a Monaco ed oggi è professore a Diisseldorf<br />
dopo la parentesi pedagogica in seno al «Ballet du XXe. Sièc1e» di Béjart al Théatre de la<br />
Monnaie di Bruxelles, quale successore di Assaf Messerer. La moglie Tatiana (Mosca, 1902) fu<br />
attiva dapprima a Berlino Est (1945-1952) e a Berlino Ovest dal 1953, fondatrice e animatrice<br />
del «Berliner Ballett ». Fra le sue creazioni più interessanti: «L'idiota» e «Amleto» sulla musica<br />
di Boris Blacher. Mentre scriviamo, direttore del balletto a Monaco è Heinz Rosen; a<br />
Stoccarda: John Cranko; a Wuppertal: Jack Carter; a Düsseldorf: Erieh Walter; a Hannover:<br />
Yvonne Georgi; a Berlino: Gert Reinholm, coreografa principale Tatiana Gsovsky; a Colonia:<br />
dopo Milloss e Bolender: Gise Furtwaengler; ad Amburgo:Peter van Dijk; a Bonn: Giuseppe<br />
Urbani.<br />
Rosalia Chladek (Brno 21 maggio 1905) figura epigonale della danza libera, è stata titolare del<br />
corso di perfezionamento «Tanz für Bühne und Lehrfach» al Conservatorio di Vienna dal<br />
1942 al '52; dal 1952, sempre a Vienna, è direttrice della Sezione danza della «Staatliche<br />
Akademie für Musik und Darstellende Kunst», pur continuando l'attività di coreografa in<br />
numerosi teatri. Notevole l'assidua collaborazione di coreografa e interprete agli spettacoli di<br />
teatro classico drammatico in Italia (Ostia, Paestum, Siracgsa, ecc). .<br />
Molte Creazioni di Erika Hanka (1888 - Vienna 15 maggio 1958) sono ancora in repertorio<br />
all'Opera di Vienna ( «Othello», «Hotel Sacher »), ma pur con un buon corpo di ballo, ottimi<br />
solisti, la situazione si è dovuta rivedere dopo le precarie scomparse di Gordon Hamilton e<br />
Erika Hanka ed è stata riveduta con l'avvento alla direzione di Aurel M. Milloss (Ozora,<br />
Ungheria, 12 maggio 1906) che si è prodigato nell'invitare coreografi (Balanchine, Massine, de<br />
Valois), danzatori (Fonteyn, Nureyev, Beriosova, Arniel, Flindt) e nel dare il meglio di sé con<br />
opere coreografiche di alto respiro, rinnovando e riabilitando la reputazione del balletto<br />
dell'Opera di Stato. Sembrerebbe che gli spiriti di Hilverding, Angiolini, Noverre,<br />
Viganò,della Taglioni e della Elssler, abbiano comunicato con i dirigenti del teatro ricordando<br />
il passato glorioso dell'Opera di Vienna ai tempi di Maria Teresa che aveva trasformato il<br />
balletto di Corte fondendolo con quello dell'Opera di Stato, organismo che in tutto questo<br />
secolo ha conosciuto nella danza un periodo sonnacchioso. Con la stagione 1962-63 Milloss
imette subito le cose a posto e debutta con tre balletti che appartengono alle sue corde dai<br />
suoni più vibranti: «Estro arguto », «Marsia», «Térszili Katicza», vale a dire un balletto con-<br />
certante, uno drammatico, uno comico-folcloristico. Lo asseconderanno a meraviglia:<br />
Edeltraud Brexner, Dietlinde Klemisch, Cristl Zimmerl, Ericha Zlocha, Willy Dirtl, Karl e<br />
Ludvig Musil, Paul Vondrak, Richard Nowotny. Oggi che Milloss ha lasciato la direzione<br />
coreografica di questo teatro, dopo altre fe1ici creazioni quali: «Le creature di Prometeo»,<br />
«Salade», «Estro barbarico», «Déserts», «Bolero», «Coppelia», «Principe Igor», «Les jambes<br />
savantes», «Passacaglia», «Idillio viennese», «Orfeo perde Euridice», dà gli addii con un<br />
messaggio di spiritualità religiosa e compone per la prima volta «Les Noces», di Strawinsky<br />
(primavera 1966). Egli si trova nella privilegiata situazione di bilanciare la sua presente<br />
concezione estetica e poetica con un lavoro legato ambientalmente ad un contenuto etnico-<br />
folclorico, ma con un spirito musicale talmente severo e rituale in termini intellettualistici e<br />
con un modernismo di concezione tendente ad una trasngurazione astratta, da muoversi in<br />
completa affinità di intenti e di spirito con il capolavoro strawinskiano, divenuto oggi materia<br />
di ispirazione di tanti coreografi dalla Nijinska a Tatiana Gsovsky, a Béjart, a Robbins, a<br />
Massine. «Les Noces», sempre con scene e costumi dello stesso Milloss, ebbero la prima rap-<br />
presentazione al Teatro dell'Opera di Roma 1'8 maggio 1968.<br />
La danza italiana degli ultimi sessant'anni, uscente dalla grave crisi della fine dell'Ottocento,<br />
crisi del gusto ma crisi anche di facoltà organizzative, dopo essere stata la patria del balletto,<br />
ad un tratto si è trovata a segnare il passo stancamente, nulla è valso l'esempio di un<br />
Diaghilev. Cecchetti giunse alla Scala in tarda età, nel 1925, ed ebbe l'opportunità di lasciare il<br />
frutto del suo insegnamento per brevissimo tempo. Egli morì infatti ne11928. Teresa e Placida<br />
Battaggi all'Opera di Roma riuscirono a far valere il loro insegnamento formando molti<br />
danzatori in un ventennio di bella operosità didattica.<br />
Le ultime grandi ballerine italiane si affermarono all'estero come Caterina Beretta (1840-1911)
in Russia, Emma Palladino (1860-1922) in America e a Londra dove si stabilì, Aida Boni (1880)<br />
a Parigi, Bruxelles, Londra con un ritorno all'Opéra, ove in qualità di «danseuse étoile »<br />
proseguì e terminò la sua carriera, Carlotta- Zambelli (1877-1968) formatasi come le altre alla<br />
scuola della Scala e scritturata all'Opéra di Parigi nel 1894 ove debuttò succedendo a Rosita<br />
Mauri e restandovi in seguito come ballerina sino al 1934 per diventare poi direttrice della<br />
scuola di ballo fino al 1954. Ma il balletto non è fatto di sole danzatrici, anche se virtuose<br />
emerite.<br />
Nicola Guerra (1865-1942), danzatore, coreografo, insegnante, ma soprattutto eccellente<br />
pedagogo, si divise tra Milano, Pietroburgo, Parigi, Londra, Vienna, Budapest e New York.<br />
Da Napoli giunse pure Raffaele Grassi che sul palcoscenico scaligero allestì molti balli; così<br />
pure fece Giovanni Pratesi sulla falsariga del gusto «liberty» (vedi «Bacco e Gambrinus» e<br />
«Lue», entrambi su musiche di Marenco e il popolare «Vecchia Milano» di Adami-Vittadini).<br />
Quarant'anni dopo, quasi un'eco del «gran ballo», Rosa Piovella Ansaldo allestì un balletto<br />
rievocativo: «La Taglioni» (1945) ancora sulla musica di Vittadini. Sul piano musicale vi è un<br />
netto miglioramento qualitativo, ma, si sa, un balletto non è fatto di sola musica. Vale l'idea<br />
che lo ispira e lo muove, la musica farà il resto. Ottorino Respighi, dopo l'esperienza<br />
diaghileviana, con «La boutique fantasque», fornì per la coreografia di Massine la musica di<br />
un balletto dalle proporzioni mastodontiche, tutto proteso verso il grande allestimento<br />
scenico: «Belkis» (1932). Riccardo Pick Mangiagalli con il «Carillon magico» (1917) e altri<br />
balletti di eguale eleganza formale e Alfredo Casella, che si era di già rivelato con «La giara»,<br />
con «Il convento veneziano» (1925) e «La rosa del sogno» (1943), saranno entrambi i più<br />
fecondi compositori di musiche per balletto sino all'ultimo dopoguerra.<br />
Non bisogna dimenticare il movimento avanguardistico italiano costituito dai «Balli plastici»<br />
di Fortunato Depero (1892), un movimento che corre parallelo con il Futurismo degli anni<br />
venti. Ad esso si unirono Enrico Prampolini con la «Pantomima futurista » e Giacomo Balla<br />
con il suo manifesto 1920 della «Danza futurista: danza dell'aviatore, danza dello shrapnel,<br />
danza della mitragliatrice». Secondo questo manifesto la danza del tempo avrebbe dovuto<br />
essere disarmonica, sgarbata, antigraziosa ,asimmetrica, sintetica, dinamica, parolibera,
accompagnata da « rumori organizzati» e dall'orchestra degli intonarumori inventati da Luigi<br />
Russolo. Nulla di nuovo sotto il sole per la avanguardia di oggi.<br />
Tornando all'insegnamento, troviamo la scuola di ballo della Scala con i battenti chiusi a<br />
partire dal 1917. Saranno riaperti solo nel 1921 grazie all'interessamento di Toscanini. Alla<br />
direzione succedettero: Olga Preobrajenska, Nicola Guerra, Angela Gini, Enrico Cecchetti, Cia<br />
Fornaroli. Cecchetti ha il tempo di avviare tre danzatrici che in vario modo, individualmente,<br />
percorreranno una brillante carriera. Attilia Radice, fin dal principio prima ballerina assoluta<br />
alla Scala, compie il suo cammino sulle scene del Teatro dell'Opera di Roma affermandosi<br />
danzatrice di spiccato temperamento. Interpreta con positiva parità di risultati ruoli classici<br />
ed altri di carattere, riuscendo ad imporsi in alcune interpretazioni di più forte rilievo. La<br />
Radice è oggi direttrice delIa Scuola di Ballo dell'Opera di Roma. Nives Poli è promossa<br />
«prima ballerina assoluta» nel 1936 alla Scala e già a quell'epoca si cimenta felicemente nella<br />
coreografia. Nel dopoguerra alterna all'esecuzione danzata la coreografia con garbate<br />
invenzioni di stile tradizionale ma anche con una intuitiva ricostruzione della danza aulica<br />
rinascimentale favorita in questo da uno studio appassionato degli strumenti antichi e di-<br />
venta anche valente concertista (flauto, clavicembalo, ecc.). Dal 1951 è coreografa stabile al<br />
Teatro Comunale di Firenze e allestisce le coreografie delle opere e dei balletti nelle varie<br />
manifestazioni del «Maggio Musicale Fiorentino» sino al 1965-66. Ria Teresa Legnani, molto<br />
dotata tecnicamente, preferisce all'esecuzione la coreografia e in questa veste percorrerà da un<br />
capo all'altro la penisola, ospite dei principali teatri. Cia Fornaroli (1888-1954) continua<br />
l'opera di Cecchetti più che nel campo didattico in quello generale del gusto, della cultura,<br />
dello svecchiamento coreografico. Moglie di Walter Toscanini, figlio dell'illustre direttore<br />
d’orchestra, la Fornaroli si trasferì nel 1940 negli Stati Uniti. Una vasta collezioni di libri e<br />
cimeli sulla danza, intitolata al loro nome, costituisce un materiale utile e prezioso per gli<br />
studiosi. Alla Fornaroli successe Ettorina Mazzucchelli che preparò molte delle danzatrici che,<br />
ancora oggi, perpetuano il suo insegnamento: Clerici, Amati, Novaro, Bonagiunta, Gariboldi.<br />
Né vanno dimenticati Bianca Gallizia, virtuosa fra le virtuose di ieri, oggi insegnante e<br />
fervente direttrice della scuola di ballo del Teatro San Carlo di Napoli dal 1944; Ettore Caorsi,
allievo di Guerra; Gennaro Corbo, entrambi a Roma; i Faraboni, padre e figlio, a Milano, e il<br />
figlio Cadetto tuttora operante soprattutto come coreografo di tradizione.<br />
In un trentennio circa attivissimo è stato Aurel M. Milloss, «pontifex maximus» della<br />
situazione italiana. Inutile ritessere la storia ricca di benemerenze di questo artista profondo,<br />
il solo che, culturalmente preparato, abbia fatto capire che cosa sia un teatro di danza. Per lo<br />
stato arretrato in cui si trovava la danza italiana in quel tempo (1937) diremmo anzi che egli<br />
fu in anticipo. Oggi che ci troviamo con alle spalle la produzione di un centinaio di balletti<br />
suoi, dobbiamo francamente far marcia indietro per riconoscere le posizioni conquistate; un<br />
gioco a ritroso un poco faticoso, ma non privo di un suo fascino. Milloss ha fatto ciò che altri<br />
hanno fatto e continuano a fare: ha cioè studiato alla scuola accademica (da Guerra attraverso<br />
Cecchetti sino a Gsovsky) e a quella libera moderna (Laban) ma dal suo eclettismo scolastico-<br />
tecnico è pervenuto al raggiungimento di una fisionomia propria, una coerenza stilistica di<br />
alta qualità sia per il contenuto poetico che per l'espressione formale e strutturale. Pare che<br />
all’età di sette anni Milloss rimanesse colpito dalla esibizione di Nijinsky e della Karsavina<br />
nello «Spectre de la rose» di Fokine. Sono cose che succedono a tutti i predestinati. Avevamo<br />
sei anni quando l'apparizione di Anna Pavlova nella «Morte del cigno» c'impressionò a tal<br />
punto da risultare decisiva come scelta per la vita. Per uno spirito irrequieto come quello di<br />
Milloss, attraversando tanti interessi umanistici e culturali (studi classici universitari di<br />
filosofia, di musica ed arte drammatica e ciò in periodi politicamente tanto complessi negli<br />
anni del suo divenire) gli studi di danza non si potevano compiere, ovviamente, per lui che in<br />
maniera molto irregolare. Egli poteva dedicarsi sistematicamente agli studi della danza<br />
dunque solo dopo aver superato le difficoltà inerenti alle su esposte ragioni. Visto che ,questa<br />
ormai definitiva dedizione doveva avvenire proprio negli anni venti, è più che naturale che<br />
Milloss, da individuo nato e cresciuto nell'Europa centrale (Ungheria), non potesse rimanere<br />
insensibile ai fermenti artistici di quel tempo. Di conseguenza è ovvia la sua necessità di<br />
competere, oltre alla continuazione dei suoi studi base nel campo della danza, accademica,<br />
anche in quello rovente e preponderante della «nuova danza», ossia espressionista. Ma<br />
appunto per il freno culturale dovuto alla sua formazione umanistico-latina, egli non cadde
nelle forme più esasperate del movimento espressionista della nuova danza tedesca, sicché<br />
invece di confessarsi alla scuola più estatica (soggettiva) di Mary Wigman, Milloss preferì<br />
quella magica (obiettiva) di Laban del quale si sa che, da grande teorico, non per sempre è<br />
stato né rimase legato al solo espressionismo. Ciò vuol dire che se Laban stava, tutto<br />
sommato, al di sopra del puro espressionismo come enunciazione e formula, allora Milloss,<br />
specie per il suo legame su menzionato con la cultura universale pure della danza, con il<br />
movimento espressionista non poteva avere altro in comune che il «quid» dettato dal clima di<br />
quel momento. Ma poiché del fenomeno Laban pochi hanno un preciso concetto<br />
corrispondente alla sua entità e quindi il suo nome con troppa faciloneria rimase buttato nel<br />
calderone di tale specifica corrente dichiarata superata, è avvenuto che Milloss per il solo<br />
fatto di essere stato discepolo anche di tale maestro lo si è confuso, talvolta del tutto<br />
tendenziosamente, quale un seguace solo di quel movimento. Chi osava dire che Milloss fosse<br />
essenzialmente un coreografo espressionista, qualche volta ancora recentemente, non è stato<br />
obiettivo. Egli capì la limitatezza e l'insufficienza tecnica della danza ,libera come del resto la<br />
danza accademica ha i suoi limiti. Perciò decise di raccogliere le più svariate esperienze<br />
possibili e fu un lavoro di integrazione minuzioso e paziente.<br />
Il suo autentico temperamento danzante, vigilato da una «ratio» tutta tesa verso l'analisi e<br />
l'adeguata collocazione delle graduali scoperte, gli garantiva che il predetto lavoro di<br />
integrazione si svolgesse organicamente. A ciò si deve il risultato di una vera e propria sintesi<br />
delle varie tecniche, sintesi astratta e quindi sufficientemente universale perché egli potesse<br />
su tale base costruire saldi edifici coreografici, pur di carattere, ovvero di stile assolutamente<br />
personale.<br />
Così il suo famoso «Mandarino meraviglioso» sulla musica di Bartòk (Milano, 1942) definito<br />
espressionista va oltre questa definizione per imporsi quale espressione finalmente<br />
universalizzata come lo è del resto la musica di quei valori specificatamente espressionistici<br />
che caratterizzano il libretto di questo balletto. Milloss tornò più volte al suo musicista<br />
preferito, associando le sue immagini coreografiche anche a delle musiche concertistiche del<br />
grande maestro: «Il Principe di legno» (Venezia, 1950); «La soglia del tempo» (Roma, 1951);
«Mystères» (Parigi, 1951); «La sonata dell'angoscia» (Rio de Janeiro, 1954); «Hungarica»<br />
(Roma, 1956); «Memorie dall'ignoto» (Roma, 1959); «Estro barbarico» (Colonia, 1963). Questa<br />
scala dei suoi balletti bartokiani dimostra con crescente acume quanto poco è rimasto vivo<br />
nella evoluzione della sua arte di quegli impulsi «espressionistici» che una volta, cioè nei<br />
primi anni della sua attività, lo ispirarono ma che egli vieppiù riuscì a ridimensionare<br />
assimilandoli e integrandoli, anche questo organicamente, nella più vasta prospettiva, spesso<br />
definita «tendente ad una visione cosmica di tutte le cose», la quale oggi immane su tutta la<br />
sua opera. Considerando gli echi della voce rapsodica magiara che in questi suoi balletti<br />
bartokiani spesso si facevano sentire si potrebbe dire che proprio la forza originaria orientale<br />
ha conferito a Milloss, insieme ai misteri del mondo mediterraneo che gli appartiene come<br />
formazione culturale e che egli sentì il bisogno di scegliersi come patria elettiva, è stata pro-<br />
prio questa forza, dicevamo, a conferirgli la capacità di raggiungere tale risultato. Ciò<br />
avvenne naturalmente solo progressivamente e cioè specie dal tempo in cui il centro della sua<br />
attività divenne l'Italia.<br />
Dopo i suoi primi successi come coreografo in Germania e in Ungheria, iniziò la sua attività<br />
italiana al San Carlo di Napoli nel 1936 la scelta cadde (fatalmente?) su «Aeneas», un balletto<br />
su musica di Albert Roussel. Il suo stile da brumoso si fa via via limpido e chiaro, respira<br />
l'aria del dolce paese e scopre la luce del vero sole; le sue opere lievitano con le risorse del<br />
linguaggio accademico-dassico... Qualcuno ha parlato di uno stile mediterraneo. Quanto ha<br />
potuto il cielo d'Italia sull'artista Milloss? Quanto le bellezze naturali con quelle artistiche<br />
hanno influito su di lui nella visione dell'opera da compiere? In tutto ciò non può essere<br />
estraneo un fatto letterario, egli stesso lo autorizza.<br />
In sostanza Milloss cerca l'architettura coreografica sinfonico-corale rispecchiante la forza<br />
primigenia ed elementare della vita come era presso gli antichi greci ( «Sei danze per<br />
Demetra», Palermo 1958), naturalmente non limitata al suo tempo ma rafforzata, raffinata poi<br />
durante i secoli attraverso la civiltà italiana per giungere ad una personale elaborazione<br />
poetica che affronta i composi ti problemi stilistici odierni. Egli è artista moderno, serio e<br />
consapevole, assimilatore di ogni movimento tendente alla conquista di un proprio mondo da
esprimere che va dalla rievocazione storica del «Ballet de cour» al balletto moderno di<br />
geometrica, scientifica struttura, dal dramma danzato alla commedia di ambiente foiclorico,<br />
dall'oratorio scenico al balletto biblico, risolto in puri valori di danza, con una preparazione<br />
che di volta in volta sconta, in un processo di assimilazione, la civilissima eredità culturale e<br />
artistica della danza. Non dimentica il narrativismo epico-allegorico di Viganò e si rifà alla<br />
sistematicità drammatico sintattica nel linguaggio e a quella drammaturgica nella concezione<br />
poetica di Blasis. Questi i suoi maestri spirituali, oltre a Laban, dai quali egli parte<br />
sviluppando sino agli estremi la sua visione poetica.<br />
Dal San Carlo Milloss passò all'Opera di Roma (1938) ove crea, tra l'altro, il suo primo balletto<br />
definibile ormai «italiano»: «La Giara» di Casella, uno dei pezzi forti della penna<br />
millossiana(1939). In questo teatro egli produsse una grande quantità di balletti tanto durante<br />
il primo periodo di sua pèrmanenza quale coreografo, stabile (sino al 1945) quanto negli anni<br />
successivi quale coreografo ospite. Molti dei balletti sono state creazioni originali, ma vale la<br />
pena menzionare che anche a balletti preesistenti egli è riuscito ad infondere nuovi virgulti<br />
componendo per essi nuove versioni coreografiche, così ad esempio: «Petrouchka» (1940);<br />
«Le creature di Prometeo» (1940); «La Sagra della Primavera »(1941); «Il Figliol prodigo»<br />
(1941); «Bolero »(1944). Accanto alla riforma della coreografia, Milloss ne contemplò una<br />
vasta e decisiva: la scelta dei pittori-scenografi e dei musicisti-compositori. Questa riforma ha<br />
pressoché toccato ogni ramo della vita artistica nazionale. Pittori quali de Chirico, Casorati,<br />
De Pisis, Prampolini, Severini, Mafai, Guttuso, Scialoja, Clerici, Cagli, Mirko, Afro; musicisti<br />
quali: Casella, Petrassi, Dallapiccola, Vlad, Mortari, Bucchi, Rota collaboratono ai suoi balletti,<br />
fatto più unico che raro in Italia. Infatti, nella storia del balletto per ciò che riguarda la colla-<br />
borazione delle arti concorrenti all'unità dell'espressione artistica, non figura, ad eccezione di<br />
Monteverdi e di pochi altri, nessun grande nome italiano di musicista e di pittore. Nella<br />
storia del balletto contemporaneo troveremo sì compositori musicisti e pittori scenografi ita-<br />
liani, ma non operanti in patria, bensì invitati dall'estero, soprattuto nella sfera di Diaghilev<br />
(ma la «Giara» di Casella fu ordinata a de Chirico, per la scenografia, da Rolf de Maré).<br />
Passando dal Teatro dell'Opera a quello delle Arti, Milloss ci offrì, tra l'altro, due piccoli
capolavori: «Deliciae populi» (sulla «Scarlattiana » di Casella) quadro di commedia dell'arte e<br />
«Capricci alla Strawinsky», quadro del tragicomico nell'arte. Noi diremmo che il mondo di<br />
Milloss è più aspro e dolente che sereno e sorridente, ma i suoi balletti dai toni leggeri e<br />
giocosi non sono da menò di quelli dai toni seri. Collaborando dapprima con Petrassi e poi<br />
con Dallapiccola, con Casorati per il primo balletto e con Scialoja per il secondo, Milloss<br />
compone «La follia di Orlando» per la Scala (1947) e «Marsia » per il Festival veneziano<br />
(1948). Ancora a Petrassi chiede la musica per «Le portrait de Don Quichotte» per i «Ballets<br />
des Champs-Elysées» (Parigi, 1947). Ma il suo primo incontro creativo con la musica di<br />
Petrassi era già avvenuto nel 1942 a Roma con l'assai discussa oppure altrettanto importante e<br />
riconosciuta parafrasi ballettistica del «Coro di morti».<br />
Una vera rinascita del balletto italiano si è dunque annunciata a Roma. Gli altri teatri italiani<br />
dovevano seguirne l'esempio. Ed era sempre Milloss colui al quale veniva affidato il compito<br />
del rinnovamento, questo soprattutto alla Scala di Milano, al Maggio Musicale fiorentino, al<br />
Teatro Massimo di Palermo, con la Scala anche alla Sagra Musicale umbra dove nel 1957 creò,<br />
tra l'altro, in prima rappresentazione mondiale, il balletto biblico «Mosè» di Milhaud, al<br />
Festival della Biennale di Venezia ove creò, nel 1950, la ormai famosa « Ballata senza musica»<br />
che aprì nuove prospettive alla drammaturgia ballettistica e alla coreografia, nonché alla<br />
musica e alla scenografia del teatro moderno di danza. Questa linea estetica: divenne più<br />
tardi il distintivo dell'opera di Milloss, di Béjart e di tanti altri imitatori suoi, europei ed<br />
americani, ben presto superati da Milloss coll' integrazione delle esperienze nel complesso<br />
generale della sua arte personale (particolare esempio fu il suo «rondò coreografico»: «Il<br />
Ritorno» con musica di Vlad e scenografia di Teo Otto, dato a Colonia nel 1962, con Tilly<br />
Soeffing e Lhotar Hoefgen, le due pesonalità più distinte della danza germanica, scoperte e<br />
lanciate dallo stesso Milloss) 17 . Nel frattempo la sua attività continuava anche in metropoli<br />
come Parigi, Buenos Aires, Stoccolma, Madrid, Barcellona, San Paolo, Rio de Janeiro, Colonia,<br />
Amsterdam, Rotterdam, L'Aja, Bruxelles, Vienna. Poiché non abbiamo assistito alle sue<br />
creazioni presentate negli ultimi anni all'estero, non siamo in grado di illustrare ampiamente<br />
17 Questo balletto, ribattezzato «Ricercare », fu ripreso al Teatro dell'Opera di Roma nella stagione 1967-68, scena e costumi di Lorenzo<br />
Tornabuoni (l° esecuzione: 8 maggio 168).
le impressioni del momento. Ci limitiamo dunque a far cenno almeno ad una che,<br />
giudicandola in base ai resoconti sulla stampa internazionale, alle riprese romana del 1967,<br />
fiorentina del 1968 e bolognese del 1969, ci appare particolarmente importante e significativa:<br />
«Déserts». In questa sua opera sembra che Milloss abbia rivelato una maturità artistica pari a<br />
quella umana. Tema del balletto e stile coreografico nascono per reciproca germinazione. E' il<br />
«modus» coreografico che determina l'azione, determina cioè i «deserti» rilsultanti dalle<br />
assurde vicissitudini che incombono sull'uomo di oggi; relatività appunto perché nulla è,<br />
privo di significato: «tutto si dissolve nella psiche dell'infinito ».<br />
Fra i danzatori italiani cresciuti e distintisi alla sua scuola coreografica vanno ricordati<br />
almeno, oltre ai già celebri Attilia Radice, alga Amati, Filippo Morucci, i giovani lanciati da<br />
Milloss:. Luciana Novaro, Marisa Matteini, Ugo Dell'Ara, Guido Lauri, Adriano Vitale,<br />
Giulio Perugini, Giuseppe Urbani, Walter Zappolini, Mario Pistoni, Giovanni Notari, sino alle<br />
recenti leve dell'Opera: Elisabetta Terabust, Amedeo Amadia (pradatta scaligera), Alfreda<br />
Rainò, Giancarla Vantaggio. Per noi persanalmente restano indimenticabili di Ugo Dell'Ara il<br />
suo Orlando, il giavanile Franz di «Cappelia», il mugnaia del «Tricorno», rivelazioni<br />
autentiche del periodo scaligero nell'immediato dopoguerra. Così non si deve dimenticare la<br />
potenza del danzatore Milloss che va dal gesto all'efficacia mimica per culminare nella<br />
figurazione danzata: il disperato Petrouchka, l'allucinato Coppelius, l'argiastico Mandarina e<br />
quel Figliol prodigo in cui si rispecchia tutta la gamma della passione umana. Una raffinata<br />
preparazione artistica in generale, musicale e teatrale in particalare, una vasta cultura che va<br />
nei più lontani precordi del mondo letteraria e filosofico presiedono all'opera di Millass (egli è<br />
uno dei più grandi collezionisti bibliofili di opere sulla danza).<br />
La grande forza originale di Milloss (parliamo qui naturalmente delle Opere riuscite, visto<br />
che nella sua produzione, come quella di ogni autentico artista, non tutte le creazioni<br />
risplendono della luce sfavillante del (capolavoro) questa forza risiede nell'apertura di pro-<br />
spettive da nessuno trattate prima di lui, quelle stesse che egli rivela non mirando all'aspetto<br />
apparente esteriore dei suoi temi ma partendo dalle cause originarie di questi e riflettono<br />
delle immagini rappresentative per i substrati interiori delle cose da esprimere. Con ciò
Milloss si rifà alla essenza stessa della danza, ma ovviamente non più nel modo come ciò si<br />
incontra presso i popoli primitivi, bensì nel raffinato prisma delle conquiste più moderne<br />
dell'estetica coreografica.<br />
Se Béjart è coreografo esistenzialista, Milloss si potrebbe definire, se tale termine fosse<br />
ammissibile, essenzialista, bada cioè all'essenza ed è per questa resa artistica dell'inafferrabile<br />
che egli appare ostico, quindi non sempre raggiungibile e perciò anche incompreso (vedi i<br />
titoli di certi suoi balletti). Insomma, egli chiede allo spettatore una totale partecipazione e<br />
dedizione all'opera che si svolge sotto i suoi occhi. Sarà poi il destino crudele della danza che<br />
non parla ai posteri a interrompere questo discorso. Proprio per questa difficoltà di esistere,<br />
che è la stessa difficoltà dell'uomo, i balletti di Milloss non sono destinati al repertorio<br />
comune....<br />
Quali sono oggi i guai italiani più seri nel campo della danza teatrale? Il balletto in Italia è<br />
confinato come complemento dell'opera. Le sue funzioni sono spesso soltanto esornative. A<br />
fornire spettacoli di balletto sono sempre i teatri lirici, i quali, ovviamente, pensano prima alle<br />
opere. Se c'è spazio nel cartellone, e tempo ed avanza denaro, se si dà il caso di una operina<br />
breve e per completare la serata occorre un balletto, allora può accadere di vedervelo incluso,<br />
raramente esso occupa l'itinerario di un'intera serata. Troppo si è ecceduto negli inviti<br />
esterofili e si continua non favorendo né stimolando le possibilità dei nostri artisti. Se il pub-<br />
blico non è vastissimo, le direzioni dei teatri fanno poco per ricondurlo alla danza. La<br />
tradizione melodrammatica ottocentesca continua perciò a pesare su di noi<br />
con l'effetto inverso di quello della Francia ove il balletto regna sovrano per una questione<br />
non solo storica ma anche di costume (si parla, quasi per paradosso, forse più della bontà di<br />
uno spettacolo coreografico dell’Opéra di Parigi che di uno operistico) quantunque anche nel<br />
Palazzo Garnier la tradizione faccia sentire il suo peso. Per questi ed altri motivi,<br />
principalissimo quello della mancanza di complessi stabili staccati di balletto, si preferisce
attendere che i tempi maturino hanno da maturare e se devono passare alla storia la per<br />
questo molta parte della danza italiana dovrà farsi e adeguarsi al suo glorioso passato per<br />
trovare li uno sbocco nel quale fare confluire le sue forze migliori.<br />
Inutile fare i nomi delle «stelle» della Scala. Ormai tutti si conoscono e rispondono alla<br />
bravura per la quale un danzatore scaligero ha rinomanza. Certo il caso Fracci è confortante.<br />
In un primo tempo si è avvertito il pericolo che questa figurina diventasse lo stereotipo della<br />
ballerina romantica e si è voluto sperare in un allargamento della sua gamma espressiva con<br />
la conessione di qualche sorpresa... Queste non sono tardate: con «Il lupo», «Pantea»,<br />
«Francesca da Rimini» ed anche in un balletto neoromantico come «Romeo e Giulietta», con<br />
insospettato calore, drammatico. Il lavoro compiuto dalla Signora Bulnes e dal «maitre de<br />
ballet» Perugini è un buon lavoro.<br />
Danzatori come Vera Colombo, Mario Pistoni, Paolo Bortoluzzi s'impongono alla nostra<br />
attenzione per la preparazione tecnica, ma si devono pure ricordare del complesso scaligero:<br />
Fiorella Cova, Roberto Fascilla, Elettra Morini, Bruno Telloli, Walter Venditti accanto<br />
alle ultime acquisizioni: Aida Accolla, Liliana Cosi, capintesta del drappello di danzatrici<br />
italiane ai corsi di perfezionamento di Mosca e Leningrado (con Anna Aragno, proveniente<br />
dal «Metropolitan» newyorkese e Elpide Albanese dalla Opera romana), Rosalia Kovacs,.<br />
Anna Razzi, Gianna Ricci, Luciana Savignano. La questione non sta qui. Bisogna coordinare<br />
questo prezioso materiale umano, plasmarlo, orientare il tutto verso una direzione coreo-<br />
grafica. Si sa, alla Scala ci sono problemi più urgenti e, tutto sommato, è un teatro d'opera.<br />
Non basta riprodurre balletti classici famosi: occorrono le creazioni originali, nel vero senso<br />
della parola, due o tre per anno.<br />
Il Royal Ballet ha in repertorio balletti di Petipa, Massine, Balanchine, ma soprattutto insiste<br />
sui coreografi usciti dalla sua fucina (Asthon con i giovani dei quali s'è parlato).<br />
La Scala ha continuato a sfornare balletti di Balanchine e crede così di aver assolto il suo<br />
compito. Contutto il rispetto per lo zelo, la bravura, il grado di affinamento dei primi<br />
ballerini, dei solisti del corpo di ballo, sono copie approssimative degli originali. Non direi sia<br />
una questione propriamente tecnica o artistica; sì, anche questo, ma principalmente è
problema di natura fisiologica. Si pensi alle figure particolari dei danzatori del New York City<br />
Ballet, strumenti prettamente balanchiniani. E' come ascoltare la stessa musica, diretta dallo<br />
stesso maestro con strumenti diversi.<br />
In alcuni casi è la qualità del suono a decidere; nei balletti di Balanchine è la qualità stessa<br />
degli strumenti danzanti a determinarne la validità. Questo appunto non sembri negativo nei<br />
confronti degli sforzi del complesso scaligero nelI'adeguarsi ad una disciplina che non è la<br />
sua. Evidentemente vi sono dei limiti oltre i quali non si può andare. All’Opera di Roma la<br />
situazione non è molto differente con una minore efficienza dell'insieme, se è permesso. Ma<br />
ultimamente s'è notato un improvviso risveglio e tutti gli elementi si sono buttati in una gara<br />
di miglioramento e superamento di se stessi. Bisogna procedere. Le iniziative sono isolate e<br />
disperse. Qualche nome: Ugo Dell'Ara, Susanna Egri, Luciana Nosvaro, Mario Pistoni.<br />
Dell'Ara, sensazionale danzatore dapprima, ha poi svolto un'intensa attività coreografica<br />
specie al Teatro Massimo di Palermo. Luciana Novaro ha un grosso titolo di merito: aver<br />
portato il balletto d'arte alla Televisione ove solitamente i balIetti imperversano e sono di una<br />
melensaggine spaventosa. Insieme a Pistoni ha, dietro di lei, un non indifferente passato<br />
scaIigero e può dare vita ad alcuni balletti di repertorio utili alla conoscenza e divulgazione<br />
degli stessi. La Egri, con i derivati dal falclore e i seri apporti di una varia cultura, riesce a<br />
bilanciare uno stile eterogeneo, che attinge malte delle sue peculiarità dalla «modern dance».<br />
Pistoni, da quello stupendo danzatore che è, dispone di un bagaglio tecnico che egli può<br />
impiegare in opere di ardua tessitura accademica. Né sono mancate affermazioni di altri<br />
giovani coreografi, ma la vita della coreografia è aspra, stentata, difficile.<br />
Altro non piccolo problema: il pullulare delle scuole senza un vero e proprio ordinamento<br />
didattico e la pretesa di queste, appena sorte, di inserirsi nella vita teatrale coreografica del<br />
paese. Gli elementi dotati non mancano, i buoni maestri neanche, ma in un magma tale è<br />
molto facile imbrogliare le carte. Occorre una seria disciplina anche in questo. Da una parte lo<br />
stato riconosce male o niente l'attività coreutica della nazione, dall'altra l'insipienza di chi<br />
presiede agli Enti teatrali a volte è tale e tanta da aggiungere confusione a, quella già<br />
esistente. La stessa Accademia Nazionale, fondata e diretta dal fervore di Jia Ruskaya, non si
propone di formare delle dive teatrali: la sua funzione è essenzialmente educativa e in questo<br />
ambito si muove, grazie anche al chiaro indirizzo pedagogico condotto con spirito<br />
missionario da Avia de Luca e Giuliana Penzi, rinunciatarie deliberate di ogni velleitarismo<br />
teatrale e agli apporti di eccellenti maestri in campo internazionale sia nella tecnica<br />
accademica (Lepeshinskaja, Lichine, Lander,ecc.) che in quella moderna (Jooss, Koner,<br />
Cébron) seguace a pari passo, proprio per il ricchissimo polistilismo di questa danza, della<br />
rigorosa disciplina dell'Orchestica introdotta dalla stessa direttrice.<br />
Piuttosto occorre mettersi in testa che mai come nell'epoca presente il balletto si è rivelato<br />
essere opera del coreografo che, in questo caso, vuole la denominazione ben più precisa di<br />
«coreoautore», secondo la terminologia lifariana. A cominciare dalla riforma di Diaghilev si è<br />
venuta a stabilire l'assoluta irnportanza dell'opera creatrice coreografica; come il regista è<br />
indi:scutibilmente l'autore del film, così il pittore di un quadro, lo scrittore di un'opera in<br />
prosa o in poesia e via di seguito, il coreografo è l'autore indiscusso di un balletto, di<br />
un'azione danzata (la coesistenza delle arti resta un fatto superato, un'intesa spirituale e<br />
materiale con gli altri coefficienti della creazione unitaria dell'opera) ma l'artefice è lui, solo,<br />
determinante. Infine, la danza necessità di coreografi, vale a dire di artisti creatori e li attende.<br />
Parlando del balletto americano si toccano tutti i problemi insiti nella danza moderna e la «<br />
modern dance» è uno dei prodotti più tipici e genuini della danza in America, come la «danza<br />
libera» lo fu nell'altro dopoguerra nel Centro Europa. Si potrebbe dire che tanta parte della<br />
musica moderna è stata influenzata dal balletto moderno e viceversa, come si può anche dire<br />
che molti dei problemi delle arti figurative Possono essere chiarificati da uno spettacolo<br />
coreografico moderno. Comunque, sarà bene fare delle nette, precise distinzioni. E' naturale<br />
che in un mondo. Dove le espressioni coesistenti sono molte, succedano facili equivoci.<br />
Assistiamo così ogni giorno a confusioni di vario genere: lo stile jazz scambiato con la<br />
«modern dance», il balletto di Robbins accomunato alla danza accademica e via discorrendo.
Che poi l'uno fraternizzi con l'altro e spesso facciano comunella, è anche vero ed è per questo<br />
intrecciarsi, fondersi e sovrapporsi che ad un certo punto le idee non risultano chiare. Per<br />
quanto possibile cercheremo di fare luce su questo fenomeno. Dobbiamo premettere intanto<br />
che il termine «balletto classico» con buona pace di tutti è stato bandito. Si potrebbe chiamarlo<br />
«artistico», ma non v'è genere teatrale di danza in America che non aspiri a questa<br />
distinzione.<br />
Un «musical» di Robbins e un «balletto» di Balanchine hanno gli stessi meriti, la stessa dignità<br />
artistica; non si fa distinzione. Leonard Bernstein può comporre un concerto rifacendosi<br />
addirittura a passi di Platone, come prestare la sua vena più tipica alle scanzonate e patetiche<br />
melodie di «West Side Story ». Da noi si fa un gran parlare e discutere e sottilizzare sul<br />
genere». Solo in tempi recenti vi sono stati inviti per spettacoli di riviste e commedie musicali<br />
le cui firme sono fra le più quotate nel campo della coreografia internazionale. Jerome<br />
Robbins prepara le più macchinose coreografie su di un piano esclusivamente spettacolare<br />
per film e riviste con seri apporti artistici e poi ci dà uno dei suoi componenti coreografici più<br />
meditati con «Events » (Spoleto, 1961). Tutto lo spirito di Saul Steinberg e Ben Shahn è al<br />
servizio del balletto americano come le loro opere appaiono alle esposizioni più qualificate,<br />
illustràno libri o infiorano il vignettismo giornalistico. Certo, uno spettacolo di Martha<br />
Graham investe più gravi problemi, i riferimenti salgono a ritroso in una lontana civiltà<br />
teatrale, ma questa impressione deriva soprattutto dalla fonte cui il suo teatro suole ispirarsi.<br />
Comunque sia, abbiamo stabilito di parlare di differenze e diremo subito che i tre modi, i tre<br />
linguaggi del balletto contemporaneo corrispondono a tre grandi nomi: George Balanchine,<br />
Jerome Robbins, Martha Graham, con tutte le derivazioni che pos.sono comportare.<br />
George Balanchine è il coreografo della danza accademica, per antonomasia, il più<br />
estetizzante, una propaggine in terra americana del Balletto Russo di Diaghilev cui egli<br />
appartenne nell'ultimo periodo. Negli anni intorno al '24 interpretava personaggi del tipo di<br />
Katchei nell'«Uccello di fuoco». Nonostante ciò, non si conosce di lui un'attività esecutiva<br />
rilevante, né egli le attribuisce importanza. Figlio di un compositore georgiano, si vide<br />
cambiare il patronimico Balanchivadze in Balanchine. Studiò pianoforte e contempora-
neamente frequentò a Pietroburgo la Scuola Imperiale di Danza. Dopo un'attività isolata in<br />
tournée con un piccolo gruppo battezzato dal pittore Dimitriev «Les soirées du Jeune Ballet»,<br />
ebbe la fortuna di dover sostituire, in seno ai Balletti russi di Diaghilev, nientemeno che<br />
Bronislava Nijinska, dimissionaria. Fu «maitre de ballet» e coreografo. Per Diaghilev nel<br />
periodo 1925-29 mise in scena una decina di balletti. Fra i più degni di nota si ricordano:<br />
«Barabau » (Rieti- deChirico), «Le Bal» (Rieti-de Chirico), «La Chatte» (Sauguet -Gabo e<br />
Pevsner) e soprattutto «Apollon Musagète» (Strawinsky-Bauchant) e «Le Fils prodigue»<br />
(Prokofiev-Rouault). Con la morte di Diaghilev e la compagnia dispersa, Balanchine passò<br />
all'Opéra di Parigi chiamatovi nel 1929 da Jacques Rouché per allestire «Le Creature di<br />
Prometeo» di Beethoven. Cadde ammalato e lo sostituì Serge Lifar che divenne in seguito uno<br />
degli interpreti più ispirati dei suoi balletti (Apollo e Figliol prodigo). Passò poi a<br />
Copenhagen, a Londra, per una commedia musicale (Balanchine non ebbe mai timore di<br />
piacere troppo, vale a dire con cose piacevoli e non fece mai lo schizzinoso sul genere da<br />
trattare: una qualsiasi materia, seria o allegra può essere tradotta per lui in termini artistici).<br />
Ci fu poi il periodo di Monte Carlo nel Nuovo Balletto Russo grazie alle cure mecenatesche e<br />
artistiche di René Blum e del Colonel de Basil che fu l'epoca (1932), di «Concurrence» ( Auric-<br />
Derain) e «Cotillon» (Chabrier-Bérard). Vennero quindi i «Ballets 1933», dall'esistenza<br />
effimera; infine 1'incontro con Lincoln Kirstein nel '34. Da. questo momento cominciò la<br />
grande avventura americana: formazione a New York della «School of American Ballet» dalla<br />
quale deriveranno elementi prestigiosissimi per quattro compagnie di Balletti e un numero<br />
grandissimo di autentici capolavori coreografici. Inizierà pure la storia del « New York City<br />
Ballet» del quale con Kirstein, direttore generale, Balanchine sarà il direttore artistico e<br />
l'anima del celebre complesso. Il « New York City Ballet» fondato propriamente nel '48 non è<br />
che la conseguenza diretta del felice incontro avvenuto a Parigi tra Balanchine e Kirstein.<br />
Nello stesso 1934, con l'appoggio del finanziatore Edward M.M. Warburg col pittore<br />
Dimitriev, si darà vita alla School of American Ballet. Dapprima la compagnia si chiamò<br />
«American Ballet», poi «Ballet Caravan», infine «Ballet Society» prima di diventare il « New<br />
York City Ballet » e stabilirsi in un proprio teatro: il New York City Center.
Ogni coreografia di Balanchine è armoniosamente realizzata in accordo con la musica. La sua<br />
grande sensibilità musicale lo spinge a sfruttare e a penetrare il sostegno strumentale. Questa<br />
utilizzazione della musica decreta lo stile coreografico di Balanchine il quale realizza la<br />
composizione coreografica attraverso una grande purezza lineare di forme. La composizione<br />
coreografica corre parallela sul filo di quella musicale, vale a dire ne penetra. scientificamente<br />
tutta la costruzione interna, non limitandosi all'esteriorità ritmica e melodica.<br />
Per il celebre «Concerto barocco» (1941) è stato scritto: «La danza emana direttamente dalla<br />
partitura e le parti solistiche sonò rigorosamente ed elegante: mente organizzate sul<br />
contrappunto dei due strumenti concertanti (Concerto in re minore per due violini di Bach): il<br />
sentimento di distensione e di serenità che deriva da questa intima corrispondenza<br />
appartiene al mondo della poesia e della bellezza assoluta».<br />
In ciò Balanchine è indubbiamente avvantaggiato da una eccezionale preparazione musicale,<br />
dagli studi compiuti in questo campo (qualche volta egli stesso si trovò sul podio orchestrale<br />
per dirigere i balletti di cui aveva ideato la coreografia). Questo atteggiamento che non<br />
nasconde una estrema semplicità al servizio dell'arte, vale anche in qualsiasi altro aspetto o<br />
frangente della sua vita d'artista, in cui egli non si sente eletto per parlare ai posteri: come il<br />
suo grande maestro, collaboratore, amico Igor Strawinsky, egli opera nel presente ed è<br />
chiamato di volta in volta a difendere la sua con temporaneità. Egli è in grado di scrivere un<br />
libro sui grandi balletti del nostro tempo (1954), di suggerire per la notazione e la<br />
conservazione delle coreografie la Labanotation ed addirittura di scrivere una appassionata<br />
prefazione al sistema nell' edizione americana e poi trascurare di servirsene per la scrittura<br />
delle sue opere. La verità e la validità di un'opera d'arte per Balanchine si affermano nel<br />
momento in cui si alza il sipario in teatro. Ricaduto questo sull'ultimo applauso, tutto si<br />
spegne; bisogna ricominciare daccapo (di qui la sua enorme fertilità creativa).<br />
Si è detto che lo stile coreografico di Balanchine appartiene al balletto astratto. E' vero che in<br />
alcuni dei suoi più caratteristici balletti si coglie l'astrazione assoluta e si respira il clima<br />
rarefatto determinato dal gioco dei movimenti fini a se stessi, anche per la ragione che non v'è<br />
«libretto» mancano i «contenuti» di noverriana memoria, ma io non accoglierei il termine
«strattismo», applicabile all'arte non figurativa, pur accettando l'astrazione suggerita dal<br />
clima e dalla mano canza di un contenuto librettistico o didascalico. Non bisogna inoltre<br />
dimenticare che egli ha pure composto balletti narrativi e anche dove il libretto vero e proprio<br />
non esiste, vi sono situazioni, stati d'animo, tenui sospensioni tra un moto e l'altro che<br />
determinano, pur in chiave puramente formale, una quintessenziata sostanza espressiva.<br />
Semmai è una tendenza d'oggi quella che spoglia di ogni contenuto descrittivo la danza e<br />
lascia alle linee, al disegno, alle figure la verità più significante della poesia in forma di danza.<br />
La purezza del linguaggio accademico perviene in Balanchine a cristalline trasparenze che<br />
hanno il rigore della perfezione. Il che non gli vieta, per esempio, di associarsi a Martha<br />
Graham in una data occasione e di combinare insieme un balletto come «Episodes » (1959) nel<br />
quale la danza accademica si sposa alla « modern dance» di tarda derivazione<br />
espressionistica.<br />
Martha Graham venne con la sua Compagnia in Italia nel '54. Dobbiamo rimandare le nostre<br />
impressioni a quell'epoca. Da allora il suo teatro non è cambiato anche se i componenti la<br />
Compagnia possono essere mutati con il mutare delle stagioni. L'arte della Graham è<br />
rappresentativa del luogo dov'è nata: la Nuova Inghilterra e una ascendenza presbiteriana<br />
(gran parte della sua opera, si guardi ad «Appalachian Spring », per esempio, reca gli echi di<br />
quelle regioni e dei problemi della sua gente). Da suo padre, medico specialista in malattie<br />
mentali, avverso alla carriera della danzatrice, apprese a considerare il gesto, il movimento,<br />
come la dichiarazione più aperta dell'individuo: «Il movimento non mente mai». Infatti,<br />
mentre i discorsi, le parole generano facilmente equivoci e tutte le persone più o meno si<br />
assomigliano attraverso le parole, sono le azioni a differenziare gli uomini. Al di sopra di un<br />
troppo rigido dogmatismo, l'arte della Graham va riassunta così. I suoi inizi alla scuola di<br />
Denishawn (ebbe a maestri Ruth Sto Denis e Ted Shawn che diedero il nome a quella celebre
istituzione didattica di carattere universitario) non furono improntati alla sola e pura danza.<br />
Ella si richiamava a François Delsarte e al delsartismo, una specie di corrente filosofica appli-<br />
cata alla danza 18 . E filosoficamente imbastì, attraverso la danza, il suo indirizzo culturale ed<br />
estetico. Fu aiutata in questo dal compositore Louis Horst, direttore musicale della<br />
«Denishawn», e nel tentare liberi voli con le proprie forze. Da quel tempo (siamo nel 1926) la<br />
Graham divenne fondatrice di una nuova scuola del movimento che teneva certamente conto<br />
di tutti i fermenti che, da Isadora Duncan, americana anche lei, alla Scuola Centro-Europa,<br />
Laban in testa, con Wigman e Jooss, avevano potenziato la cosiddetta danza libera del primo<br />
dopoguerra. In più, il delsartismo le aveva insegnato non solo a collegare il gesto con lo<br />
spirito, ma l'arte di scomporre i movimenti, la scienza della respirazione che guida il gesto e<br />
regola la contrazione e decontrazione, comandate da un impulso centrale. E in ciò stà la<br />
grande specialità della «modern dance». Mentre nel balletto il danzatore tende all'aereo e la<br />
danzatrice all'immateriale (e nell'Ottocento, per meglio accentuarlo, si ricorse alle famose<br />
alette alle spalle), nella danza della Graham si tende all'«humus», senza compiacenze<br />
edonistiche e superficiali decorativismi (come per lo più suole accadere nel balletto) ma una<br />
18 François Delsarte (Solesmes 1811 - Parigi 1871) insegnante e teorico francese di canto e recitazione. L'importanza storica delle sue<br />
teorie non riguarda tanto il teatro drammatico e quello lirico quanto la danza poiché esse influirono decisamente e in modo determinante<br />
dapprima sulla nascita e poi sul divenire della danza libera, sia negli U.S.A. che in Europa. Conobbero ed applicarono i suoi principi: la<br />
Duncan, Laban, Ruth St. Denis, Ted Shawn (Denishawn School) e tutti i grandi iniziatori del1a modern dance. La parte del sistema più<br />
ricca di sviluppi fu quel1a riguardante la mimica. Avvalendosi dello studio dell'anatomia e della fisiologia, studiò la mimica naturale<br />
dell'uomo nella vita in relazione all'istinto e non alla succube dipendenza dalle convenzioni sociali. Il corpo è diviso in tre zone:<br />
intellettiva, emotiva, fisica. Esistono poi delle sotto suddivisioni regolàte dalle modalità dello spazio, del tempo e dell'impulso motorio (v.<br />
gran parte della straordinaria teorialabaniana). Altra ripartizione dei movimenti in tre ordini: opposizioni, parallelismi, successioni.<br />
Delsarte fu il primo a teorizzare il movimento corporeo nel danzatore moderno come flusso e riflusso di energie che la danza libera riunì<br />
nel1e note divisioni « Anspannung Abspannung », « Contraction-release », « Fall-recovery», ecc. Secondo Delsarte ogni movimento<br />
senza un suo significato espressivo è inammissibile sulla scena. Il «Delsartismo" stabilì i legami esistenti fra il gesto e lo spirito<br />
procedendo ad una scomposizione elementare dei movimenti che permettono di raggiungere un perfetto coordinamento muscolare e, in<br />
particolare, l'equilibrio nelle cadute con dolcezza. La Graham sviluppò questa scienza seguendo le proprie concezioni per farne la base<br />
della sua tecnica del movimento: nessuna frattura tra corpo e spazio, tra corpo e terreno che serve di sbarra negli esercizi quotidiani. I<br />
salti sfiorano il suolo; le cadute non costituiscono mai un abbandono totale e il corpo si arresta in equilibri quasi impossibili per riprendere<br />
nuovi balzi verso nuove traiettorie nello spazio. Delsarte è considerato come il precursore della danza moderna. Non è poi detto che tutti<br />
gli appartenenti alla modern dance, nei suoi aspetti polistilistici, abbiano continuato a seguirne le teorie: l'intellettualismo della Graham si<br />
fa cerebralismo in Cunningham e il concetto grahamiano di una danza tutta introspettiva, drammatica, emotiva si trasforma in<br />
Cunningham in una nuova danza pura, dinamica, sconvolgente, senza emozioni, antipsicologica, raggelata, spesso imprevedibile, ai limiti<br />
del possibile, anche in... una “non danza “...
quasi costante aderenza al suolo, a piedi nudi naturalmente, e una articolazione<br />
apparentemente spontanea delle membra, salvo poi le librazioni e vibrazioni, gli slanci, le<br />
cadute con i rapidi risollevamenti da terra. Sia ben chiaro: non aspirazione al naturalismo né<br />
per concezione poetica, né per deliberato proposito informativo. Ci si armonizza con la natura<br />
ma la si fugge perché la figura umana si traspone in chiave simbolica e surrealistica. Che poi<br />
esista un plesso solare, sede dell'inconscio, dal quale emanano le sensazioni espresse dal<br />
movimento e che esistano altre varie complicate storielle, questo riguarda poco o niente lo<br />
spettatore. La critica, di fronte ad un simile teatro deve preoccuparsi non tanto di come e<br />
attraverso che cosa la Graham ha detto ciò che aveva da dire quanto del significato che se ne<br />
trae. Ebbene, la danza della Graham è teatro nel senso classico del termine come lo concepi-<br />
rono i greci, i primitivi, comunicazione con il proprio Destino e la Divinità. Siamo alle origini<br />
stesse del teatro: rito e dramma. Lo stesso sforzo che presiede alle azioni umane, nel teatro di<br />
Martha Graham si fa evidente in ogni sua opera. Questo sforzo, si diceva, tende al suolo, alla<br />
terra per cui si può parlare di una vera e propria tecnica della caduta in pieno contrasto con<br />
l’envol che vince il peso della materia nel balletto tradizionale. Ma poi i balzi scattanti non<br />
sono anche essi regolati da una specie di leggerezza, diversa ma innegabile? Quelli che da noi<br />
sono chiamati «scatti» la Graham li chiama «contrazioni-rilassamenti» in riferimento alla<br />
respirazione (rilassamento durante l'inspiirazione ed espirazione-contrazione dopo aver<br />
emesso il fiato). C'è infine la sequenza dei movimenti spezzati con particolare riguardo al<br />
busto e alle braccia che, in confronto alla tecnica accademica, hanno un impiego più vasto<br />
soprattutto nei passaggi dalla rigidezza alla morbidezza, mentre, com'è noto, nel «balletto» c'è<br />
un rigido meccanismo che presiede ai portamenti. Storicamente il movimento della Graham<br />
deriva dai tentativi non certo sterili di Isadora Duncan e dalle pazienti ricerche filosofico-<br />
scientifiche di Rudolf vonLaban e dei suoi seguaci; quantunque si dica che la Graham non sia<br />
stata influenzata dàlle tecniche europee, non si può negare che ci sia una identità di postulati<br />
o, per lo meno, un'impostazione che si rifà alla ritmica dalcroziana. Le teorie dei devoti della<br />
danza centroeuropea trovarono proprio in America dei seguaci potenti e un terreno fertile<br />
per queste innovazioni che volevano restituire alla danza la libertà dai vincoli e dalle
convenzioni, dagli artifici e dalle strettoie nelle quali, soprattutto nel tardo Ottocento, era<br />
stata impigliata. Detta innovazione nella tecnica come nell'espressione-artistica, servirà ad<br />
influenzare il balletto tutto degli ultimi trent'anni (Balanchine stesso è stato influenzato da<br />
Laban). Questi pionieri in terra americana sono: Ruth Sto Denis (Jersey City, 1877 -<br />
Hollywood, 21 luglio 1968); Ted Shawn (Kansas City, 1891); Martha Graham (Pennsylvania,<br />
1893); Doris Humphrey (Oak Park, USA, 1895 New York, 1958); Charles Weidman (Nebraska,<br />
1901); Helen Tamiris (New York, 1905 - 4 agosto 1966); Hanya Holm, Anna Sokolow<br />
(Hortford, Connecticut, 1912); Sophie Maslow, Valerie BeUis (Houston, USA, 1920).<br />
Sarà bene dare qualche indicazione libraria fra le più esaurienti: il volume di B. de Rothschild<br />
«La danse artistique aux USA» (Editions Elzévir) e il libro di Margaret Lloyd edito da Knopff<br />
di New York «The Borzoi Book of Modern Dance». Artisticamente e spettacolarmente quali<br />
temi e quali corde tocca la Graham? C'è una parte dedicata all'«astrazione» che noi amiamo in<br />
particolare. E' forse uno degli aspetti meno consueti dell'arte di lei (il Destino, il Fato greco,<br />
l'Inconscio) ma nel quale emergono di più il disegno della coreografia e le peculiarità delle<br />
evoluzioni spoglie di tutto !'ingombrante bagaglio di significazioni e di tutti i riferimenti<br />
filosofico-letterari dei quali la Graham suole farcire le sue più ponderose creazioni (con il<br />
sollecito avvertimento, però, che l'importanza non risiede nell'ispirazione al mito, bensì nei<br />
sentimenti che lo spettacolo emana). Tra i lavori di nostra preferenza ricordiamo<br />
«Divertimento degli angeli» sulla musica di Norman Dello Joio, e subito dopo il «Cantico per<br />
commedianti innocenti», danza di gioia, una lode al mondo nel suo divenire, una<br />
celebrazione della terra e dei suoi elementi. Nel tragico «Viaggio notturno» si è partecipi del<br />
mito di Giocasta e del suo amore incestuoso (musica di William Schuman, con una<br />
scenografia, stupenda per semplicità, di Isamu Noguchi). Simboli e realtà aderiscono a<br />
quest'ultimo balletto e pongono l'accento sulla compartecipazione di tutto l'essere umano<br />
(corpo e spirito), ma nello stesso tempo si sente anche che questo tipo di danza si libera di<br />
tutto l'apparato tecnico con le complicazioni di carattere anatomico e muscolare per divenire<br />
un reale prodotto dello spirito, pura visualizzazione emotiva. Altri toni che si rifanno<br />
moderatamente al folclore americano con una punta di ironia ambientale (la vecchia America
protestante dei « revivalist ») percorrono «Appalachian Spring» dove si fa strada e luce il<br />
ritorno di quella primavera in Pennsylvania, nelle Appalachie: «Ove c'era all'est un giardino<br />
rivolto verso l'Eden ». Qui il motivo primo è rituale: la sacralità dell'instaurazione di un<br />
nuovo amore fecondo, di una vita nuova; un uomo e una donna che costruiscono una casa<br />
attraverso l'amore, la gioia di vivere, la preghiera. Bella anche la partitura di Aaron Copland,<br />
uno dei maggiori compositori americani. Non abbiamo visto « Errand into the Maze» sulla<br />
musica di Gian Carlo Menotti o «Dark Meadow» (come tradurre convenientemente questi<br />
splendidi titoli) ancora con le scene di Noguchi per la musica di Carlos Chavez, «Erodiade» di<br />
Hindemith, «Cave of the heart» di Samuel Barber, la famosa «Lettera al mondo» su testo della<br />
poetessa americana Emily Dickinson e gli ultimi lavori, indizio di una ispirazione che non si<br />
affievolisce: «Acrobats of God» (Surinach) «Clytemnestra», « Phaedra» «Seraphic dialogue»<br />
(Della-Joio), «Le gend of Judith », « Secular games », « Circe» (Hovhaness), « Part Real-Part<br />
'Dream », « Hecuba », « Plain of prayer », «Alcestis » (si noti la presenza insistita delle grandi<br />
eroine tragiche greche).<br />
Bravissimi i danzatori che l'attorniano, ma purtroppo si è staccato da essi Erick Hawkins,<br />
stupendo solista nel gruppo fra il 1938 e il 1950 e formidabile interprete di « El penitente ».<br />
Altri danzatori del suo gruppo hanno fatto compagnia a sé stante come Yuriko, Pearl Lang,<br />
Merce Cunningham e Paul Taylor, mentre le sono rimasti fedeli: Linda Hodes, Robert Cohan,<br />
Bertram Ross, Helen Mc Gehee. Strano il destino, di Paul Taylor (Pennsylvania, 1930)<br />
dapprincipio non particolarmente votato alla danza. Egli è passato con straordinaria<br />
disinvoltura dal nuoto alla danza, si direbbe meglio dall'agonismo sportivo a quello coreico.<br />
Naturalmente studiò con Martha Graham, Doris Humphrey, Josè Limon presso il Connecticut<br />
College. Dopo il primo anno vinse una borsa di studio e andò a New York presso la Juilliard<br />
School of Music dove ebbe come insegnanti Antony Tudor e Margaret Craske. Così per gioco<br />
o per caso Taylor divenne in seguito danzatore professionista: ciò fu a partire dall'estate 1952.<br />
Contemporaneamente non tralasciò gli studi con la Graham. Nel 1953 al Modern Dance<br />
Festival presso l'Alvin Theatre egli occupò il ruolo di sostituto nelle coreografie della Graham.
Fu poi nella compagnia di Merce Cuimingham, del quale si parlerà in seguito, al Black<br />
Mountain College, infine in un teatro « Off-Broadway'». Lo incontriamo nella Compagnia di<br />
Pearl Lang (primavera 1955) in seno all'American Dance Festival interprete di varie sue<br />
coreografie. Fu con Charles Weidman, John Butler, Jerome Robbins al quale ultimo successe<br />
da qualche anno a questa parte (dal 1961 in avanti) proprio in quell'alone di gusto spre-<br />
giudicato e di avanguardia newyorkese che fu per un certo periodo di tempo del suo illustre<br />
predecessore. Così ancora con Michael Kidd, con Lee Sherman, attraverso una varia<br />
esperienza (una tournée in Estremo Oriente e in Israele con la Graham) egli poté accumulare<br />
una serie di risultati molto utili alla sua formazione tecnico-artistica. Giunse l'anno di<br />
«Episodes»(1960) vale a dire il momento del felice incontro fra Balanchine e la Graham, i due<br />
massimi esponenti della danza accademica e della modern dance, due tendenze antitetiche<br />
che nell'occasione si videro perfettamente conciliate. Nel 1960, Paul Taylor si presentò al<br />
Festival dei Due Mondi di Spoleto che gli diede la grande opportunità di affermarsi da solo<br />
con un suo proprio gruppo e la tournée italiana del 1961 convaliderà l'uscita dell'artista dal<br />
suo guscio. Egli è arrivato a ciò gradualmente con una preparazione né troppo lenta né<br />
avventata e poté, in breve, contare su di una formazione sufficiente per liberare la sua<br />
creatività indipendente. Una creatività che si era imparentata con le più audaci espedenze<br />
della musica e dell'arte d'avanguardia: lo scenografo, costumista (e poi anche coreografo) Ro-<br />
bert Rauschenberg, divenuto il pittore più famoso della corrente «pop», il pianista David<br />
Tudor, il più famoso anche lui tra quelli che interpretano la cosiddetta «nuova musica», come<br />
lo è John Cage nei riguardi di Merce Cunningham. Tra gli autori di Taylor troviamo Boulez<br />
(«Meridian»), Morton Feldman («Images and Reflections»), ma troviamo anche Strawinky<br />
(«The Least Flycatcher») e Schoenberg («Fibers »), Bach («Junction»), Corelli, Vivaldi («Piece<br />
Period») e Haendel («Aureole») come insieme a Rauschenberg c'è il «moderato» Rouben Ter-<br />
Arutunian.<br />
Le idee non mancano a Taylor anche se appartengono ad un mondo in disfacimento,<br />
disintegrato, come le musiche o i rumori che accompagnano i suoi balletti lasciano intendere;<br />
quando, per esempio, è esaurita la curiosità per una musica deformata da una velocità
diversa da quella con la quale è stata registrata (con disinvoltura, in uno stesso programma, ci<br />
si può incontrare con Bach e con suoni registrati del battito di un cuore umano, dell'ora esatta,<br />
del rumore di pioggia, (ecc.). Per il resto, un teatro d'avanguardia che cessa di essere tale<br />
giorno per giorno (ed egli stesso lo autorizza), titoli ermetici, molte idee, molte trovate, un<br />
costante umorismo e una mordace ironia rievocativa quando non è dissacrante di cose<br />
passate, un trattare la musica, s’è capito, brutalmente (se dicessimo primitivamente,<br />
spiegheremmo tanta parte di arte contemporanea) grande assimilazione della tecnica non<br />
solo in se stessa; come modern dance, ma anche in relazione alle altre arti grazie al contributo<br />
straordinario di un pittore come Rauschenberg e diun gruppo di «impegnati ».<br />
Ma al di là di Taylor è andato il più anziano Merce Cunningham (Centralia, Washington,<br />
1915). Egli lavorò a lungo con Lester Horton; il suo incontro con la danza non fu casuale e il<br />
suo accostamento al teatro di danza avvenne attraverso una progressiva, meticolosa<br />
assimilazione della musica e del teatro drammatico. Egli, nonostante il suo linguaggio ostico,<br />
sta sullo stesso piano della Graham. I critici di Parigi (Festival del Théàtre des Champs-<br />
Élysées, novembre 1966) e di Londra si sono trovati d'accordo. Cunningham fece parte della<br />
compagnia della Graham per sette anni: dal 1939 al 1945, danzando in «Every Soulis a<br />
Circus», «El Penitente», «Letter to the World», «Deaths and Entrances », «Appalachian Spring<br />
», «Puncn and the Judy ». Ciò non gli impedì di perseguire tentativi e risultati isolati. Una sua<br />
prima composizione solistica è «Totem Ancestor» che ha evidenti riferimenti tribali primitivi,<br />
quegli stessi che collocano la danza delle origini nelle «culture precoci ». Ciò avvenne nel<br />
1943 allo Studio dei famosi Humphrey-Weidman. Nel 1947 lasciò definitivamente la Graham<br />
e operò vieppiù isolatamente. I critici guardarono subito alla sua singolare forza inventiva<br />
anche se non tardarono ad accorgersi del suo ermetismo in contrapposizione con lo stile<br />
chiaro di un Robbins. Sul piano dei rapporti fra musica e danza egli, come Taylor, si è servito<br />
e si serve dei mezzi più disparati ma senza vagare tra il classicismo musicale dei grandi<br />
compositori e l'avanguardia più aggiornata.<br />
Egli usa Schaeffer, Boulez, Cage, ma anche il nastro magnetico e la musica concreta. Sarebbe<br />
bene riportare qualche impressione ricevuta a Venezia, a Parigi o a Londra, i pochi
eneficiari, in Europa, del suo particolare teatro. Qui è l'«happening» ad intervenire o la<br />
«contaminazione dei generi» che sappiamo essersi infiltrata nella musica come nelle arti del<br />
segno, nella letteratura come nel teatro in genere (il «Living» ne è la più lampante<br />
dimostrazione). Con Cunningham John Cage poté esperimentare il «prepared piano» e con<br />
lui Cage collabora direttamente stando di persona sul palcoscenico, intrecciando una<br />
estemporanea conversazione che è l'accompagnamento stesso ai movimenti di Cunnningham<br />
e dei suoi danzatori, frammezzo a mille cose che possono «accadere», il tutto entro giochi di<br />
luci cangianti. Poi questi movimenti si trasformano e diventano danza, composizione<br />
coreografica. Siamo ancora nell'àmbito di uno spettacolo totale. E a questa definizione ci<br />
autorizza lo stesso Rauschenberg che è pittore si e quindi scenografo, costumista, ma anche<br />
coreografo, quando non lo sono per lui Taylor o Cunningham. E' naturale che in un tale<br />
confluire di elementi disparati è un pò difficile scindere i valori puramente coreografici da<br />
quelli semplicemente gestuali o da quelli musicali, pittorici, plastici, ecc., ma era possibile<br />
questa scissione in quel mare tranquillo, in quella navigazione che a noi oggi sembra calma e<br />
felice, che fu rappresentata dai Balletti russi di Diaghilew Del resto Taylor, Cunningham,-<br />
Cage, Rauschenberg, Andy Warhol, David Tudor non costituiscono più esperimenti, sono un<br />
fatto acquisito del quale, proprio per il convulso precipitare dei tempi nuovi, non finiremo<br />
mai di stupirci, di irritarci, di frustrarci. II pericolo di stare troppo a lungo fermi su posizioni<br />
acquisite sembra costituire la minaccia più temuta dall’uomo di oggi; la provocazione è il<br />
migliore reagente alla noia, all'indifferenza, alla situazione costituita. Ecco lo scopo di tanta<br />
parte del teatro di danza contemporaneo d'oltre oceano. Il passo dall'improvvisazione al<br />
dilettantismo è breve, potrebbe essere anche falso, se non fosse avallato da una grande prepa-<br />
razione tecnica da ambo le parti. Rauschenberg predica la «spontaneità dell'intervento<br />
dinamico». Cunningham è con lui nell'asserire che un ballerino può intervenire in un balletto<br />
come un oggetto qualsiasi, in un momento qualsiasi, continuare nelle sue evoluzioni senza un<br />
tempo determinato e poi, quando uno meno se o aspetta, abbandonare il palcoscenico. Il<br />
«casuale», l’«happening» è presente in «Summerspace» (1958), come nella prima coreografia<br />
di Rauschenberg «Pelican» (Pop Art Festival alla Washington Gallery of Modern Art del 1963)
o nell'altra del 1965 «Spring Training ». L'uso della calza-maglia è costante nell'uno come<br />
nell'altro artista. Fra proiezioni di film o di diapositive, l'apparizione degli oggetti più strani o<br />
impensati, la presenza stessa di Rauschenberg, il corpo del danzatore nella guaina di colore<br />
unito o a macchie non cessa di rivelarci la sua splendida evidenza plastica, la sua trionfante<br />
vitalità cinetica, la superba armonia del movimento, lo scultoreo gioco delle forme muscolari,<br />
la sua forza poetica. Qualche altro titolo è indicativo della poliedrica personalità di questi<br />
artisti, titoli brevi, scarni, asciutti: «Changeling», «Crises», «Aeori», «Rebus», «Tracer»,<br />
«Scramble», «Canfield», «Rainforest», «Winterbranch», «Walk around time», qualcuno<br />
intraducibile, tutti segnati dall'estro e dallo spirito di ricerca, di esperimento e di scoperta di<br />
Taylor e Cunningham, spirito-base della «nuova danza». Cunningham venne in Italia nel<br />
1964 per la Biennale di Venezia al Teatro La Fenice e vi è tornato per due rappresentazioni (il<br />
22 e 23 aprile 1969) al Teatro Sistina di Roma insieme all'inseparabile e fenomenale Carolyn<br />
Brown. Più chiaro, ma anche di chiara tendenza drammatica, il mondo negro di Alvin Ailey<br />
che è tale proprio solo nel colore, ma attinge all'universale e alle angoscie, alle sofferenze, agli<br />
incubi del nostra tempo.. Accanto a coreagrafie sue (egli stessa patente danzatare e<br />
«Revelatians», su musiche spirituali, «canzoni di pena, di amare, di liberazione» ne è il<br />
capalavaro) il gruppo reca un balletto di Anna Sokolov «Rooms», altro documento della<br />
disponibilità da parte della «modern dance» di aprirsi a tutti i problemi della vita e ad assu-<br />
mersene la più scattante ingerenza. Stupefacente in questo teatro il contributo pittarico recato<br />
dalle luci di Nichalas Cernavich.<br />
Un teatro a sé stante rimane quello di Alwin NichaIais detto «New Theatre af Motion». Il<br />
costume, la luce, l'attrezzo, l'effetto di una maglia elastica dilatata dal mavimento di un corpo,<br />
acquistano una importanza superiore a questa del danzatore stessa. E' questo un prodotto<br />
estrem della danza libera con la differenza di un autamatismo e di una spersonalizzazione<br />
che non era agli inizi di quel mavimento di danza. Un prodotto d'alchimia che non ignora le<br />
esperienze di una Laie Fuller e del pittore Giacomo Balla per ciò che concerne la cosiddetta<br />
«coreografia di luci» (si pensi a «Feux d'artifice» di Strawinsky presentato a Roma da Dia-<br />
ghilev nel 1917, di un Kreutzberg, di Ruth Sto Denis e della Graham per gli apporti plastico-
espressivi della dama libera e della «modern dance».<br />
Jerome Rabbins (New York, 11 ottobre 1918), applica lo stile jazz alla tecnica accademica e,<br />
moderatamente, alla «modern dance», ma ciò che canta è lo spirito che ha un'altra profondità,<br />
un'altra dimensiane; una differente misura da quella della Graham, troppo preaccupata a<br />
perdersi e a ritrovarsi nei meandri del l'incanscio. L'arte di Robbins tocca corde più<br />
immediate, più vicine alla nostra realtà vissuta e soprattutto alla realtà déll'America, come in<br />
«West Side Story», dove l'argomento desunto da Shakespeare («Romeo e Giulietta») non è che<br />
il pretesto per esporre un dramma, un problema americani. Da noi c'è chi ha arricciato il naso<br />
a questo spettacolo e si sono rivolte critiche anche contro il tono un poco dimesso, voluto..<br />
Bisognava saper vedere come la danza, con il concorso del canto, della recitazione (e in<br />
questa stretta fusione v'è un'applicizioine di «teatro totale») riusciva ad esprimere un mondo,<br />
un ambiente, delle situazioni e dei sentitimenti. Forse un balletto italiano sulle zone depresse<br />
del Mezzogiorno non interesserebbe gli americani come fatto in sé, sociale e polemico, ma se<br />
trovassima un nostro modo valido per esprimerlo e rappresentarlo teatralmente, chi non ne<br />
sarebbe conquistato (anni fa «Carosello napoletano» vi era riuscito).<br />
Jerome Rabbins va situato tra Balanchine e Martha Graham, meno astratto del primo, più<br />
estroverso della seconda. Egli, tranne poche eccezioni di balletti, come «Fanfare»,<br />
esercitazione di tessitura classica di un'orchestra sottoposta al bisturi dell'invenzione figu-<br />
rativa con una punta umoristica, a «Pied Pipe », decisamente comico, tratta il reale e lo attinge<br />
direttamente dalla vita del sua paese. Così è «Fancy Free» (Bernstein-Smith) che reca la data<br />
del 1944, nella quale edizione egli stesso danzava, tipica storiella di tre marinai a terra, come<br />
Interplay (Martan Gauld) un gioco coreografico scanzonato e vivace di pialli savrapposti fra<br />
la danza classica e quella moderna. Nella «Gabbia» (Strawinsky), del 1951, con gli effetti di<br />
luce della Rasenthal e i costumi della Sobotka che si armonizzano sapientemente con la<br />
coreografia e la integrano senza soccarsi scenografici, Nora Kaye è, alla creazione, la<br />
canduttrice di un gioco nel quale crudeltà animale e passione umana si mescolano in un rito<br />
ove l'eterna guerra dei sessi si traspone in termini allegorici. Nell'«Età dell'ansia », il cui titolo
ivela di per sé il tema trattato, come negli ultimi balletti: (New York Export Opus Jazz) e<br />
«Events » vi è tutta l'ansia di ricerca, il tormento dell'epoca nostra e, in più, la gioia<br />
sbarazzina, l'aria cordiale, il sentimento un poco ingenuo di tanta parte di vita americana. In<br />
questa Robbins è quanto mai rappresentativo del suo tempo e della sua gente, attuale,<br />
moderno, perciò vicinissimo a noi sia dal lato tecnico che segue i canoni dello stile jazz e i<br />
suoi acquisti, sviluppandoli alle estreme conseguenze, dopo averli filtrati di ogni esperienza e<br />
tendenza, dal balletto accademico alla «modern dance», come nella sostanza poetica in cui<br />
egli dà sfogo ad un bisogno insopprimibile di vita, scatenato, appassionato, quasi disperato<br />
che grida anche nel silenzio (come succede in «Moves », un balletto in silenzio nel quale il<br />
ritmo è scandito dai danzatori stessi, dal loro, percuotere il terreno e dallo staccarsene ).<br />
Questa è anche una legge che regola la vita degli uomini e le civiltà poiché è, in fondo,<br />
l'insegnamento che si trae dalle lezioni degli spettacoli del «New York City Ballet», dei<br />
Balletti di Robbins, dell'«American Ballet Theatre »: un popolo che è un agglomerato di razze,<br />
di più fresche e giovani risorse, che riprende e fa rivivere secondo i tempi e i segni un'arte<br />
antica quanto il mondo, nata con l'uomo e se ne serve, in un rinnovamento totale, per potersi<br />
esprimere e sentirsi esistere.<br />
(A questo punto è utile rilevare il contributo dell'«American negro dance», vero patrimonio<br />
nazionale, che ha in Katherine Dunham, PearIPrimus, Talley Beatty, Carmen de Lavallade,<br />
nel già citato Ailey, alcuni dei più significativi esponenti).<br />
C'è poi tutto un movimento musicale e pittorico che investe il balletto americano: Copland,<br />
Bernstein, Barber, Gould, Dello Joio, compositori; la Karinska, costumista preziosa, la Sharaff,<br />
Isamu Noguchi con le sue potenti costruzioni, Eugene Berman e Marcel Vertès, Cecil Beaton,<br />
le scenografie estremamente pittoriche di Chagall, Rouault e Dufy o quelle più teatrali e<br />
funzionali di Rouben Ter-Arutunian e Routh Sobotka (muore 42enne il 17 giugno 1967). Ci<br />
sono i grossi nomi di coreografi come Agnes de Mille («Rodeo», «Fall River Legend» ),<br />
Eugène Loring («Bi11y the Kid»), Ruth Page («Frankie and Johnny»), Catherine Littlefield<br />
(«Barn Dance», «Cafè Society »), Lew Christensen («Fi1Iing Station », « Jinx »), e c'è<br />
soprattutto Josè Limon (Messico, 1908), fra i più interessanti per i fermenti creativi
provenienti dalla Scuola Humphrey-Weidman ( «La pavana del Moro», che è uno stringato<br />
«Otello» in forma danzata), Pauline Koner, Lucas Hoving, John Butler. La stessa Doris<br />
Humphrey, scomparsa prematuramente nel 1958,'non solo ha elaborato le coreografie di<br />
molti balletti, ma è una delle figure più importanti della danza moderna in America. Un suo<br />
libro: «The art of making dances », uscito postumo, si raccomanda per l'impegno, la serietà e<br />
lo studio severo con i quali sono condotte ricerche e conquiste del movimento di danza<br />
contemporaneo. Su di un terreno più leggero e piacevole Hanya Holm, tedesca di nascita,<br />
uscita dalla scuola di Mary Wigman, si è dedicata esclusivamente alla « commedia musicale»<br />
e le 'sue coreografie' per «Kiss me, Kate » e « My fair lady » sono quanto di più garbato esista<br />
nel genere. Anche Michael Kidd merita una citazione. Dapprima ballerino nel « Ballet Theatre<br />
», fu poi coreografo di alcuni fra i più divertenti film-rivista apparsi sugli schermi negli ultimi<br />
anni. John Tatas (New York, 18 aprile 1919), William Dollar (Saint Louis, 1907), David Lichine<br />
(1910), si possono associare nel ricordo e nella lode per alcuni buoni, onesti balletti, non<br />
particolarmente rivelatori, ma spettacolarmente efficaci. Così si sono fatte notare le<br />
Compagnie dell' « Harkness Ballet of New York» e di « Robert Joffrey» ricche di fermenti, di<br />
giovani danzatori e coreografi, fra i quali vanno citati almeno per la prima: Lawrence Rhodes,<br />
ora anche direttore e Lona Isaksen; per la seconda: Gerald Arpino («The Clowns ») con il<br />
nuovo astro nascente Eliot Feld. Ci sono i nomi dei grandi danzatori affermati Maria<br />
Tallchief, André Eglevsky, Francisco Moncion, Diana Adams,Todd Bolender, Jacques<br />
d'Amboise (gli ultimi due pure coreografi), Melissa Hayden, Jillana, Allegra Kent, Violette<br />
Verdy, Nicholas Magallanes, Patricia WiIde, Lupe Serrano, John Kriza, André Prokovsky,<br />
Scott Douglas, Arthur Mitchell, Edward Vilella, e moltissimi altri a tacere di Tanaquil<br />
Leclercq sulla quale siamo costretti a stendere un velo pietoso che non vuole significare<br />
dimenticanza di un passato recente, troppo breve e pur intensissimo d'arte vibrante, stroncata<br />
da un male inesorabile. E ci sono le nuove rivelazioni: Suzanne Farrell, Mimi Paul, Patricia<br />
Neary, Patricia McBride, Suki Schorer, Kay Mazzo,Conrad Ludlow, Anthony Blum, Kent<br />
Stowell, Peter Martins, John Prinz.
Mentre scriviamo Balanchine continua a comporre alacremente (ha adeguato persino il suo<br />
accademismo ai moti jazz dell'«Ebony Concert» o del « Ragtime» [1960] di Strawinsky e alle<br />
asprezze degli «Electronics», 1961). Non per essere «à la page » con gli altri ma perché, da<br />
buon contemporaneo, sente anche così e piega la sua tecnica portentosa alle esigenze dell'ispi-<br />
razione e del momento creativo: ora il suo disegno si fa geometrico e crea «I quattro<br />
temperamenti» (1946); ora assume uno stile adamantino in qualche esercitazione accademica,<br />
senza timore di sfiorare il freddo rigore formalistico («Movements », 1963); ora indugia nei<br />
preziosi decorativismi richiesti da un cerimoniale di circostanza («The Figure in the Carpet »,<br />
1960), poi si accalora e si espande nelle volute neoromantiche da «La Valse» (1951) ad<br />
«Allegro brillante» (1956), da «Sérenade» (1934) a «Liebesliedervalzer» (1960). Il tutto è<br />
governato dalla lucida sapienza compositiva grazie al possesso di una tecnica che egli piega a<br />
tutte le possibili combinazioni. Si veda l'elaboratissimo «Agon» sulla musica scabra e irta di<br />
Strawinsky, certamente uno dei balletti «perfetti» del nostro tempo. Dopo « I quattro<br />
temperamenti» la letteratura balanchiniana si è arricchita di un gioiello del più puro<br />
modernismo. Strawinsky lo compose alla maniera di una partitura seriale nel 1957<br />
interpretando antiche danze francesi del Cinque e Seicento, ma senza alcun preciso intento di<br />
trasposizione visiva o storica o stilistica. Gli spiriti di Domenico da Piacenza, Antonio<br />
Cornazano, Guglielmo Ebreo hanno certamente sorriso a Balanchine ma con quale sapienza<br />
grafica, con quale eleganza egli ha ironizzato su quell'aulica traccia. Non si sarebbe proprio<br />
immaginato che dopo i «Quattro temperamenti» sarebbe andato oltre e tanto lontano nel<br />
«movimento» tracciando linee e figure che ci riportano alla conquista spaziale del nostro<br />
tempo. Infine, solo un coreografo come lui avrebbe potuto penetrare l'arduo fraseggio<br />
strawinskiano (si pensi alla ricorrente forma di «canone» e alle entrate dei vari attacchi vicine<br />
di mezze battute le une alle altre per cui il succedersi dei temi genera un effetto straordinario<br />
di gioco imitativo) e solo un gruppo come quello diretto da lui avrebbe potuto interpretarlo.<br />
Suzanne Farrell, nuova creatura balanchiniana, sinuosa come una liana, serena come<br />
un’aurora boreale, un miracolo di purezza tecnica e il negro Arthur Mitchell si fondono
meravigliosamente nel contrasto delle opposte figure. Il balletto «Bugaku » (1963) si basa su<br />
due contaminazioni felici: una è di natura musicale ed è dovuta al compositore Toshiro<br />
Mayuzumi che ha strumentato alla maniera occidentale un pezzo della musica di corté<br />
giapponese (Bugaku) e l'altra risiede nelle sovrastrutture figurative, di chiara derivazione<br />
nipponica: sulla tecnica accademica. Ebbene, mai si era assistito in scena a tanta purezza<br />
erotica in un rituale di nozze. La vestizione della sposa, l'accoppiamento e la danza<br />
dell'imeneo ci hanno risospinto verso una sensazione magica quasi perduta, grazie anche<br />
all'arte dei due interpreti principali e delle quattro coppie, degli splendidi costumi di<br />
Karinska e del dispositivo scenico con le luci di David Hays.<br />
C'è un lato piacevole, divertente, forse solo esteriore che non va trascurato in Balanchine. A<br />
questa produzione si iscrivono quei balletti ancora memori del passato turbolento e difficile<br />
durante il quale egli colla.borò a Londra nella commedia musicale. Vi appartengono la<br />
brillante «Bourrée fantasque» (1949); «Jones Beach», in collaborazione con Robbins (1950); «<br />
Western Symphony» (1954); «Roma» (1955); «Stars and stripes» (1958); «The Slaughter on<br />
Tenth Avenue», la famosa sequenza danzata composta da Balanchine nel 1936 per il<br />
«musical» «On Your Toes» e ripresa nella primavera 1968. Questi facili pezzi, inclusi<br />
evidentemente nel suo programma per soddisfare il gusto più corrente, non dovrebbero<br />
essere presi troppo sul serio com'è stato fatto da parte di qualche critico. A questa leggerezza,<br />
se così si può chiamare, egli rimedia subito con i grandi «balli» della vena creativa più<br />
recente: «A Midsummer Night's Dream» (1962); «Don Chisciotte », che è del 1965, nuova<br />
opera coreografica ispirata al celebre romanzo di Cervantes sulla musica di Nabokov,<br />
interprete Balanchine stesso alla prima rappresentazione di New York; «Jeweles» (1967),<br />
balletto in tre parti sulla musica di differenti compositori: Fauré, Ciaicovski, Stravinski;<br />
«Glinkiana» pure del '67; i «Trois Valses Romantiques» dapprima rappresentati su di una<br />
orchestrazione della partitura di Chabrier e poi (nella stagione di primavera al «New York<br />
State Theater», 1968) danzati nella forma originale per due pianoforti e i pianoforti sul<br />
palcoscenico; i «requiem canticles» su di una recente partitura di Strawinski per coro e<br />
orchestra e dedicati alla memoria di Martin Luther King senza dimenticare il «Brahms-
Schoenberg Quartet », evocativo di una Vienna decadente ma soprattutto «Metastaseis and<br />
Pithoprakta », musica del greco Yannis Xenakis, astratto e, nello stesso tempo, con il tema<br />
balanchiniano della ricerca dell'ideale femminino (la rappresentazione il 18 gennaio 1968). Si<br />
potrebbe aggiungere che Balanchine, fra tutti gli artisti operanti nell'orbita di Diaghilev, sia<br />
colui che più di ogni altro si è distaccato dalla sua estetica e ha intrapreso un cammino isolato.<br />
Non si distaccò da quell'inizio Massine, fedele ancora oggi a quei canoni. E a quell'indirizzo<br />
pervennero molti artisti del mondo coreutico contemporaneo. Non sappiamo se<br />
l'esasperazione del segno balanchiniano sarebbe stato gradito a Diaghilev. Se oggi siamo<br />
lontani da un «Figliol prodigo», che è del 1929, anno della scomparsa di Diaghilev, anello di<br />
congiunzione fra l'espressionismo di Massine e il neo-classicismo del suo autore, troviamo<br />
nell'«Apollon musagète», che lo precede di un anno, molti dei punti di contatto con la vena<br />
compositiva più dichiarata in quel neo-classicismo che continua a dominare in lui.<br />
Balanchine perciò continua a parlare il «dolcissimo idioma » della danza accademica. A<br />
questo vocabolario, materiato e sublimato nel corso dei secoli, Balanchihe ha aggiunto i<br />
neologismi di cui erano capaci la sua inventiva e la sua ispirazione. In lui il balletto classico<br />
tradizionale vive e rivive in uno stile che è divenuto il suo, che gli appartiene, che non è<br />
contaminazione di altri stili ma il risultato di una incessante ricerca. In lui gli episodi danzanti<br />
avvengono per germinazione. Il suo contrappunto visivo nasce sotto i nostri occhi, si scioglie,<br />
lievita, raggiunge una rarefatta atmosfera. E' ancora la sublimazione del movimento, della<br />
figura umana, dell'uomo visto in tutta la sua energia cinetica, della spiritualità del corpo.<br />
Ne è venuta fuori un'opera colossale nella quale pare che i grandi spiriti del passato assistano<br />
Balanchine ora nella purezza del linguaggio, ora in quella geometrica delle forme e nell'altra<br />
perfetta della musica. Egli ha una venerazione per il balletto classico: vi ha costruito sopra un<br />
imponente edificio di eloquenza dove grammatica e sintassi concorrono alla logica astratta di<br />
racconti non raccontati; estremamente significanti. Egli si è fatto vate della danza di oggi vuoi<br />
che si riallacci alla tradizione o la superi in intellettualistici atteggiamenti. Inoltre, addossando<br />
tutta l'importanza di un balletto sulla struttura dello schema coreografico, non ha fatto che<br />
ampliare le possibilità della coreografia. Ritto, in pieno secolo ventesimo, varcati i
sessant'anni, ci addita il nobilissimo esempio di un grande contemporaneo, di uno dei pochi<br />
indiscutibili geni di oggi nel mondo, il quale ha creato alcuni capolavori che restano fra le<br />
meraviglie della nostra età.<br />
Balanchine è una delle più grosse personalità della danza nel Novecento, ciò malgrado la<br />
limitatezza del registro della sua poetica (essa deriva non tanto dall'afflato espressivo quanto<br />
dalla scienza costruttiva delle sue composizioni). E' nella limitatezza, in modo analogo alla<br />
pittura di Morandi o alla scultura di Marini, che egli diventa infinitamente ricco riell'esporre<br />
le varianti della quasi sempre medesima tematica (la base accademica applicata ad ogni<br />
ispirazione e ad ogni stimolo figurativo e la forma concertante che corre. parallela al tessuto<br />
musicale nel disegno coreografico).<br />
In ogni modo è stato il più organico compositore coreografico dopo Fokine e solo pochi<br />
riuscirono (quanti riusciranno ancora?) dopo la sua apparizione nel mondo della danza a<br />
creare degli edifici coreografici così organicamente e solidamente costruiti.<br />
Infine, colpisce lo spirito della gente che dirige i complessi americani: Lucia Case con Oliver<br />
Smith, Lincoln Kirstein, Lester Horton (scomparso nel 1953), Louis Horst (muore il 23 gennaio<br />
1964), Ted Shawn, , Martha Graham e Jerome Robbins, lo stesso Balanchine, persone di molto<br />
polso, di molta fede, per le quali la danza è un'arte e la servono da umili è fieri sacerdoti<br />
quali si professano.<br />
Se poi tutto questo, in un certo senso, è più vicino alle stelle che alla realtà quotidiana, se,<br />
consenziente lo stesso Balanchine, ogni spettacolo di balletto appartiene al giro delle ore che<br />
suole durare, non importa. Questo linguaggio senza parole, di breve durata, fuggitivo come<br />
la vita, si associa realmente ad un moto infallibile che si ripete con le pulsazioni dell'essere,<br />
come si rinnovano gli arabeschi gelidi e pur vibranti della sua lira di poeta.
IL <strong>BALLETTO</strong> NEI PAESI DELL’EUROPA DELL’EST<br />
Il destino ha voluto che le due più grandi potenze di oggi nel mondo producessero le più<br />
grandi forze della danza e del balletto e pur divergendo nella fisionomia, nelle tendenze,<br />
l’una dall’altra, si completassero a vicenda. Più di un insegnante, più di un coreografo e più<br />
di un danzatore in America proviene dalla grande scuola russa ed è russo d’origine come la<br />
stessa Russia si è alimentata per gran parte dell’Ottocento alla scuola europea. Si sa che a loro<br />
volta gli Stati Uniti vivono di infiniti rapporti culturali ed artistici europei. Così, come due<br />
grandi fiumi, Russia e Stati Uniti ricevono dagli affluenti tutte le risorse necessarie alla loro<br />
espansione ed i terreni irrigati da quei fiumi prosperano e producono frutti rigogliosi.<br />
Bisogna ancge aggiungere che il terrreno dell’una nazione come dell’altra era quanto mai<br />
preparato ed aperto alla semina che in questo secolo è stata abbondante. La grande linfa della<br />
nazione russa è sorretta alla base dalle radici che si dipartono salde da ramificazioni di<br />
straordinarie tradizioni popolari e il folclore americano ha servito non da meno ad alimentare<br />
tanta parte della “modern dance”. Si dà il caso di due popoli così predisposti alla danza, l’uno<br />
impiantato in uno spirito etnico e folcloristico eccezionalmente vivo ed esaltante, l’altro tutto<br />
proteso verso una esasperazione ritmica che dai lontani canti delle piantagioni e dalle danze<br />
rituali che li accopagnavano è confluita nel “jazz”, entrato in tanta parte della vita e dell’arte<br />
americana.<br />
Dobbiamo subito premettere che il balletto sovietico è molto dissimile da quello occidentale<br />
anche se la base è una, indivisibile. Questa differenza sta più nella sostanza ideologica che<br />
nella forma anche se la composizione di un balletto spesso ricorre ad uno svolgimento molto<br />
lontano dalla nostra sensibilità moderna e fa appello alla pantomima di tarda derivazione<br />
romantica.<br />
Ma bisogna partire dal principio del secolo per riuscire a delineare una fisionomia del balletto<br />
sovietico. Nell’Ottocento l’attività coreografica in Russai ebbe per centro San Pietroburgo e il<br />
teatro Marynsky. La costruzione di questo teatro avvenne nel 1860; nel periodo tra il 1920-35<br />
prese il nome di Accademia di Stato dell’Opera e del Balletto, successivamente si chiamò
Teatro Nazionale Accademica Kirov. A San Pietroburgo la danza ebbe un suo sviluppo grazie<br />
all’intervento dei maestri francesi e italiani (Diderot, Perrot, Petipa, Saint- Lèon, Cecchetti).<br />
Danzatrici russe ed italiane resero grande il nome del teatro. Al principio del secolo, s’è visto,<br />
i grandi nomi di Karsavina, Preobrajenska, Pavlova, Vaganova per le danzatrici e di Gerdt,<br />
Oboukhov, Gorsky, Bolm, Fokine per i danzatori, arricchirono il buon nome del teatro.<br />
Alcuni dei danzatori più illustri vengono da quel teatro, Ulanova, Marina Semionova,<br />
Nathalie Doudinskaja, Chaboukiani, come alcuni dei più importanti balletti sovietici<br />
appartengono al suo repertorio: “Le fiamme di Parigi”, “La fontana di Bakhtchisarai”, “Taras<br />
Bulba”, “Romeo e Gulietta”, “Il Cavaliere di bronzo”, “Spartacus”, “Il fiore dei pietra” etc.<br />
Ma, negli anni settanta, è il Bolscioi di Mosca ad essere la più importante scena del balletto in<br />
U.R.S.S. Con la venuta di Alexandre Gorsky (Pietroburgo 1871-1924) il balletto conobbe un<br />
periodo fiorente.<br />
Allievo di Petipa alla Scuola Imperiale di Pietroburgo, nel 1902 diventa maître de ballet dei<br />
teatri imperiali di Pietroburgo e Mosca. La carriera del danzatore è breve, interessato com’era<br />
sin dagli inizi all’insegnamento. Segue pure il sistema di scrittura Stepanov che adotta egli<br />
stesso e impone alla scuola di Pietroburgo. Notevole è il suo intervento nella coreografia,<br />
nella scenografia, con un’applicazione massiccia dell’elemento realista sia nell’una che<br />
nell’altra. Accanto ad opere coreografiche nuove, egli compone le nuove versioni dei balletti<br />
del repertorio classico come “Don Chisciotte” e “Il lago dei cigni”.<br />
Al principio del secolo il repertorio del Bolscioi è lo stesso di quello del teatro Marynsky,<br />
grazie all’influenza di Grosky interviene in seguito l’elemento più marcatamente narrativo<br />
realista accanto ai balletti di stile bianco 19 .<br />
I principali artisti del Bolscioi da ricordare sono: Ulanova, Lepechinskaia, Plissetskaia,<br />
Kondratieva, Stroutchkova per le danzatrici, e per i danzatori: Kondratov, Yermolayev,<br />
Preobrajenski, Fedeyetchev, il maestro Assaf Messerer uno dei più grandi pedagoghi del<br />
19 Ballet blanc è un’opera coreografica di stile romantico nella quale le danzatrici indossano un tutù bianco lungo ispirato al<br />
costume creato da Lami nel 1832 per la Taglioni ne “La Sylphide”. Il termine vale come riferimento di stile<br />
indipendentemente dal colore del costume.
secolo scorso insieme alla sorella Sulamita diplomata alla scuola di Mosca nel 1926, divenuta<br />
in seguito prima ballerina ed insegnante.<br />
Al tempo della rivoluzione (1917) nell’allora chiamata Leningrado, la scuola di danza<br />
continua a funzionare e lo stile resta intatto, ma muta ovviamente l’ideologia. A Mosca<br />
escono dalla scuola di Stato nel 1905 due artisti del valore di Mordkin e Volinine che<br />
operarono poi fuori dal loro paese e Catherine Gheltzer allieva della scuola imperiale di<br />
Mosca, che diviene danseur ètoile del Bolscioi.<br />
In quel momento, già bruciante di tentativi rivoluzionari, si raccolgono intorno a Grosky<br />
collaboratori tanto preziosi quanto illuminati. Con la rivoluzione di ottobre moltissimi artisti<br />
russi esiliati non possono fare ritorno in patria.<br />
Oltre al Kirov e al Bolscioi, la Russia possiede corpi di ballo nelle altre città della Rebubblica.<br />
Non esistono scuole private, ma solo scuole di Stato. Tra queste, è da ricordare la Compagnia<br />
del Balletto Stanislawski e Nemirovitch- Dantchenko. Fondata per iniziativa della danzatrice<br />
Victorina Krieger nel 1930, essa applica al balletto le teorie del celebre Stanislawski per ciò che<br />
riguarda l’arte drammatica. Questa compagnia è diretta, oltre che dalla Krieger, dal maître de<br />
ballet e coreografo Vladimir Bourmeister. Nel 1939 le due compagnie si uniscono e questi<br />
sono alcuni dei balletti che escono dal loro repertorio: “Esmeralda”, “Lago dei cigni”, “Le<br />
allegre comari di Windsor”. I danzatori sono gli allievi del Bolscioi, fra questi si ricordano:<br />
Voletta Bovt, Eleonora Vlassova, Sofia Vinogradova, Nina Timofeieva, Alla Ossipenko, Alexei<br />
Chichinadzè, Mikhail Salop. A Leningrado come a Mosca si studia duramente, la disciplina è<br />
ferrea, soprattutto a Leningrado gli allievi uniscono all’insegnamento fisico quello artistico,<br />
studiano letteratura, danze storiche, seguono corsi d’arte drammatica.<br />
Occorre ora descrivere come si articola il teatro coreografico in Russia. Già si è detto<br />
dell’estremo conservaturismo dei complessi sovietici di balletto, ma esistono anche notevoli<br />
contraddizioni. Verso il 1920, periodo di grandi cambiamenti, si assiste a balletti che<br />
vorrebbero instaurare una nuova estetica in nome delle correnti allora in voga, poi l’elemento<br />
patriottardo emerge in tutta la sua fierezza e sono allora balletti ispirati alla libertà a farsi<br />
strada.
Nei balletti sovietici non c’è posto per il simbolico o l’astratto, tutto deve essere chiaramente<br />
raccontato “coram populo”. Si assiste a nuovi balletti con soggetti sovraccarichi di fatti e di<br />
elementi realisti secondo i precetti di Stanislawski. Naturalmente anche i balletti classici del<br />
repertorio hanno subito questa influenza con la conseguente materializzazione del contenuto<br />
più fantastico e sognante, salvo poi la sorpresa di Nureyev il quale, seguendo da buon adepto<br />
del Kirov questa impostazione, riesce a rendere credibile il personaggio di Albrecht nel vario<br />
percorso dei suoi sentimenti a tutto beneficio della chiarezza del contesto.<br />
Si potrebbe dire che la bravura dei danzatori supera quella dei coreografi, infatti non<br />
troviamo in Russia un coreografo veramente eccezionale. Rostislav Zacharov è il più<br />
importante coreografo russo del Novecento. Formatosi anche lui alla scuola di Leningrado,<br />
allievo di Ponomarev, diventa dal 1942 professore di coreografia all’Istituto dell’Arte Teatrale<br />
Lunatcharski a Mosca. Autore di un’opera pubblicata nel 1954: “L’arte del maestro di ballo”<br />
egli ha composto le seguenti coreografie: “La fontana di Bakhtchisarai” (1934), “Il Prigioniero<br />
del Caucaso” (1938), “Cenerentola” di Prokoiev (1945), “Il cavaliere di bronzo” (1949), “Il<br />
papavero rosso” (1949), “Sotto i cieli d’Italia” (1952).<br />
Mentre Leonid Lavrovski è il creatore di “Romeo e Giulietta”, che uscì a Leningrado nel 1940<br />
e poi a Mosca nel 1947. Alla prima di Lenigrado al Kirov, con la scenografia di P.Williams,<br />
danzarono Ulanova e Sergueiev.<br />
Dopo un’attività al Kirov dal 1938 al 1944, Lavrovski passa al Bolscioi di Mosca fino al 1956,<br />
per poi ritornarvi dal 1960 al ’64. Nel 1954 crea “Il fiore di pietra”, e nel 1960 “Paganini”.<br />
Altro coreografo, Vassili Vainonen compie gli studi classici a Pietroburgo ed è poi danzatore<br />
al Kirov. Nel 1939 passa al Teatro Stanislawski di Mosca e nel 1944 al Teatro di Minsk. Dal<br />
1946 è coreografo al Bolscioi di Mosca. La coreografia del balletto “L’età d’oro” di<br />
Sciostakovich è opera sua. Esistono pure nuove versioni dello “Schiaccianoci” e “Raymonda”.<br />
Oltre ai complessi di balletto esistono le grandi compagnie di danze popolari e due di queste<br />
hanno raggiunto fama mondiale, si tratta di “Berioska” e “Moisseiev”. Il filone è chiaramente<br />
quello delle danze popolari, ma Moisseiev è tale maestro e coreografo che non potrebbe
sfuggire all’occhio più distratto quanto queste danze siano state elaborate, filtrate, setacciate<br />
al vaglio dalla tecnica accademica.<br />
Gli artisti del Bolscioi e del Teatro di Lenigrado ci possono ricondurre alla gioia della grande<br />
e vera danza. Pur con le vecchie storie, le scenografie demodèes e tutto l’apparato stantio che<br />
essi sono soliti adottare, le musiche più decadenti che si possano ascoltare, per lo più del<br />
tardo romanticismo di fine Ottocento, ma si riesce a dimenticare tutto questo e ad<br />
abbandonarsi al valore dei russi contemporanei, fedeli alla loro annosa, formidabile tecnica,<br />
frutto di diverse scuole, l’italiana, la francese, la franco- svedese, il tutto sapientemente e<br />
convenientemente elaborato. Quella stessa tecnica che è diventata arte e che ha reso il balletto<br />
sovietico celebre nel mondo intero, proprio per quella poeticità tutta patetica che lo distingue.<br />
Sulla scena del balletto, la coreografia lascia un grande posto alla pantomima, le scenografie<br />
ed i costumi sono improntati al realismo più ovvio; la tecnica è spesso sbalorditiva specie<br />
negli atletici e acrobatici portamenti dei passi a due. Le danze di carattere sono certamente<br />
molto belle ricche di vigore, ma il balletto sovietico in genere nulla concede al gusto<br />
aggiornato della coreografia. Alla carenza dell’elemento creativo- coreografico subentra<br />
l’indiscussa bravura tecnica.<br />
Lasciando da parte il balletto di Mosca e Pietroburgo, analizziamo brevemente la tradizione<br />
dei paesi satelliti dell’ex Urss.<br />
L’Ungheria è certamente la prima ad avere ereditato gran parte dello spirito e della tecnica<br />
dei russi. Bisogna risalire al Seicento per trovare diffuso il gusto della danza nell’alta società<br />
magiara. Spesso si doveva al mecenatismo di qualche nobile signore, l’esibizione di famose<br />
coppie di ballerini: Viganò e Maria Medina danzarono sul finire del diciottesimo secolo al<br />
Palazzo degli Eszterhàzy. Spesso si assistette ad un accoppiamento della danza folcloristica<br />
alla nobile, data la straordinaria vena degli ungheresi per il genere popolare. La danza<br />
popolare finì quindi sul palcoscenico e si unì alla forma teatrale del balletto. Con la<br />
costruzione del Teatro dell’Opera di Budapest sul finire dell’Ottocento, anche il balletto entrò<br />
a far parte dell’organismo ed erano i balletti con più chiare derivazioni o ispirazioni dal
folclore magiaro a riscuotere il favore popolare. Fu anche il tempo del trionfo della scuola<br />
italiana. Il ballerino italiano Campilli, direttore e coreografo del Teatro Nazionale, fu<br />
sostituito al suo ritiro da un numero considerevole di maestri italiani, come Cesare Smeraldi,<br />
Luigi Mazzantini, Cesare Severini, e Nicola Guerra che portò il balletto dell’Opera a uno<br />
splendore non conosciuto prima.<br />
L’ultimo grande maestro ungherese Ferenc Nàdasy fu allievo di Guerra e suo continuatore<br />
all’Opera. Fu un danzatore di carattere, brillantissimo, dalla tecnica virtuosistica e dalla vis<br />
comica travolgente.<br />
Nel 1937 iniziò l’insegnamento a Budapest e in circa trent’anni ebbe modo di formare alcuni<br />
dei migliori prodotti della danza contemporanea su piano internazionale. Nora Kovach e<br />
Istvan Rabovsky sono stati suoi allievi, oltre a Zsusa-Kun, Gabriella Lakatos, Clotilde Ugray,<br />
Adele Orosz, Viktor Rona, Victor Fulop, Ferenc Havas.<br />
Intanto l’innesto della scuola italiana alla scuola russa avveniva in modo così razionale e<br />
produttivo da risultare stupefacente. Ed è proprio alla scuola dei maestri ungheresi che si<br />
deve questa fusione. L’influenza russa si è fatta via via più massiccia: nel 1950 venne fondato<br />
l’Istituto di Stato del Balletto. L’insegnamento di questa scuola adotta il metodo russo di<br />
Agrippina Vaganova ed è nell’orientamento verso la grande disciplina coreutica sovietica che<br />
sta la forza del balletto ungherese. Nàdasy ha avuto quattro onorificenze di Stato fra cui la<br />
più importante è il Premia Kossuth del 1958.<br />
Bisogna ricordare una pubblicazione in lingua tedesca, opera dei maestri ungheresi<br />
dell’Istituto Statale del Balletto, “Methodik des Klassichen Tanzes” (1964), opera<br />
fondamentale condotta dallo spirito direttivo di Nàdasy, frutto di un grande lavoro<br />
pedagogico dal quale traspare ad ogni passo l’insegnamento della Vaganova.<br />
Altra figura di rilievo è il coreografo Gyula Harangozò che ha creato molti balletti, tra cui “Il<br />
Mandarino Meraviglioso”.<br />
Eccezionale il patrimonio folcloristico di questo paese. Nel “Complesso popolare di Canto e<br />
danza dello Stato ungherese” diretto da Miklòs Ràbai per la parte coreografica e da Imre<br />
Csenki, capo artistico della musica, sfilano i canti e le danze del paese.
Anche in ex-Jugoslavia gli artisti russi influenzano con la loro personalità lo stile del balletto<br />
che si fonde al metodo russo. Il coreografo più attivo del Novecento fu Dimitrie Parlic.<br />
Immissioni importanti nel balletto internazionale sono pervenute abbondanti proprio dalla<br />
scuola coreografica jugoslava: Duska Sifnios, Jovanka Bjegojevic, Milorad Miskovitch, Milko<br />
Sparemblek, Veronica Mlakar, Vassili Sulich, Milenko Banovich, Zarko Prebil.<br />
In ex- Jugoslavia la danza ha avuto salde radici nel costume popolare. Quanto al teatro<br />
abbiamo già nel diciannovesimo secolo a Zagabria, un tentativo di ballo operistico in<br />
“Roberto il diavolo” di Meyerbeer, e sul finire del secolo appaiono “Giselle” e “Coppelia” con<br />
elementi misti italiani e jugoslavi.<br />
Una data importante è l’apertura di una scuola di danza a Zagabria nel 1902. Influenzato da<br />
alcuni elementi dei Balletti russi di Diaghilev, il balletto jugoslavo, con l’unificazione<br />
nazionale, prende una sua consistenza solo con la fine della prima guerra mondiale. A<br />
Belgrado nel 1921 si organizza, in sena al teatro dell’Opera, la compagine ballettistica grazie a<br />
Clauda Isacenko. A lei si unì negli anni 1922-23 Helena Pliakova proveniente dal Teatro<br />
Imperiale di Pietroburgo. Sempre dalla Russia arriva Nina Kirsanova nel 1924.<br />
L’assestamento del teatro di danza a Belgrado lo si deve, nel 1927, ad un’artista proveniente<br />
da Zagabria: Margaret Froman di origine russa, allieva alla scuola del Bolscioi. A lei si deve<br />
“La leggenda di Ohirid”(1947) e una versione di “Romeo e Giulietta” (1949). Sua allieva è<br />
stata la danzatrice Mia Slavenska, ben nota ai tempi del “Ballet russe de Montecarlo” (1938-<br />
42). Nello steso periodo della Froman la Poliakova apriva una scuola privata a Belgrado. La<br />
compagnia del teatro dell’Opera si rafforzava nel frattempo. Coreografo ospite è in seguito<br />
Boris Romanoff sino al periodo 1932-34 che vede le esibizioni della coppia di Pia e Pino<br />
Mlakar, danzatori e coreografi che da Belgrado a Zagabria, a Lubiana hanno influenzato tutto<br />
il teatro di danza jugoslavo. Pia Mlakar studiò a Berlino con Laban e a Belgrado con la<br />
Poliakova. Collabora nella danza e nella coreografia con suo marito Pino Mlakar che compì<br />
gli stessi studi. Da quest’unione sono nati balletti di uno spirito folcloristico molto accentuato:<br />
“Il Diavolo nel villaggio” (1935), “Ballata di un amore medioevale” (1937).
Dopo la seconda guerra mondiale sorsero notevoli difficoltà per la ricostituzione del balletto.<br />
Grazie ancora alla Froman nel 1947 si allestì un grande balletto nazionale “La leggenda di<br />
Okrida”, basato su musiche e danze della Macedonia. Toccò a Dimitri Parlic proseguire<br />
quest’opera ricostruttrice. La scuola della Kirsanova e di Mila Jovanovich gli offriva gli<br />
elementi migliori per le sue coreografie: Milorad Miskovitch, Vera Markovitch, Duska Sifnios,<br />
Dusan Trninic, Jovanka Bjegojevic. Sue coreografie sono, “Il cuore di panpepato”, 1950; “La<br />
reine des iles”; “Il mandarino meraviglioso”; “Orpheus” di Strawinsky; “Romeo e Giulietta”<br />
di Prokofiev.<br />
In Polonia il balletto nasce al principio del Cinquecento alla Corte Reale di Cracovia grazie<br />
all’opera di italiani. Alla metà del Settecento la forma del balletto regna sovrana con i grandi<br />
mestri francesi. Sulla fine del secolo vi danzano Vestris e Viganò. Alla corte del re Stanislao<br />
Augusto danza il celebre Lepicq.<br />
Anche in Polonia era gradita la fusione dell’elemento folcloristico all’accademico; uno dei<br />
balli più popolari in Polonia è il celebre Pan Twardowski che rievoca una leggenda popolare.<br />
Nel Novecento il balletto di Varsavia rappresenta i grandi balletti del repertorio classico<br />
affiancandoli agli sorgenti e appartenenti al movimento di Diaghilev, per lo più di Fokine.<br />
Anche in Polonia un rigido conservatorismo tenne lontane dalle scene le composizioni<br />
sospettate di più dichiarato modernismo per quei tempi, dopo il 1930; per esempio, il<br />
compositore polacco Karl Szymanowski dovette rappresentare il suo balletto “Harnasie” a<br />
Parigi per la prima, anziché in un teatro polacco. Più avanti il suo balletto entrò a far parte del<br />
repertorio nazionale.<br />
Oggi, accanto allo straordinario movimento musicale di avanguardia dei vari Tadeusz Baird,<br />
Witold Lutoslawski, Stanilaw Skrowaczewski, Krysztof Penderecki, esiste un adeguamento<br />
coreografico, ma troppo a lungo fermi su posizioni ripetute, i polacchi stentano a trovare uno<br />
stile definito nel balletto moderno per cui il risultato è un ibridismo di sovrastrutture di<br />
vecchio stampo espressionista e di derivazione centroeuropea sulla base accademica, pur<br />
notevole per qualità.
Straordinaria l’attività, accanto alla netta ripresa del balletto classico con opere del repertorio,<br />
di due grandi complessi folcloristici: “Mazowsze” e “Slask”, il primo fondato nel 1949<br />
comprendente balli e canzoni antichi e moderni della gente della Mazovia, e l’altro con il ricco<br />
contributo del folclore della Slesia. Questo materiale musicale e coreutico è servito ai musicisti<br />
e coreografi di quel paese ad ampliare la produzione nel campo delle composizioni per<br />
balletto.<br />
La storia del balletto nella vecchia Cecoslovacchia è di data relativamente recente. Verso la<br />
fine dell’Ottocento troviamo un genere di ballo fastoso e macchinoso del tipo dell’Excelsior,<br />
che infatti viene rappresentato a Praga.<br />
Il balletto nazionale si appoggia per lo più su temi folcloristici e du pantomime di carattere<br />
fiabesco. Notevole è l’intervento coreografico nel teatro operistico ceco.<br />
Nel 1927 Diaghilev visitò la Cecoslovacchia con la sua compagnia lasciando il segno della sua<br />
maestria; Novak compose due balli pantomima.<br />
Il più importante teatro che abbia dedicato la sua attenzione al balletto è il Narodni Divadlo<br />
di Praga.<br />
Direttore e coreografo principale del Balletto Nazionale è Jiri Nemecek. Il repertorio di questa<br />
compagnia è principalmente composto di versioni complete dei balletti del repertorio come<br />
“Il lago dei cigni”, “Schiaccianoci”, i balletti di Prokofiev e altri provenienti dal repertorio<br />
sovietico. Lo stesso Nemecek si è rivolto al balletto di gusto occidentale realizzando<br />
“Rapsodia in Blu”.<br />
A proposito della moderna coreografia ceca si possono fare tre titoli: “Coscienza”, balletto<br />
ispirato alla tragedia di Hiroshima; “Fantasia di Danze Moldave” di Vlastimil Jilek; “L’ultima<br />
radice” di Nemecek che tratta della storia di un campo di concentramento. Una compagnia di<br />
avanguarda nel campo della coreografia è lo Studio Baler Praha.
Lo sviluppo del balletto in Romania comincia con l’evoluzione dell’opera lirica. Il primo<br />
balletto nella storia del teatro rumeno è basato su temi di danze popolari ad opera di George<br />
Mocenau, “Festa al villaggio” del 1893.<br />
Nella seconda metà del Novecento il teatro dell’Opera e del Balletto di Bucarest, creato sulla<br />
fine del 1944, è dotato di un buon corpo di ballo e di solisti sotto la direzione del maître de<br />
ballet Oleg Danovski affiancato da Ilde Urseanu e Vasile Marcu. La maggior parte degli<br />
elementi di questo complesso provengono dalla scuola di danza del Bolscioi di Mosca.<br />
Prima cura dei dirigenti di questa compagnia è stata quella di preparare un repertorio<br />
comprendente alcuni lavori della tradizione classica come “Schiaccianoci” e “Giselle”, anche<br />
se si trovano comunque titoli del repertorio moderno sovietico.<br />
Alcuni degli artisti più interessanti sono: Irinel Liciu, Gabriel Popescu, Ileana Iliescu,<br />
Gheorghe Cotovelea, Cristina Hamel, Petre Ciortea, Valentina Massini.<br />
Anche la Bulgaria ha subito un notevole sviluppo dopo la seconda guerra mondiale, con la<br />
visita frequente dei complessi sovietici.<br />
Ma le basi di un balletto nazionale furono create dal Petrov nel 1927. Sotto la sua direzione<br />
coreografica sono cresciuti molti danzatori, parecchi dei quali rappresentano ancora la parte<br />
principale del balletto presso l’Opera Nazionale di Sofia. Accanto alla danza folcloristica e al<br />
balletto classico di impostazione russa, esiste anche una tendenza che si richiama alla danza<br />
libera di Laban e Wigman grazie all’impulso di Lidia Vylkova.<br />
Alla formazione del balletto bulgaro hanno contribuito alcuni dei migliori maestri e<br />
coreografi sovietici come Nina Anisimova e Olga Lepeschinskaia.<br />
Il balletto bulgaro “Arabesque” del Teatro dell’Opera di Sofia, ha rivelato due straordinari<br />
ballerini: Krassimira Koldamova e Itchko Lazarov.
LA <strong>DANZA</strong> ARTISTICA SPAGNOLA<br />
Se esistono ottimi danzatori accademici di lingua spagnola sparsi un po’ ovunque nel mondo,<br />
non è altrettanto vero che il balletto classico, lungi dall’essere una specialità, riesca ad imporsi<br />
in Spagna anche se è certamente gradito come spettacolo d’importazione. Tutta la terra<br />
iberica è un fremito di “zapateado” di “castagnette”, di “flamenco” laddove si dimostra<br />
l’anima di un paese.<br />
La Spagna presenta quello che ha, cioè il suo meglio, la danza nazionale. Il cosiddetto baile ha<br />
già fatto e continua a fare la sua comparsa nel campo del balletto. Com’è facile capire, si tratta<br />
di stilizzazioni. Un classico del genere nell’Ottocento fu rappresentato da Fanny Elssler. I<br />
balletti russi produssero “El sombrero de tres picos” che rivelò Massine non solo come<br />
coreografo, ma anche come danzatore specializzato nel genere. La danza spagnola è sempre<br />
stata la sua grande aspirazione al punto che qua e la si sono visti introdotti passi del folclore<br />
iberico, naturalmente trasformati e adattati, in balletti che con la danza spagnola avevano<br />
poco o nulla a che fare. Questo richiamo al folclore non fa che ribadire il concetto della nascita<br />
del balletto dalle forme popolari unite e sovrapposte con quelle del balletto aulico. Senonchè<br />
questi ballerini spagnoli, vere e proprie forze scatenate della natura, mancano di quel<br />
contributo culturale ed estetico per cui la danza, liberatasi dalle forze dell’istinto, diventa arte<br />
teatrale. È un peccato che Antonio, straordinario danzatore, insista anche nella coreografia e<br />
qualche volta gli accada di sbagliare nelle più pretenziose rievocazioni classiche.<br />
Ad Antona Mercè, detta la Argentina (Buenos Aires 1890- Bayonne 1936) che ai soui tempi<br />
mandò in visibilio il pubblico di Parigi, spetta il grande merito di aver introdotto nella cultura<br />
europea le più genuine espressioni della danza spagnola. Nata occasionalmente in Argentina,<br />
da genitori danzatori professionisti, esordì giovanissima all’Opera di Madrid e subito andò a<br />
Parigi in tournèe attraverso l’Europa e l’America. Trionfò con la sua compagnia nel 1929<br />
all’Opèra Comique di Parigi nell’interpretazione dell’ “Amore Stregone”. Accanto alle
autentiche danze folcloristiche del suo paese, essa incluse per l’appunto, i balletti classici del<br />
repertorio iberico. Argentina è importante per aver creato una danza folcloristica teatrale,<br />
vale a dire è riuscita a trasferire sulle scene la danza del folclore iberico in una dimensione<br />
teatrale. In quest’opera l’hanno assecondata principalmente Argentinita (Encarnaciòn Lopez<br />
Julves, 1895-1945) sorella di Pilar Lopez, quest’ultima attiva soprattutto a partire dalla<br />
scomparsa della sorella con il puntiglioso impegno di perpetuare lo stile e il nome creati dalla<br />
sorella.<br />
Anche Pilar Lopez reca nel suo programma, accanto ai pezzi più caratteristici del “baile”,<br />
balletti come “El sombrero de tres picos”, “Concierto de Aranjuez”. Straordinario in<br />
ampiezza l’itinerario della sua compagnia nella quale per molto tempo hanno figurato i<br />
campioni della danza spagnola come Nana Lorca e Antonio Gades.<br />
Accanto a Argentina apparvero nei suoi “recitals” altri campioni eccezionali come Vicente<br />
Escudero e Carmen Joselito. Il primo, dopo essere stato il personaggio più illustre della danza<br />
tradizionale flamenca, si dedicò all’insegnamento. Una forma di misticismo nell’arte ha<br />
sempre animato e caratterizzato le interpretazioni delle sue danze condotte con una severità<br />
rituale.<br />
Altro celebre danzatore insegnante è stato Frasquillo Francisco Lèon (Siviglia 1900-1940)<br />
partner di Argentina nel periodo parigino, e soprattutto Estampio Juan Sanchez- Valencia<br />
(1883-1957) il quale partecipò con Diaghilev, nel 1921, alle rappresentazioni del balletto<br />
“Cuadro flamenco”, una suite di danze gitane senza orchestra con accompagnamento di sola<br />
chitarra e con l’apporto scenografico di Picasso.<br />
Carmen Joselito debuttò con Argentina a Parigi, fu per molti anni compagna di Joseè Torrès e<br />
poi si dedicò all’insegnamento.<br />
Altri danzatori degni di nota sono: Antonio Ruiz Soler, un danzatore di fama internazionale,<br />
specialista nello zapateado ma anche di ottimo stile nel genere nobile. Per quindici anni egli<br />
formò una compagnia con Rosario Perez, nella quale passano alcuni dei migliori elementi<br />
della danza artistica spagnola come Rosita Segovia, Carmen Rojas, Paco Ruiz.
Anche Mariemma (Emma Martinez) è da ricordare per il grande stile nobile. Indimenticabili<br />
le sue partecipazioni con l’agile e sapiente gioco delle castagnette nei due grandi balletti di de<br />
Falla. Nel 1947 crea “L’amour sorcier” all’Opera-Comique di Parigi, ed incalcolabili sono i<br />
recitals attraverso l’Europa ed il continente americano.<br />
Luisillo, Luis Perez Davila è un esecutore di danze tradizionali flamenco. Fece il suo esordio<br />
accanto a Carmen Amaya nel 1948; nel 1950 fondò con Teresa la Compagnia del Teatro di<br />
Danza spagnola. Principali coreografie: “Luna de sangre” (1952); “El prisonero y la rosa”; “El<br />
ciego” (1955); “La espera” (1959). Riti, magie, sortilegi passano nei suoi balletti con il profumo<br />
delle notti, tenebrose e seducenti, in terra iberica.<br />
Teresa, danzatrice anch’essa di nascita messicana, apparve con alcuni spettacoli con il Balletto<br />
spagnolo di Josè Greco, partner di Argenitinita, poi di Pilar Lopez.<br />
Si ricordano anche i messicani Manolo Vargas e Roberto Ximenez e Ana Mercedes, argentina<br />
di origine spagnola, che danza con loro ed è autrice di alcune coreografie, la coppia Susanna e<br />
Josè Udaeta.<br />
Su tutti Carmen Amaya (1913- 1963) con il suo gioco invasato e demoniaco è stata per<br />
parecchi anni, sui palcoscenici di mezzo mondo, l’espressione più travolgente della danza<br />
gitana.<br />
LA <strong>DANZA</strong> ARTISTICA NEI PAESI EXTRA EUROPEI<br />
Si danza in tutto il mondo, danza e balletto si alternano in Oriente come in Occidente; il<br />
carattere sacrale della danza, scomparso in occidente, rimane invece in oriente.
In Giappone tutti gli elementi della rappresentazione (musica, danza, recitazione) concorrono<br />
all’unità dello spettacolo con la risultante di un predomnio della danza sulle altre arti<br />
concorrenti. In Cina il rituale sacro è scomparso; esistono delle danze tradizionali con forti<br />
elementi di teatralità apparentabili al nostro balletto, alcuni balletti drammatici a sfondo<br />
sociale, ma molto si è andato perdendo della tradizione. In Giappone si è voluto affiancare<br />
alla danza del Kabuki e del Nô il balletto senza tener presente che, principalmente per una<br />
ragione fisiologica, esso non si adatta ad un individuo di razza nipponica. Ottimi risultati<br />
sono stati conseguiti nella modern dance da individualità giapponesi, ma il genere del<br />
balletto non è a loro congeniale. Tale giudizio non deve risultare del tutto negativo nei<br />
confronti degli sforzi del Balletto Komaki, fondato a Tokio secondo lo stile russo, la quale<br />
compagnia include nel suo programma “Il lago dei cigni” e una danzatrice classica come<br />
Moniko Tani.<br />
Passando ad un altro emisfero, troviamo che l’America Latina vive tutta, o quasi tutta, delle<br />
risorse del balletto europeo, in particolar modo Argentina e Brasile.<br />
A Buenos Aires il balletto del teatro Colon è stato instaurato dopo il 1920. Dalle parti più<br />
disparate di Europa sono giunti in Argentina, Margherita Wallman, John Taras, Serge Lifar,<br />
Janine Charrat ecc.<br />
Qualche volta alcuni elementi etnici o folclorici sono intervenuti in alcuni balletti di tessuto<br />
accademico. Un contributo autoctono lo apportò Joaquim Perez- Fernandez, argentino di<br />
origine spagnola, fondatore della “Compagnia di Arte Indo-Americana”. Con paziente ricerca<br />
egli percorse l’America del Sud per studiare usi e costumi di quelle popolazioni, soprattutto<br />
in relazione ai riti. Fece ciò che aveva fatto con la danza artistica spagnola, Argentina: fissò<br />
sulla scena, con uno spiccato senso del teatro, il folclore del suo paese e in particolare degli<br />
Incas.<br />
I Balletti dell’America Latina, creati a Buenos Aires nel 1940, visitarono l’Europa nel 1951,<br />
arrivarono anche in Italia; alcune canzoni, alcuni ritmi restarono, in quel periodo e per un po’<br />
di tempo, sospesi come nostalgico ricordo di echi esotici. Alcuni titoli: “Indiani alla fiera del
sabato”, “Notti del Paraguay”, “Porto di Tabasco”, “Le nozze di Pancha e Lucero”, “Di<br />
velluto nero”, “Piccole danze della terra”, “Sortilegio del Panama”.<br />
Così la rinascita del balletto a Montevido è dovuta ad artisti francesi e Roger Fenonjois ne è<br />
un rappresentata, anche se poi operò in Peru al teatro di Lima.<br />
Ad Alicia Alonso, splendida danzatrice, si deve lo sviluppo del balletto a Cuba. Nel 1950 essa<br />
aprì una scuola di danza all’Habana.<br />
La danza artistica in Cile ha avuto un grande impulso grazie all’intervento di Jooss. Ernst<br />
Uthoff, che faceva parte della compagnia di Jooss, con Rudolph Pescht, allievo di Laban, e a<br />
Lola Botka, fondò la Scuola Nazionale di Danza a Santiago de Chile appoggiata all’Istituto<br />
Musicale dell’Università di quella città. Il tessuto dei suoi balletti è decisamente moderno,<br />
alcuni esempi sono “il figliuol prodigo” e “Immagini del Cile”.<br />
Ma è in Messico che si notano più interessanti fermenti nella danza moderna e in quella di<br />
genere folcloristico. Al Festival delle Nazioni di Parigi, nel 1961, e al Festival del Balletto di<br />
Nervi, nel 1964, si è potuto ammirare il Balletto Nazionale messicano diretto da Amalia<br />
Hernandez. La danza di quel paese, nella seconda metà del Novecento, si appoggia su due<br />
grandi personalità: Waldeen e Guillermina Bravo.<br />
Waldeen studiò danza classica a Los Angeles, ma ben presto si rivolse allo studio delle danze<br />
del suo paese. Con lei collaborò dapprima la Bravo, e ad entrambe si deve lo sviluppo della<br />
danza moderna in Messico grazie anche all’interessamento fattivo dell’Istituto Nazionale<br />
delle Belle Arti.<br />
La Bravo debuttò con la compagnia della Waldeen nel 1940, nel 1946 ne fondò una propria e<br />
nei due anni successivi fu codirettrice con Ana Merida dell’Accademia di Danza; in seguito<br />
occupò anche il posto di direttrice del Balletto Nazionale. Nella vasta opera di questa artista<br />
ricorrono spesso temi sociali, ma è soprattutto la voce del paese a farsi sentire con tutto il suo<br />
calore bruciante: “El Zanate”, “Recuerdo a Zapata”, “La nube esteril”, “Guernica”.<br />
La Merida studiò e praticò ogni sorta di danza, da quella classica all’autoctona, allieva della<br />
Waldeen e di Ana Sokolov. Fu collaboratrice della prima firmando anche alcune coreografie e<br />
assunse la direzione dell’Accademia di Danza Messicana nel 1947.
La Sokolov è stata una delle più attive organizzatrici del balletto in Messico; in unione al<br />
musicista Roberto Halffter, diede vita ad un gruppo denominato “Ballet de Bellas Artes”. La<br />
sua prima opera coreografica si intitola: “Don Lindo de Almeria” e risale al 1940.<br />
Ancora un danzatore e coreografo messicano da ricordare è Guillermo Keys Arenas di<br />
formazione ambivalente, classica e moderna. Negli Stati Uniti studiò con Josè Limon, con la<br />
Graham e Doris Humphrey. Dal 1957 al ’58 è direttore del Balletto Nazionale del Guatemala,<br />
dal 1962 assistente alla direzione del Balletto Folclorico del Messico. Ecco alcuni titoli: “Suite<br />
de Danzas”, “Bolero ritmico”, “Adagio”, “La noche de las Mayas”, “El Reyecito”, “Mi nana”.<br />
Ad un certo punto non si fa più distinzione: danza etnica e folclorica, balletto classico e<br />
accademico o danza moderna, una forma non separa l'altra, si presenti sulla scena o sulla<br />
piazza, tutte si riuniscono e compongono quel variegato mosaico che è l’arte del corpo<br />
umano.<br />
LA TELECOREOGRAFIA<br />
Parlando di telecoreografia bisogna distinguere tra una coreografia ideata originalmente per<br />
la Televisione e detta anche, sempre con neologismo, «teleballetto» ed un’altra ripresa<br />
direttamente da un teatro o comunque riadattata in studio televisivo in un secondo tempo. E'<br />
chiaro che a noi interessa l'opera originale creata espressamente per il piccolo schermo con
tutte le regole e gli utilizzi tecnici del mezzo, mentre la ripresa di un balletto allestito su di un<br />
palcoscenico normale in un. teatro normale spesso incorre in gravi limitazioni e non ha senso.<br />
Ci occuperemo perciò brevemente, com'è breve la vita del mezzo televisivo, delle opere<br />
originali trascurando gli apporti marginali della coreografia in trasmissioni di vario genere i<br />
cui interventi, condizionati sempre da un testo, non hanno minimamente risolto i problemi<br />
della telecoreografia né recato un contributo particolarmente significante alla vita della danza<br />
e del balletto nel nostro tempo.<br />
Generalmente la Televisione è avara di balletti dal tessuto accademico; si preferiscono balletti<br />
moderni e con questo termine s'intendono quelli appartenenti al genere della rivista o del<br />
varietà musicale (niente a che fare, tanto per intenderci, con la «modern dance» e nemmeno<br />
col più rigoroso «balletto jazz» ma un’accozzaglia e una rimasticatura di passi, figurazioni e<br />
movenze attinte per lo più dalle danze alla moda nelle sale da ballo).<br />
I risultati più positivi si sono verificati negli Stati Uniti con la ripresa di alcune coreografie di<br />
Balanchine; in Francia (ed anche in Canada e Germania) con lavori di Juan Corelli; in Italia<br />
con creazioni telecoreografiche di Susanna Egri; in Gran Bretagna con il lavoro di una<br />
Margaret Dale, ex danzatrice del Sadler's Wells Ballet e specializzatasi nella regia di balletti<br />
grazie al suo passato teatrale e allo studio tecnico del mezzo televisivo e delle sue possibilità;<br />
in Danimarca con FIemming Flindt. Nel genere di balletti creati per riviste o varietà musicali<br />
le cose sono andate meglio in America grazie alle coreografie di un Gene Kelly o di un Peter<br />
Gennaro anche se, proprio per la funzione che ha il piccolo schermo di rivolgersi ad una folla<br />
quanto mai vasta ed eterogenea, si siano puntate le carte con preferenza sullo spettacolare,<br />
sugli effetti più immediati, con grande sfoggio di costumi, senza badare alla sostanza dei<br />
balletti. Decana della telecoreografia italiana risulta Susanna Egri che iniziò i suoi esperimenti<br />
sin dal 1951 dalla sede televisiva torinese e nella primavera del 1952 creò espressamente quel<br />
«Foyer de la Danse» su musiche di Rossini destinato ad avere lunga fortuna non solo sui<br />
teleschermi (con una nuova edizione in ripresa teatrale nel 1965) ma anche sui palcoscenici<br />
della penisola e all'estero con centinaia di repliche in Olanda ove l'allestì nel 1952 per il<br />
«Ballet der Lage Landen». La triade dei balletti «La Bohème», «Turandot», «Cavalleria
Rusticana», presi in prestito alle rispettive opere letterarie di un Murger, Gozzi e Verga che a<br />
loro volta avevano ispirato gli autori dei melodrammi e trasportati in una gustosa realtà<br />
moderna con musiche contemporanee, si rivelò idea felice e procurò agli autori dell'ultimo<br />
balletto (su musica di Mario Migliardi) un adeguato riconoscimento al Premio Italia 1963.<br />
Altri lavori di rilievo della Egri sono: «Renard» - di Strawinsky, «Negro-spirituals »su<br />
musiche originali, «Jazz-play» (musica di Mingus) nel 1962 e le caratteristiche «Tre parabole<br />
evangeliche» (1965) su musiche popolari di Israele, tutte opere create per la scena teatrale che<br />
trovarono la loro giusta dimensione nello studio televisivo.<br />
Il Premio Italia 1963 andò a «La leçon», un balletto ispirato alla omonima commedia di<br />
Ionesco con la coreografia di Flindt che nel 1965 tornerà al commediografo rumeno-francese<br />
realizzando la coreografia «Le jeune homme à marier». Un altro Premio Italia è «Il principe e<br />
il povero» (1965) da Mark Twain per la categoria delle opere musicali televisive, coreografia<br />
di Juan Corelli, musica di Henry Sauguet, interprete: Gary Sherwood.<br />
Juan Corelli è uno specialista di opere tele coreografiche e la sua attività è da anni incentrata<br />
sul mezzo televisivo. Negli studi italiani ha allestito nell'annata 1965: « Per tre personae»<br />
(musica di Bach) e «La Péri» di Dukas. Altri balletti da lui realizzati per la Televisione di vari<br />
paesi sono: «Concerto de Aranjuez» (musica di J. Rodrigo), 1958; «Il Combattimento di<br />
Tancredi e Clorinda» (musica di Monteverdi), «Sirènes (musica di Debussy), «Le Rossignol et<br />
l'Empereur de Chine» (musica di Strawinsky), «Carmina Burana» (musica di Orff), 1960; «Till<br />
l'Espiègle» (musica di Strauss), 1961; «Jeux» (Debussy), 1962; «Le songe d'une nuit d'été»<br />
(Mendelssohn), «Le Diable à la kermesse» (Barraud), «Ballet cruel», 1963; «Harold. en Italie»<br />
(Berlioz), 1964; «Le petit secret de la Baronne» (Offenbach), «Nocturne pour une inconnue»<br />
(Constant), 1965. La sua attività tele coreografica non accenna ad arrestarsi, sorretta da un<br />
vigile senso delle esigenze del video e da una precisa conoscenza dell'uso delle telecamere.<br />
Luciana Novaro ci ha dato tre versioni azzeccate, allestite in studio, di tre classici del balletto:<br />
«Coppelia», «Petruska», «Le donne di buon umore», presentate nella serie televisiva «Parade»<br />
(1963) a cura di Vittoria Ottolenghi che è fra le più entusiaste ed appassionate sostenitrici del<br />
Balletto alla Televisione (molti lavori italiani e stranieri sono stati presentati da lei). Anche
Ugo Dell'Ara non ha mancato all'appuntamento con tre balletti su musiche di Gershwin non<br />
indispensabili e altri, riedizioni in studio, di balletti allestiti in un primo tempo per il teatro<br />
(«Stress», musica di Piero Piccioni).<br />
Mario Pistoni ha realizzato negli studi televisivi un suo balletto « La strada» che gli stessi<br />
autori Federico Fellini e Tullio Pinelli avevano ricavato dal loro celebre film. Presentato alla<br />
Scala nella stagione di Balletti del settembre 1966 con la musica di Nino Rota, le scene e i<br />
costumi di Luciano Damiani, gli interpreti erano gli stessi alla ripresa televisiva del 1968:<br />
Carla Fracci (Gelsomina), Aldo Santambrogio (Zampanò), Pistoni stesso nella parte del matto.<br />
Ogni tele coreo-autore dovrebbe sempre stare dietro la telecamera, conoscitore aggiornato ed<br />
agguerrito della tecnica di impiego, senza ricorso al regista della ripresa televisiva, spesso<br />
ignaro della costruzione di un balletto, delle sue esigenze, delle peculiarità visive.<br />
Che, lasciati gli stucchevoli, insulsi “sgambettamenti” della rivista o del varietà musicale, i<br />
giovani talenti coreografici si applichino alla realizzazione di una seria, rigorosa produzione<br />
coreografica autonoma, allo studio approfondito dei problemi della «camera» nei confronti di<br />
un “teleballetto” e alla formazione di un gusto nella disparata popolazione dei telespettatori,<br />
è un auspicio mai abbastanza sollecitato.
CONCLUSIONE<br />
Il nostro discorso si arresta. Incominci la danza se ha da cominciare. Ricordiamo l'arguta<br />
risposta di un artista coreografo a chi gli chiedeva delucidazioni su di un balletto che egli<br />
stava allestendo: "Il mio linguaggio è la danza. Niente potrà essere spiegato che non sia detto<br />
in forma migliore dalla mia danza... se sarò riuscito ad esprimerlo". Nella precarietà di<br />
quest'arte identificabile con l'esistenza stessa dell'uomo e con la fuggevolezza inarrestabile<br />
della vita c'è l'intima soddisfazione di poter ravvisare il moto dei grandi eventi umani.<br />
Terminato un balletto, deposti i costumi, spente le luci, resta la gioia tutta spirituale di<br />
appartenere, anche se per poche ore soltanto, al mondo degli spazi, delle cose indicibili,<br />
all'equilibrio della materia. Poi, visitando la mostra personale di un pittore o di uno scultore,<br />
ci accade spesso di non poter contrapporre, con melanconia, all’evidenza plastica, figurativa e<br />
anche non figurativa ma solo del segno, una pari immanenza per il mondo della danza.<br />
Occorre distinguere: danza come arte e scienza e balletto come combinazione artistica.<br />
Ebbene, noi siamo più intransigenti con la prima. Il balletto è teatro e si sa quanto il teatro sia<br />
un continuo divenire, una possibilità continuamente aperta in una formazione incessante. Lo<br />
stesso balletto di ieri non è più uguale a quello di oggi, ogni rappresentazione muta ed è il<br />
grande fascino del teatro, fascino derivato anche dal rapporto che si stabilisce fra uomini: gli<br />
artisti e il pubblico. La danza come disciplina tra le pareti di uno studio non muta, è<br />
rigorosamente e scientificamente condotta in una determinata prospettiva tecnica,<br />
accademica o moderna. Questa tecnica servirà alla composizione teatrale e francamente ci<br />
sentiamo di essere più rigorosi con la prima che con il secondo. Perché il teatro vuole estro,<br />
libertà di invenzione, sconfinamento di ispirazione, ricerca continua. Se si potesse organizzare<br />
la «personale» di un grande artista coreografico occorrerebbero serate intere e una seduta
sarebbe diversa dall'altra. I quadri, le statue, fermi, ci indicano una immanenza irremovibile.<br />
Una «personale» di Balanchine risulterebbe interessante e fortunati gli spettatori di quei<br />
momenti irripetibili. Eppure, tutto sommato, non sarebbe ancora il modo ideale di fissare una<br />
materia quanto mai labile. Non c'è sistema di notazione, non film, non registrazione televisiva<br />
che ei possa recare il messaggio di un artista siffatto poiché è nel destino di quest'arte<br />
appartenere alle cose caduche della vita. Sfiorati dalla danza, ci sembra di avvertire mag-<br />
giormente il transitorio e la provvisorietà della vicenda quotidiana. In effetti, non resta niente:<br />
un film di Anna Pavlova visto oggi rasenta il ridicolo e cancella la limpida immagine del.<br />
ricordo mnemonico. Un artista è vivo: cantante, attore, danzatore, direttore d'orchestra nel<br />
momento in cui il miracolo si compie. Ed è l'eterna melanconia dell'uomo a coglierei ancora<br />
una volta, quasi di sorpresa, nel licenziare queste righe.<br />
Ascoltiamo la delicata scrittrice per la quale l'ultimo palpito umano in un mondo prossimo a<br />
sgretolarsi sarà ancora un moto di danza: nel momento del distacco ,proprio o quasi per<br />
ripagarci dell'amarezza delle cose finite, la danza ci sarà accanto a ribadire il suo slancio di<br />
vitalità.<br />
In quell'istante supremo non ci sarà parola, ma il movimento di un gesto o... di un<br />
soffio..."Ciò che sia el uodo(vuoto) e 'l pieno, Illu. S. Sforça, io l'haurei scripto; ma san cose che colla<br />
lingua non si possono exprimere; ma son certo, applicandogli V.s. l'ingiegno, facendosi sonare dicte<br />
misure, l'intenderite meglio che non saprei expianaruello: pertanto io mi excuso da cotale fatica".<br />
Antonio Cornazano "Il Libro dell'arte del danzare" 1455
LA <strong>DANZA</strong> E IL <strong>BALLETTO</strong>, OGGI<br />
E' ardua impresa stare dietro alle iniziative, alle nuove creazioni, alle riproduzioni, più o<br />
meno fedeli o addirittura arbitrarie, ai complessi di danza sorgenti nel mondo. Ben presto ci si<br />
accorge che ad avere il fiato corto nel tentativo di stargli dietro non sono soltanto lo storico, il<br />
critico o il semplice cronista, bensì gli stessi complessi. Poche cose valide da dire,<br />
indipendentemente dalla difficoltà del riunirsi e del riuscire a stare insieme. oltre l'arco di una<br />
sola stagione. Nella ridda delle notizie dapprima e poi degli spettacoli si .riesce con difficoltà<br />
a sceverare il buono dal meno buono o dal mediocre. Solo il tempo potrà giudicare, come ha<br />
già giudicato, almeno per la prima metà di questo secolo.<br />
S'è già detto e stabilito chi e che cosa è degno di entrare nella storia del balletto moderno; più<br />
problematico affermare chi ha. pieno diritto di entrare, per restare, in quella del balletto<br />
contemporaneo. Certo, l'America ha carte più favorevoli per imporsi in questo gioco<br />
vertiginoso. Accanto ai grandi complessi come quello del New York City Ballet, sempre sulla<br />
breccia con le vecchie e nuove opere di Balanchine, esistono altri minori di tutto rispetto: la<br />
compagnia di Eliot Felg rivelatasi al Festival di Spoleto 1969 con opere tutte firmate dal suo<br />
direttore. Fra queste ricorderemo Harbinger (Pròkofiev), At Midnight (Mahler), Intermezzo<br />
(Brahms), in un'oscillazione frequente di moduli tra il «concertante» alla Balanchine o il<br />
balletto moderno di Robbins, non disdegnando certo espressionismo coreografico (vedi<br />
Mahler).<br />
La compagnia di Robert Joffrey continua la sua linea quasi identica a quella dei suoi colleghi<br />
ed è molto significativa l'affermazione londinese al Coliseum Theatre (19 maggio - 5 giugno<br />
1971). Non vi sono divi nel gruppo, non nomi altisonanti, ma esso ha una sua forza di<br />
coesione e di grande livellamento tecnico.<br />
Le coreografie, dolenti note di ogni complesso, anche del più accreditato, sono firmate dallo<br />
stesso Joffrey e dal direttore assistente Gerald Arpino, in un primo tempo danzatore nel
gruppo e poi passato, dopo "Una vasta e varia esperienza con la televisione, ai « musicals» di<br />
Broadway fatti bene. Già si parla di Trinità (musica di Alan Raph e Lee Holdridge) come di un<br />
pezzo sicuro per il repertorio moderno e più ancora di The Clowns (musica di Hershy Kay,<br />
costumi di Edith Lutyens Bel Geddes e luci di Thomas Skelton) e la citazione è dovuta per il<br />
determinante contributo allo spettacolo di questa « parabola di morte e di speranza» sugli<br />
immortali artisti del circo, proprio per gli effetti scenici, plastici, pittorici, sonori.<br />
Nel repertorio sono inseriti Moves di Robbins, un balletto in silenzio creato per il « Ballet Usa<br />
», il quale ebbe la sua « prima» mondiale al Festival di Spoleto, 1958, e naturalmente balletti<br />
di Joffrey come Astarte, balletto psichedelico, Pas de Déesses (musica di John Field) e molti altri<br />
lavori di Arpino: Confetti (musica di Rossini), Olympics, balletto di soli uomini ispirato ai<br />
giochi della Grecia antica, senza essere una traduzione di eventi sportivi bensì un rituale di<br />
celebrazione apollinea (musica di Toshiro Mayuzumi, non nuovo alla scena di danza e<br />
allestimento scenico di Ming Cho Lee) , Sea Shadow (mus. di Michael Colgrass), Solarwind<br />
(musica elettronica e clarinetto di Jacob Druckman) nei quali, come traspare dai titoli, si<br />
respira il senso della libertà a contatto con la natura, Secret Places (Mozart), Cello Concert<br />
(Vivaldi), oltre ai «classici» di Jooss (Tavolo verde) e di Balanchine (Square Dance) e a<br />
composizioni di coreografi ospiti: Stuart Hodes per Abyss (da una novella di Leonida<br />
Andreyev, musica di Martha Richter) e Ruthanna Boris per Cakewalk (musica di Louis Moreau<br />
Gottschalk, elaborata da Hershy Kay) già creato per il New York City Ballet nel 1951 e ripreso<br />
dal Balletto Joffrey quindici anni dopo, un « minstrel show», come è stato definito.<br />
Arthur Mitchell, danzatore negro appartenente in posizione di rilievo e per un certo periodo<br />
di tempo al complesso del New York City Ballet, ha riunito recentemente, sotto 1'etichetta<br />
«Dance Theatre of Harlem» un gruppo di danzatori dalla pelle scura come la sua,<br />
riaffermando lo spirito di vitalità che anima la danza americana. E' riuscito ad ottenere<br />
immediatamente la fiducia e l’invito, come già il collega Feld, a Spoleto (140 Festival, 1971). I<br />
programmi sono articolati fra coreografie sue (la più notevole senz'altro Rythmetron) e del suo<br />
maestro Balanchine (Concerto ;barocco e Agon). Nel complesso, tutti giovanissimi, spicca per la<br />
bella linea Lydia Abarca.
Dei fratelli Christensen (Harold, Lew, William), danesi, in terra americana, William ha<br />
riunito alcune forze per dare vita ad una nuova compagnia che ha sede a Salt Lake City e sede<br />
estiva ad Aspen (Colorado) detta «West Usa Ballet» (ex « Utah Ballet », a partire dal 1957).<br />
Una sovvenzione della Ford Faundation, dal 1963, gli ha permesso di aprire una scuola e di<br />
mantenere in quella località un nucleo di danzatori professionisti. Per l'Estate teatrale<br />
veronese 1971 al Teatro Romano la compagnia, fregiata dei nomi di Jacques d'Amboise, ex<br />
primo ballerino del New York City Ballet, e di Karel Shirnoff, ha recato opere di Balanchine<br />
(Serenade e Sinfonia in Do), coreografie di Lew Christensen (Con amore), Tom Rund e dello<br />
stesso d'Amboise e nuove versioni çli Lago dei cigni, Coppelia, Paquita, a cura di William<br />
Christensen.<br />
Dove vanno ricercati i motivi della ripresa o della graduale scoperta e relativa accensione<br />
d'amore per la scena del balletto in Italia? Essi sono nati da alcune manifestazioni di un certo<br />
livello e alla portata di un grande pubblico (vi ha concorso anche se molto sporadicamente e<br />
non sempre con rigorosità di scelte, la Televisione) oltre che dal contributo di artisti su piano<br />
internazionale che hanno ricondotto il pubblico alle deliranti acclamazioni riservate alle stelle<br />
del secolo scorso e queste agli allori decretati nello stesso periodo glorioso. Qualche volta la<br />
bontà di un'iniziativa ha risvegliato amore e gusto per questo genere di spettacolo, altre volte<br />
curiosità o scandalo hanno mosso le acque troppo a lungo stagnanti nella imperturbabilità di<br />
una situazione senza Scosse o priva di eventi nuovi, secondo i moduli di una consumata «<br />
routine ». Si incomincerà col ricordare !'istituzione del Festival del Balletto di Nervi, nato per<br />
iniziativa di Mario Porcile nel 1955 insieme con Ugo Dell'Ara. Annuale sino al 1958, è diven-<br />
tato biennale a partire dal 1960 con la formazione del Balletto Europeo e la direzione artistica<br />
di Leonida Massine (sparite poi dalla circolazione, a differenza di altri lavori suoi, le due<br />
coreografie appositamente createvi: La Commedia umana e Il Barbiere di Siviglia, ispirate,<br />
nientemeno, la prima al Decamerone del Boccaccio e l'altra tutta basata sull'opera lirica inte-<br />
grale e omonima di Rossini). Il Festival fu ripreso nel 1962 e poi nel '64 con le<br />
rappresentazioni del londinese Royal Ballet (Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev, ospiti). Sostò<br />
quindi due anni per ritornare, dopo un periodo di crisi e di rivolgimenti, nel 1967, ottava
edizione, e di nuovo senza interruzioni nel 1968 con il ritorno del Royal allet e dei due astri<br />
beniamini del pubblico: Fonteyn-Nureyev, nel 1969 e nel 1970. Altra sosta nel '71 con nuove<br />
riprese nel 1972 e nel 1974, ma già la manifestazione veneziana «Danza 75 » dev'essere<br />
sembrata incompatibile con la ormai tradizionale rassegna genovese e così il Festival fu<br />
sospeso per l'estate 1975.<br />
Collaterale al Festival si è pure avuta, per cinque edizioni, una rassegna internazionale dei<br />
film di danza. Il Festival, allargandosi, ha visto aumentare negli ultimi anni lo spazio teatrale<br />
nei Parchi, cosicché i teatri sono diventati due: il più grande, intitolato a Maria Taglioni, per<br />
spettacoli di più ampio respiro, generalmente di balletto classico, il più piccolo dedicato a<br />
Enrico Cecchetti per spettacoli di danza moderna o di tipo sperimentale.<br />
Altro Festival che ha avuto opera meritoria nei confronti del Balletto è stato quello, oggi<br />
celeberrimo nel mondo intero, dei Due Mondi promosso da Giancarlo Menotti a nome della<br />
città di Spoleto. Subito alla prima edizione (1958) un largo posto fu riservato al Balletto.<br />
Bisogna anche dire che il pubblico era stato messo nella condizione di poter ammirare qual-<br />
cuno dei capolavori più salienti usciti dalla fantasia e dall'ispirazione poetica di Jerome<br />
Robbins diventato ben presto un amico fra i più fedeli di Spoleto (The Concert, New York<br />
Export Opus Jazz, Afternoon of a Faun, Moves, Events, Dances at a Gathering, Celebration). Si<br />
conobbero, portativi da un gruppo detto «Ballets: Usa», lavori di Robbins, di Herbert Ross,<br />
John ; Butler, Todd Bolender. Nel 1959, col ritorno di Robbins, si ebbero spettacoli<br />
dell'American Ballet con Nora Kaye e coreografie di Butler e Ross. Il 1960 vide nuove<br />
creazioni di Donald Mac Kayle e di Paul Taylor anche nei fortunati «Fogli d’album.» a<br />
compagnia dell' American Ballet Theàtre con coreografie note e importanti di Robbins,<br />
Antony Tudor, Birgit Cullberg; nel '61 fu ospite il «Ballet du Vingtième siècle» di Béjart,<br />
ancora Robbins con nuove creazioni e ancora balletti nei « Fogli d'album ». Nel 1962<br />
un'apposita formazione denominata «Balletto del Festival dei Due Mondi» rivelò ai<br />
frequentatori spoletini Carla Fracci, guidata qui da trame sceniche ideate da Beppe Menegatti.<br />
Sempre in quell'anno debuttò il « Theatre of Motion» di Alwin Nikolais. Nel '63 il Ballet<br />
Rambert presentò un Classico del repertorio tardo romantico Don Chisciotte (da Gorsky e
Zakharoff) ed anche novità di Norman Mornce e di Tudor. Nel 1964 venne il Royal Ballet con<br />
Fonteyn-Nureyev e un nuovo allestimento del balletto Raymonda di Glazunov-Petipa nella<br />
versione Nureyev (allestimento scenico di Beni Montresor). Come balletto moderno tornò<br />
Paul Taylor con coreografie su musiche antiche e moderne, le prime ricche di « humour », le<br />
seconde di sbrigliata, divertita e divertente fantasia. Nel 1965 due grandi complessi: il Balletto<br />
del Teatro statale di Stoccarda col Romeo e Giulietta di Prokofiev-Cranko e il New York City<br />
Ballet di Balanchine con la «prima» per l'Italia (in versione scenica) di Agon, più una Histoire<br />
du soldat con regìa, riprodotta, di Robbins e la compagnia folcloristica Kolo di Belgrado. Nel<br />
'66, accanto ad un non indispensabile Balletto Nazionale della Sierra Leone, si poté fare la<br />
conoscenza del Nedre1ands Dans Theater con coreografie di Hans van Manen, Benjamin<br />
Harkarvy, Job Sanders e Glen Tetley. Nel 1967 tornò il Balletto di Stato di Stoccarda con un<br />
altro spettacolo di « ballo grande»: Lo Schiaccianoci di Ciaicovski-Cranko e un secondo<br />
programma con balletti su musiche di Stravinski, Webern e Ravel. Quell'anno ebbero inizio al<br />
Teatrino delle Sette (diventato in seguito delle Sei) i Concerti di danza ( «L'Ora della Danza »)<br />
intesi a rivelare i giovani talenti della coreografia e i giovanissimi danzatori di maggior<br />
talento rivelatisi negli ultimi anni. Si ebbe un arresto nel 1968 (in questa undicesima edizione<br />
del Festival venne «The Harkness Ballet of New York » e si rappresentò pure una nuova<br />
coreografia di Aurelio Milloss sulla composizione Estri di Goffredo Petrassi) ma i Concerti di<br />
danza tornarono l'anno seguente con vari interventi di Loùis Falco (con Jennifer Muller,<br />
Takako -Asakawa, Robert Powell), di Jean - Cébron (con Pina Baus.ch) fra i più felici che si<br />
ricordano per l'originalità della linfa creativa. Sempre nel '69 si fece la conoscenza di Eliot<br />
Feld con la sua giovane «American Ballet Company». Nel 1970, oltre ai Concerti di danza, si<br />
videro due compagnie di contenuti opposti: il gruppo di Merce Cunningham e quello del<br />
«baile español» di Antonio Gades, oltre al madrigale di Menotti L'Unicorno, la Manticora, la<br />
Gorgona con la coreografia di John Butler. II 1971 presentò un complesso di danza popolare<br />
ungherese «Duna» e «The Dance Theatre of Harlem » del citato Mitchell. Il 15° Festival (1972)<br />
propose il Royal Ballet con due gioielli degli ultimi anni: Dances at a gathering di Jerome<br />
Robbins, del quale si parlerà più avanti e Monotones di Frederick Ashton su musiche di Satie.
Quell'anno si presentò pure «The Chamber Dance Group» diretto da Noa Eshkol. Anche da<br />
Israele soffia un vento prodotto dai sommovimenti della danza libera. Del resto, gran parte<br />
della «new american dance» non è che una propaggine di quella corrente. Questo gruppo è<br />
composto di tre persone, guidato dalla caparbia e dallo scientismo di Noa Eshkol, umile<br />
dietro il suo metronomo (i tre danzatori si muovono senza musica), intenta a contare i tempi e<br />
a non lasciarne sfuggire uno solo, restia ai ringraziamenti, quando si applaude e sempre in<br />
tono di raccomandazione, tramite intermediario, affinché non si applauda tra numero e<br />
numero (com'è d'abitudine in Italia, disturbando lo spettacolo) e si rimandi a dopo ogni<br />
commento e il malcostume del cicaleccio. Un grande rigore com'è facile capire, un'altra<br />
formula di rituale e di concentrazione; soprattutto un modo di guardare la danza e di<br />
prepararla nelle sue strutture più interne. Si parte dal naturalismo (vi domina una tendenza<br />
ispirativa di marcato carattere ornitologico) per rifuggirlo con il sollecito avvertimento di non<br />
badare ai titoli, di non ricercare lo spettacolo, di sfuggire ad ogni descrittivismo, ad ogni<br />
probabile significazione. Vale il movimento per se stesso, un movimento alquanto calibrato<br />
che scarta la mezza punta ed anche i tre quarti di punta per restare plantigrado, in un<br />
esasperato, continuo, « plié» che parte da straordinarie tensioni e non si libra nello spazio ma<br />
si costringe entro matematiche, monocordi dimensioni e scansioni.<br />
Quell'anno si fece anche la conoscenza della «Lar Lubovitch Dance Company» che tornò poi<br />
al Maggio Musicale fiorentino nel 1975. I lavori di Lubovitch, danzatore oltre che coreografo e<br />
fra i più giovani, figurano già nel repertorio di altri complessi (Ballet-Théàtre Contemporain<br />
di Amiens, Bat-Dor Dance Company di Israele, Ballet Rambert). La sua ascesa è stata molto<br />
rapida. Studiò con José Limon, il iazz con Alvin Ailey e la composizione coreografica con<br />
Lucas Hoving. I suoi balletti sono stringati, essenziali, al contrario dei titoli qualche volta<br />
molto lunghi. Caratteristica dominante dello stile di Lubovitch è il risultato scaturito da un<br />
movimento continuamente frantumato, cioè tanti piccoli frammenti di azioni rapide che<br />
talvolta si risolvono anche in sorprendente fluidità. C'è, per esempio, un passo a due su<br />
musica di Stravinskj (Concertino per quartetto d'archi) che reca, attraverso posizioni e passi<br />
continuamente spezzettati, come se fossero tante esplosioni successive, la rappresentazione di
un rapporto tra due persone che si attraggono e si respingono in una difficoltà di esistere e la<br />
loro forza è dirompente. Anche Whirligogs, su musica dll terzo movimento della Sinfonia di<br />
Luciano Berio è interessante. Qui una coppia tenta di trovare aneliti di liberazione frammezzo<br />
ad un'azione convulsa « turbini, nodi, grovigli, confusione», un balletto di oggi carico di forza<br />
travolgente e di significazioni, non ultima quella dello sgomento che suscita la massificazione<br />
come una delle paure del nostro tempo.<br />
Nel 1973 Jerome Robbins presentò sotto la denominazione di «gala di Celebri ballerini<br />
internazionali » (Fracci-Bortoluzzi, McBride-Tomasson, Sabirova-Bourkhanov, Sibley-Dowell,<br />
Verdy-Bonnefous) con coreografie dello stesso Robbins e poi di Balanchine, Ashton, Bruhn,<br />
BournonviIle, Gsovsky, MacMillan, Martinez, Petipa, Saint-Léon, Ulanova, con scena e<br />
costumi di Rouben Ter-Arutunian il suo Celebration: l'arte del pas de deux. Ritornò anche la<br />
compagnia « The Harkness Ballet oi New York ». Il 17° Festival del 1974 propose una nuova<br />
compagnia in arrivo dall'Unione Sovietica: la Compagnia di Balletto del Teatro Accademico<br />
di Perm con una nuova versione del Romeo e Giulietta di Prokofiev a cura di Nikolaj<br />
Bojarcikov con la giovanissima stella sovietica, Nadejda Pavlova che arrivò in ritardo e non<br />
deluse l’attesa dando anche l'impressione di una bambina-prodigio della danza (18 anni)<br />
spinta un po' oltre i suoi limiti, certamente mirabile sotto il profilo della purezza. Quell'anno,<br />
aprendosi a Spoleto il Teatro Romano si ebbe pure una serata di balletti della Compagnia<br />
Anne Beranger con coreografie di Micha van Hoecke e Jean-Marie Marion. Un balletto,<br />
Antigone II, recava la musica e la voce di Mikis Teodorakis.<br />
Il 18° Festival proponeva tre spettacoli di varia natura: Balletti di Félix Blaska con due<br />
programmi (di lui e del suo gruppo si leggerà più avanti), la Compagnia americana di danza<br />
moderna di Twyla Tharp dallo stile volutamente dimesso che non comunica, con un istituto<br />
proposito di non piacere a tutti i costi e di urtare con frequenti cadute di gusto. Un omaggio<br />
al musicista Samuel Barber con la danzatrice Emily Frankel e la partecipazione straordinaria<br />
di Carla Fracci e Mikhail Barishnikov del cui passo a due Medea si tornerà a parlare come si<br />
parlerà del nuovo «divo» della danza sovietica in fase di completa occidentalizzazione.<br />
Anche l'Estate teatrale veronese ha puntato le sue carte sul balletto negli ultimi anni e si sono
visti l'Arena straordinariamente gremita (sino a ventimila persone) come per uno spettacolo<br />
lirico, come per Aida, e il Teatro Romano, pure esso affollato. Negli anni trascorsi s'era<br />
tentato a più riprese lo spettacolo coreografico un po' massiccio,. rispondente alle esigenze<br />
dell'anfiteatro ma si era anche rimasti alla sua funzione complementare, vale a dire come<br />
elemento incorporato nell'opera, quando occorresse. Dato il caso di uno o più balletti nel<br />
corso di un’intera serata. Singolare il fatto di trovare un pubblico ben disposto e acclamante<br />
per un balletto come Romeo e Giulietta di Prokofiev certamente spettacolare ma fatto di finezze<br />
e di preziosità musicali e coreografiche oltre che di intimismo espressivo un po' problematici<br />
per la vastità degli spalti areniani.<br />
Il primo balletto rappresentato in Arena (da ricordare, come si è detto sopra, gli apporti<br />
coreografici delle opere nell'arco delle stagioni liriche) fu Il Cariilon magico nell'agosto 1922<br />
con Cia Fornaroli (coreografia di Maria ed Ezio Cellini). Si dovette attendere il 1935 per avere<br />
un altro balletto. La scelta cadde su Scheherazade di Rimsky-Korsakov, nella coreografia di<br />
Boris Romanoff, certamente memore dei fasti dei Balletti Russi di Diaghilev, prima ballerina<br />
Bianca Gallizia, scene di Nicola Benois. Nel -1948 fu ospite il complesso del Teatro Alla Scala<br />
con Bolero di Ravel-Milloss, Invito alla danza di Weber-Dell'Ara, Coppelia di Delibes-Milloss,<br />
Cappello a tre punte di de Falla Milloss. Nell'a osto 1952 si presentò l'International Ballet di<br />
Londra (oggi disciolto) diretto da Mona Inglesby con la stessa in veste di protagonista accanto<br />
a Algeranoff, Ernest Hewitt, Erroi Addison, Claude Algeranova; Denis Palmer. In<br />
programma: Lago dei cigni, Bella addormentata nel bosco, Gaité parisienne di Offenbach-Massine.<br />
Nel 1954, sempre nell'agosto, tornò il corpo di ballo scaligero con Lago dei cigni, Capriccio<br />
spagnolo (Massine), Il Fiume innamorato di Renzo Bianchi (coreografia di Margherita<br />
Wallmann), La Giara (Wallmann), Le Silfidi, Coppelia, Amore stregone (Wallmann). Nel 1955 il<br />
coppo di ballo della Scala recò un'apposita edizione per l'Arena di Romeo e Giulietta di<br />
Prokofiev nella coreografia di Alfred Rodriguez (allestimento scenico di Cesare Maria Cristini<br />
e Pino Casarini), interpreti Violette Verdy e Giulio Perugini cui seguirono Olga Amati e<br />
Mario Pistoni. Nel 1964 ritorno di Lago dei cigni nell'allestimento del London's Festival Ballet<br />
con la coreografia di Vaslav Orlikowsky, interpreti: Galina Samtsova e John Gilpin, in alter-
nanza con Irina Borowska e David Adams, scene e costumi per l'Arena di Attilio Colonnello.<br />
Nel '65 Balletto del Teatro di Danza Spagnola di Luisillo; nel '66 Bella addormentata nel bosco<br />
recata dal corpo di ballo del Kirov di Leningrado con la conoscenza diretta di alcune delle «<br />
stelle» della scena coreografica sovietica: Irina Kolpakova, Natalia Makarova, Alla Ossipenko,<br />
Alla Sizova, Nina Kurgapkina, Yuri Soloviev, Semeniov, ecc. Direttore e realizzatore delle<br />
coreografie originali di Marius Petipa: Constantin Serghiev. Danze anche nell'estate 1967 con<br />
il complesso dell'Opera di Kiev. Da segnalare, oltre alle famose Danze polovesiane del Principe<br />
Igor e una Suite ucraina, la « prima» italiana di un balletto molto popolare in Unione Sovietica<br />
La Fontana di Bakchisarai di Boris Asafiev (coreografia di Wakhtang Wronsky). Nel 1969 i<br />
Balletti, sotto la sigla « Balletto dell'Arena », si diedero al Teatro Romano con un apposito<br />
complesso. In programma: Negro Spirituals di Susanna Egri, Es di Helmut Laberer e<br />
coreografia di Ugo Dell'Ara, Arco (musica di Giorgio Gaslini, coreografia e intel'pretazione di<br />
Amedeo Amodio) L'Urlo di Luciano Chailly-Dell'Ara. Fra i solisti: Duska Sifnios, la Egri,<br />
Dell'Ara, i due ballerini dell'Opera di Budapest: Viktor Fulop e Viktor Rona, Amodio. Nello<br />
stesso teatro ebbe luogo una abbastanza nutrita rassegna di compagnie di danza: Ballet<br />
Rambert, Nederlands Dans Theater, ecc. Nel 1970 duplice è stata la distribuzione dei balletti:<br />
una in Arena con l'American Ballet Theatre e Giselle (interpreti: Fracci e Ted Kivitt) nella<br />
coreografia originale riprodotta da David Bhiir, preceduta da un Concerto di Kenneth<br />
MacMillan sulla musica di Dimitri Sciostakovich e l'altra col Balletto dell'Arena passato alla<br />
direzione di Luciana Novaro e ancora in azione al Teatro Romano. In programma: Le Silfidi di<br />
Chopin-Fokine (riproduzione di Gilda Majocchi), Partita di Petrassi Egri, L'Amore stregone di<br />
de Falla-Novaro, interpreti: Leda Lojodice, Flavio Bennati, Marga Nativo, Giancarlo<br />
Vantaggio, Elettra Morini, Luciana Savignano, Amedeo Amodio, Bruno Telloli, scene e<br />
costumi di Agostino Bonalumi per Partita e di Emanuele Juzzati Per L'Amore stregone. Nel<br />
1971 il Balletto dell'Arena non veniva ricostituito (le solite lotte intestine per le quali pare<br />
precario il sorgere di un complesso di danza italiano stabile e nazionale ma forse sarebbe più<br />
logico ritenerla un'utopia...); si preferivano compagnie di danza precostituite: Gades e il suo<br />
Balletto spagnolo, i danzatori di Harlem, il West Usa Ballet al Teatro Romano e in Arena il
complesso di ballo scaligero con un ritorno di Romeo e Giulietta di Prokofiev nella versione<br />
Cranko con Carla Fracci e un nuovo Romeo, ricco di slancio, James Urbain. Nel 1972 altro<br />
ritorno della Fracci diventata la beniamina della folla veronese, richiesta a gran voce. E' la<br />
volta di Coppelia nella versione Martinez che essa danza accanto a Niels Kehlet (Coppelius è<br />
lo stesso coreografo). Un nuovo allestimento di Cenerentola di Prokofiev (nel '73) con la co-<br />
reografia di Loris Gay e regìa di Beppe Menegatti (scene e costumi di Beni Montresor)<br />
ripresenta la Fracci accanto ad un nuovo idolo delle folle Paolo Bortoluzzi, ma anche Kehlet<br />
nella parte del Buffone si fa ammirare molto. Ritorna Giselle in una nuova versione<br />
Miskovitch-Menegatti nella stagione 1974 con la coppia Fracci-Bortoluzzi acclamatissima e<br />
nel '75 fa ingresso in Arena l'estro spettacolare di Maurice Béjart con il suo Balletto del<br />
Ventesimo secolo e la collaudatissima IX Sinfonia di Beethoven, creata nel 1964, già approdata<br />
in Italia nel maggio 1973 al Palalido di Milano per la Scala (con l'integrazione del corpo di<br />
ballo scaligero) e nel giugno 1975 in Piazza San Marco per la rassegna veneziana di Danza 75,<br />
un «pastiche» abbastanza confuso fra i lavori meno felici di questo mago teatrale.<br />
A proposito di Verona, delle sue Giuliette e dei suoi Romei, non da oggi soltanto anche<br />
danzanti, quanti sono stati nel teatro coreografico di questo secolo?<br />
Impossibile enumerarli tutti. Sembrerebbe proprio che il balletto con la musica di Prokofiev e<br />
le versioni coreografiche di John Cranko e di Kenneth MacMillan, da buoni compatrioti di<br />
Shakespeare, siano fra le migliori insieme col modello sovietico di Lavrovsky, al quale si sono<br />
ispirati un poco tutti. Anche la versione di Cranko si può dire che ha fatto testo dopo la prima<br />
messinscena avvenuta per la Scala al Teatro Verde dell'Isola di San Giorgio in Venezia<br />
nell'estate 1958 con il complesso scaligero (protagonisti: Fracci e Pistoni, poi Colombo-<br />
Perugini). Tant'è vero che la stessa Scala vi è ricorsa in innumerevoli occasioni per non<br />
parlare degli ormai consueti arrangiamenti o camuffamenti che vorrebbero dare nuova vita<br />
al celebre balletto (una versione a cura di Roberto Fascilla e di Beppe Menegatti ha aperto<br />
una nuova parentesi con le rappresentazioni settembrine '75. al Palasport torinese, per conto<br />
del rinato Teatro Regio, protagonisti: Fracci-Urbain (ma alla « prima» ha sostituito la Fracci,<br />
indisposta, Anna Razzi), con una lunga tournée per la penisola, e con la titolare, nella
stagione teatrale 1975-76).<br />
Un'opera meritoria ha compiuto il Teatro Alla Scala finalmente disceso dal suo piedistallo<br />
operistico per sollevarsi verso l'empireo della danza. Il bilancio è confortante: addirittura due<br />
stagioni ballettistiche oltre alle normali, sporadiche rappresentazioni nel corso della stagione<br />
lirica (però non si è ancora riusciti ad ottenere per lo meno uno spettacolo fisso di balletto alla<br />
settimana, ma sulla locandina la stagione figura dedicata all'opera e al balletto). Ciò significa:<br />
stagioni di balletto nel mese di settembre a partire dal 1965 e dal 1970 anche una pre-estate<br />
del Balletto con spettacoli al Teatro Lirico e dal 1971 nel cortile centrale del Castello Sforzesco<br />
in un teatro all'aperto ove, per esempio, Romeo e Giulietta ha trovato la sua cornice ideale.<br />
Ogni record è stato battuto nel settembre '71 con il « tutto esaurito» per le sedici<br />
rappresentazioni in programma in virtù certo degli interpreti (Fonteyn, Fra
creatore, con Perrot, del balletto). Al Regio, come alla Scala, si diede molte volte nel secolo<br />
scorso per sparire verso la fine. Nel duello Torino Milano è ancora Torino a prevalere nella<br />
«prima» del dopoguerra quando fu rappresentata il 25 maggio 1946 al Teatro Carignano<br />
grazie al Nouveau Ballet de Monte-Carlo, compagnia sorta per iniziativa di Serge Lifar dalle<br />
ceneri della guerra e grazie a Yvette Chauviré che portò il patetico personaggio di Gautier alla<br />
Scala il 31 dicembre 1950 (accanto a lei Giulio Perugini). Seguirono varie riprese scaligere nel<br />
1952 all'Arena Sociale di Corno con Toumanova, nella stagione 1954-55 con Tcherina, ancora<br />
Chauviré e Olga Amati che in quel tempo occupava il ruolo di prima ballerina classica<br />
«assoluta ». Questa edizione era stata realizzata da Esmée Bulnes e andò anche in « tournée ».<br />
Proprio a Torino, in una recita sporadica, tornò ad interpretarla Yvette Chauviré nel<br />
novembre 1961 accanto a Nureyev con l'Internation al Ballet of the Marquise de Cuevas e poi<br />
anche al Festival di Nervi nel luglio 1964, accanto ad Attilio Labis e l'impressione fu ancora<br />
straordinaria.<br />
Tornando a Carla Fracci, essa riapparve in quella parte la prima volta alla Scala il 5 luglio<br />
1958 ma la rappresentazione ricordata ufficialmente è del 22 agosto 1959 col London's Festival<br />
Ballet, memore della lezione di Markova e di Dolin, accanto a John GiIpin.<br />
E ,di questa lezione la Fracci tenne sempre dinnanzi agli occhi l'illustre modello. Quando<br />
andò all'opera di Roma nella stagione 1964/65, fu 'Per molti una rivelazione. Interpretò Giselle<br />
il 10 dicembre 1964 accanto a Henning Kronstam dallo stile preciso, misurato ed elegante<br />
secondo la buona tradizione della scuola danese che lo accomuna a Erik Bruhn, e poi accanto<br />
a Labis e a Gianni Notari. Quelle immagini restarono nell'aria e servirono anche di esempio<br />
alle giovani danzatrici del teatro che si cimentarono subito dopo nell'ambìto ruolo: Elisabetta<br />
Terabust, Elpide Albanese, Giulia Titta. La Terabust interpretò poi il personaggio di Mirta,<br />
regina delle Villi, con molta autorità nell'edizione del gennaio-febbraio 1968 curata con<br />
precisione da Zarko Prebil, con la coppia Maximova Vasiliev che mandò il pubblico in<br />
visibilio. Ripresa nel giugno 1970 in quella stessa edizione, la coppia apparve mirabile<br />
soprattutto dal punto di vista tecnico. Prebil portò Giselle al San Carlo di Napoli col corpo di<br />
ballo di quel teatro (marzo 1971, interpreti: Sonia Lo Giudice e Amedeo Amodio) ma poi alla
ipresa del settembre (con la prima apparizione a Napoli di Maximova-VasiIiev) avvenne un<br />
fatto strano ma non desueto nella storia curiosa dei rimaneggiamenti ballettistici.<br />
Venuto alla direzione del ballo al San Carlo Nicholas Beriozoff, quest'ultimo presentò una «<br />
sua» versione disfacendo naturalmente l'ottimo lavoro del Prebil, esemplato sull'edizione<br />
sovietica (la Russia è l'unico paese nel quale il celebre balletto di Adam-CoralliPerrot sia stato<br />
rappresentato ininterrottamente ed anche in nuove versioni, rifacimenti, aggiunte ad opera<br />
dei coreografi Petipa, Gorsky, Lavrovsky e a tutte queste si attenne il Prebil) con l'aggiunta di<br />
un prologo non necessario, anzi insensato per spiegare un antefatto che non interessa a<br />
nessuno (musica supplementare di Adam desunta anche da un altro balletto dello stesso Le<br />
Diable à quatre). Se questo prologo c'è stato in qualche altra scellerata edizione del passato (s'è<br />
già detto di altre versioni spurie, ma a questo punto converrebbe leggere The Ballet called<br />
Giselle del Beaumont) e se col passare del tempo le revisioni critiche, i ripensamenti lo hanno<br />
espunto, non si vede ragione di reinserirlo oggi. Quel prologo appesantì lo spettacolo, non<br />
aggiunse nulla alla straordinaria chiarezza drammaturgica, alla stringatezza e alla purezza<br />
dei due celebri atti, equilibrio di poesia e di potenza. drammatica, opera già perfetta nella sua<br />
concezione e nella coesione dei vari elementi che compongono un balletto. Altrettanto<br />
avvenne, in misura ridotta., alla versione « viaggiante» della stagione 1974/75 con la coreo-<br />
grafia di Milorad Miskovitch e la supervisione di regia di Beppe Menegatti (interpreti Fracci-<br />
Bortoluzzi) partita da Verona nell'agosto 1974 e approdata a Torino nell'aprile 1975. Questa<br />
versione ha il pregio o il difetto di durare un po' più delle altre e di diluire la storia che non<br />
ha bisogno certamente di essere stemperata. C'è un divagare melodrammatico col velo<br />
nuziale che frantuma la scena della pazzia, ci sono i funerali di Giselle e c'è una « fuga» di<br />
Adam che aveva sorpreso Saint-Saens e i cronisti dell'epoca (proprio per questo la definirono<br />
musica colta!) ma che ha lasciato abbastanza indifferenti gli spettatori di oggi.<br />
Qualche sera prima della rappresentazione napoletana al San Carlo, il 17 settembre 1971, alla<br />
Scala, la Fracci, accanto a Nureyev, dava gli addii al pubblico scaligero alla vigilia della<br />
partenza per Washington chiamatavi da una scrittura con l'American Ballet Theatre ma con la<br />
promessa di saltuari ritorni in patria. Era ancora la patetica creatura di Gautier-Coralli ad
affacciarsi sulla scena del grande teatro per un breve congedo che aveva tutta l'aria di<br />
promettere un sollecito ritorno. Così la Scala, con la sua annosa tradizione, le sue stelle, un<br />
capolavoro, dei capolavori (dapprima anche La Bella addormentata nella rielaborazione di<br />
Nureyev da Petipa nel 1966, poi Schiaccianoci, allestito in una nuova versione di Nureyev nel<br />
1969, ripreso nella stagione successiva ed anche nel settembre '71 con tre danzatrici in<br />
alternanza: Fracci, Cosi, Colombo) ha ricondotto la grande folla alla scena, del balletto. Nel<br />
1972 la Fracci, dapprima a Roma poi a Milano, trovava un altro partner, un nuovo Albrecht in<br />
Vladimir Vasiliev e a Firenze nei primi giorni del luglio 1975 dava ancora vita al personaggio<br />
di Giselle accanto all'ultimo prestigiosissimo partner (ad oggi) della sua sfolgorante carriera,<br />
all'ultimo grido della danza accademica venutoci dall'Unione Sovietica, quel Mikhail<br />
Baryshnikov esaltato dalla stampa statunitense e quindi giunto a noi con il serio impegno di<br />
non deludere. Nulla da eccepire sul piano tecnico che non conosce difficoltà; semmai a<br />
difettare è la carica magnetica. Qualcuno, giustamente, ha ricordato il magnetismo di un<br />
Nureyev già al primo contatto. Baryshnikov è ancora molto giovane e gli fa velo l'eccessiva<br />
pubblicità che lo ha preceduto. Come riuscire ad esserle all'altezza? Del resto le prove italiane<br />
non paiono sufficienti e nemmeno quelle francesi (primavera 1975), riconcludbili<br />
all'inconveniente di una forma non perfetta. In Italia la prima apparizione è avvenuta a<br />
Spoleto il 28 giugno 1975 in un lungo .passo a due di taglio moderno, si fa per dire, dovuto a<br />
John Butler, un coreografo non adatto alla tecnica della Fracci e di Baryshnikov, passo a due<br />
intitolato Medea (sulla musica di Samuel Barber, tratta dal balletto « Cave of the heart » che<br />
mette in scena appunto Medea ma che fu creato per Martha Graham!). Baryshnikov è anche<br />
apparso in una unica serata detta « a quattro» ,il 2 luglio 1975, in Piazza San Marco nel<br />
quadro delle manifestazioni veneziane di « Danza 75» insieme con Carla Fracci, Gelsey<br />
Kirkland, la nuova scoperta americana, Paolo Bortoluzzi.<br />
A questo punto è da ricordare una delle Giselle che dopo Chauviré, Fonteyn, Vyroubova,<br />
Markova, Fracci, Maximova, Terabust, Colombo, Casi si è imposta da noi all'attenzione della<br />
critica ed è Natalia Makarova che ha danzato la celebre parte a Milano (Scala) nella stagione<br />
1972/73 e a Roma (Opera) nella stagione 1973/74. A Milano in quella stagione si era prima
presentata nel personaggio dell'Eletta in una nuova versione della Sagra della primavera di<br />
Stravinsky ad opera di John Taras, scene e costumi di Marino Marini, senza. troppo<br />
convincere que1li che della parte e del balletto hanno un'idea precisa. Destino che non<br />
dovesse convincere nemmeno in Giselle sul piano interpretativo, certamente personale,<br />
mentre per la specifica incompetenza di pubblico e critica nei riguardi della tecnica tante<br />
finezze e particolarità preziose sono andate perdute. Resta una Giselle forse discutibile nel<br />
lato interpretativo (ma quante intuizioni nuove!) e certamente mirabile per la estrema pulizia<br />
del disegno e per il rigore perfetto di ogni figurazione.<br />
Suo partner per queste rappresentazioni è stato quasi costantemente l'ungherese Ivan Nagy<br />
non più che corretto ma di bellissima linea come Liliana Cosi ha avuto al suo fianco in più<br />
occasioni (e non solo in Giselle) Marinel Stefanescu.<br />
Il discorso su Giselle non si esaurisce di certo qui; si tornerà a parlare di questo balletto e del<br />
personaggio ogni qualvolta si affaccerà al ruolo una nuova interprete... com'è successo quasi<br />
ininterrottamente nei suoi 136 anni di vita!<br />
Più povera appare l'attività della nuova coreografia italiana. Se si escludono i nomi più volte<br />
citati di Ugo Dell'Ara, Luciana Novaro, Susanna Egri, il più attivo è certamente Mario Pistoni<br />
cui si devono diverse novità allestite sul palcoscenico scaligero: Il Figliuol prodigo (Prokofiev),<br />
Ritratto di Don Chisciotte (Petrassi), La Strada (Rota), Spirituals (Gould), Gershviniana, Il<br />
Mandarino meraviglioso (Bartok), Mutazioni (Felle. gara), Elegia (Ambrosi), Contagio (Gaslini),<br />
Concerto dell'albatro (Ghedini), Lo Specchio a tre luci (Mortari) e il fortunato Francesca da Rimini<br />
sulla ouverture omonima di Ciaikovski che continua a replicarsi. Creato nel maggio 1965 con<br />
scena di Luisa Spinatelli, costumi di Enrico Job, alla ripresa del '71, sempre con la Fracci e lo<br />
stesso Pistoni nel personaggio di Paolo, ha riavuto successo per. l'efficacia della stringatezza<br />
drammatica e del procedimento scenico a guisa di « flashback ». Pistoni ha avuto<br />
l'opportunità di far valere la sua opera nel teatro del quale è stato ed èprimo ballerino e<br />
coreografo principale con una vasta esperienza anche per gli eterogenei contatti con il mondo
coreografico esterno.<br />
Non sono da sottovalutare le prove di Amedeo Amodio (a Roma un discutibile Petrouchka,<br />
riveduto e scorretto e Rot, musica di Domenico Guaccero; a Spoleto e a Milano L'après-midi<br />
d'un faune e Ricercare a nove movimenti su musiche di VivaI di) , di Loris Gay (molti dei balletti<br />
nuovi interpretati da Carla Fracci: Pantea, Il Gabbiano, Pélléas et Melisande, Cenerentola) e di<br />
Giuseppe Urbani attivo dapprima a Bonn, poi a Firenze, Roma, Bologna (Eolero, Kontakte di<br />
Stockhausen, Contrappunto dialettico alla mente di Nono, Una ballata per BIanche di Grani, La<br />
Péri di Dukas, Petrouchka). All'infuori dei teatri lirici sorgono le iniziative isolate, individuali,<br />
gli spettacoli di una stagione, quasi sempre a cavallo tra l'estate e l'autunno, nel periodo di<br />
attesa che i grandi teatri riaprano i loro battenti.<br />
Franca Bartolomei, in unione a Walter Zappolini, da oltre un decennio dà vita ad un gruppo,<br />
raccolto all’occasione, che annualmente nel mese di settembre offre spettacoli di balletto in<br />
teatri diversi della Capitale, dapprima all'aperto, poi al chiuso, talvolta anche in tournée e<br />
all'estero. Gli inviti sono estesi a coreografi italiani (Urbani, Vantaggio). e stranieri (Beriozoff,<br />
Corelli) e anche a danzatori ospiti (Tessa Beaumont, Rudy Brians). La Compagnia, un po'<br />
eterogenea, si fregia della denominazione «Balletto di Roma». C'è sempre in agguato il<br />
pericolo che da spettacoli con elementi raccogliticci, che non lavorano costantemente insieme,<br />
sia difficile ottenere un'omogeneità di stile. Per lo più le coreografie sono firmate dalla stessa<br />
Bartolomei che possiede garbo dì invenzione e musicalità. Fra le cose migliori degli ultimi<br />
anni si ricordano Lettere di una monaca portoghese, musica interessante di Valentino Bucchi<br />
(protagonista Lia Calizza, assai espressiva) e Sinfonia di Mario Zafred, ben dosata nell'im-<br />
pasto dei colori coreografici. Alcuni elementi del corpo di ballo appartengono alla scuola che<br />
la Bartolomei e Zappolini dirigono da tempo.<br />
Lo stesso, cioè problematicità di affiatamento e casualità di scelte, tocca all'altro gruppo che si<br />
riunisce nel luglio sotto l'etichetta «Complesso romano del balletto» diretto da Marcella<br />
Otinelli la quale dirige un «Centro di danze classiche», quindi insegna, promuove spettacoli<br />
di balletto per le scuole anche in decentramento, ha fondato una Associazione Nazionale per<br />
il Balletto istituendo un Concorso di Danza annuale giunto alla seconda edizione, ha scritto
un libro di tecnica accademica Come nasce una danzatrice secondo gli ammaestramenti della<br />
sua insegnante Teresa Battaggi cui dedica il volume e ha fatto costruire addirittura un Teatro<br />
di verzura tra le piante di Villa Celimontana a Roma. Repertorio abbastanza tradizionale<br />
(Silfidi, Pas de quatre, passi a due del repertorio), coreografie della stessa Otinelli legate al<br />
linguaggio classico senza varianti e di altri tra le leve della giovane coreografia italiana (Loris<br />
Gay, Mario Pistoni, Walter Venditti) con la sorpresa di quando in quando di immissioni di<br />
solisti e coppie ospiti come Anna e David Holmes, Belinda Wright e Jelko Yuresha, Daniel<br />
Lommel e Anna Razzi in passi a due del repertorio classico e romantico.<br />
Susanna Egri, senza dubbio una delle migliori coreografe operanti oggi in Italia, da alcuni<br />
anni svolge un'opera benemerita per le scuole con i suoi spettacoli di balletti. non limitandosi<br />
alla città di Torino ove risiede, ha scuola fiorente, compone coreografie per gli spettacoli lirici<br />
del Teatro Regio, ma anche nella provincia italiana. Un suo allievo Luigi Bonino si è fatto<br />
molto onore al Concorso di Mosca 1973, è stato scritturato dal Balletto Cullberg di Stoccolma<br />
ove la stessa Egri ha tenuto conferenze e allestito coreografie con il preciso intendimento che<br />
la vede costantemente impegnata nell’approfondita ambivalenza di classico e moderno<br />
(partecipazione al festival parigino 1975 dei «Champs-Elysées». Bonino è stato poi catturato<br />
da Roland Petit per la sua compagnia « Les Ballets de Marseille» e per la stagione 1975/76.<br />
Sara Acquarone col suo Teatro del Movimento ha creato una specie di parallelo col Theatre of<br />
Motion di Alwin Nikolais, un gruppo da lei fondato e diretto a Torino con una certa fantasia<br />
di ricerca. Si parla qui di iniziative di più lunga data e durata poiché è impossibile rendere<br />
conto delle più recenti o di quelle sorgenti che si annunciano in numero non esiguo, con il<br />
risultato di disperdere le forze più va1ide e di non servire alla causa comune che è quella di<br />
divulgare il balletto con seria operazione culturale, mentre per lo più si mira a personalistici<br />
interessi (si deve però ricordare, la bontà degli sforzi e dei risultati di una danzatrice isolata<br />
fra le nostre più interessanti: Leda Lojodice).<br />
Oltre che ai teatri spetta ai Festival condurre una campagna culturale ballettistica. Già si è<br />
parlato del festival di Nervi, iniziatosi nel 1955 e diventato ora biennale sotto la direzione e
l'impulso di Mario Porcile. Esso si è rivelato una buona manifestazione, utile soprattutto al<br />
turismo rivierasco con l'attrattiva dei grandi nomi e dei grossi complessi stranieri ma<br />
raramente ha offerto l'opportunità di qualche spettacolo creato espressamente in loco e da<br />
complessi italiani. Lo stesso si è verificato alla manifestazione Danza 75 di Venezia con una<br />
ricca serie di spettacoli affastellati non secondo un criterio culturale, tanto meno critico. Corsi<br />
di danza, film, mostre certamente utili e importanti non sono riusciti ad inserirsi come cosa<br />
viva nel mezzo degli spettacoli, non sono diventati temi di discussione ,e non sono entrati nel<br />
vivo di un. discorso generale e totale come sempre dovrebbe essere. Alcune scelte scadenti<br />
sono apparse addirittura discutibili, altre preziose sono scivolate nella disattenzione e nel<br />
pressapochismo (vedi le stupende serate di Martha Graham, specie le ultime al Teatro La<br />
Fenice).<br />
Vediamo chi altri oltre Nervi, Spoleto, Venezia ha , tentato di convogliare l'attenzione del<br />
pubblico verso la danza come spettacolo del nostro tempo. Si contano tre edizioni nel Premio<br />
Roma a: partire dal 1969 che ha io riservato largo posto alla danza. Grazie ad Anna e Gerardo<br />
Guerrieri, già dai tempi del Teatro Club ed oggi con varie rassegne a carattere regionale,<br />
queste manifestazioni hanno soprattutto il merito di aver guardato agli sviluppi della danza<br />
moderna (Cunningham, Joseph Russillo, Ballet Rambert,. Joseph -Lazzini, José Limon) e ai<br />
suoi aspetti etnici e folcloristici con l'invito a molti gruppi medio-orientali. Un profumo<br />
d'Oriente addirittura ha aleggiato nell'aria dell'anno 1971 non solo al Premio Roma ma anche<br />
a Firenze dove per il. 34° Maggio musicale fiorentino, dedicato . alle civiltà musicali<br />
extraeuropee, si sono visti il Balletto di Giava, il Teatro di ombre malese e qua e là nei gruppi<br />
di danza moderna sia a Roma che a Firenze (in misura notevole qui ovviamente con il<br />
dominatore Béjart e con il suo mondo figurativo ricavato dall'oriente con la pretesa e la<br />
forzatura socio-politica di Bakhti) sono trapelati ispirazioni e riferimenti non superficiali alla<br />
danza orientale, in particolare a quella indiana (un'influenza che si fa sentire non da oggi sol-<br />
tanto).<br />
Un vero e proprio Premio dedicato alla Danza, tutto per lei, è quello di Positano che<br />
ricompensa giovani talenti (danzatori e coreografi) ed anche i collaboratori, coloro che
partecipano in qualche modo alla creazione dell'opera d'arte e quelli che vi si dedicano<br />
studiandola, analizzandola, stabilendone critica e storia: musicisti, pittori-scenografi,<br />
insegnanti, critici, organizzatori, ecc. Questa manifestazione è sorta nel 1969 nella pittoresca<br />
località della costa amalfitana e dovrebbe svolgersi annualmente con un Concerto dei<br />
danzatori premiati.<br />
Persino la scomparsa di un grande musicista come Igor Stravinski, avvenuta a New York il 6<br />
aprile 1971, ha scatenato ricordi e celebrazioni che, naturalmente, hanno toccato anche il<br />
mondo del balletto. Egli ha chiesto di essere sepolto a Venezia, nella città a lui<br />
particolarmente cara. E così è avvenuto. Si dà il caso che proprio a San Michele, al cimitero<br />
veneziano sull'acqua, nel recinto greco-ortodosso, riposi Serge de Diaghilev, il grande amico e<br />
patrocinatore delle sue prime creazioni per i Balletti Russi. Oggi il pellegrinaggio a S. Michele<br />
ha un duplice scopo perché le due tombe sono divise soltanto dalla cappella di rito greco-<br />
ortodosso. I due artisti battaglieri ed indomiti si sono riuniti. Il primo anniversario della<br />
scomparsa è coinciso con il centenario della nascita di Diaghilev, pretesti per riscoprire<br />
Stravinski, il mondo del balletto che nella sua produzione è preponderante. Ritorno anche<br />
sulle scene delle prime clamorose affermazioni (serate tutte stravinskiane, ballettistiche e, per<br />
riflesso, diaghileviane) e giù spettacoli commemorativi (alla Scala nel “72 PulcinelIa,<br />
Petrouchka, Apollo Musagete nelle coreografie di Massine, Milloss, Balanchine) per lui, per<br />
Diaghilev e poi conferenze, articoli, pubblicazioni, una Mostra (al Museo teatrale alla Scala,<br />
alle Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia) dedicata ai famosi Balletti Russi, tutto ad<br />
un tratto, come per un'improvvisa scoperta. Bisogna morire per tornare a vivere. C'è stato<br />
anche l'annuncio di un Museo Diaghilev-Stravinsky che avrebbe dovuto sorgere in un<br />
palazzo veneziano appositamente restaurato e adibito per la storia della musica e del balletto<br />
in oltre cinquant'anni di eventi. I finanziatori erano americani la benemerita impresa avrebbe<br />
segnato ancora un passo avanti nella salvezza della città eternamente minacciata e<br />
,comunque, imperitura. Il museo avrebbe avuto recare una biblioteca e un ampio materiale di<br />
manoscritti del compositore e dell'impresario così come si ,dovrebbe creare un teatro per la<br />
presentazione di opere nel nome di Diaghilev e di Stravinsky, ma poi ad un tratto ogni
iniziativa si è arenata.<br />
Alla Fenice di Venezia, nell'anno commemorativo diaghileviano, la giovane compagnia del<br />
Ballet-Théatre Contemporain di Amiens ha rappresentato Le Rossignol e Renar di Stravinsky.<br />
Nella stagione 1972, come si diceva sono andati un poco tutti a gara nel rappresentare balletti<br />
sotto il binomio Diaghilev-Stravinsky. Lo sforzo più ambizioso, senza essere una<br />
commemorazione, è stato quello compiuto dal Balletto del XX° secolo con una nuova<br />
creazione di Béjart solo indirettamente investita del nome di Diaghilev e tutta incentrata sulla<br />
figura di Nijinsky in modo allegorico, un affresco alla solita maniera béjartiana, tra la<br />
messinscena macroscopica, la forzatura del manifesto, !'impurità dello stile. S'intitola<br />
Nijinsky, clown de Dieu e si compone di due parti: la prima rappresenta la vocazione e la<br />
carriera del celebre ballerino (i «Balletti Russi»), la seconda tratta il tormento dell'artista che si<br />
manifesta nella forma ed approda alla crisi mistica « Nijinsky di Dio». Sia a Parigi dove fu<br />
rappresentato al Palazzo degli Sports il 15 gennaio 1972 (ma la prima avvenne a Bruxelles nel<br />
1971) che a Londra, i giudizi, per lo meno quelli critici, sono stati contrastati com'è destino che<br />
sia ormai per ogni lavoro del discusso coreografo marsigliese che ha trovato l'ospitalità giusta<br />
in terra belga (straordinari i mezzi di cui dispone e che si riassumono soprattutto negli<br />
stupendi strumenti danzanti che egli ha a disposizione e che vivono in eccezionale intesa di<br />
«équipe»).<br />
Ancora un «Hommage à Diaghilev» da parte di Serge Lifar allestito al Museo Galliéra di<br />
Parigi a partire dalla fine del giugno 1972 con il concorso della sua collezione e di quella di<br />
Boris Kochno, librettista e segretario di Diaghilev, mentre Montecarlo ha preparato altre<br />
celebrazioni.<br />
Le celebrazioni che il New York City Ballet ha preparato al New York State Theater dal 18 al<br />
25 giugno 1972 per Stravinsky hanno del portentoso. Bilancio: 31 balletti su musica del<br />
grande Igor divisi tra sette coreografi (Balanchine in prevalenza) dei quali balletti 21 erano<br />
nuove creazioni! Oltre Balanchine, hanno firmato le coreografie: Robbins, Taras,Bolender,<br />
Tanner, Clifford, Massine jr. Ecco i titoli: Scherzo dalla Sonata per piano (Balanchine), Scherzo<br />
fantastico (Robbins), Sinfonia in tre movimenti (Balanchine), Concerto per violino (Balanchine),
L'Uccello di fuoco (Balanchine-Robbins), Sinfonia in Mi bemolle (Clifford), La Gabbia,Concerto in<br />
re (Robbins), Concerto per piano e strumenti a fiato (Taras), Danze concertanti (Balanchine),<br />
Ottetto (Tanner), Serenata in La (Bolender), Divertimento dal Bacio della fata (Balanchine), Ebony<br />
Concerto (Taras), Scherzo alla russa (Balanohine), Circus Polka (Robbins), Scènes de ballett (Taras),<br />
Duo concertante (Balanchine), Il Canto dell'usignolo (Taras), Capriccio per piano e orchestra (dal<br />
balletto « Gioielli» - Balanchine), Concerto per due pianoforti (Tanner), Piano-Rag Music<br />
(Bolender), Dumbarton Oaks (Robbins), Ode (Massine jr.), Pulcinella (Balanchine-Robbins),<br />
Apollo (Balanchine), Cor:ale – Variazioni sul' Vonl Rimmel hoch' di Bach (Balanchine), Monu-<br />
mentum pro Gesualdo (Balanchine), Movements per piano e orchestra (Balanchine), Requiem<br />
Canticles (Robbins). Un bel record coreografico, il più vistoso dell'intera stagione 1972, un<br />
omaggio a Stravinsky ma anche al balletto, il genere di composizione più vicino alle sue corde<br />
e una consacrazione del genio balanchiniano.<br />
Qualcosa di simile; naturalmente e compatibilmente aIla minore produzione e non su così<br />
vasta scala è successo per il cosiddetto «Hommage à Ravel » ad opera del New York City<br />
Ballet al New York State Theater dal 15 al 31 maggio 1975, detto anche Festival Ravel.<br />
Ravel, come compositore, sembra meno vicino a Balanchine di Stravinsky. Di Ravel,<br />
Balanchine mise in scena nel 1925 a Monte Carlo la prima mondiale di L'Enfant et les sortilèges<br />
(della quale opera-balletto o fantasia lirica come ebbe a chiamarla il suo autore Ballanchine,<br />
apprestò una nuova versione nel 1946 per la Ballet Society). L'unico balletto raveliano di<br />
Balanchine sino ad oggi, cioè prima del Festival dedicato al musicista francese nel centesimo<br />
anniversario della nascita, è stato il celebre La Valse (1951). Il Festival si è articolato in maniera<br />
diversa dal precedente dedicato a Stravinsky. Nell'omaggio stravinskiano si poteva notare un<br />
nuovo programma ogni sera in una ridda di « prime» veramente stimolanti. Per Ravel i<br />
programmi sono stati tre, ciascuno replicato quattro volte. Li ha aperti la celebre Sonatine<br />
eseguita, col pianoforte in palcoscenico, da Madeleine Malraux e danzata dalla coppia<br />
Violette Verdy-Jean Pierre Bonnefous. Qualche eco della sezione « Smeraldi» dal balletto<br />
Jewels (musica di Fauré) era rintracciabile. Ha fatto seguito il Concerto in Sol nella coreografia<br />
di Jerome Robbins, che ha sottolineato, come gli è congeniale, gli elementi jazz, la suggestione
del blues nell'adagio, i sincopati qua e là affioranti. La serata si completava con L'Enfant e con<br />
una ripresa di La Valse (che contiene nella prima parte gli interi Valses nobles et sentimentales).<br />
Negli altri programmi si potevano vedere alcune delle composizioni più caratteristiche di<br />
Ravel e fra le più adatte a trasposizioni coreografiche tanto più nelle mani, si direbbe meglio<br />
nelle gambe, di coreografi come Balanchine e Robbins sempre così in profondità con le<br />
ragioni della musica. Era questo il caso per Introduction et Allegro e Ma Mère l'Oye (Robbins),<br />
Alborada del Gracioso(d'Amboise), Dafni e Cloe (Taras), Le Tombeau de Couperin, Shehérazade,<br />
Pavane pour une Infante defunte, Tzigane, Gaspard de la Nuit, Rapsodie Espagnole (tutti di<br />
Balanchine), Une Barque sur l'Océan e Chansons Madécasses (ancora di Robbins), Sarabande e<br />
Danse (d'Amboise), anche se di queste composizioni, alcune non sorte per un impiego<br />
coreografico, tre o quattro ricevevano, forse per la prima volta, nuova vita dalla danza. Di<br />
questi balletti, sorti per una data .occasione, non tutti certamente sopravviveranno nel<br />
repertorio comune, come già successe per quelli del Festival Stravinsky; l'importante è aver<br />
stimolato il campo della creatività nella direzione dei grandi valori musicali ad opera di<br />
spiriti atti ad interpretarli.<br />
Intanto, in occasione delle celebrazioni parigine di Ravel, i lavori di Balanchine e di Robbins<br />
trovavano ospitalità sulle scene dell'Opéra tra il dicembre 1975 e il gennaio 1976 con il<br />
complesso di ballo di Palazzo Garnier e alle prime rappresentazioni con gli stessi in terpreti<br />
principali dell'edizione del New York City Ballet, vale a dire Violette Verdy e Jean Pierre<br />
Bonnefous per Sonatine (poi Noella Pontois-Jean Pierre Franchetti; Ghislaine Thesmar-<br />
Michael Denardd); Suzanne Farrell e Peter Martins per Tzigane (poi Christiane Vlassi-Cyril<br />
Atanassoff); Ghislaine Thesmar-Jean Pierre Franchetti per La Valse (poi Christiane Vlassi -<br />
Cyril Atanasoff; Wilfride Piollet - Michael Denard); ancora Suzanne Farrell e Peter Martins<br />
per En Sol (poi Wilfride Piollet-Georges Piletta; Ghislaine Thesmar-Jean Guizerix). Negli<br />
spettacoli di gennaio la Sonatine era sostituita dal celebre Boléro ,di Béjart. Le Tombeau de<br />
Couperin era invece affidato al solo corpo di ballo. Si potevano fare ,in conclusione, alcune<br />
considerazioni. Fuori discussione la bontà e l'affiatamento della «troupe» di Palazzo Garnier,<br />
l'efficienza di alcune prime parti (la Pontois nella stagione precedente si era molto distinta in
La Belle aus bois dormant, nella nuova versione di Alicia Alonso e la Thesmar ancora prima in<br />
La Sylphide), inoltre la disponibilità a danzare coreografie di stile diverso di Tetley, di<br />
Cunningham, della Carlson con la nuova apertura dell'Opéra alla «modern dance» e con<br />
l'intervento sempre più entusiasta di Nureyev. Lo spettacolo Ravel-Balanchine-Robbins è<br />
parso un l'o 'spaesato e raggelato nel clima dell'Opéra, forse ennesima dimostrazione della<br />
difficoltà o impossibilità per questi due grandi coreografi di entrare «intus et in cute» nelle<br />
loro partiture coreografiche con strumenti danzanti che non siano i loro, intendiamo quelli<br />
che formano la fisionomia inimitabile e inconfondibile del New York City Ballet. Infine, se<br />
ancora una volta ha sorpreso la maestria della costruzione coreografica di Balanchine,<br />
Robbins ha convinto meno nel concerto raveliano che possiede spiriti più profondi di quelli<br />
messi in luce, non sempre con autentica originalità, dal coreografo. Assai meno liete le sorti<br />
dell'Opera romana in piena crisi da un biennio.<br />
La mancanza di una direzione stabile e competente e di un'attività costante provoca nella<br />
compagine del corpo di ballo vuoti paurosi, carenze incolmabili. Né è sufficiente la presenza<br />
di una danzatrice della levatura di Elisabetta Terabust (tecnica sempre più affinata, sicurezza,<br />
espressività) per rianimare le cose.<br />
La stessa Terabust si vede costretta per danzare ad accettare le scritture che le piovono<br />
numerose dall'estero ed incessantemente in frequenti giri di andata e ritorno, vorticosi, onde<br />
mantenere la sua disponibilità con il Teatro dell'Opera quando questa si ricorda di lei e fa<br />
appello ad uno spettacolo di balletti o ripiega sulle pur brave Ferrara, Latini, Parrilla...<br />
Il caso Fracci ha riproposto la questione scottante della limitatezza del repertorio ballettistico<br />
da noi grazie alla vicinanza del marito Beppe Menegatti, uomo di teatro e regista.<br />
Consapevole dello straordinario temperamento drammatico della danzatrice, egli ha cercato<br />
di svilupparlo al massimo in una direzione che le desse l'opportunità di interpretare « ruoli »<br />
a lei congeniali, al di fuori della ristretta cerchia dei balletti .di repertorio nei quali ha<br />
dimostrato di eccellere con , la propensione per quelli di più marcato spirito e carattere<br />
romantico (La Silfìde, Giselle, Coppelia, Bella addormentata, Romeo e Giulietta) più volte eseguiti in<br />
Italia e all'estero accanto a danzatori d'eccezione come Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Attilio
Labis, Henning Kronstam, Niels Kehlet, Jean Pierre Bonnefous, James Urbain, Vladimir<br />
Vasiliev, Mikhail Barysnikov, Paolo Bortoluzzi. Sono nati in tal modo Il Gabbiano (Siena, 5<br />
settembre 1968) dalla commedia di Cecov, musica di Roman Vlad, coreografia di Loris Gay<br />
(riprodotta poi anche ad Amburgo con altra distribuzione di interpreti), I Macbeths,<br />
rappresentato al San Carlo di Napoli nel 1969 (musica di Richaro Strauss, coreografia di<br />
Mario Pistoni), versione aggiornata della tragedia sheakspeariana, ricca di riferimenti al<br />
tempo presente, Le Creature di Prometeo (totale rifacimento del balletto di Beethoven-Viganò,<br />
coreografia di Milorad Miskovitth), Pélléas et Mélisande (musica di Jean Sibelius, coreografia di<br />
Loris Gay, Scala, marzo 1970), Le notti egiziane (musiche di Prokofiev, coreografia di Ugo<br />
Dell'Ara, Scala, gennaio 1971) e soprattutto Francesca da Rimini, balletto di Mario Pistoni sulla<br />
ouverture omonima di Ciaikovski, con il libretto di Beppe Menegatti ,al quale si è già fatto<br />
cenno, e che a partire dal settembre 1975, ha trovato una nuova interprete in Luciana<br />
Savignano, una danzatrice interessante in ascesa richiesta anche da Béjart per alcune<br />
apparizioni rivelatrici nella sua celebre compagnia.<br />
Si tratta per lo più di trasposizioni coreografiche da celebri temi letterari o di famose eroine<br />
tragiche (Lady Macbeth, Mélisande, Cleopatra, Francesca da Rimini) per le quali la Fracci<br />
possiede le doti, più volte sottolineate, di «tragédienne» sempre che non si arrivi, per eccesso,<br />
all'opposto e cioè ad uno stereotipo molto simile a quello della ballerina romantica che si era<br />
venuto determinando per' un certo periodo di tempo e che dura ancora, tanto più ohe per il<br />
momento le «novità» sembrano difettare. Ciò che necessita alla Fracci è il testo coreografico<br />
importante da danzare. E' una danzatrice che verrebbe voglia di veder interpretare<br />
coreografie consistenti di Ashton o di Tudor o di qualche altro. Un attore è importante anche<br />
per ciò che dice, per i testi che, sceglie, non solo per la tecnica della quale fa sfoggio; così un<br />
danzatore è valido per ciò che esprime attraverso la sua danza.<br />
A parte i «classici» del repertorio più o meno noti e più o meno riveduti o modificati (i<br />
Coralli, i Bournonville, i Petipa, gli Ivanov, ecc.) è indispensabile che la Fracci si affidi ad uno<br />
o più coreografi che la utilizzino come danzatrice. Qualcosa s'è visto nel passato (con Roland<br />
Petit) o all'estero (Jardin aux lilas e Romeo and Ju1iet, entrambi di Tudor) per cui qualche
sorpresa è legittimo chiedersela per il futuro, se non si continuerà ad insistere sul «d'après »...<br />
Un vero avvenimento è stata l'apparizione del complesso di ballo del Bolscioi di Mosca in<br />
Italia, avveratasi finalmente nell'autunno 1970. Nel mese di ottobre, alla Scala e all'Operà,<br />
attraverso un totale diventi due rappresentazioni (12 a Milano, l0 a Roma) il pubblico italiano<br />
si è potuto rendere conto « de visu» dell'efficienza di uno dei più rinomati complessi di ballo<br />
nel mondo, forte nei ranghi solistici (Plissetskaja-Fadejechev, Maximova-Vasiliev,<br />
Bessniiertnova-Lavrovsky, Timofeyeva-Liepa, tanto per indicare a coppie, secondo la<br />
distribuzione italiana a quel tempo, i massimi esponenti) e altrettanto forte nel corpo di ballo,<br />
sorprendente addirittura nel settore maschile, mirabile per l'affiatamento e per l'alto livello<br />
tecnico in tutti i componenti, non uno escluso. Un po' meno entusiasta il giudizio sul<br />
cosiddetto aggiornamento della coreografia ad opera del direttore artistico della compagnia<br />
Yuri Grigorovich, autore delle coreografie di tutte e tre le produzioni presentate: Lago dei<br />
cigni, Schiaccianoci, Spartacus, unica novità per l'Italia quest'ultima. I nuovi allestimenti (di<br />
Simon Virsaladze) dei primi due balletti non hanno migliorato in sostanza la loro veste, come<br />
del resto la coreografia non è intervenuta in maniera decisiva nella ristrutturazione<br />
dell'originale. Come per il passato, si' è notata la tendenza a caricare anziché ad alleggerire i<br />
balletti del repertorio. Si è parlato di « artigianato illustre» ma nessuna. Parola nuova che<br />
provenisse dalla coreografia. Per contro Spartacus nella nuova coreogra1ia di Grigorovich, a<br />
parte l'inevitabile retorica, ha rivelato, pur sull'ibrida tessitura musicale di Khaciaturian,<br />
sufficiente interesse nella costruzione dei gruppi, nel movimento della massa, nel tratteggio e<br />
nella caratterizzazione dei personaggi (Crasso, soprattutto, è interpretato da un artista come<br />
Liepa, per tanti aspetti vicino alla formazione di un danzatore occidentale) e particolarmente<br />
nella sublimazione acrobatica degli alati «passi a due».<br />
Inutile parlare dell'autentico trionfo dei protagonisti e dell'intero corpo di ballo. Era curioso<br />
notare alla seconda tournée milanese della compagnia di canto del Bolscioi (nell'autunno<br />
1973, dopo quella del 1964) la povertà, il tono dimesso delle coreografie nelle opere liriche.<br />
Riaffiorava così il vecchio discorso dell'impossibilità di aggiornarsi della coreografia sovietica.<br />
Sembra anche che le più recenti creazioni (Sagra della primavera, Icaro, etc.) non siano merce di
esportazione. Lo è stata, e per due recite soltanto, la nuova fatica di Maja Plissetskaja alle<br />
prese nientemeno con un capolavoro della letteratura mondiale An/1a Karenina di Tolstoi,<br />
rappresentata alla Scala il 15 e 17 novembre 1973.<br />
Anche qui elementi ibridi nella musica (di Rodion Scedrin), nella messinscena (Valerj<br />
Levental) e nella coreografia (condotta in collaborazione con Natalia Ryzhenko e Viktor<br />
Smirnov Golovanov) si uniscono a moduli ripetuti, facilmente riconoscibili, dai toni del<br />
musical, come My Fair Lady (nel quadro delle corse) ad altri di marca espressionista, memori<br />
di teatro coreografico tedesco anni venti, ad altri di vecchia estrazione pantomimica (il<br />
personaggio di Karenin).<br />
Un compromesso del pari riuscito, in quanto tale, tra vecchio e trito e nuovo, assimilato male<br />
è risultato l'altro balletto proposto dalla Plissetskaja e da suo marito, il compositore Rodion<br />
Scedrin, intitolato Caro men Suite (dall'opera omonima di Georges Bizet) nella stagione<br />
scaligera settembrina 1975 (coreografia di Alberto Alonso; scena e costumi di Boris Messerer;<br />
altri interpreti: Anatolij Berdyscev, Natalia Kasatkina, Serghei Radcenko, Aleksandr<br />
Lav'renjuk, tutti del Bolscioi, quindi a gran livello) ma possibile che con i mezzi del Bolscioi e<br />
con artisti di tal fatta (la Plissetskaja poi anche, in quelle serate, incorporeo cigno morente -<br />
con le braccia impareggiabili che sembrano ali!) si continui a restare a remoti, logori, stanchi<br />
moduli del passato, a compromessi di classico-moderno anni trenta, ad ibridismi tanto<br />
flagranti?<br />
Per contro, non si può proprio dire che il balletto sovietico manchi di nuove, acuminate frecce<br />
al suo arco: basterebbero i nomi delle ultime leve come Aleksander Godunov, Ludmila<br />
Semenyaka, Wyacheslav Gardeyev. Preoccupa l'assenza di nuovi temi e di nuove tematiche.<br />
L'ultima eco coreografica che ci proviene dal Bolscioi è il Balletto Ivan il Terribile di Juri Gri-<br />
gorovich la cui interpretazione da parte di Vladimir Vasiliev è un punto di forza (se ne sono<br />
resi conto pure americani in occasione della tournée estiva 1975 del Bolscioi a New York) ma,<br />
appunto, si fa spesso e volentieri leva sulla forza atletica degli interpreti, la loro indiscussa<br />
espressività e poco sulla novità dei procedimenti ispirativi della coreografia. Ultimamente<br />
ha preoccupato non poco la recrudescenza di scomparse dovute in parte alla malattia e in
parte a tragica fatalità come quella del celebre Alexandr Lauri morto all'età di 49 anni per un<br />
incidente d'auto. Marito della squisita danzatrice Raissa Struchkova, ora ritiratasi dalle scene<br />
di danza ma non da quelle dell'insegnamento, egli è da ricordare come interprete sia al<br />
punto di vista dell'espressione come della tecnica.<br />
Fra le composizioni si ricorda il balletto Liutenant Kije sulla musica omonima di ProkofÌev.<br />
Anche la scomparsa di Dimitri Sciostakovich ha fatto riflettere sulla precarietà di una<br />
situazione: mancanza di nuovi compositori di livello per la scena del balletto, anche se forse i<br />
più interessanti balletti di lui vanno ricercati negli adattamenti coreografici di musiche<br />
preesistenti, non sorte per essere danzate piuttosto che in composizioni sorrette da un avvio<br />
coreografico fin dalla nascita. L'Età d'oro è fra questi ma è assente dal repertorio sovietico da<br />
molto tempo. Si ricordano meglio la Sinfonia di Leningrado nella coreografia di Igor Belsky,<br />
Katalyse di John Crankò, il Concerto nella coreografia di Kenneth MacMillan e il non recente Le<br />
Rouge et le Noir di Leonida Massine.<br />
Anche Leonid Yacobson ci ha lasciati. Più che per il primo Spartacus (1956) egli è da ricordare<br />
per lo spirito innovatore in seno alla coreografia moderna sovietica, la sua ricerca costante di<br />
elementi plastici ed espressivi,. soprattutto di gruppo in netto contrasto con il gusto<br />
imperante del balletto classico volto al decorativo, elementi che egli foce confluire in composi-<br />
zioni ad atto unico sotto la denominazione di « Miniature coreografiche». Di questa tendenza<br />
egli poté dare saggio anche in Italia allestendo la parte coreografica dello spettacolo Al gran<br />
sole carico d'amore, musica di Luigi Nono, rappresentato durante la stagione lirica 1974/75<br />
della Scala al Teatro Lirico di Milano.<br />
In Francia pare sia nato un nuovo astro della giovane coreografia. Se gli anni cinquanta sono<br />
stati segnati all'apparizione di un Roland Petit e se gli anni sessanta hanno visto brillare<br />
l'astro Béjart, la rivelazione improvvisa degli anni settanta ha nome Félix Blaska che proviene<br />
dai ranghi di Petit, staccatosi da questi per dar vita ad una compagnia di giovani, ricca di<br />
carica dinamica, di vitalità, di proposte. La tecnica è certamente del tipo moderno ma<br />
applicata al balletto accademico (quindi gran uso di punte e di passi del vocabolario classico<br />
corrente) come molto s'usa fare oggigiorno e come, in particolare, si configura la coreografia
francese sempre oscillante tra i due poli Petit-Béjart, vale a dire tra il genere music-hall ad alto<br />
livello per il primo e la «danse d'école» esasperata nel suo formalismo per il secondo con<br />
qualcosa di. caustico, di amaro o soltanto di ironia indefinita. I balletti di Blaska non recano<br />
molte significazioni per cui anche i titoli non sono indicativi, si assomigliano un poco tutti<br />
come del resto si assomigliano le coreografie in numero già rilevante dell'artista. Si ammira la<br />
bravura, lo slancio; la freschezza che al primo apparire (Roma, Premio Roma, maggio 1970)<br />
avevano incantato tutti quanti facendo gridare ad una nuova scoperta del teatro di danza<br />
contemporaneo proprio per la carica inusitata che quei balletti recavano (soprattutto Electro<br />
Bach era piaciuto). Molto strano: rivedendolo a Spoleto (Festival 1975) piaceva molto meno<br />
anche perché cammin facendo, con le immancabili manomissioni aveva perduto parecchio<br />
del mordente iniziale o si era invecchiato o altri lavori di maggior estro lo avevano superato<br />
oppure il nostro gusto, com'è fatale, s’è cambiato. Fatto sta che i balletti di Blaska .girano su<br />
se stessi, hanno il fiato corto, cioè hanno poco da non si capisce dove questo gioco ripetuto di<br />
contorcimento e di «grimaces» voglia mirare mentre i danzatori non sono più quelli<br />
eccezionali della prima ora.<br />
Spesso il lazzo, lo sberleffo mimico vi interviene e sono certamente piacevolezze a sfilare sotto<br />
i nostri occhi, memori del teatro di un Marceau (si veda il dialogo dei due personaggi<br />
marionettistici sul clarinetto di Stravinsky) ma anche questo è scontato, vi siamo già da tempo<br />
abituati e Murray Louis ci ha recato con il suo gruppo più di un esemplare felice (Hopla,<br />
questa folle carrellata nell'ambiente del circo che Il Carnevale degli animali di Blaska imita con<br />
gioco spavaldo) questo ballerino e coreografo proveniente dalle file di un Nikolais del quale<br />
ha appreso perfettamente la lezione chiamandolo pure come coautore (in alcune musiche<br />
elettroniche che fanno da fondo ai balletti di Murray).<br />
La Gran Bretagna ha il punto di forza, il suo vessillo che la rende orgogliosa nel Royal BaIJett<br />
londinese .al Covent Garden, sempre ricco di spettacoli, di programmi ballettistici, di nuove<br />
acquisizioni. Quando non sono Ashton, Tudor o Mac Millan (il nome di Cranko,<br />
immaturamente scomparso nel giugno 1973, non figura in quei programmi ma il Teatro di<br />
Stoccarda ha varato il serio impegno .di mantenere nel repertorio le sue ultime creazioni: La
Bisbetica domata e Eugenio Oneghin) è Jerome Robbins ad esservi chiamato per allestirvi un suo<br />
balletto come lo stupendo Dances at a gathering, creato per il New York City Ballet l’8-maggio<br />
1969 e riprodotto poi per il Royal Ballet con una distribuzione di lusso che alla «prima» del 19<br />
ottobre 1970 al Covent Garden poteva contare su Nureyev, Lynn Seymour, Antony Dowell,<br />
Antoinette Sibley, David Wall, Monica Mason. Questo balletto condotto su musiche<br />
pianistiche di Chopin è un'altra perla di invenzione coreografica (come lo sono le Variazioni<br />
Goldberg condotte sulla musica bachiana) da aggiungere alle altre tutte preziosissime<br />
dell'autore di West Side Story. Un altro ritorno a breve distanza avveniva, sempre con il New<br />
York City Ballet e nella stessa sede, il 29 gennaio 1970, con In the Night, ancora su una scelta di<br />
musiche chopiniane (in questa occasione quattro notturni). La critica newyorkese, notando<br />
che non si erano esaurite le possibilità ispiratrici della musica di Chopin nei confronti del<br />
coreografo ad essa sempre sensibile (si pensi all'umorismo del quale è costellato il<br />
divertentissimo The Concert, caricatura del chopinismo), la critica dopo la « prima» rivelava<br />
che l'ispirazione era più forte che mai.<br />
Le grandi personalità, i «mostri sacri» del balletto e della danza contemporanea continuano<br />
ad essere Balanchine, Robbins, Graham in un alone ormai abbastanza universalizzato (ma<br />
non si dimentichino gli insegnamenti e l'irradiamento nel mondo europeo di un Tudor, di un<br />
Ashton, di un Milloss anche se stentiamo ad intravedervi un proselitismo). Da una parte per<br />
gli uni e per gli altri assistiamo a vere e proprie retrospettive e dall'altra al tentativo di<br />
aggiornare il discorso con il risultato che forse sono più affascinanti ed indicative le prime,<br />
mentre il secondo si ripiega un po' su se stesso, quando non riveli scopertamente l'insistenza<br />
del gioco. Tutto sommato: le migliori produzioni, specie di Balanchine e della Graham, appar-<br />
tengono al loro più fulgido passato. Robbins si è fatto applaudire ancora di recente con le sue<br />
poetiche Dances at a gathering (Danze ad un raduno) ed anche con Les Noces, Watermill, Dybuk,<br />
trascurando i brevi apporti alla« parata delle stelle» con Celebration creato per il Festival di<br />
Spoleto 1973, ovè la cosa migliore era ancora il desueto e toccante Pomeriggio di un fauno. La<br />
Graham si era già unita a Balanchine per Episodes ne11959; nell'estate 1975 si è unita alla<br />
coppia Fonteyn-Nureyev per allestirle con la parecipazione di dodici danzatori della sua
compagnia un inusuale Luciler, inusuale per l'impiego della tecnica «modern dance» da parte<br />
di due danza tori non di certo familiarizzati con essa (forse per la prima volta si è vista la<br />
Fonteyn a piedi scalzi!) e così scambi e migrazioni balletto accademico e danza moderna<br />
hanno recato e recano nuova linfa all'arte della danza. Robbins ha fatto altrettanto, unendosi a<br />
Balanchine, nelle favolose serate in omaggio a Stravinsky in occasione del primo anniversario<br />
della scomparsa del musicista (giugno 1972) e nell'altra per il centesimo anniversario della<br />
nascita di Ravel (maggio 1975). Della Graham bisogna ricordare lo straordinario successo<br />
veneziano a « Danza ‘75» con i due spettacoli del 5 e 6 luglio al Teatro La Fenice definibili<br />
storici proprio per i due opposti atteggiamenti contrastanti tra pubblico e critica, almeno una<br />
parte di essa, per totale incomprensione, d'incomprensione che nel 1950 aveva mandato su<br />
tutte le furie l'entusiasta ed avvilito Pierre Tugal alle rappresentazioni parigine (si è pensato<br />
che venticinque anni sarebbero dovuti servire a qualcosa, per lo meno a risollevare le zone<br />
depresse dell'intelligenza italiana!), A noi è sufficiente l'ardore degli spettatori, in gran parte<br />
giovanissimi, dopo la rappresentazione di Clitennestra e la Graham evocata innumerevoli<br />
volte, ogni era avvolta e fluttuante tra veli di colore diverso.<br />
Si deve anche registrare la precarietà dei tristi congedi, particolarmente numerosi negli ultimi<br />
tempi: Lichine, Limon, Nijinska, Lander, Shawn, Saint Denis, Wigman, Cranko, Gsovsky<br />
(Vietor), Kniaseff,Weidman, Yacobson. Ad altri, ai nuovi di prendere in consegna la torcia del<br />
fuoco sacro, come la stessa Wigman, sacerdotessa della danza moderna ai suoi inizi, ci racco-<br />
manda. Su presente e futuro di questa danza ci è facile esprimere oggi un giudizio. Il<br />
travaglio che la danza d'arte sta vivendo, come qualsiasi travaglio che appartenga alla nostra<br />
vita di uomini moderni non è descrivibile e tanto meno giudicabile... Ai posteri l'ardua<br />
sentenza...