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Il disgelo Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell ...

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Era intanto sopravvenuto il <strong>disgelo</strong>, che da tanti <strong>giorni</strong> temevamo, ed a misura che <strong>la</strong> neve andava<br />

scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie tendevano<br />

irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né <strong>la</strong> morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i<br />

ma<strong>la</strong>ti nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i<br />

superstiti piú ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra antica fame,<br />

si erano rimpinzati <strong>del</strong>le razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte<br />

non lontano, facevano irrego<strong>la</strong>rmente pervenire al campo: talora poco, talora nul<strong>la</strong>, talora in folle<br />

abbondanza. Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo<br />

saltuario e indistinto. Pareva che <strong>la</strong> stanchezza e <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, come bestie feroci e vili, avessero<br />

atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo<br />

in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dal<strong>la</strong><br />

sete e da acuti dolori alle artico<strong>la</strong>zioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male al<strong>la</strong><br />

go<strong>la</strong>, e metà <strong>del</strong><strong>la</strong> faccia mi era gonfiata: <strong>la</strong> pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per<br />

una ustione; forse soffrivo di piú ma<strong>la</strong>ttie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul<br />

carretto di Yankel, non ero piú in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da<br />

Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il<br />

cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso <strong>la</strong><br />

lontanissima libertà, sfi<strong>la</strong>rono per l’ultima volta <strong>sotto</strong> i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e<br />

mi ero maturato, <strong>la</strong> piazza <strong>del</strong>l’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, <strong>la</strong> forca e un<br />

gigantesco albero di Natale, e <strong>la</strong> porta <strong>del</strong><strong>la</strong> schiavitú, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre<br />

parole <strong>del</strong><strong>la</strong> derisione: «Arbeit Macht Frei», «<strong>Il</strong> <strong>la</strong>voro rende liberi».<br />

Da Iasi al<strong>la</strong> Linea<br />

Attraverso campagne ancora estive, attraverso cittadine e vil<strong>la</strong>ggi dai barbarici nomi sonanti<br />

(Ciurea, Scantea, Vaslui, Piscu, Brai<strong>la</strong>, Pogoanele) procedemmo ancora per vari <strong>giorni</strong> verso sud, a<br />

minuscole tappe: vedemmo sfolgorare, <strong>la</strong> notte <strong>del</strong> 23 settembre, i fuochi dei pozzi petroliferi di<br />

Ploesti; dopo di che il nostro misterioso pilota prese per ponente, e il giorno dopo, dal<strong>la</strong> posizione<br />

<strong>del</strong> sole, ci accorgemmo che <strong>la</strong> nostra rotta si era invertita: stavamo navigando nuovamente verso<br />

nord. Ammirammo, senza riconoscerli, i castelli di Sinaia, residenza regale. Nel nostro vagone<br />

avevamo ormai esaurito il danaro liquido, e venduto o scambiato tutto ciò che poteva avere un<br />

potere commerciale, anche infimo. Perciò, a meno di saltuari colpi di fortuna o azioni banditesche,<br />

non si mangiava che quanto i russi ci davano: <strong>la</strong> situazione non era drammatica, ma confusa e<br />

snervante. Non fu mai chiaro chi sovraintendesse agli approvvigionamenti: molto probabilmente i<br />

russi stessi <strong>del</strong><strong>la</strong> scorta, i quali prelevavano a casaccio, da ogni deposito militare o civile che<br />

capitasse a tiro, i generi alimentari piú disparati, o forse i soli disponibili. Quando il treno fermava e<br />

veniva sdoppiato, ogni vagone inviava due <strong>del</strong>egati al carro dei russi, che si era a poco a poco<br />

trasformato in un caotico bazar ambu<strong>la</strong>nte; a questi, i russi distribuivano, al di fuori di ogni rego<strong>la</strong>, i<br />

viveri per i rispettivi vagoni. Era un gioco d’azzardo quotidiano: quanto al<strong>la</strong> quantità, le razioni<br />

erano talvolta scarse, talvolta ciclopiche, talvolta nulle; e quanto al<strong>la</strong> qualità, imprevedibili come<br />

ogni cosa russa. Ricevemmo carote, e poi carote, e poi ancora carote, per <strong>giorni</strong> di fi<strong>la</strong>; poi le carote

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