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Il disgelo Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell ...

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altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. Se in Romania avevo provato un <strong>del</strong>icato<br />

piacere filologico nel gustare nomi quali Ga<strong>la</strong>ti, Alba Iulia, Turnu Severin, al primo ingresso in<br />

Ungheria ci imbattemmo invece in Békéscsaba, cui fecero seguito Hódmezövasárhely e<br />

Kiskunfélegyháza. La pianura magiara era intrisa d’acqua, il cielo era plumbeo, ma sopra ogni cosa<br />

ci attristava <strong>la</strong> mancanza di Cesare. Aveva <strong>la</strong>sciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza,<br />

nessuno sapeva di cosa par<strong>la</strong>re, nessuno piú riusciva a vincere <strong>la</strong> noia <strong>del</strong> viaggio interminabile, <strong>la</strong><br />

fatica dei diciannove <strong>giorni</strong> di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. Ci guardavamo l’un<br />

l’altro con un vago senso di colpa: perché lo avevamo <strong>la</strong>sciato partire? Ma in Ungheria, malgrado i<br />

nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, <strong>sotto</strong> l’a<strong>la</strong> di una civiltà che era <strong>la</strong> nostra, al riparo<br />

da al<strong>la</strong>rmanti apparizioni quali quel<strong>la</strong> <strong>del</strong> cammello in Moldavia. <strong>Il</strong> treno puntava verso Budapest,<br />

ma non vi penetrò: sostò a piú riprese a Ujpest e in altri scali periferici il 6 di ottobre, concedendoci<br />

visioni spettrali di ruderi, di baracche provvisorie e di strade deserte; poi si inoltrò nuovamente nel<strong>la</strong><br />

pianura, fra scrosci di pioggia e veli di nebbia autunnale. Fermò a Szób, ed era giorno di mercato:<br />

scendemmo tutti, per sgranchirci le gambe e spendere i pochi soldi che avevamo. Io non avevo piú<br />

nul<strong>la</strong>: ma ero affamato, e barattai <strong>la</strong> giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino<br />

allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva<br />

avvinto. Quando <strong>la</strong> macchina fischiò, e risalimmo sul vagone, ci contammo, ed eravamo due in piú.<br />

Uno era Vincenzo, e nessuno se ne stupí. Vincenzo era un ragazzo difficile: un pastore ca<strong>la</strong>brese di<br />

sedici anni, finito in Germania chissà come. Era selvaggio quanto il Velletrano, ma di natura<br />

diversa: timido, chiuso e contemp<strong>la</strong>tivo quanto quello era violento e sanguigno. Aveva mirabili<br />

occhi celesti, quasi femminei, e un viso fine, mobile, lunare: non par<strong>la</strong>va quasi mai. Era nomade<br />

nell’anima, inquieto, attratto a Staryje Doroghi dal bosco come da demoni invisibili: e anche sul<br />

treno, non aveva residenza stabile in un vagone, ma li girava tutti. Subito comprendemmo il perché<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> sua instabilità: appena il treno partí da Szób, Vincenzo piombò a terra, con gli occhi bianchi e<br />

<strong>la</strong> mascel<strong>la</strong> serrata come di sasso. Ruggiva come una belva, e si dibatteva, piú forte dei quattro<br />

alpini che lo trattenevano: una crisi epilettica. Certamente ne aveva avute altre, a Staryje Doroghi e<br />

prima: ma ogni volta, quando ne avvertiva i segni premonitori Vincenzo, spinto da una sua selvatica<br />

fierezza, si era rifugiato nel<strong>la</strong> foresta perché nessuno sapesse <strong>del</strong> suo male; o forse, davanti al male<br />

fuggiva, come gli uccelli davanti al<strong>la</strong> tempesta. Nel lungo viaggio, non potendo restare a terra,<br />

quando sentiva arrivare l’attacco cambiava vagone. Stette con noi pochi <strong>giorni</strong>, poi sparí: lo<br />

ritrovammo appol<strong>la</strong>iato sul tetto di un altro vagone. Perché? Rispose che di <strong>la</strong>ssú si vedeva meglio<br />

<strong>la</strong> campagna. Anche l’altro nuovo ospite, per diverse ragioni, si rivelò un caso difficile. Nessuno lo<br />

conosceva: era un ragazzotto robusto, scalzo, vestito con giacca e pantaloni <strong>del</strong>l’Armata Rossa.<br />

Par<strong>la</strong>va solo ungherese, e nessuno di noi riusciva a capirlo. <strong>Il</strong> Carabiniere ci raccontò che, mentre a<br />

terra stava mangiando pane, il ragazzo gli si era avvicinato e aveva teso <strong>la</strong> mano; lui gli aveva<br />

ceduto metà <strong>del</strong> suo cibo, e da allora non era piú riuscito a staccarlo: mentre tutti risalivamo in fretta<br />

sul vagone, doveva averlo seguito senza che nessuno ci badasse. Fu accolto bene: una bocca in piú<br />

da sfamare non preoccupava. Era un ragazzo intelligente e allegro: appena il treno fu in moto, si<br />

presentò con grande dignità. Si chiamava Pista e aveva quattordici anni. Padre e madre? Qui era piú<br />

difficile farsi intendere: trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, e disegnai un uomo, una

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