Parte prima Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza ...
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<strong>Parte</strong> <strong>prima</strong><br />
<strong>Io</strong> <strong>gli</strong> <strong>giro</strong> <strong>intorno</strong>: <strong>con</strong> <strong>circospezione</strong>, <strong>con</strong> <strong>impazienza</strong>, <strong>con</strong> rabbia. Adesso, <strong>gli</strong> <strong>giro</strong> <strong>intorno</strong>; un<br />
tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto ‑ raramente ‑ sbotto. Allora lui mi guarda <strong>con</strong><br />
la sua famosa calma e dice: ‑ Tu mi manchi di rispetto! La mia collera di ora dev’essere un residuo<br />
delle antiche batta<strong>gli</strong>e, quando io reagivo come se lui fosse una parte di me che tradiva se stessa e<br />
dunque mi tradiva. Ai miei assalti e assedi ormai piú che altro ammirativi, lui oppone freddezza,<br />
noia e perfino gentilezza (distratta). Ma soprattutto io non rinunzio a tentare di <strong>con</strong>oscerlo,<br />
discorsivamente vo<strong>gli</strong>o dire. So bene che le domande sono un sistema sba<strong>gli</strong>ato; ma ci ricasco. Lui<br />
è seduto davanti a me, immerso in un libro (magari un fumetto). <strong>Io</strong> provo a incominciare un<br />
discorso, e per di piú su temi generali. Senza alzare il capo risponde: ‑ Non so.<br />
Quando succhiava il mio latte, mi sembrava feroce. Come se allattassi un leoncino (infatti<br />
mordeva). Ero intimidita, preoccupata; non irritata. La signora Turin mi aveva avvertita che la<br />
sensazione di « sentir venire il latte » era morbosa. ‑ Come tutto il resto, ‑ aveva aggiunto. <strong>Io</strong> ero<br />
decisa a vederci chiaro. Ma è stato lui a respingermi, a tenermi lontana, fin da allora. Chissà se io<br />
non sarei caduta nell’antico tranello. Prima, quando nel mio ventre scalciava, io l’avevo trovato<br />
indisponente, villano, e il nostro rapporto era già quello giusto. Giusto nel senso di non morboso. La<br />
collera sembra una cosa sana. A meno che non sia vero che la violenza su altri piani è ancora una<br />
manifestazione di « quella » lotta. Ma non c’è mica altro modo di eludere la morbosità. Comunque,<br />
io sono soltanto un antefatto. Qualcosa mi segue da allora. Uno sguardo. Uno sguardo nero, lungo.<br />
Uno sguardo adulto, e lui era nella culla e aveva pochi giorni. Se ne accorse mio padre: ‑ Questo<br />
bambino ha fame! ‑ Non piangeva, guardava a quel modo. La signora Turin (ancora lei) mi aveva<br />
imprestato un libro ‑ inglese (<strong>gli</strong> inglesi erano all’avanguardia) ‑ sull’allattamento: dosi, orari, peso<br />
ecc. <strong>Io</strong> non sba<strong>gli</strong>o se non faccio calcoli: appendo i quadri diritti e alla stessa altezza senza usare il<br />
metro; se lo uso, lo tengo magari voltato alla rovescia e il <strong>con</strong>to viene sba<strong>gli</strong>ato. Gli strumenti mi<br />
annoiano, mi imbarazzano. Purtroppo, data l’importanza del caso, mi imposi di essere scientifica: fu<br />
cosí che <strong>gli</strong> diedi troppo poco da mangiare. Dopo, per tutta la vita ho voluto rimediare, ma non ci<br />
sono piú riuscita. Non ha mai piú avuto fame. Nemmeno durante la guerra, quando non avevamo<br />
quasi niente da mangiare. Ma a parte questo, certe volte penso che tutto sia derivato di lí. È di<br />
nuovo la tentazione del « scientifico ». Gli errori in seguito sono imputabili solo alla passione;<br />
infatti il ricorso ai testi non l’ho piú usato; salvo per vedere se trovo o no la <strong>con</strong>ferma. Comunque,<br />
credo sia per quell’antica colpa se adesso sto male quando dice che <strong>gli</strong> manco di rispetto: penso a<br />
quel rimprovero muto, spaventoso.<br />
Non ha mai propriamente pianto, da piccolo, e tanto meno frignato. Lanciava urli, magari a metà<br />
della notte, come squilli. Non voleva mangiare, ma sembrava per gioco. Sputava le pappe ridendo,<br />
sbruffando come un piccolo tritone. Era panciuto e allegro. Lo trovavamo fin troppo ottimista<br />
(magari!) Avevamo avuto una specie di avvertimento. Lui non era ancora nato, e cosí ce ne<br />
dimenticammo. Un ragazzino era inginocchiato in chiesa <strong>con</strong> sua madre. Un ragazzino magro,<br />
nervoso, tormentosamente inquieto. Non che facesse chiasso; era teso, acuto, mostrava la sofferenza<br />
di un uccello incattivito. Lo guardavamo affascinati, spaventati. Sua madre, che tentava di farlo
leggere in un messale, aveva l’aria distrutta. Lo osservavamo <strong>con</strong> lo stesso pensiero. Ce lo siamo<br />
detto fuori, però non ci siamo detti tutto. Cioè che anche nostro fi<strong>gli</strong>o poteva ‑ ma noi avevamo<br />
addirittura pensato doveva ‑ venire cosí. Ce ne siamo ricordati anni dopo, quando anche lui diventò<br />
tormentoso. Il mutamento avvenne quando eravamo a Torino, e lui aveva compiuto l’anno. Prima<br />
era agitato, ma appunto <strong>con</strong> allegria. Sul viale dove lo portavamo nella carrozzina, dava spettacolo:<br />
si buttava fuori, voleva scavalcare i bordi. A camminare imparò presto. Esplorava in <strong>giro</strong>, sollevava<br />
<strong>con</strong> le mani forti certi sassi grossi come la sua testa. <strong>Io</strong> lo <strong>con</strong>sideravo quasi <strong>con</strong> distacco, come un<br />
futuro uomo pratico. Scrissi a suo padre: « ... stamattina ha trasportato tutta la legna dalla cesta in<br />
mezzo al corridoio e viceversa, poi tutte le scarpe dall’armadio alla cucina. Mi fa una certa<br />
impressione un fi<strong>gli</strong>o cosí diverso da me, cosí estroverso ... » Mi permettevo questo lusso, questo<br />
spreco, sicura di aver generato un forte. Il rammarico non era poi tanto snob: se lui fosse stato<br />
l’altro, l’introverso, sarebbe diventato un uomo di studio, di pensiero, qualcuno cioè di noto, di<br />
fraterno, anche se certamente piú scomodo. Ma io ero beata: vedevo crescere un dominatore, un<br />
padrone: uno che si sarebbe staccato da noi trionfalmente. Non del tutto simpatico a dirla cosí, ma<br />
per lui doveva pur essere una bella vita. La incomprensibile vita dei destinati al successo. Quasi lo<br />
sentivo già un po’ estraneo: non fosse stato il suo aspetto comico di passerotto, il suo patetico<br />
farsela addosso.<br />
C’era in lui un disdegno a questo riguardo, per il disagio suo e l’imbarazzo nostro, che aveva<br />
dell’aristocratico. Si lasciava cambiare <strong>con</strong>tinuando a giocare o a parlare come se l’operazione non<br />
lo riguardasse; se noi non avessimo notato il sacchettino appeso dietro, l’avrebbe <strong>con</strong> dignità recato<br />
in <strong>giro</strong>: senza avvertirlo? Ce lo chiedevamo. Dovevamo uscire <strong>con</strong> mutandine di ricambio, che<br />
sostituivamo appoggiati a un albero lungo i viali o sotto un portone, vergognosi, sbrigandoci,<br />
siccome eravamo i soli fermi per questa bisogna; <strong>gli</strong> altri si tiravano dietro bambini piú o meno<br />
compassati, evidentemente all’asciutto. Pare che il rifiuto della « educazione dello sfintere »<br />
significhi il rifiuto dell’Educazione; e ne <strong>con</strong>segua che la medesima Educazione risulta insufficiente,<br />
debole, ecc. Non ho difficoltà ad ammetterlo. In articoli di giornale un pediatra ironizzava sulle<br />
madri che <strong>gli</strong> domandavano a quale età deve incominciare l’educazione: se a quattro anni, per<br />
esempio. Noi avevamo riso di compatimento. Ma ci trovammo a non poterla ‑ o saperla ‑<br />
intraprendere, né a quattro mesi né a quattro anni. Per incompatibilità e intolleranza del soggetto.<br />
Era immaturità? La nostra, anzi, la mia era fuor di dubbio. Quella di lui, piuttosto, era discutibile.<br />
Infatti acco<strong>gli</strong>eva, o me<strong>gli</strong>o ignorava i nostri tentativi come uno che non può mutarsi. È vero che su<br />
un punto non eravamo d’accordo, io e il padre. C. giudicava salutare la sculacciata rapida e<br />
tempestiva. <strong>Io</strong> che avevo ricevuto un solo ceffone da mio padre (padre di sole fi<strong>gli</strong>e, mi faceva<br />
notare C.) e quell’umiliazione mi cuoceva ancora, provavo un (isterico) orrore delle punizioni<br />
corporali. Mi avventavo, se C. si accingeva a menare l’ostinato. Citavo anche san Paolo: Non<br />
irritate i vostri fi<strong>gli</strong>! E il bello era che in realtà io, lo irritavo: <strong>con</strong> <strong>gli</strong> urli, le implorazioni, i baci.<br />
Tutto quello che lui da grande ha chiamato poi Melodramma.<br />
Gli dedicavo un modo e un tempo esclusivamente mio, al quale attribuivo un’influenza calmante e<br />
persino educativa. Era un’usanza molto vecchia, in sé, un’usanza delle antiche balie e madri<br />
<strong>con</strong>tadine, <strong>con</strong>nessa al moto delle culle. Mentre lui non fu mai cullato: aveva dormito <strong>prima</strong> in una<br />
grossa cesta a ruote, e poi in un lettino di metallo. Consisteva nel sedermi accanto a lui e cantare
lunghe nenie e canzoni, che risalivano alla mia infanzia paesana. Canzoni di soldati e di ubriachi, e<br />
di chiesa, anche. Tristissime; rese ancor piú tristi da<strong>gli</strong> sbalzi di tono della mia voce non dolce né<br />
educata, alla quale mi impegnavo a dare le cadenze strazianti che mi avevano deliziata bambina.<br />
Pareva che gradisse le mie nenie perché non le ricusò mai. Che lo facessero dormire non si poteva<br />
dire: le sedute erano lunghissime, lui sempre <strong>con</strong> <strong>gli</strong> occhi sbarrati. Forse anzi lo tenevo sve<strong>gli</strong>o, in<br />
quel modo. Comunque non ci pensavo. Nessuno me lo rinfacciava, quel dominio era mio e mi<br />
bastava. Stordivo me stessa invece e mi alzavo di lí intontita e appagata <strong>con</strong> la sensazione di aver<strong>gli</strong><br />
comunicato qualcosa di importante. Forse l’amore per le zone oscure e reiette: nel caso che<br />
l’educazione cittadina e il mondo moderno in cui sarebbe vissuto potessero tenerlo troppo alla<br />
superficie. Forse per questo da ragazzo ascoltava alla radio le nenie arabe? E adesso è andato a<br />
bearsene sul posto. Ma mi sto vantando, temo.<br />
Fin che non è andato a scuola, non è stato veramente triste. Però a Torino perse quel colore di mela<br />
rossa per cui a Cuneo il nostro amico Turin lo chiamava Pinotö, siccome sembrava un bambino di<br />
campagna. Aveva persino esplosioni di gioia (quando era solo <strong>con</strong> Maria). Era una specie di gioia<br />
panica. Si fermava sulle scale, mentre salivano di ritorno dalle passeggiate, e cantava. Lo scalone<br />
rimbombava, esaltava il suo piacere di ascoltarsi. Maria durava fatica a farlo smettere, anzi<br />
aspettava che smettesse. Una volta si era chiuso nel bagno, aveva aperto tutti i rubinetti dell’acqua,<br />
e cantava a gola spiegata. Lo scroscio era un’amplificazione, un’orchestra. All’estremo opposto<br />
c’era in lui la coscienza. Intendo la coscienza morale. È vero che per un verso era semplicemente il<br />
subire la <strong>con</strong>danna a cattivo, assunta <strong>con</strong> fatalismo. Questo era grave, come errore, commesso per<br />
comodità da noi. Ma la coscienza saliva da lui; e siccome era una cosa grande in un piccolo<br />
bambino, sortiva un effetto comico. Piú che cattivo era, naturalmente, scomodo, imbarazzante.<br />
L’innocente estasi dell’ascoltarsi cantare era motivo di disturbo nell’austero scalone del ricco<br />
palazzo. L’exploit del bagno aveva inquietato molto Maria: ‑ Apri, fa’ il bravo, ‑ lo avrà pregato<br />
Maria. « Fare il bravo » e « fare il cattivo » sono stati in origine linguaggio di Maria. Il « cattivo »<br />
che diventava cativo nella dolce inflessione del piemontese di Dronero, veniva usato da lei come<br />
rimprovero, mai come denuncia o minaccia. « Fare il bravo » che in Piemonte significa « essere<br />
buono », finiva col venire usato anche nella sua accezione propria, in quanto ben sovente voleva<br />
esortare a una specie di coraggio: ordinariamente per indurlo a mangiare. Noi escogitavamo<br />
argomenti, ai quali lui regolarmente era in grado di <strong>con</strong>trobattere in termini di logica. Per dare realtà<br />
all’immagine dei bambini affamati dei quali non aveva alcuna visione nei quartieri signorili, fu fatto<br />
ricorso all’Infanzia Abbandonata. (A beneficio dell’Opera riempivamo un sacco <strong>con</strong> i giornali, la<br />
posta, la carta usata, e un uomo veniva a ritirarlo). ‑ Pensa a quei poveri bambini abbandonati! ‑<br />
Non sono abbandonati, hanno l’uomo della carta! Oppure, <strong>con</strong> logica ancor piú stringente: ‑ E se io<br />
mangio, loro cosa ci guadagnano? Le sue risposte erano fulminanti, ma serie. L’impiego rigoroso<br />
della logica ‑ anche non sofistico ‑ non pare accordarsi <strong>con</strong> la bontà: in quanto presume freddezza, e<br />
lo si pensa al servizio dell’egoismo, della prepotenza. Ma tra il lupo e l’agnello la logica è<br />
dell’agnello, non del lupo.<br />
Le due componenti della sua natura erano, come adesso, la logica e la passione. La violenza veniva<br />
dopo, naturalmente (rientrava nella logica?) Passione dominante era in lui l’esclusivismo, la gelosia.<br />
Guai se Maria si accompagnava a qualcuno, o se qualcuno veniva a casa. Si presentò un frate
questuante; mentre Maria <strong>gli</strong> dava retta, comparve lui: quel piccolo bambino dai capelli arruffati,<br />
incerto come doveva apparire sulle gambette un po’ accostate ai ginocchi: impugnava <strong>con</strong> la piccola<br />
mano forte un coltello da cucina. ‑ Il frate, ‑ rac<strong>con</strong>tò Maria, e le veniva da ridere nonostante la<br />
venerazione per il religioso, ‑ si è spaventato. È scappato. Quando Maria doveva rispondere al<br />
telefono, lui si allungava sul pavimento, proprio sotto l’apparecchio, e gridava, o cantava. Questo è<br />
tornato in mente a Maria una volta che la Nenè ha detto: ‑ Non mi lascia mai telefonare! Si mette a<br />
fischiettare, o a suonare la fisarmonica! Infatti la Nenè, il suo nuovo amore, è la sua nuova vittima.<br />
La gelosia è pur sempre un omaggio. Meno violenta perché eravamo meno importanti, era quella<br />
per noi, ma non meno inflessibile. Ci voleva <strong>con</strong> lui separatamente. Se uscivamo insieme la<br />
domenica, io lo lasciavo per mano a suo padre, e li seguivo a distanza di qualche passo; cosa che mi<br />
piaceva, perché cosí li guardavo. Se le visite erano per noi, non si mostrava tanto radicale nei mezzi,<br />
ma ugualmente ostile. Dei nostri amici piú che altro aveva paura. Turin era venuto per colazione,<br />
ma io non ero ancora tornata da scuola né C. dalla banca; disse: ‑ Forse è me<strong>gli</strong>o che faccia ancora<br />
un <strong>giro</strong>. ‑ Sí sí, è me<strong>gli</strong>o, ‑ fece lui, spuntando da dietro a Maria. Ma aveva parlato, rac<strong>con</strong>tò Maria,<br />
<strong>con</strong> gentilezza, in tono di <strong>con</strong>versazione. Quando venne a farmi visita la padrona di casa di corso<br />
Galileo Ferraris ‑ forse voleva vedere come tenevamo l’alloggio ‑ io non avevo meno paura di lui.<br />
Non avevamo poltrone, le offersi una sedia. Lei era grande, <strong>con</strong> due enormi volpi, una per spalla.<br />
Pareva poco sicura sulla sedia. E lui andò, ginocchioni, a rannicchiarsi proprio sotto quella sedia.<br />
Forse perché era il solo posto di dove poteva non vedere la signora. Non soltanto io stavo male,<br />
credo che anche la signora non si sentisse a suo agio. Lui aveva forse, già allora, il senso del «<br />
comico della situazione »? È probabile, se penso che questo aspetto delle relazioni umane è poi<br />
stato sempre per lui quasi il solo che abbia <strong>con</strong>siderato. Ebbe anche de<strong>gli</strong> impulsi di simpatia: cosí<br />
rari che poi ci parvero favoleggiati, immaginari. Le persone alle quali <strong>con</strong> un movimento rapido,<br />
imprevisto, rivolse la sua scelta, erano davvero particolarmente amabili. Gli davo la mano, sul<br />
corso; si staccò da me, e vidi che aveva preso per la mano una donnina dimessa, sorridente. <strong>Io</strong> mi<br />
scusavo, piú stupita di lei. Ma lei era felice, ringraziava: ‑ Lo lasci fare, mi fa cosí piacere! Nessuno<br />
mi cerca, mai, nessuno mi parla! Sono tanto sola! ‑ Era forse piú giovane che vecchia, minuta,<br />
vestita di scuro, sembrava forse vecchia perché aveva le ci<strong>gli</strong>a quasi bianche. L’ho riveduta poi<br />
qualche volta sul tram, io ritornavo da scuola e lei dal suo ufficio, un Ufficio Postale. Mi sorrideva,<br />
<strong>con</strong> la sua aria mite, mi ringraziava ancora: ‑ Non me ne dimenticherò mai, mi ha fatto cosí piacere!<br />
L’altro in<strong>con</strong>tro fu meno straordinario. Scelse una signora elegante, dai capelli grigi ma giovanile,<br />
svelta. Sapevo chi era quella signora in tailleur di lana inglese, che aveva incrociato <strong>con</strong> noi sul<br />
marciapiede del corso Galileo Ferraris: era la mamma di Natalia. Lei non mi <strong>con</strong>osceva, allora.<br />
Anche questa volta mi scusai; anche lei sorrise, divertita, e lo accarezzava. Aveva seguito dei<br />
modelli, per quelle scelte? Facile: la <strong>prima</strong> era del tipo di Maria: l’umiltà, la dolcezza; la se<strong>con</strong>da<br />
assomi<strong>gli</strong>ava alla sua nonna, mia madre: fantasia, grazia. Ma piú che altro credo fosse ancora un<br />
impulso di quella felicità panica, libera. L’estro comunicativo non l’ha piú ripreso, in seguito. Per<br />
essere precisi: non in mia presenza. Anche i suoi desideri di cose avevano carattere d’urgenza. Noi<br />
avevamo pochissimi soldi, ma qualche volta dovevamo cedere davanti alla serietà ‑ la serietà della<br />
passione ‑ delle sue richieste. Precisava: ‑ In via Massena angolo via Montevecchio... ‑ In quel<br />
punto c’era in una vetrina un trenino, una locomotiva rossa e nera. Ripeteva la richiesta fino<br />
all’ossessione; si addormentava <strong>con</strong> la frase « in via Massena angolo via Montevecchio... » Quando
ebbe il treno, suppongo l’abbia tenuto abbracciato per un certo tempo, fino a un’altra passione. Con<br />
determinazione improvvisa buttava le cose che possedeva. Credo che buttasse non i giochi che<br />
aveva desiderato, ma quelli regalati da qualcuno. Di solito erano giocattoli di lusso come un « cane<br />
che camminava », un gatto di pelliccia. Li buttò giú dal portello delle immondizie <strong>con</strong> un gesto<br />
fulmineo, come tutto quello che faceva volontariamente. La tristezza nacque <strong>con</strong> la coscienza. Una<br />
cupezza che non era quella della collera. Era seduto fra due preti (nipoti di Maria). Pareva, disse poi<br />
Maria, Gesú fra i Dottori. Disse: ‑ <strong>Io</strong> andrò all’Inferno, perché sono cattivo. ‑ Ma lo sai chi c’è<br />
all’Inferno? ‑ Sí lo so. Ci sono i diavoli. Poteva darsi che volesse stupire, sfidare i preti che<br />
detestava per gelosia. Sapeva che Inferno e Paradiso erano di loro competenza. Ma il vero senso di<br />
quella sfida era un impegno, assunto coi suoi rischi, per sempre, si può dire. Tale è stata all’origine,<br />
fatalistica e perciò disperata, la sua sfida. Anteriore è la coscienza della sua debolezza; e di quella,<br />
non dell’essere « cattivo », provò umiliazione. È anteriore, perché parlava ancora di sé in terza<br />
persona. Paola lo in<strong>con</strong>trò che dava la mano a Maria e piangeva. Erano andati, disse Maria, a vedere<br />
la sfilata dei carri di Carnevale. ‑ Perché piangi? ‑ domandò Paola. ‑ Eh, ‑ rispose (questo eh lo<br />
aveva preso da Maria), ‑ « lui » ha voluto andare a vedere, e ha avuto paura. E adesso piange! La<br />
costernazione per la scoperta della sua debolezza era il motivo del pianto; ma anche il pianto era<br />
motivo di costernazione, perché era un’altra debolezza. Noi non lo capivamo fino in fondo, eravamo<br />
troppo giovani. Quanto abbiamo riso per la storia « dell’occhio »! Maria ci rac<strong>con</strong>tò che lui si era<br />
fatto male urtando <strong>con</strong>tro qualcosa e aveva pianto; poi andava ripetendo tra sé, <strong>con</strong> un tono tra<br />
stupito e indignato: ‑ Lui piange per un occhio! Maria imitava quel tono, che ci sembrava cosí<br />
buffo. Ci abbracciavamo ridendo. Che denunciasse la cosa a se stesso era appunto il segno della sua<br />
<strong>con</strong>sapevolezza piena di stupore, ma già forte di una dura, ostinata accettazione. In quanto all’uso<br />
della terza persona invece della <strong>prima</strong>, è <strong>con</strong>siderato prova di immaturità, di ritardo nella coscienza<br />
della propria persona. In realtà è un’oggettivazione disinteressata. Infatti la <strong>prima</strong> persona indica il<br />
sopraggiungere della volontà, dell’affermazione di sé in luogo della purezza oggettiva,<br />
<strong>con</strong>templativa. Mia madre rac<strong>con</strong>tava che quando io stetti lontano qualche giorno (ero andata a<br />
Roma per i <strong>con</strong>corsi e dunque lui aveva due anni), sul bal<strong>con</strong>e della casa di Boves stringeva <strong>con</strong> le<br />
mani la ringhiera e guardava giú: ‑ C’è l’erba, ci sono i fiori ma la sua mamma non c’è. La citazione<br />
dei fiori rende un po’ sentimentale la frase. Del resto io l’ho sempre ritenuta improbabile, come<br />
troppo nostalgica nei miei riguardi. Sarebbe l’unico grido del cuore (per me) non solo di que<strong>gli</strong> anni<br />
ma di tutto il tempo finora della nostra vita. In verità non ero io la « madre ». Intanto c’era Maria,<br />
non distratta come me da altri compiti, interessi. Facevo scuola, frequentavo l’università e le<br />
biblioteche; ma soprattutto mi occupava la pittura, che <strong>con</strong>sideravo il mio mestiere. Sovente però<br />
stavo <strong>con</strong> lui proprio per la pittura, perché lo copiavo. Non stava fermo, ma non trovavo che fosse<br />
un in<strong>con</strong>veniente. I ritratti che <strong>gli</strong> facevo allora sembrano apparizioni, lui ha la sua aria improvvisa<br />
di quando si affacciava alla porta e spariva. La nonna ‑ mia madre - assomi<strong>gli</strong>ava un po’ a me nel<br />
lasciarsi trasportare dalle emozioni; ma in modo piú discreto. Non aveva la mia violenza nella<br />
tenerezza, né la mia ira. Anche lei però come Maria si arrendeva a tutti i suoi estri; e lui la amava<br />
come amava Maria e come adesso per un certo verso ama sua mo<strong>gli</strong>e. « Mi vuol portare in<br />
montagna, mi fa giocare alla guerra, mi insegna a maneggiare la spada », scriveva mia madre. Nel<br />
retro del fo<strong>gli</strong>o è disegnata una locomotiva <strong>con</strong> un vagone merci. Il carattere di lui è rivelato dalla<br />
sicurezza del segno e dall’importanza data ai respingenti e alla manovella dei freni. C’è anche la
figurina del frenatore, <strong>con</strong> un piolo al posto della testa. Dal disegno posso ricavare la data della<br />
lettera. Sulla fiancata della locomotiva è scritto B A C I (suggerimento della nonna): usava il<br />
carattere stampatello <strong>intorno</strong> ai tre anni. In quella stessa lettera la nonna annota: « Quando lo lavo al<br />
mattino e lo vesto, mi dice: è papà che mi veste, è papà che mi lava ». Suo padre prendeva cura di<br />
lui per sollevare Maria ‑ io ero già uscita per la scuola ‑ ma non solo per quello. Lo faceva anche<br />
giocare, eppure in casa ci stava ben poco. Aveva inventato per lui « il Guerriero Pierino », un<br />
burattino Orlando ‑ Don Chisciotte, di cui rappresentava le storie nel teatrino traballante. Tra i «<br />
documenti » ho ritrovato un fo<strong>gli</strong>o grande, un cartello: IL MIO PAPÀ È CATTIVO. I caratteri<br />
dell’iscrizione sono alti, tondi, spessi, ornati di volute; sono ben spaziati e compongono un motivo<br />
elegante, celebrativo. La protesta pare dettata da una specie di entusiasmo. Che fosse un<br />
ri<strong>con</strong>oscimento (nel senso di lode)? Siccome anche lui si qualificava « cattivo ». Ma lui sapeva bene<br />
che era una sorta di maledizione, quella qualifica. E la forma di Proclama era una affissione solenne,<br />
una gioiosa vendetta. Gliel’ho domandato adesso, perché chiamasse cattivo suo padre. Forse perché<br />
era piú severo di noi (di me e di Maria), soprattutto piú giusto? ‑ Suppongo perché non potevo<br />
dominarlo, approfittarne come facevo <strong>con</strong> voi. Come lo ha divertito, la scoperta di quel cartello! Per<br />
noi quello di allora è il medesimo di ora, ma per lui è un altro. Di me non disse mai né scrisse « la<br />
mia mamma è cattiva ». Ma quello che suo padre ha avuto, io non l’ho mai avuto. Piú o meno in<br />
quel tempo C. dovette farsi operare. Lui disegnò un carro armato e mi disse di portarlo al papà in<br />
clinica. Aggiunse: ‑ Di<strong>gli</strong> che io l’ho fatto per lui. Non sembra credibile, soprattutto alla luce del<br />
comportamento di poi. Cosa vuol dire? Lui era sempre tutto in quello che diceva, allora; dopo, per<br />
trovare il tutto, bisognò ‑ bisogna ‑ intuire, capire il non detto.<br />
<strong>Io</strong> da bambina mi drogavo <strong>con</strong> le fiabe. A lui non ho mai rac<strong>con</strong>tato fiabe. Volevo difenderlo dalla<br />
paura. Lui aveva già, curiose paure. Quando aveva detto « c’è l’erba, ci sono i fiori », quel richiamo<br />
ai fiori non va inteso come una leziosità. Per lui i fiori erano presenze misteriose, pericolosi ordigni.<br />
Quando lo accompagnavamo in campagna, non si scostava dalla strada perché « aveva paura dei<br />
fiori ». <strong>Io</strong> avrei voluto che corresse in mezzo ai prati, ma lui dichiarò che intendeva sedersi sul<br />
bordo, sopra una sedia. La passione delle armi che <strong>gli</strong> è venuta poi, è nata dalla paura? Forse aveva<br />
aggredito il frate questuante non solo per gelosia. Cosí anni dopo quando spaventò la dottoressa<br />
puntandole <strong>con</strong>tro un fucile, o quando minaccia ‑ adesso ‑ eventuali nemici che volessero portar<strong>gli</strong><br />
via la sua Nenè. In tutti i casi però c’è sempre anche un fondo di gioco, di beffa. Se alla fine ride, è<br />
chiaro. Ride divertito se vede se stesso obbiettivamente, sorride sarcastico se guarda a<strong>gli</strong> altri.<br />
Qualche volta rimane scuro: segno che entra in gioco la collera, l’indignazione. Col tempo la paura<br />
è stata esorcizzata, ma non del tutto. In lui la paura è evidentemente frutto dell’immaginazione, vale<br />
a dire inventiva, creativa. Nei <strong>con</strong>fronti delle circostanze, pericoli, incidenti, è stato sempre fin da<br />
piccolo imperterrito. « Un fachiro », dice di lui il dentista, siccome rifiuta l’anestesia. Dunque non<br />
<strong>con</strong>osceva rac<strong>con</strong>ti paurosi. La <strong>prima</strong> volta che tornò dall’asilo, <strong>gli</strong> vedemmo un’aria eccitata, cupa.<br />
‑ Cos’è successo? ‑ C’erano <strong>gli</strong> assassini! ‑ Guardava fisso davanti a sé, caricava le parole come un<br />
attore. ‑ Gli assassini erano dentro i sacchi. Avevano il coltello. Correvano nel bosco ‑. Fu una delle<br />
rarissime volte che rac<strong>con</strong>tò qualcosa della scuola: l’emozione era stata troppo forte, non poteva<br />
quasi dominarla. Presto Pinocchio diventò il « suo » libro, e lui lo illustrò, su tanti fo<strong>gli</strong>etti. Nei due<br />
incappucciati neri <strong>con</strong> <strong>gli</strong> occhi bianchi, che puntavano su Pinocchio i loro coltellacci,
i<strong>con</strong>oscemmo <strong>gli</strong> assassini del suo rac<strong>con</strong>to del terrore. Fra <strong>gli</strong> esorcismi vengono in primo luogo i<br />
disegni. Non provavo sorpresa per quello che allora <strong>con</strong>sideravo segno di una vocazione. Può essere<br />
che l’esorcismo dopo aver funzionato si esaurisca, o si evolva: resta da vedere. Non provavo<br />
sorpresa per queste opere, ma le ammiravo. Mi rendevo <strong>con</strong>to che il loro senso e valore era<br />
paradigmatico di nient’altro che di lui come persona presente, oltre che futura. Non ipotetica,<br />
comunque. Come nella storia dell’umanità, temo che le sue opere perfette siano state le prime. Dico<br />
temo, perché lui non dispone come l’umanità di vite innumerevoli. Riguardo alla priorità<br />
l’incertezza è tra il disegno di un secchio da muratore e quelli di alcune figure sacre. Un elemento,<br />
non di stile né di <strong>con</strong>tenuto, è in favore delle figure sacre: la materia sulla quale il disegno è<br />
tracciato. Carta ruvida, da pacchi della spesa, usata, difatti è un po’ spiegazzata; <strong>gli</strong>el’aveva data<br />
Maria, come lei pure <strong>gli</strong> aveva proposto il modello. In seguito i suoi disegni furono eseguiti sul<br />
rovescio di certi moduli che <strong>gli</strong> forniva suo padre. I reperti sono due, il tema è il medesimo.<br />
Un’immaginetta di Maria, un Sacro Cuore, era servita da modello. Quello su carta color sabbia direi<br />
che è primo assoluto, perché è piú rigoroso, piú puro. La figura è un rettangolo verticale disegnato<br />
d’un solo tratto, sul quale poggia, un poco inclinato sulla spalla, un ovale appuntito in basso: la<br />
testa, attraversata in cima da un tratto irto di piccoli segmenti: la corona di spine. Gli occhi, grandi,<br />
guardano <strong>con</strong> stupore ma anche <strong>con</strong> terribilità. Segni netti, severi, simboleggiano il naso e la bocca.<br />
Dai lati, in alto, del rettangolo si dipartono due triangoli terminati al vertice da un nodo <strong>con</strong> cinque<br />
o sei raggi: le mani. Sul petto campeggia un piccolo cerchio sormontato da una croce: il cuore. La<br />
figura ha la maestà che ci si aspetta da un’immagine di Dio. L’altro disegno (su carta verde spento)<br />
viene se<strong>con</strong>do perché è piú abile, piú eloquente; le maniche sono piú importanti, piú mosse, il cuore<br />
è in forma di cuore, perfino <strong>con</strong> la fiammella. Questi disegni sono della <strong>prima</strong> casa; quelli di<br />
Pinocchio della casa di via Vespucci, perché lí andò all’asilo e lesse ‑ o me<strong>gli</strong>o si fece leggere ‑<br />
Pinocchio. Tutte le storie di Pinocchio e altre composizioni sacre, il Presepio, il Paradiso ecc. sono<br />
in stile piú drammatico, il segno è piú fluente, piú piacevole. C’è ironia, insomma; insieme alla<br />
meravi<strong>gli</strong>a c’è padronanza e perciò un minimo di compiacimento. Come accade appunto all’arte dei<br />
secoli meno religiosi.<br />
In quanto al secchio da muratore, sta a capo di una lunga serie di forme e oggetti realistici, che<br />
<strong>prima</strong> disegnò poi fabbricò lui stesso. La sua passione per <strong>gli</strong> oggetti-strumenti era incominciata<br />
quando aveva un anno, col martello di legno che il fratello di Maria aveva fabbricato per lui. Quel<br />
primo martello ne proliferò altri infiniti, piccolissimi, che lui si faceva fare da Maria col materiale<br />
deperibile che lei aveva sotto mano in cucina: torsoli di cavolo ripuliti, <strong>con</strong> fiammiferi per manico.<br />
Gridava nel sonno: ‑ Mi hai scopato i martellini! Noi ridevamo; siccome non amavamo <strong>gli</strong> oggetti<br />
(io magari certe cose naturali che uso racco<strong>gli</strong>ere: sassi, ossi, <strong>con</strong>chi<strong>gli</strong>e), non lo capivamo. Al<br />
solito, ci sembrava comico. Il secchio svasato lo vide sulle spalle dei muratori su e giú per le<br />
impalcature di una casa in costruzione. Appresi che il secchio da muratore è una cosa rara da una<br />
lettera della nonna. Scriveva che lei e il nonno avevano girato tutta Cuneo ma non era stato<br />
possibile trovare il secchio come lo voleva lui (piccolo suppongo) perché quelli veri sono d’un sol<br />
pezzo e fatti col getto. Gli ho domandato: ‑ Come ti trovavi da piccolo, <strong>prima</strong> di andare a scuola? ‑<br />
Bene, credo. Non avevo ancora scoperto di essere un disadattato! Lui usa i termini scientifici per la<br />
loro crudeltà, ma soprattutto ironicamente. Lo so, eppure sto male, in un primo momento. La stessa<br />
lucidità che ha ora l’aveva anche da bambino. Ma <strong>prima</strong> di assumere la sua posizione negativa,
ebbe un soprassalto di volontà (o fantasia) ottimista, quasi <strong>con</strong>formista. Per un certo tempo alle<br />
signore che si chinavano verso di lui dicendo: ‑ Che bel bambino! ‑ ribatteva brusco: ‑ <strong>Io</strong> non sono<br />
un bambino, sono un uomo! Se penso che non l’ha piú affermato nella vita! Ma è vero che io<br />
<strong>con</strong>sidero fatuo, in fondo, credersi davvero « un uomo »: da parte di un adulto intendo. Scendevo<br />
dal tram tornando da scuola <strong>con</strong> una collega, e in<strong>con</strong>travamo lui e Maria. La Gili si inteneriva,<br />
cercava di accarezzarlo: ‑ Che bel bambino! ‑ e lui rabbioso: ‑ Non sono un bambino, sono un<br />
uomo! Mi domando se fosse nel periodo della scuola Coppino. Vorrebbe dire che si affermava<br />
uomo proprio perché era al colmo dell’insicurezza: là i compagni erano furbi e prepotenti, la<br />
maestra inflessibile e stolida; ma non ho elementi per saperlo. Inclino a pensare che fosse lo stesso<br />
tempo in cui si dichiarava « lavoratore ». Se c’è uno che soffre, che detesta di dover lavorare, è lui.<br />
Però si spiega. Il lavoratore che lui ammirava e col quale si immedesimava, era il muratore ‑ come<br />
fu poi il macchinista, il fuochista, il camionista ‑ uno che maneggia strumenti, non paperasse. E in<br />
questo senso lui è davvero un lavoratore, ma ‑ qui è il punto, il motivo dell’orrore per il lavoro<br />
inserito ‑ lavoratore in proprio, in libertà. Naturalmente i suoi sono sempre lavori perfetti e<br />
grandiosamente inutili. Dice a suo padre che in ufficio ci sono <strong>gli</strong> straordinari, ma lui non va perché<br />
ha da fare a casa. ‑ Cos’è che fai, a casa? ‑ Una mitra<strong>gli</strong>atrice.<br />
Quando Turin, che stava per partire per l’America in seguito alle leggi razziali, venne a salutarci, al<br />
momento del <strong>con</strong>gedo, mentre col cuore stretto lo guardavamo scendere le scale, si voltò indietro<br />
ancora una volta e ci gridò: ‑ Fatene un uomo! Nel senso che intendeva Turin credo che lui lo sia,<br />
nonostante le apparenze <strong>con</strong>trarie: <strong>con</strong>trarie solo al punto di vista benpensante e mondano; perciò io<br />
dedico anche al nostro vecchio amico filosofo questa immagine di uno che non ha voluto diventare<br />
un uomo. Stavo perseguitandolo un po’ ‑ come faccio ogni tanto ‑ <strong>con</strong> la mia ammirazione; è<br />
sbottato: ‑ Ma non è vero niente! Invece io sono Pinocchio! Pinocchio rimasto burattino! Sapeva di<br />
dire una cosa tremenda, tragica; ma lui non ha paura della verità. E proprio per questo non è un<br />
burattino, ma un uomo. Quando era bambino noi pensavamo che Pinocchio era lui. Il lato ingenuo,<br />
fiducioso, avventuroso di Pinocchio era ben suo. E cosí un certo umor leggero che ha ancora specie<br />
se è lontano da noi; lo aveva <strong>con</strong> Maria, <strong>con</strong> la nonna, e poi <strong>con</strong> Nenè. Mentre il Pinocchio del «<br />
non lo farò piú », il « ragazzino per bene » che era già nel burattino, non è mai stato lui. Perciò non<br />
poteva mutarsi. Siccome non si può diventare quello che non si è già. Osservavo, quando era<br />
bambino, che delle grullerie di Pinocchio lui rideva come un grande, come adesso ride di se stesso<br />
ragazzo. Ci si ri<strong>con</strong>osceva forse già allora; ma soprattutto lo esilarava, penso, il tono del libro:<br />
l’allegria, la rapidità, la meravi<strong>gli</strong>osa <strong>con</strong>cretezza. Anch’io da bambina avevo quasi imparato a<br />
memoria Pinocchio; ma poi mi ero innamorata di un altro personaggio: Peter Pan. Ero già una<br />
ragazzina e i miei gusti influenzati da troppe letture erano un po’ estetizzanti. Lui non l’ha mai letto,<br />
che io sappia, e nemmeno udito nominare; ma io mi sono sempre sentita colpevole quando infinite<br />
volte l’ho inteso dire: ‑ Non vo<strong>gli</strong>o diventare grande! ‑ come se lo avessi <strong>con</strong>tagiato <strong>con</strong> quella mia<br />
vecchia passione per la fiaba decadente. Tutti riviviamo sempre la stessa avventura, perché le<br />
nostre avventure sono simboliche. Per lui la scuola Coppino è stata il modello non solo di tutte le<br />
scuole, ma anche dell’ambiente di lavoro, di tutte le comunità insomma. Cosí anche l’altra,<br />
s’intende, la scuola delle suore francesi. La Coppino di quelle dove non ha potuto vivere; quella<br />
delle suore dei posti dove è stato tollerato, benvoluto. Come l’ufficio dove lavora adesso: <strong>con</strong> tutto
che lui lo detesta in quanto simbolo di mediocrità, di noia, è pure fatto su misura per lui e, come<br />
dice suo padre, un minimo male nella categoria. Noi lo choc l’abbiamo avuto già il primo giorno<br />
che andò all’asilo. Ci guardavamo: cosa farà? <strong>Io</strong> non seppi resistere e telefonai. Mère Marie Ange<br />
mi rispose <strong>con</strong> la sua voce flautata ma ferma: ‑ Sta giocando coi suoi compagni ‑. L’irrealtà di<br />
questa immagine era tale che mi rassegnai, rinunziai per sempre a voler sapere. Come adesso, se mi<br />
accade di pensare che lui è in un ufficio (se telefonassi mi direbbero « sta lavorando coi suoi<br />
colleghi ») l’irrealtà della cosa mi appare altrettanto evidente. È rassicurante, in fondo. <strong>Io</strong> lo penso<br />
anche adesso « all’asilo ». Lo so che sono luoghi troppo puerili per lui; eppure sono i soli dove<br />
possa stare protetto, non offeso. Nella scuola delle suore fu abolita la paura. Non che lui fosse «<br />
adattato » neanche lí, però non risultava un reietto. Era, anzi, amato: dalla maestra, anziana ragazza<br />
brutta e dolce, da Mère Marie Ange estrosa lei stessa. ‑ Pigro? È la troppa intelligenza che lo<br />
stanca, ‑ disse Mère Marie Ange seria scandendo le parole e guardandomi ne<strong>gli</strong> occhi coi suoi occhi<br />
penetranti. Sospettai una sorta di ruffianeria, dato l’ambiente; ma perché poi? Forse semplicemente<br />
<strong>con</strong> la sua fantasia, bizzarria lui la divertiva; ma poteva anche essere che davvero lo giudicasse<br />
geniale, non come bambino e tanto meno come scolaro, ma come uomo, come tipo umano. Lui per<br />
<strong>con</strong>to suo adottò fin da allora quella che fu poi sempre la sua divisa: essere l’ultimo. Pareva un’altra<br />
versione del suo « essere cattivo »; ma era una cosa diversa. Non era un’accettazione di inferiorità,<br />
bensí un’affermazione di singolarità. In questo era proprio il <strong>con</strong>trario di Pinocchio. Gli facevamo<br />
osservare che la sua scelta non era neanche, tutto sommato, la meno scomoda. La ragione che lui<br />
dava era questa: ‑ Vo<strong>gli</strong>o essere l’ultimo perché non posso essere il primo. <strong>Io</strong> avevo esperienza di<br />
scuola e detestavo l’idea arrivista e <strong>con</strong>formista di « primo della classe ». Ma l’ultimo non era la<br />
stessa ambizione rovesciata? C’era dunque orgo<strong>gli</strong>o, e persino vanità. Ebbene, non piú di quanta ne<br />
occorra un po’ a tutti per vivere; come si poteva dedurre dalla sua fondamentale, nativa indifferenza<br />
al giudizio altrui. È vero soltanto che lo divertiva, per poco, il successo, nel suo caso il successo<br />
negativo, il piccolo momentaneo scandalo scolastico. Ma non <strong>gli</strong> riuscí nemmeno sempre di essere<br />
ultimo; anzi, in quella scuola era addirittura dei primi. Aveva anche dei veri successi. Non voleva<br />
ammetterlo. Dal collega Gliozzi, il papà della sua compagna Peppinella, venivo informata che<br />
aveva per esempio avuto un dieci di problema. Lui negava. Temeva di essere irretito, penso. Del<br />
resto in quella scuola delle suore tutto per lui era gioco. Gli accadeva ancora di essere<br />
improvvisamente preso dalla gioia ‑ in reazione all’uggia scolastica, suppongo ‑ e si metteva a<br />
cantare. Non lo punivano. Era diseducativo? Intanto, qualunque cosa era me<strong>gli</strong>o della paura (lo<br />
penso anche adesso). Quando andava alla Coppino aveva allucinazioni, la notte, incubi. E del resto<br />
dalle suore quello che occorreva <strong>gli</strong>elo insegnavano. Senza <strong>con</strong>tare il maggior vantaggio, in quei<br />
tempi: il fatto che le suore (francesi) sorvolavano sull’istruzione fascista. Qualche massima del<br />
Duce, qualche commemorazione patriottica, magari soltanto annunziata, nominata.<br />
Persino nella religione non erano <strong>con</strong>formiste. Dovevano pensare, come Maria, che coi bambini<br />
non è bene insistere per non creare l’odiosità e ridurre la preghiera e la dottrina al meccanico.<br />
Senonché lui era già razionalista. Con tutta l’audacia e l’apparente profondità che la cosa comporta.<br />
Aveva uscite memorabili, e chi le apprezzava era proprio il maestro di religione, un prete. A me lo<br />
riferiva Mère Marie Ange, e mi assicurava che il prete non solo non si turbava per quelle battute,<br />
ma se ne <strong>con</strong>solava. Doveva essere religioso sul serio. (Perché non sono mai andata a parlar<strong>gli</strong>?
Dev’essere che ero razionalista anch’io, e presuntuosa, siccome ne avevo coscienza). Una di queste<br />
uscite, che erano poi esclamazioni, <strong>gli</strong> venne fatto di lanciarla davanti a noi a casa, provocato da un<br />
versetto biblico che si trovava nel suo libro di scuola « <strong>Io</strong> sono il Signore, Dio de<strong>gli</strong> eserciti »: ‑ Dio<br />
non mi piace. Sembra il Duce! ‑ Era serio, scandalizzato sul serio. (Non so se <strong>gli</strong> abbiamo spiegato<br />
che la somi<strong>gli</strong>anza era alla rovescia; ma era implicito). Qualche volta le frasi parevano nate da un<br />
umore sarcastico, volterriano. Le diceva a voce alta, ma come parlando tra sé. A proposito della<br />
Madonna assunta in cielo: ‑ Chissà come si troverà male, lei sola col corpo! Il prete per nulla<br />
sbalordito disse che se<strong>con</strong>do lui il bambino era portato alla disputa teologica. ‑ A cosa servivano le<br />
unghie dei leoni nel Paradiso terrestre? ‑ domandò al prete. Siccome i leoni fraternizzavano <strong>con</strong> le<br />
gazzelle, come si vedeva nelle illustrazioni. (Aveva intuito il principio di Lamark!) Quando il prete<br />
lo preparava per la Prima Comunione, lui <strong>gli</strong> domandò, <strong>con</strong> l’aria di propor<strong>gli</strong> un aut-aut: ‑<br />
Nell’ostia c’è proprio Gesú? Al sí ebbe un gesto di delusione, quasi di sdegno: ‑ Allora è come <strong>gli</strong><br />
idoli dei pagani! Anche di questo il prete si dichiarò ammirato. La <strong>con</strong>siderò una sotti<strong>gli</strong>ezza<br />
teologica, magari s<strong>con</strong>finante nell’eresia ma compatibile in un bambino. Ri<strong>con</strong>obbe penso<br />
l’impegno, il rischio di chi non acco<strong>gli</strong>e <strong>con</strong> indifferenza, supinamente, la dottrina e i misteri. Il<br />
fatto che riuscisse <strong>con</strong> la logica a mettere in difficoltà perfino la Bibbia mi rammentava analoghe<br />
demolizioni da parte del mio grande zio Peano. Che fosse lui finalmente l’erede? Ne dubitavo.<br />
Avevo bene appreso dallo zio stesso che il calcolo non è la matematica, che l’abilità nel calcolo non<br />
significa disposizione per la scienza; ma mi domandavo se fosse possibile che un futuro matematico<br />
non volesse saperne di imparare la tavola pitagorica. Non so se sia stata <strong>prima</strong> la sua logica a farmi<br />
pensare allo zio Giuseppe. In certi momenti lo evocava nei modi: la facoltà di astrarsi, di ignorare la<br />
presenza de<strong>gli</strong> altri e anche la propria; <strong>gli</strong> scoppi di allegria improvvisa, o di insofferenza e di<br />
<strong>impazienza</strong>; la risata nervosa, sussultante e persino certi lampi disarmanti di sorriso indulgente,<br />
dolce. Lo strano era che lui bambino assomi<strong>gli</strong>ava allo zio come io l’avevo <strong>con</strong>osciuto, cioè vecchio<br />
(era zio di mia madre). Anche adesso <strong>gli</strong> somi<strong>gli</strong>a. Anche adesso la logica governa il suo<br />
agnosticismo, <strong>gli</strong> detta la battuta repentina, lucida, giusta. La <strong>con</strong>centrazione lo fa passare immune<br />
in mezzo alla gente. Cosa pensava lo zio in quei momenti lo so: tirava fuori dalla tasca della giacca<br />
un pezzo di carta e scriveva delle formule. E lui, cosa pensa? Se <strong>gli</strong>elo domando risponde: ‑ Non so<br />
‑. Capisco che è per scrollarsi la seccatura, ma rimango male. In quel tempo dei suoi sette-otto<br />
anni, usciva qualche volta dal suo incantato silenzio <strong>con</strong> una frase breve, astratta e un po’<br />
misteriosa, tanto che sembrava <strong>gli</strong> fosse dettata, come accadeva ai profeti. La forma era astratta, ma<br />
a rifletterci il senso era <strong>con</strong>facente a lui nel modo piú diretto. La piú <strong>con</strong>cisa la mormorò,<br />
fermamente, mentre stava per affrontare, al solito senza vo<strong>gli</strong>a, la minestra posta davanti a lui sulla<br />
tavola. Guardava assorto davanti a sé, e disse: ‑ Me<strong>gli</strong>o il non essere che l’essere. Mi rendevo <strong>con</strong>to<br />
che la frase era filosofica solo in apparenza; però rimasi senza fiato. Che la sua disposizione per la<br />
logica fosse di uno che è per diventare col tempo un filosofo, non era poi da escludere; anzi, era uno<br />
sbocco abbastanza naturale. Del resto la frase si può spiegare, si può risalire all’occasione vo<strong>gli</strong>o<br />
dire. Doveva essere suggerita proprio dalla minestra. La portata filosofica non era <strong>con</strong>sapevole, però<br />
l’astrattezza rendeva universale quel pessimismo che purtroppo in lui era organico e si manifestava<br />
appunto col disgusto davanti al cibo, all’impegno vitale. Per quel senso sofferto e insieme<br />
impersonale, non era filosofia ma poesia. La stessa idea, in fondo, <strong>gli</strong> suggerí l’uscita di nuovo<br />
apparentemente filosofica, ma in sostanza ironica e patetica: ‑ Non si può rinunziare alla vita eterna?
Questa volta non era irrisione, logica distruzione, ma grido del cuore; infatti lo spiegò subito dopo,<br />
aggiungendo: ‑ <strong>Io</strong> dopo morto vo<strong>gli</strong>o star tranquillo. Temo di aver soltanto riso; del resto lui non<br />
badava alle mie reazioni. Una frase poteva prendere forma di immagine, come quando disse: ‑ La<br />
ruota dell’intelligenza non può incastrarsi nell’asse della vita ‑. (Siccome si incantava e non andava<br />
avanti a vestirsi). È già un esempio del suo gusto surrealista-barocco, e della sua capacità di<br />
co<strong>gli</strong>ere la carica espressiva de<strong>gli</strong> oggetti, soprattutto de<strong>gli</strong> strumenti, che è stato sempre poi il<br />
perno della sua poetica. Dunque scompariva l’eventuale matematico? Non che io pensi ‑ né adesso<br />
né allora ‑ a una incompatibilità della logica <strong>con</strong> la poesia. Hanno in comune la nettezza, la<br />
fulmineità, lo scatto. Sono entrambe una presa di possesso e di trasformazione della cosiddetta<br />
realtà. Eppure la passione logica porta appunto alle formule e la passione delle immagini alla<br />
poesia. Possono coesistere? Difficili coesistenze possono darsi in un uomo; se non nelle culture<br />
dominate da<strong>gli</strong> interessi, dalla pratica obbligante e livellatrice. In lui prevaleva, mi sembra, la<br />
facoltà formativa. Tale facoltà era rintracciabile anzitutto nei suoi compiti di scuola; dai quali la sua<br />
maestra si <strong>con</strong>tentava di depennare <strong>gli</strong> errori di ortografia. Spesso la maestra deplorava l’orrenda<br />
scrittura. Infatti quando era stanco e irritato, i caratteri erano cosí aguzzi, uncinati, che parevano<br />
persino cattivi (e perciò penosi). Macchioline e altri segni erano spunti alla sua immaginazione. Con<br />
minimi ritocchi diventavano porcellini, orsi, elefanti. Le virgole diventavano sciabole (per la<br />
suggestione della curva) <strong>con</strong> l’aggiunta di un’elsa. Costellavano anche i quaderni di bellacopia, <strong>con</strong><br />
effetto di fantasia, quasi di follia. La vena crudele, associata all’umorismo, era anche nei testi: «<br />
Oggi un’amica della mamma mi ha detto di fare un disegno di bambini che es<strong>con</strong>o da scuola e io ho<br />
fatto tanti ragni ». La sua maestra non <strong>gli</strong> rimproverava immagini cosí s<strong>con</strong>volgenti. Giudicò buono<br />
il suo tema « Il giocattolo preferito », che per lui era « una latta senza fondo e senza coperchio <strong>con</strong><br />
un buco laterale quadrato ». Quella latta l’aveva posseduta a Boves e, scrisse, « raffigurava una<br />
stufa. Le mettevo sopra una lamiera e poi due striscie di metallo e su quelle striscie mettevo una<br />
pentola <strong>con</strong>tenente un po’ di catrame. Dentro la latta mettevo della legna, poi la accendevo e<br />
mettevo della sabbia <strong>intorno</strong> perché non pi<strong>gli</strong>assero fuoco le cose che c’erano vicino ». Lamiera,<br />
catrame e fuoco sono stati sempre elementi della sua cultura. Se il compito era « Scrivere nomi di<br />
cose », le cose che <strong>gli</strong> venivano in mente erano: « treno, rotaia, stantuffo, ruota, vite, bullone ». Le<br />
cose <strong>intorno</strong> a lui le vedeva <strong>con</strong> un’amplificazione che le rendeva piú rispondenti alla sua fantasia.<br />
Tema « La mia cartella ». « La mia cartella è di cuoio vero, essa è fortificata e smeri<strong>gli</strong>ata, ha<br />
nell’interno due quaderni e l’astuccio: ha una lamiera d’acciaio <strong>con</strong> sei bulloni: ha due serrature <strong>con</strong><br />
chiavette di ottone e un bel libro foderato. E molte misere matite ». La maestra lo pregò di rifare<br />
<strong>con</strong> calma. Diventò: « La mia cartella è di cuoio verissimo, fortificata da una infinita sbarra di<br />
acciaio <strong>con</strong> sei bulloni di acciaio anch’essi, nell’interno un libro di 257 pagine ». Tema « La mia<br />
casa » . « La mia casa è un magnificissimo palazzo, ha una lussuosa scala di marmo purissimo. La<br />
mia casa è composta di sei grandi camere: la camera da letto di Maria, la camera da pranzo<br />
illuminata da tre lampade e le altre da una sola. La camera che io preferisco è la cucina perché è<br />
piccola e perché ci gioco sempre tutto l’eterno giorno <strong>con</strong> Maria ». Seguiva il disegno in cui la<br />
dignitosa e banale casa di via Vespucci appariva come una « Casa dalle sette torri », <strong>con</strong> evidenza di<br />
grondaie dalle quali uscivano potenti getti d’acqua rimbalzanti all’<strong>intorno</strong>. Ma piú ancora dei<br />
comignoli e delle grondaie era evidente, <strong>con</strong> sfoggio di chiavistelli, il portone sprangato (nella<br />
realtà sempre aperto). Di cardini, chiavarde, lucchetti furono sempre muniti anche tutti <strong>gli</strong> oggetti
che fabbricò lui stesso. Significano segretezza, sembrerebbe, o difesa, cioè paura; lo stile invece<br />
rivela chiarezza, sicurezza: in quanto sono disegnati <strong>con</strong> forza, quasi <strong>con</strong> violenza, e <strong>con</strong> precisione<br />
da artigiano. Un altro disegno di scuola fu « La cella di Silvio Pellico ». Catene, catenacci e<br />
catenelle corrono tra una finestra dalla enorme inferriata e una porta munita di chiave e lucchetto;<br />
ragnatele a<strong>gli</strong> angoli dei riquadri della finestra; nell’interno si vede una sedia, e Silvio Pellico: <strong>con</strong><br />
<strong>gli</strong> occhiali, i baffi e il cappello in testa, l’aria un po’ incantata e un po’ vittima. Grande spazio è<br />
lasciato al cielo e al cortile dove sta un bambino, il « mutolino », e una panca di legno (si vedono i<br />
nodi); nel cielo il sole grande e giallo, e uccelli in volo. L’invadenza dei chiavistelli <strong>con</strong>trasta col<br />
cielo e <strong>con</strong> <strong>gli</strong> uccelli: <strong>con</strong> la libertà. Nello stesso quaderno seguono variazioni del tema. Su un<br />
angolo di casa campeggiano due portelli, uno chiuso e uno aperto, entrambi rigorosamente costellati<br />
di cardini, catenelle, chiavi, spranghe bulloni e viti. Il segno è al solito robusto e nervoso: fa<br />
sembrare allegra l’ossessiva abbondanza della ferramenta. Il portello aperto lascia vedere una<br />
finestra <strong>con</strong> tendine sulla quale è abbassata una saracinesca. Sul muro, accanto alla finestra, appesa<br />
a un chiodo ben visibile (niente nei suoi disegni è mai campato a caso nello spazio) una gabbia<br />
munita di sportello <strong>con</strong> la sua catenella, e dentro la gabbia un uccellino. L’uccellino arruffato,<br />
agitato, grida. ‑ AIUTOOO... Non è la spiegazione di tutto? A fianco della casa un albero, e su un<br />
ramo un uccello in forma di civetta, nero <strong>con</strong> <strong>gli</strong> occhi rotondi bianchi. Grida: ‑ cucucu... Un canto,<br />
credo, di lutto.<br />
È terribile pensare che quell’uccellino era lui. Per questo, desiderava tanto possedere un uccello? «<br />
Non ho tanta vo<strong>gli</strong>a di andare a scuola, ma la mamma mi ha promesso un uccellino ». Purtroppo<br />
non ero abbastanza matura per capire l’importanza e procurar<strong>gli</strong>elo davvero. Magari me lo<br />
proponevo, e poi mi pareva una seccatura. Accadde una storia penosa (e comica anche). Eravamo<br />
andati io e lui in bicicletta a Bruino dal professor Pastore. Ero preoccupata, ma riflettevo che erano<br />
persone, Pastore e sua mo<strong>gli</strong>e, buonissime, pazienti. Terminato il tour du propriétaire come diceva il<br />
professore, mi accorgo che lui non è <strong>con</strong> noi. Lo chiamo, lo cerco; finalmente lo trovo dietro la<br />
casa, eccitato e insieme costernato. Per terra, davanti a lui, la strage: un nido in pezzi e <strong>gli</strong> uccellini,<br />
nudi, morti (a sassate: aveva un occhio infallibile). Adesso posso vedere lui stesso come un<br />
uccellino spaventato, ma allora lo guardai <strong>con</strong> orrore: un assassino! Devo aggiungere che sempre,<br />
anche adesso, lui mi sorprende in modo violento; o me<strong>gli</strong>o, forse, violenta è la mia reazione, e lui<br />
mi guarda <strong>con</strong> ironia ‑ se va bene ‑ e aspetta che io capisca. Pastore, affranto ‑ figurarsi: pacifista,<br />
naturista ‑ si premeva la mano sul cuore. <strong>Io</strong> mi tiro dietro lui e scappo pedalando furiosamente.<br />
Quando finalmente lo lasciai parlare ‑ parlavo sempre io, domande e risposte ‑ disse che aveva<br />
sperato di far cadere dal nido un uccellino vivo per portarselo a casa. Anche adesso ama le bestie: di<br />
un amore carnale, fraterno. Con esse è tenero, generoso, paziente; e anche esse lo amano, si capisce.<br />
Del resto lui è piú pacifista e naturista di Pastore.<br />
Conosceva <strong>gli</strong> uccelli dal giardino di fronte. Entrarono nelle sue poesie. Compose poesie nel <strong>giro</strong> di<br />
un anno (scriveva in calce la data) il suo settimo di età. Le riscriveva piú volte, <strong>con</strong> leggere varianti<br />
specie nel ta<strong>gli</strong>o dei versi. Si vede che <strong>gli</strong> venivano tutti insieme e lui dap<strong>prima</strong>, nella fretta e<br />
soprattutto per mancanza di pratica, li scriveva <strong>con</strong> la <strong>con</strong>tinuità della prosa; poi il ritmo si
imponeva. Sapeva bene di cosa si trattava, perché scriveva in capo al fo<strong>gli</strong>o POESIA. Divido le sue<br />
poesie in due gruppi: le idilliche e le metafisiche.<br />
La <strong>prima</strong> che scrisse idillica incomincia<br />
Di sera il mio bel giardino<br />
è avvolto in un canto d'uccelli<br />
e termina<br />
è pieno d'uccelli che sembrano<br />
grossi aeroplani lontani.<br />
L'ultima immagine, cioè la sua prospettiva invertita, è nuova.<br />
Se avesse <strong>con</strong>tinuato su quella strada avrebbe <strong>con</strong>tribuito alla liberazione<br />
della natura nel senso moderno, cioè di integrazione della<br />
natura nella meccanica. Col solo titolo « poesia » è quella che ritengo<br />
se<strong>con</strong>da nell'ordine di composizione.<br />
fra il verde oscuro<br />
de<strong>gli</strong> alberi di notte<br />
sta l'usignuola a cantare<br />
e al mattino l'usignuolo non c'è piú<br />
ma vengono le rondini al suo posto a cantare<br />
a quel canto la gente si desta<br />
e ognuno fa il proprio lavoro<br />
L'usignolo è una (frusta) immagine letteraria; non per lui, che<br />
lo aveva familiare dal giardino di fronte; infatti distingue i tempi<br />
del canto. Gli ultimi versi sono un omaggio alla vita attiva: non era<br />
ancora stato offeso dalla necessità.<br />
Una che mi sembra minore la metterei qui, sebbene abbia motivo<br />
di credere che sia addirittura l'ultima, e infatti non è molto<br />
« ispirata ». Ma è tutto sommato un idillio, quasi uno scherzo.<br />
L'allodola<br />
Un giorno vidi un uccello tanto alto<br />
che stava fermo su una nube<br />
mentre cantava striiiiii! striii! striiiii!<br />
da bucar le orecchie<br />
È una bella immagine; e il suono del canto è musicalmente nuovo.<br />
Simile a questa, cioè altrettanto netta e spaziosa, ma forte e senza<br />
scherzo è La nuvola.<br />
La nuvola<br />
Una sera vidi
una solitaria nuvola nel cielo<br />
che alla mia vista assomi<strong>gli</strong>ava<br />
a una casa incendiata<br />
la casa era tutta nera<br />
e il fuoco rosso come il ferro<br />
quand'è rovente<br />
Questa e le seguenti vanno raggruppate insieme, per un respiro<br />
cosmico che tutte possiedono. Questa della nuvola può apparire<br />
un effetto di colore, infatti lui è anche pittore. Vo<strong>gli</strong>o annotare<br />
come prova della sua coscienza nel lavoro due correzioni fatte<br />
alla <strong>prima</strong> stesura. Cancellò un « mentre mangiavo » iniziale e un<br />
« bella » davanti a « sera »: si era reso <strong>con</strong>to dell'ingombro di quell'annotazione<br />
veristica, come dell'inutilità di quel generico e lezioso<br />
« bella ».<br />
Senza titolo è quella che incomincia « nel tristo e cupo inverno<br />
». Devo notare e vale anche per le altre la scrittura, importante<br />
in questi testi quasi come nei testi dei poeti giapponesi. È una<br />
scrittura libera, cioè disordinata, aggressiva; di tipo zen insomma.<br />
Non cattiva, non distorta dalla sofferenza della costrizione; ampia<br />
e storta come in un allegro di danza; e si sa che l'« allegro » può essere<br />
anche tragico, come effetto d'arte.<br />
Nel tristo e cupo inverno<br />
non canta piú la dolce serenata dei placidi uccellini<br />
Solo in qualche terra in cui sono massi e pesanti pezzi di ghiaccio<br />
e là vive il canto dei pinguini.<br />
Non credo che il canto dei pinguini sia da intendere naturalisticamente.<br />
Quell'« e » dell'ultimo verso <strong>gli</strong> serviva come slancio e<br />
distacco.<br />
Il naufragio<br />
La nave evitar lo sco<strong>gli</strong>o potuto non aveva.<br />
E fra frammenti di roccia e di legnami<br />
urla d'orrore e di spavento.<br />
E dopo il naufragio assi galleggianti<br />
e pezzi di roccia rotolanti nel mar moto.<br />
Il « naufragio » è un tema piú <strong>con</strong>forme alla fantasia di un bambino;<br />
ma qui c'è una terribilità inedita: lo sco<strong>gli</strong>o infranto dalla<br />
nave, e quell'invenzione finale.<br />
Il « treno fantasma » si ricollega alla « nuvola » per il colore; ma<br />
c'è la novità del movimento, e del mistero.<br />
Il treno fantasma
Nell'oscura notte macchiata di stelle<br />
s'ode un rumor cupo<br />
E una figura nera appare<br />
ma dalle ruote una luce rossiccia<br />
illuminar le lucenti rotaie<br />
e poi l'ombra dileguare nel buio.<br />
« È piú difficile scrivere le poesie che i rac<strong>con</strong>ti. Una parola, trovare le altre parole. Un verso,<br />
leggerlo per vedere se si accompagna <strong>con</strong> il seguente e col precedente. Leggerlo perché suggerisca<br />
il seguente, ecc. ». È un pensiero suo (trascritto letteralmente da me), di poco posteriore alla<br />
composizione delle poesie. Dà perfino un senso di malessere, tanta coscienza. D’altronde non è<br />
giusto sgomentarsi per la lucidità perché è precoce. Ma in seguito, ogni volta che ho accennato alle<br />
sue poesie, si è sempre rivoltato: ‑ Non è vero! ‑ come se <strong>gli</strong> avessi rinfacciato un compromesso, un<br />
cedimento. Si rivoltava <strong>con</strong>tro la letteratura che lui chiama « il marmo ». Cioè le poesie che <strong>gli</strong><br />
facevano leggere a scuola. (Solo quando in<strong>con</strong>trò Leopardi reagí in un altro modo: ‑ Come mai<br />
fanno leggere Leopardi a scuola? ‑ Non capivo dove volesse parare: ‑ Perché? ‑ A scuola fanno<br />
leggere Carducci, Pascoli). Bisogna soprattutto far parte al pudore, alla vergogna dello scoprirsi<br />
poeta, alla difficoltà di accettarsi tale. Il suo rifiuto aveva un senso amaro, denigratorio. Infatti<br />
adesso ammette la cosa, ma in modo ancor piú negativo: ‑ Può essere. Da bambino ero snob. <strong>Io</strong> ne<br />
soffro, perché rivedo quel bambino pallido, solitario, ingenuo, e mi pare di offenderlo. Siccome<br />
però una sfumatura di snobismo è in tutti i poeti, ci può essere del vero. Scrivevo a Turin (in<br />
America): « Nostro fi<strong>gli</strong>o è sempre piú diverso dal “Pinotö” di Cuneo. È lungo, pallido, bello e<br />
pigro, ipersensibile, egoista. Fa molte cose strane, ha fatto <strong>con</strong> la cera bellissimi animali. Pare abbia<br />
molte attitudini, meno quella di fare i suoi doveri. Dice che non <strong>con</strong>osce il rimorso. È candido come<br />
un <strong>con</strong>tadino e ragiona come un sofista » . Lo presentavo come un esteta e, quel ch’è peggio, me ne<br />
compiacevo. Ero io magari un po’ snob; ma volevo anche alleggerire, scherzare. Sapevo che quello<br />
che dicevo componeva un’immagine di « futuro artista »; perciò giocavo sul vuoto del futuro, sulla<br />
mia paura, sul dolore. Si può rilevare dalla lettera qualche notizia. Una è pedagogica: « dice che<br />
non <strong>con</strong>osce il rimorso ». Quel « dice » indica che io l’avevo intrattenuto sulla questione. La frase<br />
rientrava nel « ritratto d’artista »: volevo aggiunger<strong>gli</strong> la dimensione morale. L’altra notizia è quella<br />
su<strong>gli</strong> animali di cera. È <strong>con</strong>fermata da un tema: « Sono andato a visitare il laboratorio di zia Lili. Ho<br />
visto il Museo dove ci sono tanti scheletri di animali che mi facevano paura. La zia mi ha fatto<br />
vedere la stanza de<strong>gli</strong> animali vivi: c’erano rane, rospi, tritoni salamandre e pesci. Alla fine ho visto<br />
la stanza dove lavora mia zia:, ho osservato col microscopio un piccolo insetto e un preparato su<br />
vetrino. Ho raccolto la paraffina che era sotto le macchine per farla fondere a casa ». Con la<br />
paraffina (non <strong>con</strong> la cera) modellò tutto uno zoo. Ogni esemplare era grosso press’a poco come un<br />
pollice; ciascuno aveva l’eleganza e la maestà della sua natura. Al serpente boa aveva girato <strong>intorno</strong><br />
un filo a doppia spirale per ottenere l’effetto delle squame. Gino Levi M. voleva fotografarli e<br />
pubblicarli su Casabella. (Mi accorgo che sto per rimpiangere un successo, una carriera). Il « suo »<br />
<strong>con</strong>cetto di successo e carriera (di allora e di poi) lo illustrerò <strong>con</strong> un fatto. Aveva meritato un<br />
premio a scuola, e la direttrice <strong>gli</strong> disse che poteva chiedere quello che voleva. Lui raccolse nel<br />
giardino delle suore un certo numero di sassi, e quando Maria andò a prenderlo, le mise sulle<br />
braccia il pacco. Alla sua domanda rispose che <strong>con</strong> quei sassi intendeva « costruire una stufa ».
Domandò: ‑ L’arte è ciò che piace, o esiste in sé? Lo domandava a se stesso; anzi, semplicemente<br />
formulava la domanda, anche se la rivolgeva a me. Ciò fu poi sepolto sotto tale cumulo di<br />
estraneità, di silenzi, di rivolte, che avevo dimenticato tutto; forse avrei ricordato solo l’aria assorta<br />
che aveva lui in quei momenti, e che c’erano stati momenti in cui usciva <strong>con</strong> proposizioni come<br />
questa: la cui formulazione è tecnicamente filosofica. Non posso non domandarmi come ciò fosse<br />
possibile. D’arte sentiva parlare da me, <strong>con</strong> Casorati, <strong>con</strong> Paola, magari al telefono. « Mia madre ha<br />
il telefono a tracolla ». Già allora mi trovava ridicola, vedeva nel mio aspetto appassionato qualcosa<br />
di teatrale. L’ho capito dopo, da come mi ha giudicata in seguito. Allora lo trovavo spiritoso, in<br />
fondo pensavo che la sua limitazione infantile <strong>gli</strong> impedisse di ri<strong>con</strong>oscere la mia parte seria. « Mia<br />
madre discorre sempre di nature morte ». Ricordo queste frasi delle quali si rideva, mentre ho<br />
dimenticato quelle piú importanti: che dovevano pur avermi colpita, se le ho <strong>con</strong>servate. « E se la<br />
filosofia mi domandasse perché siamo nati? <strong>Io</strong> <strong>prima</strong> ho risposto <strong>con</strong> la religione: perché ci ha creati<br />
Dio. Poi ho <strong>con</strong>tinuato a pensare da me e mi sono domandato: perché c’è Dio? e non sapevo<br />
rispondere ». « Pensare da me »: è lo stacco, rischioso, di uno che si avventura nella ricerca; « non<br />
sapevo rispondere »: scopriva il limite del pensiero (come Emmanuele Kant nei Prolegomeni ad<br />
ogni metafisica futura). Certe volte le sue riflessioni erano piú circoscritte o per lo meno <strong>con</strong>osco<br />
l’occasione. Gli osservavo le linee della mano e lui disse: ‑ Ma non è una superstizione? ‑ Forse sí. ‑<br />
L’hanno inventata quelli che scrivono le fiabe. Aveva intuito (come Goethe) che la superstizione è<br />
fantasia, e che le fiabe sono legate al sacro. Quando ragionava il bambino, vale a dire in modo<br />
diretto, immediato, non astratto, era di nuovo poeta: « Se non ci fossero i bambini, <strong>gli</strong> altri<br />
invecchierebbero e morirebbero e poi tutto sarebbe finito e la terra diventerebbe un pianeta<br />
qualunque ». Quel qualunque vuol soltanto dire « come tutti <strong>gli</strong> altri »; ma ha una punta spregiativa,<br />
un po’ comica. Comico e insieme patetico il pianeta che è « qualunque », e il bambino che<br />
<strong>con</strong>sidera l’universo. Non <strong>con</strong>osceva il rimorso. Non aveva la sensibilità morale proprio perché era<br />
un teoretico. Come me del resto: da ragazza io avevo pensato questo di me. Ora soprattutto amavo<br />
dipingere; e se avessi potuto sce<strong>gli</strong>ere per lui una vita, avrei voluto quella del pittore. Quella vita<br />
avrebbe avuto poco a che fare <strong>con</strong> la morale: nel senso che sarebbe stata spontaneamente ‑ non<br />
tormentosamente ‑ morale. Senonché, mentre ri<strong>con</strong>oscevo in lui fraternamente l’attitudine<br />
anarchica, avrei voluto come tutte le madri che diventasse un rispettato homme de bien. In realtà<br />
detestavo l’homme de bien; però mi sorprendevo a <strong>con</strong>siderarlo comodo. Lo desideravo per lui:<br />
perché era come immaginarlo uomo pratico, autorevole. Immagine subito dopo odiosa, e del tutto<br />
irreale comunque. E suo padre non lo era, un right man? Lo era anzi in modo quasi eroico,<br />
disturbatore de<strong>gli</strong> altri <strong>con</strong> l’esempio silenzioso: cosí che risultava scandaloso anche lui per un altro<br />
verso. Non mi aspettavo che nostro fi<strong>gli</strong>o <strong>gli</strong> assomi<strong>gli</strong>asse. Prendevo su di me l’ereditarietà di tutte<br />
le debolezze. Temo che il fatto dei rimorsi riguardasse per esempio un certo suo comportamento<br />
crudele nei miei riguardi. C’era tutta una gamma di tali crudeltà che variavano se<strong>con</strong>do che erano<br />
immaginarie cioè innocenti anzi inesistenti, oppure nascevano da una vena di sadismo, e come tali<br />
potevano essere non del tutto innocenti. Il medico aveva <strong>con</strong>si<strong>gli</strong>ato per lui l’aria di mare. Ma il<br />
mare lo rendeva infelice e perciò cattivo. Sulla spiaggia invece di fare come <strong>gli</strong> altri bambini i soliti<br />
castelli di sabbia umida, <strong>con</strong> la sua paletta lanciava in aria la rena asciutta che il vento soffiava ne<strong>gli</strong><br />
occhi a me e alla gente. <strong>Io</strong> lo scuotevo <strong>con</strong> rabbia, dalle tende <strong>intorno</strong> protestavano. Lui non<br />
reagiva. Magro, il faccino pallido stranito, increspato in tutta quella luce, era insieme odioso e<br />
pietoso. Il primo anno al Forte eravamo lui e io <strong>con</strong> le mie sorelle; alloggiavamo in una pensione, e
nelle ore calde del giorno cercavamo di dormire in camera. Lui che non dormiva mai, aveva<br />
inventato un supplizio: appena stavo per prendere sonno mi strappava a uno a uno i peli delle<br />
gambe. Un torturatore, un perverso pensavo: dopo il mare morivo di sonno. Lui aveva un’ombra di<br />
sorriso ironico, distaccato. Magari era anche da ridere, infatti le mie sorelle ridono ancora. Ma non<br />
era sadismo? Insomma una raffinatezza. Si può supporre che di fatto lui sia capace, nella sensualità,<br />
di sottili invenzioni. « Dopo pranzo, seduto accanto alla mamma, ho guardato scendere la neve ».<br />
Nei suoi testi di allora si trovano simili tracce di idillio tra me e lui, di pace totale. Transitoria; ma in<br />
quei momenti cosí naturale, cosí piena da sembrare inestinguibile. Forse, come i rari istanti di pace<br />
<strong>con</strong> Dio quei momenti <strong>con</strong>tenevano l’eternità. Momenti di estasi erano quelli di ascolto della<br />
musica. Noi fummo tra <strong>gli</strong> ultimi a comprare la radio; subito io e lui ci piazzammo davanti. <strong>Io</strong><br />
dirigevo <strong>con</strong> una mano, lui seduto sulle mie ginocchia, fermo intento ascoltava. Avevamo scoperto<br />
che <strong>gli</strong> piaceva la musica una volta al ristorante. Lui avrà avuto sei anni. Una radio lasciata<br />
distrattamente accesa trasmetteva la sonata in la minore per flauto solo di Bach. Dai tavoli qua e là<br />
si levavano proteste. Lui abbandonato magro e molle sulla sua sedia mormorava: ‑ Com’è bella<br />
questa musica! Ebbene: scoprí le « Canzoni del tempo di guerra » e tutti i giorni voleva ascoltarle.<br />
Venivano trasmesse proprio mentre si era a tavola e cosí ci toccò sentire « La fine dell’Inghilterra ».<br />
Era il suo candore o il suo umore maligno? Credo che si divertisse alla nostra costernazione. C’era<br />
la guerra da tre anni, si cominciava a non trovar da mangiare. Sono sicura che nessuno a Torino<br />
fosse piú sprovveduto ‑ e improvvido ‑ di noi. C. aveva comprato, del resto come faceva di solito,<br />
una dozzina di saponette e tubetti di dentifricio (forse era davvero quello che piú temeva <strong>gli</strong> venisse<br />
a mancare) e lui scrisse sul quaderno: « I miei genitori sono accaparratori ». (Persino dalle suore si<br />
faceva un po’ di propaganda ormai; ma non ci denunciarono). La guerra lo eccitava. Era penoso<br />
doverlo sve<strong>gli</strong>are per scendere in cantina; là poi si divertiva, <strong>con</strong> la bambina dell’ingegnere. La<br />
mattina dopo racco<strong>gli</strong>eva bossoli e schegge di granata, fulmineamente li posava sulle rotaie del tram<br />
che li riduceva piatti come l’orologio di Charlot in Tempi moderni. A dir la verità quel gioco<br />
piaceva anche a me. Anch’io ero di una notevole incoscienza riguardo alla guerra. Mi rivoltava,<br />
avrei voluto cancellarla; eppure ac<strong>con</strong>sentivo <strong>con</strong> un certo gusto al disordine e al provvisorio che<br />
sembravano fatali. Nel novembre del ’42, bombardamenti danneggiarono la casa e fui costretta a<br />
sfollare; zia Maria venne da Cuneo <strong>con</strong> l’ambulanza della Croce Rossa per mettere in salvo il<br />
bambino. Dopo qualche giorno lo raggiunsi in casa di mia madre. Per lui fu un tempo di<br />
dissipazione, in un certo senso di attivismo (come gioco). Nel complesso di involuzione. <strong>Io</strong> in lui<br />
vedevo il motivo che non mi aveva permesso di rimanere accanto a C. « Ricomincia la settimana ‑<br />
scrivevo ‑ e ho la tentazione di dire: non ne posso piú. Qualche volta mi domando: perché siamo<br />
separati? e l’unica risposta è sempre: lui ». A Cuneo presi parte alla lotta, a modo mio, però <strong>con</strong> una<br />
certa coscienza. Lui era sempre una palla al piede, un’angoscia anche. Lo sentivo estraneo, troppo<br />
bambino e nello stesso tempo troppo mio, troppo legato a me ‑ io a lui ‑ specie quando era malato.<br />
Il legame <strong>con</strong> lui era piú forte di tutte le ansie, di tutte le paure. Ma era pur sempre una specie di<br />
passione. Cosa capivo di lui? Adesso, in uno dei nostri ormai rari s<strong>con</strong>tri l’ho inteso <strong>con</strong>cludere<br />
inaspettatamente: ‑ Basta pensare a quello che mi facevi passare a Cuneo! ‑ <strong>Io</strong>, facevo passare a te?<br />
Era enorme. Ma non mi sono arrabbiata. Lui era serissimo, calmo e persino doloroso: ‑ Non l’ho<br />
mai detto a nessuno. ‑ Cosa, non hai mai detto? Il giorno dopo torno a chiedere. Vo<strong>gli</strong>o sapere. ‑ Ma<br />
sí, aprivi la finestra, volevi buttarti giú! Non dico niente. Il fatto è che avevo dimenticato tutto.
Dev’essere vero che si dimenticano certe cose che non si vo<strong>gli</strong>ono ricordare. ‑ Non ti fa un po’<br />
compassione adesso, pensare che mi riducevo a quello? ‑ Questo sí, ‑ ammette lui obbiettivo.<br />
Gliel’ho domandato non perché vo<strong>gli</strong>o compassione ormai. Perché mi vergogno. « Sono quasi<br />
disperata. Non posso infischiarmene, non posso. So che ti faccio male, che tu non puoi aiutarmi. Lui<br />
è né piú né meno che un incosciente. Quello che temo di non poter durare è la vita di tutti i giorni.<br />
<strong>Io</strong> non so essere severa, e poi non serve tormentarlo. Perdonami, tu capisci. Sono tanto scoraggiata<br />
e soprattutto sperduta. Non arrovellarti, non c’è niente da fare. Scusami e abbi pazienza. Non<br />
dovevo aver fi<strong>gli</strong> io, per prender le cose a questo modo. La mia testa se ne va, e doveva ancora<br />
servirmi a qualcosa. Se almeno <strong>gli</strong> volessi meno bene. Questa è la disgrazia peggiore, e so che è<br />
cosí anche per te. Ancora ti chiedo scusa. Ti abbraccio, questi poveri abbracci da lontano sono ben<br />
tristi e stavo per dire inutili. Non serve che tu <strong>gli</strong> scriva, non serve assolutamente ». Seguiva, senza<br />
nemmeno un saluto, la firma. Se ero tanto disperata, avrò fatto davvero quelle scene di cui lui<br />
soffre ancora adesso. Erano momenti, siccome ‑ lo dico in un’altra lettera ‑ andavo « a periodi,<br />
come tutte le matte ». « Siamo i soliti tre matti (io lui e Maria) guidati da un savio »: cosí già<br />
scrivevo (a Turin); ma allora si trattava di pazzia allegra. « ... è nella sua natura, come del resto<br />
nella mia, avere quei momenti di violenza ». Certo dalle stelle ‑ o dal nostro profondo, che è lo<br />
stesso ‑ provenivano i nostri sintonismi e sincronismi, come <strong>gli</strong> s<strong>con</strong>tri e le <strong>con</strong>flagrazioni. « Mi<br />
sono decisa per le iniezioni. Ma se lui cominciasse a capire che tormentandomi mi fa ammalare,<br />
sarebbe piú utile di tutte le cure ». « Se lui è buono, io sto bene ». Tale era il nostro legame. « Non<br />
posso star lontana da lui e la sua presenza mi agita ». Nec tecum nec sine te! « Sono tanto<br />
addolorata di averti cosí turbato parlandoti della sua insolenza. Se lui è cosí, la colpa è mia, e non<br />
bisogna esagerare nell’accusarlo ». Dopo, mi vergognavo di essere ricorsa alla compassione di C.<br />
La colpa era mia perché « per lui ci sarebbe voluta una madre meno sensibile e piú forte ». Ginetta,<br />
quando lo rivide subito dopo la guerra, lo trovò inquieto e lo giudicò « infelice e pieno di rancore ».<br />
« Rancore verso di te per qualcosa che si aspetta: una fermezza, un ordine ‑ un comando ‑ di cui ha<br />
bisogno e che tu non <strong>gli</strong> puoi dare ». Rimasi molto colpita. Si trattava della mia nota insufficienza.<br />
Ma era poi vero? Con una madre piú severa lui sarebbe stato molto piú infelice; magari sarebbe<br />
diventato un poeta, vo<strong>gli</strong>o dire scrittore: come Pavese, come Rimbaud, che ebbero madri durissime.<br />
Seguiva, da parte di Ginetta, il <strong>con</strong>si<strong>gli</strong>o di metterlo in collegio, e di preti (lei ebrea!) Conclusi che<br />
Ginetta sba<strong>gli</strong>ava. Sempre Ginetta mi aveva altre volte, quando lui era piccolo, rinfacciato<br />
l’eccessivo accordo tra noi ‑ me e C. ‑ quale fonte di infelicità per nostro fi<strong>gli</strong>o. Tale motivo si trova<br />
anche nei testi: « come la mancanza di intesa, la troppo perfetta intesa dei parenti è causa di<br />
squilibrio per i fi<strong>gli</strong> ». (Fa quasi ridere). <strong>Io</strong> avevo però una colpa, piú remota ma anche piú precisa, a<br />
cui rifarmi. In uno di quei fo<strong>gli</strong>etti-lettera a C., che coprivo di caratteri minuti, sottili, quasi<br />
indecifrabili, compare la frase « forse sono stata castigata per aver voluto un solo fi<strong>gli</strong>o ». Non so se<br />
la dimensione biblica si addicesse alle mie difficoltà. Indubbiamente ero sincera: non avevo certo<br />
vo<strong>gli</strong>a di scherzare, né di atteggiarmi. Ma pare piú sensata l’ammissione della mia scarsa vocazione<br />
materna. « Sono sempre col suo diario in mano ». Lo sfo<strong>gli</strong>avo in cerca di un’indicazione <strong>intorno</strong><br />
ai compiti da fare; qualche volta finivo col trovarla chissà dove, segnata magari in agosto, e come<br />
esser sicuri che fosse quella dell’indomani? Allora uscivo, correvo alla casa di un compagno di<br />
scuola. Lui guardava ironicamente la mia agitazione: se guardava, perché lo disturbavo dai suoi<br />
disegni o dai giochi <strong>con</strong> Reno. (Onestamente devo aggiungere che anch’io non ho mai saputo tenere
un diario scolastico, nemmeno quando sono stata insegnante). Tra le sue rivolte e l’apatia scolastica<br />
c’era un rapporto? Sicuramente; per lo meno la radice doveva essere la stessa: il suo senso<br />
libertario. La sua solenne indifferenza a<strong>gli</strong> esiti scolastici aveva qualcosa di imponente. « Lui pensa<br />
a tutt’altro. Si è fatto comprare un lanternino da minatore e ce l’ha sempre <strong>con</strong> sé, naturalmente<br />
spento ». (Quest’ultima osservazione non so se fosse per rassicurare suo padre, o spregiativa nei<br />
riguardi del lanternino: suppongo la se<strong>con</strong>da). Il suo comportamento a<strong>gli</strong> esami ‑ che si ripeté ne<strong>gli</strong><br />
anni ‑ era palesemente di insofferenza per la perdita di tempo. L’avevo accompagnato all’esame per<br />
la fine delle elementari: c’era da aspettare delle ore e lui voleva andarsene. Ruppi la <strong>con</strong>segna e <strong>gli</strong><br />
andai vicino, cercai di intrattenerlo. Lo stesso era accaduto nella chiesa delle suore per la Prima<br />
Comunione: ogni tanto si alzava e voleva uscire. Aveva una suora vicino, che stava lí apposta per<br />
lui; suo padre e Maria (io non c’ero) in fondo alla chiesa erano sulle spine. <strong>Io</strong> mi ero ammalata per<br />
il terrore preventivo, penso. Quando poi lo chiamavano, a<strong>gli</strong> esami, il peggio era passato. Non per la<br />
ginnastica: « All’esame di ginnastica è stato meravi<strong>gli</strong>oso: è caduto nel salto, dall’asse di equilibrio,<br />
non è salito di un palmo sulle pertiche ». Forse proprio per il lato « ginnastica » che hanno tutte le<br />
discipline lui a scuola si sentiva disadattato. Tutti i sabati a Torino lo accompagnavamo a una scuola<br />
di ginnastica ritmica. Dovevamo esser lesti ad accorrere, alla fine, perché lui ‑ lui solo ‑ non sapeva<br />
mai dove erano le sue scarpe e soprascarpe. Qualche volta ho occhieggiato nella sala socchiudendo<br />
l’uscio, e ho visto che lui era a suo agio soltanto nella « marcia libera per uno » in cui girava in<br />
tondo. Ne<strong>gli</strong> altri esercizi non era mai a tempo <strong>con</strong> i compagni. Certe volte io protestavo <strong>con</strong>tro la<br />
scuola: « Che lo definiscano disordinato, indolente, è piú che giusto. Ma lo giudicano “insuff.mo”<br />
in disegno! Ieri ha fatto una barca di legno bellissima ». Forse ero già <strong>con</strong>solata, perché<br />
aggiungevo: « Me l’ha regalata ». Dalle pagelle lui non veniva minimamente turbato, non ci<br />
pensava nemmeno un minuto. Decise di andare a imparare un mestiere e non andare piú a scuola.<br />
Tanto era piú lungimirante di me. E suo padre a me: « Se davvero non vuole studiare, credo che sia<br />
me<strong>gli</strong>o far<strong>gli</strong> fare un mestiere. Starà sempre me<strong>gli</strong>o che misero impiegato a intristire in qualche<br />
stupido impiego. Se poi avesse delle attitudini all’arte, potrà forse me<strong>gli</strong>o coltivarle da operaio che<br />
da impiegato ». Parole profetiche. Sono come quel fucile di cui parla Cechov, che compare nel<br />
primo atto e sparerà nel terzo! Sembra vergognoso, adesso, fa addirittura ridere aver preso sul<br />
tragico la <strong>con</strong>vivenza <strong>con</strong> un bambino, il suo disastro scolastico. C. mi scriveva di non lasciarmi «<br />
s<strong>con</strong>volgere da cose simili, in questi tempi cosí tragici ». Ebbene: <strong>prima</strong> cosa, proprio quello che<br />
faceva sembrare piccoli i problemi domestici, rendeva quasi insopportabile il loro fastidio, in<br />
quanto <strong>gli</strong> aggiungeva il sospetto della fatuità. Ma non erano piccoli. <strong>Io</strong> pensavo al suo futuro: « Ho<br />
sempre paura che si debba sve<strong>gli</strong>are alla realtà senza di noi ». « Mi preoccupo per lui, che non sia<br />
capace di lavorare, perché diventerà grande e non potremo sempre mantenerlo noi ». Anche suo<br />
padre pensava: « Per lui ci vorranno sempre molti denari ». Non era problema da poco, ma a C. non<br />
faceva paura: avrebbe lavorato per lui. Era invece qualcosa d’incognito che suo padre temeva per<br />
lui, una difficoltà a vivere. « <strong>Io</strong> penso sempre a lui <strong>con</strong> un brivido, come in previsione di una<br />
disgrazia incombente ». La passione di C. per suo fi<strong>gli</strong>o non era meno assoluta della mia ma era<br />
tanto piú discreta. « Non vorrei davvero che capisse quanto bene <strong>gli</strong> si vuole. Se io sapessi di essere<br />
amato come io amo lui, ne resterei turbato e legato nei movimenti ». Gli scriveva su fo<strong>gli</strong>etti a<br />
parte, battendoli a macchina o <strong>con</strong> caratteri studiatamente grossi e tondi perché lui potesse leggerli<br />
da solo. « La tua pallottola la <strong>con</strong>servo per ricordo e la tengo bene in vista sul comodino vicino al<br />
mio letto. Ti ricordo sempre, ogni giorno guardo la tua pallottola ». Lui lo ricambiava; magari
incaricando me: « Si raccomanda che tu non rida di lui e dice di chiederti se hai sempre la sua<br />
pallottola ». Si arrabbiava <strong>con</strong> me se le lettere di suo padre <strong>con</strong>tenevano rimproveri. « L’idea della<br />
lettera non è stata buona, perché quasi si è offeso, e cosí questa se<strong>con</strong>da non <strong>gli</strong>el’ho data. Lui non<br />
vuole che io ti faccia un troppo brutto quadro di lui ». Si trattava di rapporti virili. <strong>Io</strong> guastavo.<br />
Quella specie di ricatto morale che <strong>con</strong>sisteva nel denunciarlo a suo padre si alternava <strong>con</strong> tentativi<br />
di ricatto sentimentale nei miei riguardi. Come quello di lasciarmi vedere disperata, fino a (fingere?)<br />
di volermi buttare (atto che forse avvenne in stato di quasi incoscienza). Ne pensavo anche di meno<br />
teatrali, ma sempre un po’ curiosi, <strong>con</strong>cepiti anch’essi in un impulso di esaltazione, di<br />
autocompatimento. Pensai per esempio che se lui avesse saputo cosa voleva dire mettere al mondo<br />
un fi<strong>gli</strong>o avrebbe avuto maggior <strong>con</strong>siderazione di me. Gli spiegai succintamente ma <strong>con</strong> un certo<br />
realismo la cosa. Non si scompose; commentò tranquillo <strong>con</strong> altrettanto realismo: ‑ Come le<br />
mucche! Cosí <strong>gli</strong> fornii la <strong>prima</strong> informazione sessuale. Che non produsse, sul piano del<br />
comportamento, nessuna <strong>con</strong>seguenza. In via normale ricorrevo alla promessa di regali, che erano<br />
poi sempre armi, sua nuova passione. « Continua a star bravo perché <strong>gli</strong> ho promesso che se fa<br />
miracoli detrarrò dal guadagno del mio libro la somma per il suo fucile. (Lui crede che mi paghino<br />
subito). Intanto spero che finisca la guerra e <strong>gli</strong> restituiscano il flobert che <strong>gli</strong> hanno <strong>con</strong>fiscato ». «<br />
Lo sai che sono stata costretta a comprare il famoso moschetto? Non potevo piú tirarmi indietro,<br />
dopo che lui ha dimostrato veramente buona volontà, mi pareva di tradirlo ». È da notare in cosa<br />
facevo <strong>con</strong>sistere la moralità; ma anche la circostanza di lui che dimostrava « buona volontà »:<br />
com’era possibile? <strong>Io</strong> credo che fosse un caso, una coincidenza; donde il mio doppio errore nel<br />
premiarlo. Faceva troppo piacere a me, ac<strong>con</strong>tentarlo: lí era l’immoralità, chi avesse voluto trovarla.<br />
« Ho pensato di to<strong>gli</strong>ere qualcosa alla somma che ci hanno dato a scuola e ho fatto il gran passo.<br />
Adesso come puoi immaginare, è incretinito sempre <strong>con</strong> quell’arnese in mano, a smontarlo,<br />
rimontarlo ecc. ». Il suo smontare e rimontare era invece una cosa seria, uno studio. Lo studio delle<br />
armi può essere <strong>con</strong>siderato un gioco, ma per uomini. Accadeva anche che promettessi senza<br />
se<strong>con</strong>di fini, ex abundantia cordis. « È buono, e assisterlo nei compiti è noioso ma non piú cosí<br />
terribile ». « Ha tanti bei momenti ». Bei momenti erano certe passeggiate. « Siamo andati per viole<br />
dalle parti di Villa Desmè. Lui giocava <strong>con</strong> le serrande dei canali e io co<strong>gli</strong>evo fiori. Poi lui si è<br />
caricato un pezzo di rotaia fino a casa, pesantissimo, ed era tutto rosso e sudato, ma felice ». «<br />
Siamo andati insieme a piedi e lui è stato buonissimo. All’andata abbiamo avuto molto caldo e al<br />
ritorno c’era una luna meravi<strong>gli</strong>osa sulla neve. Lui aveva un po’ male a un piede, ma non ha fatto<br />
capricci. Quando è cosí, non so cosa non farei per lui ». Ammiravo la sua dignità quando soffriva. «<br />
Ha le mani piene di geloni. Però non si lamenta ». Ce ne furono persino di suoi, regali. « Ieri <strong>con</strong><br />
uno speciale temperino che si è fatto comprare al mercato (si chiama “vernantino” perché li fanno a<br />
Vernante) ha inta<strong>gli</strong>ato piccoli oggetti, un coltello, una forchetta, e uno zoccoletto che io devo<br />
portare appuntato sulla pelliccia come portafortuna ». Se penso che in quel tempo della « nostra »<br />
guerra avevo di queste gioie! Ora che ufficialmente siamo amici, che siamo (o sembriamo)<br />
malin<strong>con</strong>icamente adulti, non mi regala mai nulla, di quello che fa, intendo. Tutto quello che mi ha<br />
dato l’ho sempre pagato in <strong>con</strong>tanti. Non me ne lagno: cosí ho <strong>con</strong>servato le opere. I mi<strong>gli</strong>ori fra i «<br />
bei momenti » erano quelli, come già quando era piccolo, di una comunione fra noi di emozioni: nel<br />
mondo dei miei amori, che poi in parte era anche il suo. « In genere è affettuoso, come sai, quando<br />
siamo a letto ». (Dormivamo nei due lettini gemelli della mia vecchia camera di bambina). « Due<br />
sere fa abbiamo cantato insieme le nostre canzoni di una volta (ho ritrovato il libro). A lui piace
moltissimo, come a me, una canzone sarda ». Quella canzone era Sul monte Limbara. Poi la lettura:<br />
leggevo per il nonno e per lui. Il nonno, molto debole, taciturno, nel suo seggiolone, alzava il capo e<br />
ascoltava intento; quando smettevo diceva: ‑ Bello! ‑ e faceva cenni di approvazione col suo capo<br />
stanco ma sempre fiero, nobile. Lui interrompeva i suoi disegni, i giochi <strong>con</strong> Reno, si incantava<br />
ascoltando. Rideva, saltava di gioia al rac<strong>con</strong>to della « scuola dei capodo<strong>gli</strong> ». Il libro era Moby<br />
Dick. Com’era possibile che quella felicità non mi ripagasse di tutto? E soprattutto non mi aiutasse<br />
a capire lui? Dev’essere ‑ ora penso ‑ che lui era sempre lo stesso ed ero io, mutevole. E lui che era<br />
sempre il filosofo che era stato bambino, mi inchiodò all’assurdità delle mie recriminazioni: ‑ Se<br />
non fossi buono, come potrei farlo? Arrivò ‑ lui ‑ a mostrare tale comprensione per me, che adesso<br />
ho il terrore di averlo deluso io. Uscivamo dalla stazione dove avevamo accompagnato C. Ricordo<br />
tutto, adesso: perché ho ritrovato la lettera. Altrimenti avrei dimenticato. Dimenticato un suo atto di<br />
dedizione! La memoria ormai mi fa orrore. La lettera la scrissi appena rincasata; sapevo che ‑ per le<br />
inverosimili attese di quel tempo ‑ C. era ancora in stazione, in quel momento: « Non posso pensare<br />
che sei ancora qui e già per me tanto lontano, irraggiungibile. Lui è stato caro. Sul piazzale della<br />
stazione mi ha detto: ‑ Prendi me come se fossi papà ». Ero tanto occupata dalla mia pena, che una<br />
dichiarazione come quella io la prendevo come una gentilezza, come una cosa graziosa. « È anche<br />
arrivato a dirmi: per darti una prova ti dico che rinunzio al moschetto ». Era una grande prova<br />
rinunziare al moschetto; ma l’idea, l’idea di darmi una prova! Ero dunque sorda, arida, dura. Come<br />
potevo non essere appagata una volta per tutte, capire tutto di lui una volta per tutte? Dev’essere che<br />
non c’è mai, una volta per tutte. « Gioca a tormentarmi ». Ecco, quando dicevo cosí capivo di piú.<br />
Infatti lui giocava sempre. Tornava da scuola e attraversando la piazza posò la cartella ai piedi della<br />
statua di Barbaroux, <strong>con</strong>tro la cancellata, e se ne venne via. (Luciana l’aveva visto da lontano, e<br />
recuperò la cartella). La professoressa mi rac<strong>con</strong>tò che sovente invece di estrarre uno alla volta i<br />
quaderni, la penna ecc., rovesciava la cartella sul banco, e sollevandola cosí da provocare una<br />
cascata piú rumorosa. Giocava quando scriveva a casaccio sul diario. Anche il commercio dei regali<br />
e della bontà era per lui un gioco. Perciò le sue <strong>con</strong>versioni erano apparenti. Erano in realtà<br />
variazioni. « Lui è buono, ma io temo sempre di essere sul piano dell’irreale, non proprio sul solido<br />
». « Dopo cena siamo stati a salutare le zie. Tutti lo guardano ancora come un individuo pericoloso;<br />
nessuno si è ancora accorto che è cambiato. È che non è realmente cambiato ». Rientrava nella<br />
categoria del gioco anche la sua sfida alle disapprovazioni, il suo compiacersene, quasi il ricercarle.<br />
« Gli avevo raccomandato di fare buona impressione alla bisnonna. Lui è stato sempre tranquillo,<br />
ma poi si è messo a rac<strong>con</strong>tare, <strong>con</strong> lusso di particolari, di una stilografica che aveva “rubato” a<br />
scuola, ecc. <strong>Io</strong> fremevo, lo guardavo, e lui avanti ». Non so bene se la sua era una sfida<br />
demitizzante, o semplicemente candida. L’uno e l’altro, probabilmente. Come in una delle tante<br />
storie di pistole: « Ieri è successa una mezza tragedia, ma per fortuna l’oggetto era cosí importante<br />
per lui che non ha fatto scene. L’ineffabile amico Rosso <strong>gli</strong> vuol vendere una rivoltella o pistola che<br />
sia (per 50 lire). Lui si disperava tanto, che io ac<strong>con</strong>sentivo a nas<strong>con</strong>derla, ma la nonna si è opposta.<br />
Alla fine sono andata a fare una volata a quel tipo dicendo<strong>gli</strong> di non farsi piú vedere <strong>con</strong> armi, ecc.<br />
E poi lui, ancor piú ineffabile, mi <strong>con</strong>fessa che era una pistola a salve, inoffensiva, mentre ce<br />
l’aveva decantata come una cosa terribile: per farci paura dice lui! » Anche <strong>gli</strong> eccessi erano un<br />
gioco; o magari ‑ come le armi ‑ cultura, nel senso di esperimento, di <strong>con</strong>oscenza. Come quando si<br />
ubriacò. Aveva <strong>con</strong>fessato tante volte di voler provare. <strong>Io</strong> mi allarmavo un po’, temendo una sua
tendenza all’alcoolismo o alla droga, in futuro. Pagano (Bepi) <strong>gli</strong> disse che lo s<strong>con</strong>si<strong>gli</strong>ava; che<br />
aveva provato e che tutto sommato era una delusione, che da ubriachi si sta male, ecc. Il discorso da<br />
pari a pari ‑ Pagano era un gigante, oltre che anziano e colonnello ‑ non lo persuase. Una sera lo<br />
cercavo per tutta la città, come altre volte, spaventata, affannata. A ora di cena lo trovo, sui baluardi<br />
di Gesso, <strong>con</strong> un soldato. Il soldato, di poco piú alto di lui, era Musto, il calabrese protetto dalle zie.<br />
Non dico niente a Musto, mi tiro dietro lui. Lui docile, tranquillo. A cena non mangia; dice che ha<br />
sonno, va a letto. Subito dopo lo sentiamo cantare. Accorriamo, Luciana scopre che « il suo fiato<br />
puzza di vino »! Rac<strong>con</strong>tò che <strong>con</strong> Musto erano stati all’osteria e avevano bevuto un litro in due.<br />
L’indomani Musto trasecolò ai rimproveri delle zie: i suoi fi<strong>gli</strong>, disse, amavano molto il vino. Musto<br />
si ricorda ancora di lui e quando scrive alle zie <strong>gli</strong> manda i saluti. Era stato un rapporto adulto. La «<br />
fuga » era una delle variazioni. « Sono corsa come una pazza per la città a cercare lui che era<br />
scomparso, come al solito. L’ho trovato che era quasi la mezza. Era al giardino pubblico, ma il<br />
signor E. mi ha detto che si fa trascinare dai carri ». « Siamo usciti, lui ha voluto prendere la<br />
bicicletta. L’ho perso di vista. L’ho ritrovato alle sette, stanca di cercarlo. Inutile parlare, lui dice<br />
che “mi ha sempre cercata” ». Com’è nell’ordine delle fughe, ci fu una Grande Fuga. In essa<br />
<strong>con</strong>fluirono molti motivi, e per me ma anche per lui fu la piú angosciosa. Riguardo alla lotta<br />
(resistente) lui mostrava lo stesso distacco, in apparenza, che aveva avuto verso il fascismo. Gli<br />
piaceva che ci fossero nomi e posti da tenere segreti; ma trovava comiche le nostre cautele, e si<br />
divertiva ad allarmarci. Quando io partivo « per destinazione ignota », domandava forte, specie se<br />
c’erano estranei: ‑ Vai da Livio Bianco? Comparve nei suoi disegni una città <strong>con</strong> una grossa cupola<br />
(San Pietro?) sulla quale aeroplani sganciavano bombe. Comparve l’indicazione ROMA. Stupore,<br />
vaga preoccupazione. Dichiarò: ‑ Vo<strong>gli</strong>o andare a difendere Roma ‑. Si rise. Non sospettavo del<br />
maestro, povero diavolo che mi aveva detto: ‑ Se sapesse! ‑ indicandomi il famoso compagno Rosso<br />
vestito da milite e armato: a scuola! Il maestro era molto simpatico, piccolo, la faccia rotonda, <strong>gli</strong><br />
occhiali spessi da miope rotondi: sembrava un cinese; ho poi saputo dopo che era comunista.<br />
Difendere Roma diventò un’ossessione. Non che si fosse <strong>con</strong>vertito al patriottismo fascista: Rosso<br />
<strong>gli</strong> aveva detto che se andavano a difendere Roma avrebbero avuto tutto per loro un carro armato.<br />
Eravamo sul viale, io seduta su una panchina, lui in piedi davanti a me: ‑ Vo<strong>gli</strong>o andare a difendere<br />
Roma. ‑ Vai, vai, ‑ <strong>gli</strong> dico. A Cuneo dappertutto è casa, per un po’ non mi accorsi nemmeno che<br />
non era piú lí. Mi spaventai ricordando la frase, la mia risposta, la specialità di lui nel prendere alla<br />
lettera, anche per umorismo. Corsi a casa, non c’era, telefonai col coraggio della disperazione, al<br />
Fascio. C’era ancora un tale (che poi fu giustiziato), un giovane intellettuale non ignobile,<br />
fisicamente mostruoso (il che spiega molte cose). La risposta fu ancor piú sciagurata dell’impresa: ‑<br />
Benissimo! Suo fi<strong>gli</strong>o è un valoroso! Lo affidi a noi! ‑ Ma è un bambino! ‑ Si farà uomo, <strong>con</strong> noi!<br />
Corro là, m’infilo nel lugubre palazzotto novecento color vinaccia. Interrogo tremando di rabbia il<br />
primo tapino che in<strong>con</strong>tro, un milite suppongo. Mi <strong>con</strong>si<strong>gli</strong>a di cercare alla Casa del Balilla: ‑ Là<br />
c’è il raduno. L’altro palazzotto squallido, sui baluardi di Stura, è deserto. Un rumore sordo sale dal<br />
sotterraneo. Là sotto ragazzini, maschi e bambine, correvano sui pattini. Fa la guardia Rosso,<br />
naturalmente armato. ‑ Dov’è? ‑ È andato via! Sto per insultarlo, poi mi fa pena: è un bambino<br />
anche lui, lungo, pallido, e fi<strong>gli</strong>o di un Milite. Sono anche meno disperata: ho una traccia. ‑ Se<br />
sapesse cosa fanno questi qui, i maschi e le bambine... ‑ Aveva un’aria un po’ scandalizzata e un<br />
po’ losca. Scappai di lí, presi a percorrere la città, la cinta dei baluardi; ogni tanto correvo a casa, a
vedere se fosse tornato. Fin che una volta, nell’androne, sento salire, dalle scale della cantina, la sua<br />
voce. Cantava. Quando poi lo lasciai rac<strong>con</strong>tare com’era stato, disse che arrivato davanti alla Casa<br />
del Balilla si era pentito. Certo era entrato anche il suo spirito di bastian<strong>con</strong>trario: non si era<br />
compiaciuto, a Torino, delle « canzoni del tempo di guerra » ? Quando <strong>con</strong> Pavese ci ritrovammo<br />
dopo la guerra, <strong>prima</strong> cosa mi domandò: ‑ E tuo fi<strong>gli</strong>o è fascista, adesso? Il richiamo, la tentazione<br />
di avere in mano armi vere, e da guerra, doveva essere stato forte, per lui. L’amore per le armi lo<br />
coltivò <strong>con</strong> lo scrupolo di una formazione professionale; dap<strong>prima</strong> limitando ‑ per forza ‑ il suo<br />
studio alle armi piú o meno giocattolo. « Caro papà, ho ricevuto la tua lettera, che mi dice che<br />
presto mi arriverà il fucile ad aria compressa, e questa notizia mi fa molto piacere. Sparerò soltanto<br />
sul bal<strong>con</strong>e della cucina, su quel bersa<strong>gli</strong>o di legno che avevo dipinto quando ero malato. I pallini<br />
che mi hai comperato sono pallini di piombo, o piumini d’acciaio <strong>con</strong> il pennacchio dietro? Ho<br />
anche ricevuto il bi<strong>gli</strong>etto <strong>con</strong> il disegno del fucile e scritto sotto il modo di farlo funzionare ». Le<br />
armi vere, inaccessibili, si ac<strong>con</strong>tentava di guardarle. « L’altro giorno io e mia mamma andammo a<br />
passeggio sul ponte nuovo. Mia mamma comprò due etti di castagne arrostite. Quando arrivammo<br />
alla fine del ponte, ci sedemmo al sole sui paracarri, in mancanza di altri sedili. Un carabiniere<br />
attaccò discorso <strong>con</strong> la mamma e le disse che era di guardia ad un palo telefonico. Mentre loro<br />
chiacchieravano, io studiai da cima a fondo il fucile che il carabiniere portava a tracolla ». « Questa<br />
mattina al giardino pubblico trovai un alpino insieme ad una ragazza impellicciata, seduti su una<br />
panchina. Quel soldato, <strong>con</strong> mia grande gioia, m’imprestò il suo fucile. Era un grosso fucile di<br />
fabbricazione tedesca, <strong>con</strong> cartucce in cassa per fortuna mia, se no mi sarei già ammazzato. <strong>Io</strong> mi<br />
divertivo un mondo a sparare senza cartucce, smontare l’otturatore, pulire la canna, ecc. <strong>Io</strong><br />
m’intrattenni <strong>con</strong> lui, e <strong>gli</strong> dissi che mi piacerebbe molto andare alla guerra e possedere un fucile.<br />
E<strong>gli</strong> però, come tutti i militari, mi s<strong>con</strong>si<strong>gli</strong>ò la vita militare e mi <strong>con</strong>si<strong>gli</strong>ò di rimanere borghese, a<br />
casa <strong>con</strong> mia mamma. E<strong>gli</strong> avrebbe voluto sparare un colpo ad un bollo dell’idrante ma c’era lí un<br />
capitano della milizia e, poiché è proibito sprecare munizioni, non sparò. Poi venne mezzogiorno ed<br />
io me ne andai. Per la strada trovai mia mamma tutta stanca e trafelata che mi cercava dappertutto<br />
non sapendo dove io fossi ». « Pochi giorni fa mia zia Luciana andò a Torino, per portare la sua tesi<br />
di laurea. Mia nonna si disperò molto, perché veniva giú molta neve, e lei aveva paura che il treno<br />
non tornasse. Pianse tutto il giorno e quando, alle 10, si sentí suonare il campanello, mia nonna<br />
andò ad aprire di corsa, facendo un monte d’esclamazioni. « A me piace molto sentir rac<strong>con</strong>tare<br />
diarii di viaggiatori. Mia zia rac<strong>con</strong>tò che, appena arrivata a Torino, dovette tornare subito, e lasciò<br />
la tesi di laurea ad un suo compagno, che la portasse in segreteria. Cosí stette dodici ore sul treno.<br />
Nel ritorno trovò sul treno due soldati tedeschi, uno abbastanza bello, invece l’altro sembrava<br />
un’oca. Lei era seduta vicino a quello bello, un’altra signorina vicina all’oca. Essi avevano delle<br />
scatole <strong>con</strong> dentro lardo tonno, gelatina. Ne mangiarono molto e ne offrirono anche a mia zia e<br />
all’altra signorina. Cosí le dodici ore passarono in fretta ». Nelle « cronache » di scuola è già<br />
narratore, col « suo » impasto di candore e di ironia. Nelle lettere per lo piú è soltanto il bambino, o<br />
magari il tecnico: « Caro papà, ieri mi sono divertito molto, perché la nonna mi ha portato a Boves.<br />
Con Aldo andai a giocare dietro casa, e scovammo una rivoltella nascosta. Era una rivoltella a<br />
tamburo, <strong>con</strong> la canna esagonale. Canna e tamburo erano cromati, ed il calcio di una materia nera,<br />
tutta intarsiata. Nel tamburo c’erano due cartucce. Noi non lo sapevamo, e <strong>con</strong>tinuammo a far<br />
scattare, finché ad un certo punto uno dei colpi esplose, facendo una vampata rossa lunga un palmo.<br />
Noi gettammo via la rivoltella e scappammo nel cortile, dove trovammo la nonna abbastanza
spaventata. Poi andammo, poco dopo, a recuperare la rivoltella, ed a rimetterla a posto ». Lui e il<br />
nonno erano uguali nel mostrare noncuranza e anzi divertimento per <strong>gli</strong> spari, le incursioni. Si<br />
rifiutavano di scendere in cantina: ne andava della loro dignità di persone esperte di armi. Durante<br />
la liberazione la casa fu assediata da cecchini; bombe a mano inesplose erano sparse davanti alle<br />
scale, e il nonno voleva uscire ugualmente per la passeggiata. Ridevano, lui e il nonno, di noi che<br />
trasalivamo ai colpi. « Caro papà, la mamma è molto triste perché la nostra roba a Tetto Gallotto è<br />
tutta rovinata. <strong>Io</strong> mi sono molto divertito nei giorni del combattimento per la libertà. Mi sono<br />
divertito specialmente quando acchiappavano un fascista sopra il tetto di fronte a casa nostra, quello<br />
che aveva buttato le bombe nel nostro cortile. C’erano tanti partigiani sul tetto, due si erano nascosti<br />
dietro l’abbaino, e <strong>gli</strong> altri nel cesso di un bal<strong>con</strong>e vicino. Uno trovò una rivoltella automatica e tre<br />
cartucce, l’altro un vestito nero. Poi si misero a sparare, ed io mi divertii molto. La mamma mi ha<br />
detto che a Milano i tedeschi si sono subito arresi, invece qui hanno combattuto molto, <strong>con</strong> mio<br />
gran divertimento, ed hanno anche bombardato la città coi mortai. <strong>Io</strong> in questi giorni sono sempre in<br />
<strong>giro</strong> e vengo a casa solo per mangiare ». Una cronaca del gennaio ’44 sfiora un avvenimento<br />
estremamente doloroso; non direi che lui ne fosse in<strong>con</strong>sapevole: il tono non è il solito allegro, c’è<br />
invece un leggero, pietoso umorismo. « Ieri la mamma mi ha portato a Borgo in bicicletta. Arrivati<br />
là, la mamma si recò alla caserma dove si trova una professoressa ebrea alla quale doveva<br />
<strong>con</strong>segnare un pacco. Bussò e venne ad aprire un carabiniere. <strong>Io</strong> rimasi fuori, e non sapendo dove<br />
sedermi, entrai nella garitta; ma non c’era piú il sedile e allora andai a trascorrere il tempo sul sedile<br />
di un carro militare che era davanti alla caserma. « Quando il portone si riaprí, vi sbirciai dentro e<br />
vidi un carabiniere che teneva una matassa di lana <strong>con</strong> le mani alzate, e una signora vecchia di<br />
fronte a lui dipanava il gomitolo ». Ha « visto » la fraternità fra il custode (forzato) e la vittima. «<br />
Molti uomini potavano <strong>gli</strong> alberi. Noi ci sedemmo su una panchina a guardare cadere i rami<br />
dall’alto de<strong>gli</strong> alberi. C’era un uomo molto in alto, il quale aveva finito di ta<strong>gli</strong>are i rami piccoli, ed<br />
allora incominciò il ta<strong>gli</strong>o di uno di quelli grossi. Noi stavamo molto attenti a lui, nell’attesa della<br />
caduta del ramo. Dopo molto lavoro, il ramo cadde <strong>con</strong> un rumore di bomba. Allora l’operaio si<br />
asciugò il sudore. Era divertente vedere <strong>gli</strong> operai lassú a ta<strong>gli</strong>are i rami e lasciarli cadere, e sentire<br />
un signore sotto che dava ordini. Ma non doveva essere tanto divertente per <strong>gli</strong> operai ».