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Parte prima Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza ...

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Dev’essere che ero razionalista anch’io, e presuntuosa, siccome ne avevo coscienza). Una di queste<br />

uscite, che erano poi esclamazioni, <strong>gli</strong> venne fatto di lanciarla davanti a noi a casa, provocato da un<br />

versetto biblico che si trovava nel suo libro di scuola « <strong>Io</strong> sono il Signore, Dio de<strong>gli</strong> eserciti »: ‑ Dio<br />

non mi piace. Sembra il Duce! ‑ Era serio, scandalizzato sul serio. (Non so se <strong>gli</strong> abbiamo spiegato<br />

che la somi<strong>gli</strong>anza era alla rovescia; ma era implicito). Qualche volta le frasi parevano nate da un<br />

umore sarcastico, volterriano. Le diceva a voce alta, ma come parlando tra sé. A proposito della<br />

Madonna assunta in cielo: ‑ Chissà come si troverà male, lei sola col corpo! Il prete per nulla<br />

sbalordito disse che se<strong>con</strong>do lui il bambino era portato alla disputa teologica. ‑ A cosa servivano le<br />

unghie dei leoni nel Paradiso terrestre? ‑ domandò al prete. Siccome i leoni fraternizzavano <strong>con</strong> le<br />

gazzelle, come si vedeva nelle illustrazioni. (Aveva intuito il principio di Lamark!) Quando il prete<br />

lo preparava per la Prima Comunione, lui <strong>gli</strong> domandò, <strong>con</strong> l’aria di propor<strong>gli</strong> un aut-aut: ‑<br />

Nell’ostia c’è proprio Gesú? Al sí ebbe un gesto di delusione, quasi di sdegno: ‑ Allora è come <strong>gli</strong><br />

idoli dei pagani! Anche di questo il prete si dichiarò ammirato. La <strong>con</strong>siderò una sotti<strong>gli</strong>ezza<br />

teologica, magari s<strong>con</strong>finante nell’eresia ma compatibile in un bambino. Ri<strong>con</strong>obbe penso<br />

l’impegno, il rischio di chi non acco<strong>gli</strong>e <strong>con</strong> indifferenza, supinamente, la dottrina e i misteri. Il<br />

fatto che riuscisse <strong>con</strong> la logica a mettere in difficoltà perfino la Bibbia mi rammentava analoghe<br />

demolizioni da parte del mio grande zio Peano. Che fosse lui finalmente l’erede? Ne dubitavo.<br />

Avevo bene appreso dallo zio stesso che il calcolo non è la matematica, che l’abilità nel calcolo non<br />

significa disposizione per la scienza; ma mi domandavo se fosse possibile che un futuro matematico<br />

non volesse saperne di imparare la tavola pitagorica. Non so se sia stata <strong>prima</strong> la sua logica a farmi<br />

pensare allo zio Giuseppe. In certi momenti lo evocava nei modi: la facoltà di astrarsi, di ignorare la<br />

presenza de<strong>gli</strong> altri e anche la propria; <strong>gli</strong> scoppi di allegria improvvisa, o di insofferenza e di<br />

<strong>impazienza</strong>; la risata nervosa, sussultante e persino certi lampi disarmanti di sorriso indulgente,<br />

dolce. Lo strano era che lui bambino assomi<strong>gli</strong>ava allo zio come io l’avevo <strong>con</strong>osciuto, cioè vecchio<br />

(era zio di mia madre). Anche adesso <strong>gli</strong> somi<strong>gli</strong>a. Anche adesso la logica governa il suo<br />

agnosticismo, <strong>gli</strong> detta la battuta repentina, lucida, giusta. La <strong>con</strong>centrazione lo fa passare immune<br />

in mezzo alla gente. Cosa pensava lo zio in quei momenti lo so: tirava fuori dalla tasca della giacca<br />

un pezzo di carta e scriveva delle formule. E lui, cosa pensa? Se <strong>gli</strong>elo domando risponde: ‑ Non so<br />

‑. Capisco che è per scrollarsi la seccatura, ma rimango male. In quel tempo dei suoi sette-otto<br />

anni, usciva qualche volta dal suo incantato silenzio <strong>con</strong> una frase breve, astratta e un po’<br />

misteriosa, tanto che sembrava <strong>gli</strong> fosse dettata, come accadeva ai profeti. La forma era astratta, ma<br />

a rifletterci il senso era <strong>con</strong>facente a lui nel modo piú diretto. La piú <strong>con</strong>cisa la mormorò,<br />

fermamente, mentre stava per affrontare, al solito senza vo<strong>gli</strong>a, la minestra posta davanti a lui sulla<br />

tavola. Guardava assorto davanti a sé, e disse: ‑ Me<strong>gli</strong>o il non essere che l’essere. Mi rendevo <strong>con</strong>to<br />

che la frase era filosofica solo in apparenza; però rimasi senza fiato. Che la sua disposizione per la<br />

logica fosse di uno che è per diventare col tempo un filosofo, non era poi da escludere; anzi, era uno<br />

sbocco abbastanza naturale. Del resto la frase si può spiegare, si può risalire all’occasione vo<strong>gli</strong>o<br />

dire. Doveva essere suggerita proprio dalla minestra. La portata filosofica non era <strong>con</strong>sapevole, però<br />

l’astrattezza rendeva universale quel pessimismo che purtroppo in lui era organico e si manifestava<br />

appunto col disgusto davanti al cibo, all’impegno vitale. Per quel senso sofferto e insieme<br />

impersonale, non era filosofia ma poesia. La stessa idea, in fondo, <strong>gli</strong> suggerí l’uscita di nuovo<br />

apparentemente filosofica, ma in sostanza ironica e patetica: ‑ Non si può rinunziare alla vita eterna?

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