31.05.2013 Views

Note sugli Albanesi d'Italia nel Mezzogiorno - Sides

Note sugli Albanesi d'Italia nel Mezzogiorno - Sides

Note sugli Albanesi d'Italia nel Mezzogiorno - Sides

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

NOTE SUGLI ALBANESI D’ITALIA NEL MEZZOGIORNO *<br />

di<br />

Vincenzo Giura<br />

Nel corso del tempo si sono andati via via moltiplicando studi e ricerche sulle cosiddette<br />

“minoranze etniche” d’Italia, gran parte delle quali, tuttavia, a carattere etnografico,<br />

letterario, antropologico, folkloristico, artistico. Da minor tempo, invece, si è iniziato a<br />

studiare queste minoranze da un altro punto di vista, quello economico – sociale,<br />

essendosi compreso come esse rappresentino un tassello indispensabile per una migliore<br />

e più completa conoscenza della vita, dell’economia, della società di un paese.<br />

In questa serie di studi, una “particolare attenzione è stata riservata agli <strong>Albanesi</strong><br />

d’Italia, la cui consapevolezza circa le proprie origini, sebbene continuamente erosa<br />

dalla cultura occidentale” – si pensi ad esempio agli effetti della televisione sulla cultura<br />

e la lingua di queste minoranze – rimane tuttavia “tenacemente radicata <strong>nel</strong>le comunità<br />

arbëresh”<br />

, diffuse in Calabria e in Sicilia 1 , ma anche in altre parti del <strong>Mezzogiorno</strong>,<br />

come la Basilicata, in particolare S. Paolo, anticamente Casalnuovo di Noia, e S.<br />

Costantino Albanese – che contrariamente alle comunità del Vulture hanno mantenuto<br />

quasi totalmente lingua, usi e costumi tradizionali; la Campania (Greci), l’Abruzzo, il<br />

Molise e la Puglia, in particolare in terra d’Otranto.<br />

È opportuno precisare che si è spesso parlato dell’esistenza di due “grecità” in Italia, e a<br />

questo proposito è necessario ricordare che il termine “greco” veniva applicato a tutte le<br />

popolazioni del Levante che osservavano il rito greco e che, pertanto, va inteso più<br />

come riferito alla religione che alla nazionalità. In più era assai frequente l’uso della<br />

parola “schiavone” per designare gli albanesi stanziatisi <strong>nel</strong> settentrione della penisola<br />

italiana e “greco” per quelli stanziatisi <strong>nel</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>.<br />

Di queste due, chiamiamole così, “grecità”, la prima – che è praticamente scomparsa –<br />

era quella derivante dall’immigrazione proveniente da Costantinopoli e dalle diverse<br />

regioni dell’Impero d’Oriente – non si dimentichi che le diocesi di Calabria e<br />

dell’Illirico erano per decreto di Leone III Isaurico soggette al Patriarca di<br />

Costantinopoli - ed era costituita in gran parte da monaci e funzionari che per attuare la<br />

politica imperiale utilizzavano anche la rete dei monasteri basiliani esistenti <strong>nel</strong><br />

<strong>Mezzogiorno</strong>; la seconda, a cui si devono le numerose comunità ancora esistenti è,<br />

invece, quella che inizia a partire dal secolo XV, quando gli albanesi furono chiamati –<br />

secondo la tradizione – da Alfonso I d’Aragona per aiutarlo a combattere feudatari<br />

ribelli (la rivolta di Centelles) e i rivali angioini 2 . Domata la rivolta il sovrano<br />

ricompensò il Reres, capo delle milizie albanesi donandogli feudi e investendolo di<br />

diverse cariche. Ma è con l’arrivo, sempre su chiamata degli Aragonesi; di Giorgio<br />

Castriota Scanderberg – che come capitano d’Albania aveva guidato la resistenza contro<br />

1 * Questa relazione riprende in parte quella tenuta a Greci <strong>nel</strong> 2008 su invito del Dipartimento di<br />

Filologia moderna dell’Università Federico II di Napoli.<br />

P. DE LEO, Mobilità etnica tra le sponde dell’Adriatico in età medioevale. I primi insediamenti<br />

<strong>Albanesi</strong> in Italia, in “Gli <strong>Albanesi</strong> in Calabria, sec. XV – XVIII” a cura di C. Rotelli, Edizione Orizzonti<br />

Meridionali, p. 13.<br />

2 Su questo v. E. PONTIERI, La Calabria a metà del secolo XV e la rivolta di Antonio Centelles, Napoli,<br />

1963. Sulla venuta di Reres, su quella di Scanderbeg e <strong>sugli</strong> effetti della concessione di domini feudali, v.<br />

le osservazioni di M. MANDALÀ, Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbëreshe, Palermo,<br />

2007, pp. 66-67, 103 e segg., in cui ponendo in rilievo come numerosi documenti siano stati falsificati, si<br />

chiede: “è mai esistito Demetrio Reres?”. V. anche pp. 140 -143.<br />

1


gli ottomani distinguendosi a tal punto di meritarsi il titolo di Athleta Cristi dai pontefici<br />

Callisto III e Pio II – e delle sue bande che il fenomeno acquista dimensioni di notevole<br />

rilievo.<br />

Molti dei soldati giunti al suo seguito, decisero, infatti, di restare <strong>nel</strong> regno e i loro<br />

insediamenti conobbero uno sviluppo ancora maggiore dopo la morte dello Scanderbeg,<br />

<strong>nel</strong> 1468, quando molti albanesi, vista l’impossibilità di continuare la lotta contro la<br />

soverchiante potenza ottomana, scelsero la via dell’esilio3 e si rifugiarono <strong>nel</strong> Regno di<br />

Napoli, verso il quale li spingevano gli antichi rapporti esistenti tra i due paesi.<br />

Tra l’Albania e Napoli i legami erano, infatti assai antichi e stretti. Se Carlo d’Angiò,<br />

<strong>nel</strong> 1272, aveva accettato il titolo di re d’Albania, sarà più tardi Filippo di Taranto ad<br />

intitolarsi “regni Albanie Dominus” e ancora sul finire del XIV secolo sarà re Ladislao<br />

a rivendicare il dominio del paese al di là dell’Adriatico4 .<br />

Infine una nuova ondata si ebbe <strong>nel</strong> 1534, quando gli abitanti di Corone, insorti contro i<br />

Turchi, dopo aver con grande valore – raccontano le cronache – sopportato un feroce<br />

assedio, si trasferirono, con l’aiuto della flotta del Doria, <strong>nel</strong> regno di Napoli5 .<br />

Mentre della prima ondata di “grecità”, quella proveniente dall’impero d’Oriente, è<br />

difficile trovare traccia, perché si trattò di un’immigrazione continua, ma di poche<br />

persone, che si dissolse rapidamente <strong>nel</strong>la popolazione indigena della quale,<br />

integrandosi, assunse in breve tempo lingua, usi e costumi, non si può certamente dire lo<br />

stesso per la seconda.<br />

Il numero degli immigrati di questa, infatti, era alto ed è ben noto che quando<br />

l’immigrazione in un luogo riguarda “masse compatte e numerose, queste possono – in<br />

determinate condizioni di ambiente che ne favoriscono l’isolamento”, come mancanza<br />

di strade, mercati, ecc. – “conservare la propria individualità etnica, la lingua, gli usi e<br />

costumi tradizionali, mantenendosi così integre tra le popolazioni autoctone6 .<br />

Questa immigrazione venne poi favorita dal fatto che il sistema feudale vigente <strong>nel</strong><br />

regno permetteva ai Baroni di utilizzare gli albanesi, non soltanto come uomini d’arme,<br />

ma anche e specialmente come forza lavoro nei loro feudi, dato che, a causa della crisi<br />

demografica, dovuta alle ricorrenti pestilenze, e dello stato d’insicurezza in cui<br />

versavano le campagne, l’agricoltura ed i villaggi venivano sempre più abbandonati.<br />

Prendiamo, ad esempio, il caso della Calabria, una regione dove grande fu il numero<br />

degli immigrati e assai forte l’isolamento delle comunità e, di conseguenza, il<br />

mantenimento delle proprie caratteristiche originali. Tra calabresi ed albanesi da<br />

un’iniziale convivenza apparsa subito non facile, si giunse ben presto ad un punto di<br />

frizione fortissimo, reso ancor più acuto del diverso regime di rapporti sociali e di<br />

produzione che i nuovi venuti avevano trovato in Calabria, cosa che condizionerà i loro<br />

rapporti con la potente nobiltà feudale della regione7 .<br />

3 Queste notizie vanno prese con grande cautela ed attenzione. Occorre, infatti, confrontarsi con quanto<br />

scritto da M. MANDALÀ,<br />

Mundus vult decipi,<br />

cit., che perseguendo in un’opera di revisione critica su<br />

quanto affermato dagli studiosi precedenti, pone in guardia contro l’estesa falsificazione di documenti,<br />

anche sovrani, compiuta per creare una tradizione storiografica e dare un’ identità – non rispondente al<br />

vero – alle comunità albanesi.<br />

4 V. GIURA, La vita economica degli <strong>Albanesi</strong> in Calabria nei secoli XV – XVIII, in “Gli <strong>Albanesi</strong> in<br />

Calabria”, cit., p.71.<br />

5 G. V. MEOLA, Delle Istorie della Chiesa greca in Napoli esistente, Napoli, 1796; D. AMBRASI, In<br />

margine all’immigrazione greca <strong>nel</strong>l’Italia meridionale nei secoli XV e XVI, in “Asprenas, VII, 2, 1961;<br />

J. K. HASSIOTIS, La comunità greca di Napoli e i moti insurrezionali <strong>nel</strong>la penisola balcanica<br />

meridionale durante la seconda metà del XVII secolo, in “Balkan Studies, vol X, 1969.<br />

6 F. SAVORGNAN, Le colonie albanesi in Italia, in “Nuova Antologia”, a. 1939, f. 1613, p. 313.<br />

2


Ovviamente questi rapporti saranno differenti a seconda che si tratti del XV, XVI, XVII<br />

secolo, specialmente a causa dei mutamenti avutasi <strong>nel</strong>la potenza nobiliare.<br />

Schematizzando fortemente possiamo dire che <strong>nel</strong> XV secolo, una nobiltà feudale<br />

ancora potente e che ha bisogno, come si è detto, degli albanesi non solo come uomini<br />

d’arme, ma essenzialmente per colmare il vuoto demografico che guerre e pestilenze<br />

avevano aperto <strong>nel</strong>la campagna, non impone loro le dure condizioni cui erano soggetti i<br />

contadini calabresi.<br />

Li obbliga, però, ad una vita nomade, legata ad insediamenti precari composti da un<br />

insieme di capanne o sorti occupando villaggi abbandonati – “ab indigenis italis<br />

constructum” – proibendo loro di costruire case in muratura per evitare che divenissero<br />

stanziali.<br />

Vita nomade e brigantaggio si svilupparono così parallelamente tanto che <strong>nel</strong> 1492, un<br />

decreto vicereale, che ebbe così poco effetto da dover essere reiterato <strong>nel</strong> 1539, ordinò<br />

agli albanesi – al fine ovviamente di poterli controllare meglio – di ritirarsi “in terre<br />

murate o <strong>nel</strong>le città circonvicine” e limitò ancor più i diritti loro concessi.<br />

Nel XVI secolo, la crisi della grande signoria feudale permette a calabresi ed albanesi di<br />

strappare concessioni che conducono ad un miglioramento delle proprie condizioni che,<br />

invece, peggioreranno nuovamente <strong>nel</strong> XVII, perché i nuovi signori feudali che si sono<br />

sostituiti agli antichi, spesso forestieri, in buona parte provenienti dal ceto mercantile, e<br />

che hanno acquistato terre, titoli e diritti, impongono loro regole molto più severe 8 .<br />

Continuando gli albanesi ad essere accusati di compiere “omni di mille furti et delicti” 9<br />

a chiara dimostrazione che i precedenti decreti del governo vicereale avevano avuto<br />

scarso o nessuno effetto, <strong>nel</strong> 1564, il vicerè duca di Alcalà, “ considerato che i maggiori<br />

danni che si son fatti e si fanno in tutte le province e per tutto il regno son causa gli<br />

albanesi che rubano indifferentemente e fanno altri delitti”, decretò che essi non<br />

potessero cavalcare con “sella e briglie, speroni e staffe, sotto pena di cinque anni di<br />

galera” 10 .<br />

Come si è già notato in altro scritto 11 , il voler accollare agli albanesi tutte le colpe è cosa<br />

assai sospetta. È evidente che in una società rozza, misera, misoneista, qual’era quella<br />

calabrese del tempo, la tendenza a fare degli albanesi il capro espiatorio di qualunque<br />

situazione, addossando loro ogni genere di colpa su cui rivalersi dovesse essere assai<br />

forte, specie da parte delle autorità locali che potevano scaricare su di essi i malumori<br />

delle popolazioni indigene.<br />

Da parte di alcuni studiosi si è sostenuto che proprio come conseguenza di tali divieti,<br />

gli albanesi, con molto ingegno occorre dire, avrebbero creato il basto a croce per<br />

sostituire la sella loro vietata.<br />

Ma lasciamo da parte ciò e notiamo invece che questa proibizione, dalla quale si poteva<br />

derogare solo grazie ad un decreto vicereale 12 , non si applicò però a tutti gli albanesi<br />

7 Su questi rapporti, si vedano le capitolazioni stipulate tra albanesi, baroni e vescovi, rinvenute e<br />

pubblicate da G. TOCCI, Memorie storiche – legali pei comuni albanesi di S. Giorgio, Vaccarizzo, S.<br />

Cosimo, S. Demetrio e Macchia, Cosenza, 1869.<br />

8 V. GIURA, Vita economica e minoranze; due casi a confronto, in “Clio”, a. XL, 2004, n. 3, pp. 549 –<br />

550.<br />

9 F. CAPALDO, Di alcune colonie albanesi <strong>nel</strong>la Calabria Citra, in “Archivio Storico Calabrese”, a. V,<br />

1917, pp. 263 – 264.<br />

10 Il decreto vicereale è riportato in F. CAPALDO, Di alcune colonie, cit., p. 264.<br />

11 V. GIURA, La vita economica degli <strong>Albanesi</strong>, cit., pp. 76 – 77.<br />

12 Come quello che <strong>nel</strong> 1596, il vicerè conte di Olivares concesse a Demetrio Belluscio e a suo figlio<br />

Lazaro di poter usare, benché albanesi, sella, briglie, staffe e speroni in quanto erano “homini principali,<br />

da bene, quieti e ricchi”. (C. Pepe, Memorie storiche di Castrovillari, Castrovillari, 1880, p. 282).<br />

3


giunti <strong>nel</strong> regno. Per i coronei la sorte fu differente. Sia al momento dell’arrivo che in<br />

seguito vennero accordati loro numerosi privilegi. Durante il viceregno di Don Pedro de<br />

Toledo vennero riconosciute ad essi – su loro richiesta – le franchigie, immunità ad<br />

esenzioni di cui godevano i liparoti. In più Carlo V concesse ad alcuni di loro sussidi e<br />

li esentò da ogni “gabella regia, jusso ordinario ed extraordinario imposto e da imporsi”,<br />

nonché dai “diritti, baronali e di università” 13 , privilegi validi per ogni attività e in ogni<br />

luogo finché si fossero trattenuti <strong>nel</strong> regno. Questi privilegi furono poi in larga parte<br />

confermati dai successivi sovrani Filippo III, IV e V.<br />

Si assiste così allo strano fenomeno per il quale mentre si proibiva ad una parte degli<br />

albanesi di poter fare certe cose, ad un’altra si concedeva di farle e con grande liberalità.<br />

Mentre gli uni, ad esempio, non potevano portare armi sotto pena di gravi sanzioni, gli<br />

altri – i coronei – fino al 1671, quando fu abolito il privilegio, potevano portare le armi<br />

per “tutti li regni et juridictione delle M. M. Cesaree, etiam sino la camera delle loro<br />

Maestà”. In più ebbero il titolo di cavalieri e il permesso di usare sella e sproni.<br />

Queste distinzioni oltre a ricreare in Italia un’aristocrazia albanese, “comprovano<br />

quanto fosse stato diverso il fato dei vari gruppi di uomini appartenenti tutti allo stesso<br />

popolo ed emigrati per l’identica cagione 14 .<br />

Questa aristocrazia albanese si stabilì <strong>nel</strong>la quasi totalità <strong>nel</strong>la capitale dove i suoi<br />

componenti si dedicarono in maggioranza al mestiere delle armi, arruolandosi o <strong>nel</strong>la<br />

marina, o nei famosi reparti degli stradioti 15 - o allo spionaggio, essendo indispensabile<br />

per i vicerè conoscere i progetti del nemico turco. Si organizzò, così, “gradualmente una<br />

rete di spie, agenti, sabotatori “che dietro compenso” e “per ragioni sentimentali”<br />

svolgevano la loro attività a Costantinopoli, in Morea, <strong>nel</strong> Negroponte, in Egitto, in<br />

Siria. Questi uomini, variamente denominati come espias, confidentes, agentes,<br />

embajadores, si tenevano in contatto con le autorità del regno che, a loro volta,<br />

trasferivano le notizie raccolte a Madrid sotto il titolo di avisos de Levante 16 .<br />

13 Sui privilegi concessi ai coronei, v. tra gli altri: G. V. MEOLA, Delle Istorie della Chiesa greca, cit.,<br />

pp. 95 – 96; D.AMBRASI, In margine, cit., A MASCI, Discorso sull’origine, i costumi e lo stato attuale<br />

degli albanesi <strong>nel</strong> regno di Napoli, Napoli, 1847; J. MARTINEZ FERNANDO, Privilegios otargados<br />

por el Emperador Carlos V en el reino de Napoles, Barcellona, 1946, pp. 6, 31 – 36 e passim, Elenco dei<br />

privilegi in favore dei liparoti che furono confermati da Carlo V anche a favore degli altri albanesi, in F.<br />

A. PRIMALDO COCO, Casali albanesi <strong>nel</strong> Tarantino, in “Roma e l’Oriente”, vol. XV, ff. 85 – 86,<br />

gennaio – febbraio 1918 e vol. XVI, ff. 115 – 120, luglio – dicembre 1920; A. TRAPUZZANO, Gli<br />

<strong>Albanesi</strong> <strong>nel</strong>l’Italia meridionale, in “Studi meridionali”, a. IV, ff. II e III, p. 260; F. TAJANI, Le Istorie<br />

albanesi, Cosenza, 1969, pp. 46 – 47. Più in generale, V. GIURA, La vita economica degli <strong>Albanesi</strong>, cit.,<br />

pp. 77 – 78 e La comunità greca di Napoli (1534 – 1861), cit. in “Storia di minoranze. Ebrei, greci<br />

albanesi <strong>nel</strong> regno di Napoli”, Napoli, ESI, 1984, pp. 123 – 124.<br />

14 F. TAJANI, Le Istorie albanesi, cit., pp. 47 – 49; V. GIURA, La comunità greca, cit., p. 123; M.<br />

MANDALÀ, Vultus mundi decipi, cit., pp. 165 – 181, pone in discussione la tesi tradizionale relativa<br />

all’immigrazione coronea, affermando che “non solo non tutti i coronei ottennero gli onori di Carlo V, ma<br />

che i documenti fiscali che concessero loro determinati privilegi, furono “sufficienti per trasformare i<br />

profughi in un’inventata casta sociale aristocratica, introducendo una grave mistificazione “…” che<br />

collocava in una posizione “ideologica” inferiore quelli che erano giunti in Italia prima dei coronei”, e che<br />

pure venivano collegati a Scanderbeg, l’eroe albanese per eccellenza”.<br />

15 Avevano il nome di stradioti o stradiotti i reparti di cavalleria leggera, formati da albanesi, molto<br />

reputati per il loro valore. Nella chiesa greca di Napoli, una lapide ricorda che li “ riposano i due fratelli<br />

capitani di una compagnia ordinaria in questo regno di trecento soldati a cavallo nominati stradioti<br />

conceduto dalla Real Corona di Spagna alla casa di detti nobili capitani albanesi nominati D. Nicolò e D.<br />

Angelo Maispesi, per loro, suoi eredi e successori in perpetuo. Ann. Dom. MDC VIII”.<br />

16 J. K. HASSIOTIS, La comunità greca, cit., pp. 282 – 283; V. GIURA, La comunità greca, cit., pp. 125<br />

– 126.<br />

4


Gli altri, invece – i diseredati – si fissarono <strong>nel</strong>la quasi totalità <strong>nel</strong>le campagne, creando<br />

numerosi insediamenti che, come si è detto, erano spesso antichi villaggi abbandonati<br />

che, grazie a questo ripopolamento, rinascevano a vita nuova. E un esempio di ciò, mi<br />

sembra trovarsi proprio a Greci, (in Campania) un abitato che fondato <strong>nel</strong> 535 dai<br />

bizantini e distrutto <strong>nel</strong> 908 dai saraceni, venne in seguito riedificato <strong>nel</strong> 1039 – più che<br />

altro come presidio militare dal conte Potone. Crocevia naturale tra importanti vie di<br />

comunicazione, venne in seguito conquistato dai normanni e poi, <strong>nel</strong> 1273, donato da<br />

Carlo d’Angiò a Guglielmo de Lande.<br />

A partire, poi, dal XIV secolo, quando era feudo degli Spi<strong>nel</strong>li – ai quali dalla metà del<br />

secolo seguirono i Guevara, duchi di Bovino, che lo mantennero fino all’eversione della<br />

feudalità <strong>nel</strong> 1806, Greci conobbe un periodo di crisi e di spopolamento che secondo<br />

alcune fonti terminò <strong>nel</strong> 1522, secondo altre <strong>nel</strong> 1595, quando un gruppo di soldati<br />

albanesi si stabilì <strong>nel</strong> suo territorio costruendo il rione Breggo. Come riporta, infatti, il<br />

Giustiniani 17 , Greci “non potè dopo la sua riedificazione acquistare l’antico suo lustro; e<br />

non ritrovandola io <strong>nel</strong>le situazioni del Regno, prima del 1595, mi dà a credere, che<br />

fosse stato un luogo quasi abbandonato e ripopolato poi dagli albanesi come diversi altri<br />

luoghi del regno”.<br />

Pur tuttavia il Giustiniani, pur essendo forse il migliore tra i dizionari dedicati al regno,<br />

non è in grado di dare il numero degli abitanti del luogo, mentre dalle scarsissime<br />

notizie ritrovabili <strong>nel</strong>l’Archivio di Stato di Napoli, Greci appare avere, <strong>nel</strong> 1753, “224<br />

famiglie, 1121 anime” e “di comunione in tutto 714” 18 .<br />

In modo non dissimile, in altri dei villaggi abbandonati, diffusi in molte zone del regno,<br />

si andarono riunendo i componenti della minoranza albanese che, a partire dal XVI<br />

secolo, grazie alle concessioni strappate ai baroni per la crisi in cui versava la grande<br />

signoria feudale, poterono finalmente costruire le loro case in miniatura, “de calce e<br />

arena”, come recitano i documenti del tempo, e migliorare le loro condizioni di vita<br />

almeno in apparenza. È opportuno dire “almeno in apparenza” perché se sono numerosi<br />

gli indizi che a partire dalla fine del Cinquecento e lungo tutto il corso del Seicento, gli<br />

albanesi ebbero la possibilità di ottenere terre e di applicare ad esse l’uso di tecniche e<br />

di strumenti agrari assai simili a quelli calabresi, facendo ritenere che almeno dal punto<br />

di vista economico il loro inserimento si fosse praticamente compiuto, altrettanto<br />

numerosi sono quelli che fanno ritenere che solo e soltanto quello si fosse compiuto.<br />

Infatti, se consideriamo il numero elevato di albanesi – che in Calabria, ad esempio<br />

<strong>nel</strong>la sola zona di Bisignano ascendeva a circa 6000, vale a dire all’incirca il 10% della<br />

popolazione locale, è facile comprendere come mai questo mondo, grazie anche<br />

all’isolamento derivante dalla mancanza di un vasto mercato e dalla grave carenza di vie<br />

17 Dizionario geografico – ragionato del regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani a S. M. Ferdinando IV,<br />

re delle Due Sicilie, tomo V, Napoli, 1802, pp. 114 – 115; v. anche Dizionario corografico del Reame di<br />

Napoli, compilato per cura del Cav. Don Ferdinando De Luca e di Don Raffaele Mastriani, Milano,<br />

1852, p. 460; Dizionario corografico dell’Italia, compilato dal prof. Amato Amati, vol. IV, p. 263, Nuovo<br />

dizionario geografico universale, tomo III, parte I, Venezia, 1829, p. 86.<br />

18 A. S. N., f. 7324, Provincia di Capitanata. Distretto di Bovino. Atti preliminari. Squarciafogli<br />

dell’Apprezzo di Campagna e Libro dell’Apprezzo, 1753. Descrizione dello Stato delle Anime della terra<br />

di Greci e Famiglie della suddetta terra e Chiesa sotto il titolo di S. Bartolomeo apostolo ordinato da me<br />

sottoscritto Arciprete D. Nicolò Macchione, cominciato il di primo di aprile 1753. Secondo il Morelli, (T.<br />

MORELLI, Cenni storici sulla venuta degli <strong>Albanesi</strong> <strong>nel</strong> Regno delle Due Sicilie, Napoli, Guttemberg,<br />

1842), gli <strong>Albanesi</strong> presenti <strong>nel</strong> Regno ammontavano a 103446, dei quali 32000 in Sicilia; 32269 in<br />

Calabria Citra; 9542 in Calabria Ultra II; 589 in Calabria Ultra I; 7923 in Basilicata; 9812 in Capitanata;<br />

4398 <strong>nel</strong> Contado di Molise; 6559 in Terra d’Otranto e 274 in Abruzzo Ultra I.<br />

5


di comunicazione, pur integrandosi in qualche misura e forse anche migliorando<br />

economicamente, si chiuda in se stesso come a difesa del mondo esterno 19 .<br />

Poniamoci ora due domande e proviamo a dar loro risposta per meglio comprendere<br />

quello di cui parliamo.<br />

Che cos’è una minoranza? Chi erano e come erano visti gli albanesi trasmigrati <strong>nel</strong><br />

regno?<br />

In generale, per minoranza, intendiamo quei gruppi che insediatisi in un paese a loro<br />

estraneo, per diversi motivi, mantengono proprie tradizioni e caratteristiche religiose,<br />

linguistiche ed etniche e che sono portatori di usi, culture, abitudini, di una civiltà,<br />

insomma, diversa da quella della maggioranza del paese. Non bisogna però cadere<br />

<strong>nel</strong>l’errore di ritenere che esista un solo fenomeno immigratorio, quello diciamo così<br />

tradizionale, che vede gruppi di abitanti di un paese povero trasferirsi in un paese più<br />

ricco alla ricerca di migliori condizioni di vita. Esiste anche l’immigrazione da un paese<br />

più ricco verso un altro in ritardo sul piano economico e privo di esperienze produttive<br />

su larga scala, ove questi gruppi portano cultura industriale, capitali, tecnologie, tutto<br />

quello che oggi noi definiamo know – how.<br />

In entrambi i casi, sia che si tratti di una comunità debole e povera – gli albanesi – sia<br />

che si tratti di una ricca e forte 20 , ad es. quella degli industriali evangelici giunti <strong>nel</strong> XIX<br />

secolo <strong>nel</strong> regno di Napoli 21 , è viva la tendenza a non integrarsi, perché si vuol marcare<br />

fortemente la propria, diversa, identità, non ritrovando valori simili ai propri <strong>nel</strong>la<br />

società maggioritaria che la circonda 22 .<br />

Seconda domanda. Chi sono e come erano gli albanesi? Secondo quanto scrive a<br />

proposito di essi, Fernand Braudel ne la Mediterraneé, questi profughi che<br />

abbandonarono la loro terra per cercare rifugio negli altri paesi del Mediterraneo, vanno<br />

visti come inaffidabili avventurieri, sempre pronti a porsi al servizio di chi li assoldi,<br />

senza nessuna remora né morale, né religiosa, tanto da porsi anche al servizio<br />

dell’odiato nemico ottomano. Infatti, scrive Braudel, dando un giudizio di essi molto<br />

severo, per essi “dov’è la sciabola la è fede”. “Se poi non trovano nessuno che li prenda<br />

sotto le proprie insegne - scrive ancora il Braudel – “prendendo il fucile per pascià e la<br />

spada per visir fanno per conto loro e si trasformano in briganti” 23 .<br />

Questo giudizio del grande storico francese è forse troppo severo. Certo gli albanesi non<br />

erano delle educande, ma guerrieri duri e violenti; volerli dipingere però come un‘onda<br />

errabonda di mercenari dediti principalmente al saccheggio e alla distruzione è<br />

probabilmente eccessivo. Bisogna, infatti, tener presente il mondo da cui provenivano,<br />

una società montanara, agricolo – pastorale, fortemente legata alle proprie<br />

caratteristiche ed al proprio credo religioso. Ed è proprio questo attaccamento che li<br />

spinge, abbandonando i loro luoghi natii, ad emigrare in gran numero <strong>nel</strong> regno di<br />

Napoli, pur di non soggiacere al dominio turco. Questo trasferimento non è però un<br />

19 V. GIURA, Vita economica e minoranze, cit. p. 550.<br />

20 Tra le diverse definizioni di minoranze, mi sembra particolarmente felice quella dovuta ad A. M.<br />

BANTI, riportata in R. GARRUCCIO, Il comportamento economico delle minoranze in prospettiva<br />

storica: un’introduzione metodologica, in “Archivi e Imprese”, a. VII, dicembre 1997, p. 231, che le<br />

descrive come “agglomerazione di soggetti”, spesso stranieri, economicamente attivi, attrezzati di<br />

capacità professionali specifiche, legati da valori culturali e religiosi, dalla lingua, dalla nazionalità, da<br />

contatti di affare e di frequentazione amicale, da una marcata endogamia.<br />

21 D. L .CAGLIOTI, Imprenditori evangelici <strong>nel</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> dell’ottocento, in “Archivi e Imprese”, cit.<br />

pp. 244 – 282.<br />

22 Si pensi ad es. alla Scuola svizzera di Napoli dove venivano educati i figli degli imprenditori<br />

evangelici.<br />

23 F. BRAUDEL, Civiltà ed imperi del Mediterraneo <strong>nel</strong>l’età di Filippo II, Torino, 1986, pp. 33 – 34.<br />

6


passaggio tumultuoso e disordinato di bande. È spesso, invece, un flusso abbastanza<br />

continuo di popolazioni da una sponda all’altra dell’Adriatico e in qualche caso un<br />

esodo come <strong>nel</strong> caso – secondo la tradizione – della cittadina di Corone in Morea. Qui<br />

dichiaratosi Carlo V impossibilitato a continuarne la difesa, l’intera popolazione, sotto<br />

la guida della maggiore autorità religiosa della città, il metropolita Benedetto, si trasferì<br />

<strong>nel</strong> regno di Napoli. Questa, del 1534, è considerata, come si è detto, l’ultima grande<br />

ondata di immigrazione, anche se in seguito vi furono altri arrivi anche se meno<br />

numerosi.<br />

Né bisogna ritenere che quelli giunti fossero tutti persone rozze e violente. Certo ve ne<br />

erano ma vi erano anche fini artisti e letterati. Basterebbe ricordare Belisario Corenzio,<br />

uno dei più noti artisti del Seicento napoletano, i cui lavori impreziosirono la Chiesa dei<br />

S. S. Pietro e Paolo dei nazionali greci, sita a Napoli; oppure letterati come Teodoro<br />

Gaza, Manilio Rallo e, soprattutto Michele Marullo Tarcaniota, valoroso soldato di<br />

ventura certo, che viene però ricordato non per le sue virtù guerresche, ma come<br />

letterato colto e poeta raffinato che occupò un posto di rilievo <strong>nel</strong>la Napoli dei suoi<br />

amici Pontano e Sannazzaro 24 .<br />

La decisione degli immigrati di conservare il più integralmente possibile le loro<br />

caratteristiche culturali e religiose li obbligava, in conseguenza, a mantenere una forte<br />

coesione sociale. Questo fatto rendeva inevitabile che i rapporti con gli indigeni fossero<br />

non certamente dei migliori. Gli albanesi, l’abbiamo visto in precedenza, venivano<br />

accusati di essere violenti, dediti ai furti – e in particolare all’abigeato – e benché i loro<br />

accusatori non fossero poi migliori di loro, le guerre tra poveri, si sa, sono sempre le<br />

più feroci, le continue lamentele nei loro riguardi, indussero le autorità ad adottare una<br />

serie di provvedimenti nei loro confronti, che finirono, <strong>nel</strong> tempo, col rendere sempre<br />

più acute diffidenza e incomprensione tra le due etnie. Per fare solo un esempio, basti<br />

pensare che <strong>nel</strong> 1644 gli albanesi di San Demetrio, in Calabria, chiedono al loro<br />

feudatario, il Cardinale Brancaccio che non venisse consentito agli italiani di stare<br />

insieme ad essi nei casali e l’autorizzazione a cacciar via quelli che si erano stabiliti.<br />

Testualmente: “domandano che gli italiani non possano stare in detti casali unitamente<br />

con gli albanesi e quelli che si ritrovano li possano cacciare via, stante che non possono<br />

campare unitamente con gli italiani per molte cause”. E il cardinale, cui doveva essere<br />

ben nota la situazione, non si stupì affatto della richiesta che anzi accolse, annotando su<br />

di essa:“se li facci intendere prima e non uscendo li caccino”, ossia se non fossero<br />

andati via con le buone si sarebbe ricorsi alle maniere forti 25 .<br />

È assai probabile, però, che più che voler colpire gli italiani residenti da tempo, con i<br />

quali quasi certamente s’erano stabiliti rapporti economici e a volte, anche se raramente,<br />

matrimoniali, la richiesta mirasse a bloccare la possibilità di nuovi arrivi. Ma anche in<br />

questa ipotesi, appaiono ben chiare, la diffidenza, l’ostilità, l’incomprensione esistenti<br />

tra le due popolazioni.<br />

Questo stato di cose, praticamente generale, era poi aggravato dalle persecuzioni dei<br />

vescovi latini, che imponevano contribuzioni e disturbavano le funzioni di rito greco.<br />

Come scriveva, <strong>nel</strong> ‘700, Gian Vincenzo Meola, era “veramente cosa miserabile” che<br />

tutte le colonie greche del regno fossero continuamente molestate, “<strong>nel</strong>le particolari<br />

solennità dei sacrifici, amministrazione di Sagramenti, <strong>nel</strong> dar sepoltura ecclesiastica<br />

secondo il loro rito ai defunti e <strong>nel</strong> portar la croce greca fuor di lor chiesa”. E non solo<br />

24 B. CROCE, Michele Marullo Tarcaniota, in “Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento”, Bari,<br />

1945, vol. II.<br />

25 F. CAPALDO, Di alcune colonie, cit., pp. 265 – 266.<br />

7


venivano molestati, ma – scrive ancora il Meola – “venivano per questi atti di religione”<br />

“messi in contribuzione dai vescovi” e da “varie collegiate chiese dei latini: attalchè<br />

spesso impoveriti trasandavano quello che non potean come nativo costume<br />

abbandonare, il novello non sapendo per alcun verso abbracciare” 26 e tutto questo<br />

nonostante le disposizioni emanate a loro tutela <strong>nel</strong> 1521 da Leone X 27 e <strong>nel</strong> 1536 da<br />

Paolo III 28 .<br />

Non deve perciò destar meraviglia che il rito greco, divenuto il simbolo dell’identità<br />

nazionale 29 e l’endogamia finissero col costituire le mura della cittadella dove il gruppo<br />

si chiudeva a difesa dei suoi valori, pur non potendosi dire estraneo, dal punto di vista<br />

economico, al mondo che lo circondava.<br />

Produzioni, rese, usanze agrarie, attività economiche, sono in pratica le stesse degli<br />

indigeni. Il paesaggio agrario dei loro casali non differisce di molto da quello degli altri<br />

casali calabresi 30 e il periodo che va dal XVII secolo alla seconda metà del XVIII è<br />

quello che meglio illustra le trasformazioni apportate dagli albanesi al paesaggio, sia<br />

perché – come è stato scritto – <strong>nel</strong> XVII secolo ci troviamo a circa duecento anni dalla<br />

data dei primi insediamenti, per cui il rapporto col territorio è “così strutturato che è<br />

possibile cogliere il contributo alle modifiche del paesaggio stesso”, sia perché “le<br />

trasformazioni della struttura agraria, così lente per un’economia fondata su tecniche e<br />

sistemi agrari primitivi, possono essere colte solo attraverso un’analisi che tenga conto<br />

del lungo periodo” 31 .<br />

In Calabria, come in altre zone del regno, le frequenti inondazioni, dovute al carattere<br />

torrentizio dei fiumi e alla nessuna cura che si aveva di essi, rendevano la pianura<br />

paludosa e spesso malsana. L’incapacità degli uomini di affrontare questi eventi e le<br />

loro conseguenze – specialmente la malaria – spinsero in molti casi le comunità<br />

albanesi, a rifugiarsi in paesi arroccati sulle colline dove era loro possibile godere di una<br />

condizione di vita più salubre. Qui essi trasformarono queste terre <strong>nel</strong> tipico giardino<br />

mediterraneo a vigne, gelsi, uliveti ed alberi da frutto, contribuendo così non solo al<br />

ripopolamento delle terre abbandonate, ma anche alla rinascita dell’agricoltura. E questo<br />

non solamente in Calabria. Se consideriamo un’altra regione, l’Abruzzo, che <strong>nel</strong>lo<br />

stesso periodo costituiva un polo di attrazione per slavi e albanesi, vediamo come <strong>nel</strong>la<br />

fascia costiera collinare fra il Trigno e il Tronto, dove s’erano stanziati in gran numero,<br />

predominante risultava il seminativo arborato, con colture di vigne, uliveti, ortaggi e<br />

alberi da frutto 32 .<br />

26 V. G. MEOLA, Delle Istorie della chiesa greca in Napoli esistente, Napoli, 1790, p. 100.<br />

27 Il breve di Leone X del 18 marzo 1521 che proibiva ai prelati latini di disturbare le funzioni degli italo<br />

– albanesi, può leggersi in: ALLACCI, Da aetate et interstitiis in collatione ordinum apud Graecos ser<br />

vandis, Roma, 1638, pp. 5 – 14.<br />

28 La bolla di Paolo III è riportata in F. P. RUGGIERO, Intorno al diritto dei Greci cattolici di<br />

rivendicare la parrocchia greca di Napoli, Napoli, 1870.<br />

29 Su questo v. anche M. MANDALÀ, Mundus vult decipi, cit., pp. 22 – 23 e F. ALTIMARI, Le<br />

minoranze linguistiche albanesi in Italia: profili storico – letterari, antropologici e giuridico –<br />

istituzionali, in F. ALTIMARI, M. BOLOGNARI, P. CARROZZA, L’esilio della parola, Pisa, 1986, p.<br />

5.<br />

30 Su questo v., ad es., C. CAPALBO, Il paesaggio agrario e gli insediamenti urbani, in “Gli albanesi di<br />

Calabria”, cit., pp. 43 – 70 e V. GIURA, Economia e società in un casale albanese di Calabria citra <strong>nel</strong><br />

XVII secolo: S. Sofia d’Epiro, in “Studi catanzaresi in onore di Angelo Falzea”, Napoli, 1987.<br />

31 C. CAPALBO, Il paesaggio agrario, cit., p. 44.<br />

32 A. BULGARELLI LUKACS, L’economia ai confini del regno. Mercato, territorio, insediamenti in<br />

Abruzzo (XV – XVI secolo),p. 33. Più in generale per l’immigrazione albanese sulla costa adriatica<br />

italiana, v. S. ANSELMI (a cura di) Italia felix. Migrazioni slave ed albanesi in occidente, in Quaderni di<br />

“Proposte e Ricerche”, n. 3. Per l’Abruzzo in particolare, P. PIERUCCI, Emigrazione slava <strong>nel</strong>le<br />

8


A mano a mano che anche se lentamente le comunità si andavano assestando e le loro<br />

condizioni di vita miglioravano, cominciò a porsi un problema di istruzione. Non si<br />

pensi ovviamente ad un processo di alfabetizzazione o di scolarizzazione. Si trattava,<br />

invece, di porre un freno allo”stato deplorabile di ignoranza” esistente tra gli albanesi<br />

dal quale non erano affatto esenti i sacerdoti “di rito greco della nazione albanese”.<br />

Il pontefice, Clemente XII, convintosi che tutta questa situazione derivasse<br />

“assolutamente ed unicamente dal non avere gli albanesi scuole o seminari e quindi chi<br />

insegnasse loro la lingua greca”, per ovviare a ciò e mettere ordine nei “disordini” che si<br />

osservavano “<strong>nel</strong>le materie sagre ed ecclesiastiche” dove, a causa dell’impreparazione<br />

del clero, le funzioni erano recitate con tali diversità” 33 , che poteva ben dirsi che i modi<br />

di celebrarle fossero tanti quanti erano i sacerdoti, ritenne – <strong>nel</strong> 1732 – opportuna la<br />

fondazione del collegio seminario di S. Benedetto Ullano ( o Corsini dal nome di<br />

famiglia del pontefice) in Calabria, dove si educassero i “giovinetti di essa nazione”.<br />

Benché si sia certamente lontani dai “seminaria nobilium”, che <strong>nel</strong> XVII e XVIII secolo<br />

provvedevano alla formazione della classe dirigente 34 , tuttavia si può ragionevolmente<br />

presumere che un certo pensiero in tal senso dovesse essere coltivato data l’influenza<br />

che i sacerdoti esercitavano sui componenti delle comunità. Per tali motivi e per dare<br />

alla nuova istituzione, “un capo uniforme al suo rito, pratico della lingua, disciplina e<br />

amministrazione dei sagramenti”, il pontefice deputò stabilmente un vescovo titolare<br />

che risiedesse <strong>nel</strong> collegio – seminario, ne fosse il presidente e ordinasse i sacerdoti di<br />

rito greco, accordando “per la di lui congrua, una Badia cardinalizia”. Primo abate e<br />

rettore fu Felice Samuele Rodotà che, <strong>nel</strong> 1736, diverrà il primo vescovo italo – greco<br />

del regno, col titolo di arcivescovo di Berea in partibus infidelium 35 .<br />

Da questi brevi cenni sulle comunità albanesi del <strong>Mezzogiorno</strong>, risulta chiaro che, pur<br />

essendo stato compiuto un notevole lavoro, molto ancora resta da fare non solo per una<br />

migliore conoscenza della loro storia, ma anche per la difesa e sopravvivenza delle loro<br />

caratteristiche e della loro cultura. Ovviamente se il secondo punto è essenzialmente un<br />

fatto culturale e legislativo 36 , il primo – quello relativo ad una migliore conoscenza della<br />

loro storia – è un fatto che si basa sul reperimento delle fonti, cosa che presenta non<br />

poche difficoltà. Infatti, occorre prima di tutto tener presente che il periodo da prendere<br />

in considerazione è assai lungo – circa cinque secoli – e poi che non esistono documenti<br />

scritti se non da parte italiana essendo la cultura albanese essenzialmente una cultura<br />

orale. Come fu scritto, “per molti secoli gli <strong>Albanesi</strong> non hanno, si può dire, conosciuto<br />

la scrittura… I primi a servirsi della scrittura per l’albanese furono i poliglotti, della<br />

Propaganda Fide che… si servirono della lingua parlata dagli <strong>Albanesi</strong> d’Italia che s’era<br />

poco discostata da quella originaria. E così i primi scritti di lingua albanese sono opera<br />

di italiani ed ecclesiastici come Giulio Variboba del XVIII secolo. Solo molto più tardi<br />

ad opera soprattutto di Girolamo de Rada, Giuseppe Crispi, Demetrio Camarda,<br />

l’albanese ha avuto una struttura scritta 37 . Per tale motivo non solo le memorie e le<br />

province abruzzesi, secolo XIV – XVI, Quaderni, cit., pp. 232 – 246.<br />

33 Nel 1742 per porre termine a tali disordini venne pubblicata a Roma la Constitutio Sanctissimi Domini<br />

nostri Benedicti Papae XIV super ritibus graecorum pro Italo – Graecis in Italia, eiusque Insulis<br />

adjacentibus commorentibus.<br />

34 Su questo v. G. BRIZZI, La formazione della classe dirigente <strong>nel</strong> Sei – Settecento, Bologna, 1976.<br />

35 V. GIURA, Per la storia degli <strong>Albanesi</strong> d’Italia: la vita quotidiana <strong>nel</strong> Seminario di S. Benedetto<br />

Ullano, in “Storia di minoranze, cit., pp. 157 – 159.<br />

36 Su questo V. GIURA, Per una politica di tutela delle minoranze. Gli albanesi di Calabria, in “Nord e<br />

Sud”, a. XXX, N.5, aprile – settembre 1983, nn. 2 – 3.<br />

37 G. A. ANDRIULLI, Le colonie albanesi d’Italia, Estratto dagli “Atti del Primo congresso di Etnografia<br />

italiana”, Perugia, 1912, p.2.<br />

9


abitudini, ma anche gli aspetti giuridico – economici sono stati tramandati oralmente.<br />

La documentazione di parte italiana che li riguarda – fonti civili, ecclesiastiche, delle<br />

università è poi scarsa, spesso frammentaria, specie per l’età più antica, mente più ricca<br />

appare per i periodi successivi e in particolare dopo l’immigrazione coronea (1534).<br />

Questi ostacoli, certamente gravosi, non devono però frenare gli studiosi che, anzi,<br />

dovrebbero incrementare le ricerche per allargare al massimo le conoscenze.<br />

È vero che la storia delle nazioni è quella scritta dalle maggioranze che, in quanto tali,<br />

sono dominanti, ma sarebbe errato, e fors’anche colpevole, ignorare gli altri, i diversi,<br />

perché anch’essi sono importanti <strong>nel</strong>la storia del paese che li accoglie. Uomini e cose<br />

vivono solo se si preserva la loro vera – e non mitica – memoria storica. In caso<br />

contrario il loro inevitabile destino sarà quello di essere sepolti dall’oblio.<br />

10

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!