TRIESTINI A QUATTROZAMPE
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Manlio CECOVINI<br />
Il Puccio<br />
Bè, che devo dire? Al primo entrare, nella penombra, grigio su grigio, non lo distinguo<br />
neanche bene, in braccio com’è ad Alessandra che se lo regge – mi pare – con evidente<br />
sforzo muscolare. Come m’abituo alla luce comincio a vedere questo coso immenso,<br />
un animale ignoto tra la tigre e l’ippopotamo, che invade tutta la superficie disponibile<br />
della padrona, dilagando tra braccia, spalle e petto e tutto coprendo con la sua mole<br />
straripante, mentre uno sguardo verde e freddo mi scruta senza simpatia come a chiedere:<br />
“Mbè, chi è costui, che vuole ? Come lo avete fatto entrare senza chiedermi il permesso<br />
?”<br />
Tento un approccio, una carezzina su quello che, ridotto di proporzione, potrebbe<br />
essere il collo d’un leone ingrassato dalla mancanza di esercizio, ma un ruggito (dico<br />
bene? O era solo un soffio ?) mi ferma a mezz’aria, consigliandomi prudenza.<br />
Eh, dice Alessandra con la sua dolce voce, mica dà confidenza il Puccio, per accettarti<br />
deve prima conoscerti.<br />
Trovo giusto. Mettilo giù, dico, che lo veda tutt’intero. Ma lei non vuole. No, prima<br />
di pranzo, dice, potrebbe offendersi.<br />
Così in quattro, prima lui, sempre in braccio ad Alessandra, poi io, un poco imbarazzato,<br />
e finalmente Aristodemo, che per l’occasione ha indossato un completo grigio<br />
ferro e cravatta scura, entriamo in sala da pranzo e ci accomodiamo a tavola.<br />
Accomodarsi veramente è parola impropria. Comodo mi pare sia solo il Puccio, e<br />
tutti gli altri sulle spine. Il Puccio sì che trionfa, regalmente, dal suo alto sgabello, alla<br />
destra della padrona di casa che se lo cova con sguardi amorevoli e apprensivi, sprofondato<br />
nelle sue forme sontuose, le zampette vellutate posate con noncurante sicurezza sulla<br />
candida tovaglia di lino.<br />
Gli viene servita una ciotola di latte tiepido. Una ciotola di Meissen, ovviamente. Ci<br />
guarda, uno sguardo circolare di sufficienza , e dice: Bè, che state a guardare? Cominciate<br />
pure, io comincio.<br />
Proprio così, dice, sia pure un po’ a disagio, per quel suo fare sussiegoso, la<br />
Alessandra, specialmente, che tanto vorrebbe un approccio più gentile da parte sua,<br />
affondiamo il cucchiaio nella minestra (macché minestra! Ora mi accorgo che anche a<br />
noi, per non fargli torto, è stata servita una fondina di latte tiepido !) affondiamo il cucchiaio<br />
a occhi bassi e procediamo oltre senza rumore.<br />
Quando lui ha finito si lecca i baffi e fa perfino un rumorino di quelli che gli arabi,<br />
mi dicono, esigono assolutamente a tavola, a dimostrazione che s’è gradito il piatto. Non<br />
ci guarda più, alza anzi la testa fierissima e con un gesto nervoso e insieme imperioso ordina<br />
alla cameriera di cambiargli la scodella con un’altra in cui brillano rutilanti ritagli di<br />
polmone e di quelle altre leccornie che qui da noi si chiamano tutte insieme “plucia”. Mi<br />
sento piuttosto agitato mentre scruto inquieto se mai la prossima portata non sia per esse-<br />
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