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TRIESTINI A QUATTROZAMPE

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Marisa MADIERI<br />

Amavamo gli animali<br />

Nel giardino di piazza Libertà, dove, come di consueto, mi ero recata un giorno con<br />

la mia famiglia per trovare un po’ di refrigerio dall’aria ardente del nostro padiglione, particolarmente<br />

insopportabile nelle prime ore del pomeriggio, mi capitò di raccogliere un<br />

passero caduto dal nido. Mia sorella e io amavamo gli animali e quell’uccellino ci portò<br />

molta gioia. Anche la nonna Quarantotto ne fu intenerita. Lo nutrivamo con pane<br />

bagnato e rosso d’uovo sodo, lo facevamo dormire in un nido di stoffa e lo portavamo a<br />

prendere aria fuori dal Silos.<br />

Durante una di queste passeggiate il nostro uccellino fu preso da un gatto, sbucato<br />

all’improvviso da sotto un camion. Disperate ci mettemmo ad inseguirlo finché questo,<br />

spaventato, lasciò cadere il passero, ferito e insanguinato, ma ancora vivo. L’uccellino<br />

visse ancora alcuni giorni, quasi per non deludere il nostro amore. Un pomeriggio, mentre<br />

io dormivo sul mio letto affranta dal caldo, con le braccia che pendevano sul pavimento<br />

per evitare il contatto bruciante con le lenzuola, il passero venne a cercare rifugio<br />

nel cavo della mia mano abbandonata. Fu il suo congedo. L’indomani lo trovammo steso<br />

su un fianco, con un filo di bava che gli usciva dal becco, gli occhi chiusi, le zampine composte.<br />

Gli animali affrontavano la morte quieti, con dignità. I loro occhi d’ambra, cifre<br />

arcane di una vita insondabile, sapevano accoglierne il mistero senza ribellione.<br />

Mio cugino Enzo mi aiutò a scavare una buca, tra il Silos e la stazione, e a seppellire<br />

il passerotto, chiuso in una scatola per scarpe assieme a un po’ di cibo.<br />

***<br />

Nella mia infanzia ero rimasta altre volte turbata dalla morte di qualche animale. Un<br />

gattino ammalato, che io avevo raccolto in giardino e portato a casa, era stato fatto sparire<br />

una notte dai miei genitori. Alcuni vicini di casa avevano sacrificato alla fame del<br />

tempo di guerra un galletto, spirato davanti ai miei occhi senza un lamento, con molti<br />

fremiti. Una gallinella bianca, che il papà aveva portato viva dalle campagne dell’Istria e<br />

alla quale avevo avuto modo di affezionarmi poiché era rimasta alcuni giorni sul balcone<br />

della cucina, era apparsa un giorno di festa a tavola, arrostita. Per farci vivere, dunque,<br />

qualcuno doveva morire. Era la colpa originaria.<br />

Da allora non mangiai più carne e fu soltanto la zia Ada che più tardi al lido mi convinse,<br />

per il mio bene, a gustare qualche bistecca di manzo, rispondendo alle mie incalzanti<br />

domande con assicurazioni che non si trattava di vitello ma di bovino adulto, ucciso<br />

dopo aver almeno goduto l’amore della madre, succhiato il suo latte fino a soddisfazione,<br />

provato per qualche stagione le gioie dei pascoli estivi. Lo zio Alberto, d’altro<br />

canto, mi faceva rilevare che quando pescavo e mangiavo il pesce non avevo tanti scrupoli.<br />

Così ogni boccone era un’insanabile contraddizione e trafiggeva il mio cuore che custodiva<br />

ancora oscuri desideri di metamorfosi.<br />

Da Verde acqua<br />

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