Minareti e campanili - La Repubblica
Minareti e campanili - La Repubblica
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Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
RENZO GUOLO<br />
il minareto butti l’ombra sul campanile»,<br />
grida la Lega, esorcizzando il<br />
proliferare di simboli dell’islam. Per il<br />
Carroccio non si tratta certo di una<br />
questione estetica: il minareto urta la<br />
«Mai<br />
“coscienza dell’occhio”; istituzionalizza,<br />
anche visibilmente, la presenza dell’islam nel territorio;<br />
sfregia l’identità cristiana della Padania.<br />
I minareti non turbano solo i nuovi crociati che inneggiano a<br />
Poitiers o al Kalhenberg, ma anche la Chiesa, che pure non gradisce<br />
la vocazione leghista a usare la Croce come arma da brandire<br />
contro la fede altrui. A Torino il cardinale Poletto invita gli<br />
amministratori a valutarne con attenzione la costruzione. Poletto<br />
è un pastore attento ai simboli: ha affidato a Mario Botta il<br />
progetto del Santo Volto. Una chiesa caratterizzata da sette torri<br />
perimetrali, affiancate dalla vecchia ciminiera di un’acciaieria<br />
avvolta da una struttura elicoidale, che culmina, trasformandosi<br />
in postmoderno campanile, in una grande croce.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
I vescovi avvertono<br />
i sindaci: niente<br />
simboli islamici<br />
nello skyline<br />
delle nostre città<br />
Un’intolleranza<br />
che nelle antiche<br />
metropoli<br />
della convivenza<br />
tra croce e mezzaluna<br />
ha già vinto<br />
la sua battaglia<br />
l’attualità<br />
la memoria<br />
Campanili<br />
<strong>Minareti</strong><br />
e<br />
PAOLO RUMIZ<br />
Niente rintocco di campane, niente cupole o bronzei<br />
portali. In una strada acciottolata semideserta,<br />
sotto la collina di Fatih — il quartiere più islamico<br />
di Istanbul — negli angiporti del Corno d’Oro, nulla<br />
tranne una piccola targa svela l’esistenza del patriarcato<br />
di Costantinopoli e della sua chiesa di<br />
San Giorgio del Fanar, schiacciata dalle moschee dominanti sul<br />
pendio. Uno spazio mimetico, quasi catacombale e blindato da<br />
mura; gli antipodi della potenza marmorea del Vaticano. È qui<br />
che abita Bartolomeo I, il Papa d’Oriente.<br />
Fanar è un “Fort Apache” in legno scuro, una robusta villa nello<br />
stile del Mar Nero con balconi a veranda. Vi si parla a bassa voce,<br />
non per rispetto ma per timore. Nella penombra punteggiata<br />
di candele la comunità si nasconde, celebra i suoi riti facendo<br />
meno rumore possibile. Pope, archimandriti e vescovi nerovestiti<br />
fanno indecifrabili inchini attorno al Santissimo e due cori<br />
maschili costruiscono infinite litanie su un’unica nota baritonale.<br />
(segue nelle pagine successive)<br />
L’America allo specchio del ’29<br />
cultura<br />
spettacoli<br />
FEDERICO RAMPINI<br />
Gli 007 inglesi e il mistero Gheddafi<br />
ATTILIO BOLZONI<br />
Richard Avedon e il baule di Theo<br />
LAURA LAURENZI e MICHELE SMARGIASSI<br />
Riapre il Carignano, teatro dei re<br />
GIAN LUCA FAVETTO, MARIO MARTONE e VERA SCHIAVAZZI<br />
l’incontro<br />
Sergio Castellitto, voglia di cambiare<br />
PAOLO D’AGOSTINI<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO PHOTO STOCK / ALAMY
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
la copertina<br />
Scontro di civiltà<br />
(segue dalla copertina)<br />
Poletto non mette certo in<br />
discussione la libertà di<br />
culto dei musulmani ma,<br />
sottolinea, un conto è una<br />
sala da preghiera, un conto<br />
l’assalto al cielo dell’islam<br />
in una terra dove la maggioranza è<br />
cattolica. Prospettiva che lo induce a<br />
teorizzare una sorta di “reciprocità architettonica”,<br />
fondata sulla constatazione<br />
che laddove i cristiani sono in<br />
minoranza, come nel mondo islamico,<br />
i <strong>campanili</strong> non sono quanti le moschee<br />
e nemmeno alla loro altezza.<br />
<strong>La</strong> diffidenza verso il minareto, che<br />
insieme alla sacra triade formata da<br />
cupola, arco e colonna, costituisce il<br />
canone architettonico islamico o, per<br />
lo meno, verso un minareto che superi<br />
in elevazione i simboli della cristianità,<br />
non è un copyright torinese. Si<br />
manifesta sin dalla costruzione della<br />
moschea di Roma, la più grande d’Europa,<br />
inaugurata nel 1995. Un’edificazione<br />
travagliata e costellata di polemiche.<br />
Culminate nel 1991 nella decisione,<br />
presa in consiglio comunale<br />
da una maggioranza trasversale formata<br />
da democristiani, comunisti,<br />
verdi, liberali e missini, di rifiutare le<br />
richieste del progettista di alzare il<br />
minareto: Portoghesi lo vuole di quarantadue<br />
metri ma il piano regolatore<br />
lo fissa a ventiquattro. Ribadendo il<br />
suo “no” l’alleanza anti-minareto<br />
mette in campo motivazioni paesaggistiche,<br />
tirando in ballo uno skyline<br />
molto diverso da quello che, dieci anni<br />
dopo, sarà decapitato dalla tagliente<br />
«spada dell’islam» impugnata dal<br />
commando di Muhammad Atta.<br />
Quella «torre immensa», così nelle<br />
parole di qualche arrabbiato consigliere,<br />
potrebbe spezzare la linea del<br />
cielo di Monte Antenne. A poco varranno<br />
le argomentazioni di Portoghesi,<br />
che mira a fare dell’edificio, che<br />
mescola insieme elementi della tradizione<br />
architettonica islamica e di<br />
quella romana, un simbolo di convivenza<br />
tra culture e religioni.<br />
Un sincretismo che avrebbe soddisfatto<br />
l’immaginario sguardo postumo<br />
di Vitruvio, per il quale l’architetto<br />
che innalza templi deve sempre<br />
avere nozioni di teologia, ma non del<br />
Vaticano. Nonostante tra i favorevoli<br />
alla costruzione della moschea vi sia<br />
Andreotti, notoriamente in buoni<br />
rapporti Oltretevere e Oltremediterraneo,<br />
il minareto non raggiungerà<br />
mai le ambite altezze. Vox populi, ma<br />
non solo, vuole per un intervento della<br />
stessa Santa Sede, che non si oppone<br />
alla moschea ma teme — con buona<br />
pace di Bramante, Sangallo e Michelangelo,<br />
verrebbe da dire — che<br />
Segrate, Roma, Colle Val d’Elsa. Bastano le dita<br />
di una mano per contare i <strong>campanili</strong> islamici costruiti,<br />
costruiti a metà o non ancora completati nel nostro Paese<br />
Veti vaticani, battaglie xenofobe, l’ombra lunga<br />
dell’11 settembre continuano a tenere l’Italia lontana<br />
dal clima di libertà di religione proprio dell’Occidente<br />
<strong>La</strong> guerra santa dei minareti<br />
RENZO GUOLO<br />
Islam in Italia<br />
Secondo l’ultimo dossier<br />
Caritas/Migrantes sono<br />
1.253.704 gli immigrati<br />
di fede musulmana registrati<br />
in Italia: il 55 per cento vive<br />
al nord, il 25 per cento al centro<br />
e il 20 per cento al sud<br />
Luoghi di culto<br />
Sono 735 i luoghi di culto<br />
e di aggregazione islamica<br />
censiti in Italia nel 2007:<br />
per lo più appartamenti,<br />
garage, ex cascine e fabbriche<br />
in disuso dove i fedeli<br />
musulmani si riuniscono<br />
Le “vere” moschee<br />
Tre sono i luoghi di culto in Italia<br />
che si presentano dal punto<br />
di vista architettonico come<br />
moschee autentiche: quella<br />
di Segrate costruita nel 1988,<br />
quella di Roma del 1995 e quella<br />
di Colle Val d’Elsa, incompiuta<br />
Le moschee negate<br />
A Genova, Bologna, Padova<br />
e Trento il dibattito<br />
sulla costruzione delle moschee<br />
è ancora aperto. «Niente<br />
minareti vicino ai <strong>campanili</strong>»,<br />
ha detto l’arcivescovo<br />
di Torino Severino Poletto<br />
Le preghiere pubbliche<br />
Il 4 gennaio scorso, a Milano,<br />
la manifestazione dei musulmani<br />
pro-Gaza è culminata<br />
in una preghiera in piazza<br />
Duomo. <strong>La</strong> stessa scena<br />
si è ripetuta a Roma, davanti<br />
al Colosseo, il 17 gennaio<br />
dimensioni e aspetto possano sminuire<br />
la grandiosa monumentalità di<br />
San Pietro. Per diabolico effetto di<br />
quota Monte Antenne, il minareto in<br />
versione originaria avrebbe superato<br />
la Basilica. Situazione imbarazzante.<br />
I vincoli, politici e religiosi più che urbanistici,<br />
fissati per l’edificazione<br />
erano chiari: la cupola deve essere più<br />
bassa di quella di San Pietro. Idem il<br />
minareto, che non deve avere nemmeno<br />
altoparlanti per richiamare i fedeli<br />
alla preghiera: un caso unico di<br />
introiezione della sovranità limitata<br />
architettonica islamica in terra cristiana.<br />
Il risultato è che il manar viene<br />
abbassato da quarantadue a ventiquattro<br />
metri, risultando “leggermente”<br />
sproporzionato rispetto all’intero<br />
corpo della costruzione. Il<br />
bello, dunque, non è sempre raggio<br />
della luce divina.<br />
Non ha incontrato simili problemi<br />
la moschea di Segrate, costruita nel<br />
1988. <strong>La</strong> prima con cupole e minareto<br />
dopo la distruzione, nel 1300, di Lucera,<br />
città pugliese in cui Federico II aveva<br />
deportato i musulmani di Sicilia,<br />
distrutta poi dagli eserciti di Carlo<br />
d’Angiò. Il minareto, con la<br />
cupola in lastre di rame,<br />
non piace a qualche residenzialissimo<br />
abitante<br />
di Milano 2 ma le condizioni<br />
non sono mature<br />
perché la vicenda<br />
diventi un caso. I seguaci<br />
di Alberto da<br />
Giussano sono ben lontani<br />
dal potere, la Lombardia<br />
è “dominata” da un partito<br />
decisamente filoarabo a livello<br />
nazionale, l’11 settembre è ancora solo<br />
una data del calendario. Delle complesse<br />
differenziazioni dell’islam organizzato<br />
pochi sono al corrente. Il<br />
fatto che la moschea al-Rahmàn graviti<br />
nell’orbita del circuito Ucoii nulla<br />
dice. <strong>La</strong> discussione riguarda, semmai,<br />
il concretissimo problema della<br />
diminuzione del valore delle aree limitrofe<br />
per effetto di quella sin troppo<br />
avvistabile presenza.<br />
Amplificate dagli eventi dell’annus<br />
horribilis 2001, le cose andranno diversamente<br />
a Colle Val d’Elsa. Qui la<br />
moschea, cupola alta quattro metri e<br />
minareto di otto metri e mezzo, solleva<br />
immediate proteste, non solo locali.<br />
Impegnata nella sua battaglia contro<br />
l’islam, la Fallaci afferma di non<br />
voler vedere «un minareto nel paesaggio<br />
di Giotto». A mobilitarsi sono<br />
cristiani identitari, atei devoti, noti<br />
opinionisti, avversari del multiculturalismo,<br />
parlamentari in carica e in<br />
pectore, oppositori politici del governo<br />
locale. <strong>La</strong> moschea resta incompiuta:<br />
fine dei fondi, inchieste su abusi<br />
edilizi, sommovimenti nella leadership<br />
islamica locale ne bloccano<br />
FOTO AFP<br />
la costruzione.<br />
L’inventario sarebbe lungo. A Genova,<br />
Bologna, Padova, Trento, le<br />
moschee sono oggetto di aspra discussione<br />
che, naturalmente, non riguarda<br />
la stratificazione dei segni architettonici<br />
nelle città. Lo scontro sul<br />
minareto rinvia alla questione della<br />
società multietnica e alle complesse<br />
relazioni con l’islam. Parte della società<br />
italiana, sobillata da attivi<br />
imprenditori politici della<br />
xenofobia, fatica ad accettarle.<br />
<strong>La</strong> politica cavalca<br />
la rendita della<br />
paura. <strong>La</strong> Chiesa è divisa<br />
tra la necessità di<br />
legittimare il ruolo<br />
della religione, e dunque<br />
anche dell’islam,<br />
nella società post-secolare<br />
e il timore che un siffatto<br />
pluralismo religioso<br />
possa indebolire un’identità<br />
italiana che fa<br />
coincidere con il cattoli-<br />
cesimo: per ora si attesta sulla linea<br />
«sì alle moschee, ma controllo di chi<br />
le controlla».<br />
<strong>La</strong> stessa ambiguità di alcuni attori<br />
dell’islam organizzato non facilita un<br />
percorso che altri paesi compiono<br />
con meno isteria. In Europa le moschee<br />
si costruiscono. Non solo nella<br />
“cattolicissima Spagna”, dove lo Stato<br />
riconosce l’islam come parte delle<br />
radici storiche del paese, dato inconfutabile<br />
nella terra dell’Alhambra,<br />
della Giralda, della Mezquita di<br />
Cordova. A Colonia, città il cui<br />
Duomo è simbolo del cattolicesimo<br />
tedesco, sorgerà la più<br />
grande moschea della Germania.<br />
Non si mettono certo in discussione<br />
i luoghi di culto islamici<br />
negli Stati Uniti: «Siamo<br />
una nazione di cristiani e musulmani…»,<br />
ha ricordato Obama il<br />
giorno del suo insediamento, evocando<br />
la forza del patchwork religioso<br />
americano. Nel monoculturale<br />
Belpaese solo deboli echi.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
CROCE<br />
E MEZZALUNA<br />
A sinistra,<br />
un campanile<br />
e un minareto<br />
nel cielo<br />
di Istanbul;<br />
in queste pagine,<br />
le immagini<br />
di storici<br />
<strong>campanili</strong><br />
italiani<br />
si alternano<br />
a quelle<br />
dei minareti<br />
costruiti<br />
nel mondo<br />
islamico<br />
(segue dalla copertina)<br />
Un canto ripetitivo, martellante, quasi militare,<br />
ma sommesso; una pallida ombra del fulgore di<br />
Bisanzio, la “seconda Roma”, ma pur sempre<br />
antico e solenne più di qualsiasi canto cattolico.<br />
Bartolomeo l’ho incontrato così, una sera nel suo<br />
studio con vista sul Bosforo. M’aspettava seduto sotto<br />
un ritratto di Ataturk, con le prime luci di Uskudar che<br />
ammiccavano oltremare e i minareti puntati nel cielo<br />
viola. Bastò quel ritratto arcigno e quello sfondo a capire<br />
la sua solitudine. Il patriarca era il notaio di un’estinzione.<br />
Nella comunità il libro dei morti si riempiva<br />
veloce di nomi, mentre quello dei battesimi era fermo<br />
da mesi sulle stesse pagine. Erano stati mezzo milione<br />
i greci della “Polis”: ora si erano ridotti a poche migliaia.<br />
Mentre dalla vicina chiesa salmodiante salivano parole<br />
come “ouranòs”, “martyron”, “angelon”, “pneumatikos<br />
lògos”, il patriarca parlò di speranza e di una<br />
nuova epoca di libertà. Narrò commosso di una visita<br />
alle chiese di Efeso e Smirne ormai popolate di sole rondini.<br />
Raccontò della coabitazione con i turchi, del suo<br />
buon rapporto col Gran Muftì e della visita imminente<br />
del Papa. Splendeva di mitezza, il sole tramontava, i<br />
gabbiani facevano un turbine bianco sulla collina di<br />
Pera. Nulla diceva che di lì a pochi mesi un prete italiano<br />
sarebbe stato ucciso da un giovane fanatico a Trebisonda.<br />
All’improvviso, il silenzio fu interrotto da un tuono.<br />
Era il muezzin che sparava la sua nenia nella sera. Non<br />
era il vecchio richiamo polifonico di voci diverse che si<br />
disperdeva nei quartieri, ma un canto superumano<br />
trasmesso da mille moschee attraverso un unico comando<br />
elettronico. I decibel crescevano di mese in<br />
mese, in modo proporzionale all’influenza islamica<br />
negli affari dello Stato. E così da Beyoglu, Eyup, Besiktas<br />
e Kadikoy l’onda sonora invase Istanbul, fece scappare<br />
i gabbiani e ammutolì il drappello mormorante<br />
dei greci. Mentre la campana taceva, gli altoparlanti di<br />
Allah volevano il cielo tutto per loro.<br />
Ai tempi del Sultano la<br />
convivenza tra chiese e<br />
moschee era basata su regole<br />
di ferro. Gli edifici di<br />
culto cristiani (come le sinagoghe)<br />
dovevano essere<br />
“discreti”, ben nascosti da<br />
mura e non essere visibili<br />
dalla strada; soprattutto<br />
non potevano avere <strong>campanili</strong><br />
e cupole. <strong>La</strong> cupola<br />
— presa dal grande modello<br />
greco di Santa Sofia, poi<br />
trasformata in moschea —<br />
era infatti la massima<br />
PAOLO RUMIZ<br />
ostentazione di un potere<br />
dominante, quello che gli<br />
Ottomani ritenevano di avere ereditato in linea diretta<br />
da Giustiniano e, prima di lui, da Costantino, Alessandro<br />
il Grande e Salomone.<br />
<strong>La</strong> sottomissione era chiara già allora. Ma Istanbul<br />
rimase a suo modo una Gerusalemme e fino a un secolo<br />
fa il popolo cristiano poté mantenere nella capitale<br />
dell’impero radici forti fatte di affari, arti, professioni,<br />
industria e preghiera. Oggi è tutto finito: subito<br />
oltre il Bosforo, comincia il grande silenzio delle campane.<br />
Le chiese sopravvissute alle distruzioni di inizio<br />
secolo hanno cominciato a chiudere per mancanza di<br />
fedeli. Appena restano vuote, arriva un tecnico del comune<br />
con l’incarico di piantarci attorno minareti e<br />
convertire il vecchio edificio al nuovo culto.<br />
Sarajevo è un altro punto d’incontro-scontro di fedi,<br />
terrasanta di minareti e <strong>campanili</strong> in competizione<br />
sotto un unico cielo. <strong>La</strong> conobbi una placida notte d’aprile<br />
del 1992. C’era la luna, le montagne erano ancora<br />
innevate e il fiume scrosciava nella gola piena di luci,<br />
ma proprio allora il conflitto che lacerava la Jugoslavia<br />
raggiunse il suo baricentro naturale e le prime raffiche<br />
partirono mentre la città si svelava ai miei piedi, favolosa<br />
costellazione, cesto di diamanti nell’antro di Alì<br />
Babà. Per un attimo mi parve di volarci sopra, come<br />
nella storia del Maestro e Margherita di Bulgakov, e feci<br />
appena in tempo a capire la stupenda complessità<br />
contro cui stava per accanirsi quella guerra, scatenata<br />
da sedicenti cristiani contro un pericolo islamico ancora<br />
inesistente.<br />
A Sarajevo era meglio di Gerusalemme e l’equilibrio<br />
tra culture era durato più a lungo che in Turchia. Città<br />
ex ottomana anch’essa, aveva accolto gli ebrei sefarditi<br />
in fuga dalle persecuzioni della cattolica Isabella di<br />
Spagna, ne aveva assorbito lo humor e la cultura, poi<br />
aveva costretto cattolici e ortodossi a convivere tra i minareti,<br />
sotto il segno imperiale della Grande Porta. <strong>La</strong><br />
successiva dominazione austriaca l’aveva spinta verso<br />
Occidente, ma senza intaccare la sua pluralità e la<br />
Jugoslavia — prima monarchica poi comunista — aveva<br />
ibernato in qualche modo i suoi conflitti latenti.<br />
<strong>La</strong> maledizione<br />
delle capitali<br />
della tolleranza<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31<br />
L’unità miracolosa del luogo si avvertiva da mille cose:<br />
la speciale rilassatezza nel conversare al caffè, il sovrapporsi<br />
delle campane al canto del muezzin, la modernità<br />
disinvolta delle donne dagli antichi nomi arabo-turchi,<br />
la presenza di un islam gaudente e tutt’altro<br />
che astemio, simile a quello della vecchia Beirut. Oppure<br />
la speciale pignatta dove i cristiani evitavano di<br />
cucinare maiale per poter offrire la cena a ebrei o musulmani<br />
osservanti. Non esisteva città europea dove<br />
<strong>campanili</strong> e minareti convivessero più naturalmente.<br />
E non esisteva luogo dove fosse più plasticamente visibile<br />
la menzogna dello scontro di civiltà, così come lo<br />
intendono certi truffatori, autonominatisi paladini<br />
delle nostre radici cristiane.<br />
Oggi molto è cambiato in peggio. <strong>La</strong> ricostruzione<br />
non è ancora terminata, mezzo Paese non ha di che<br />
mangiare, la corruzione dilaga, ma i soldi abbondano<br />
per disseminare il territorio di chiese e moschee nuove<br />
senz’anima. L’Erzegovina, in mano agli ultras di Zagabria,<br />
è una linea Maginot di <strong>campanili</strong> fiammanti<br />
pronti a lanciare il segnale di una nuova guerra santa.<br />
Intanto, attorno a Mostar e Sarajevo si moltiplicano i<br />
minareti “missilistici” di stile medio-orientale, acuminati,<br />
freddi come tombe ed estranei alla cultura europea.<br />
<strong>La</strong> guerra bastona la gente, ma premia i “chierici”:<br />
ed ecco che le montagne pullulano di santi energumeni,<br />
francescani armati, pope da combattimento o<br />
imam carichi di odio, pronti a sbranarsi in nome dell’Altissimo.<br />
Dopo la guerra di Bosnia che ha chiuso il secolo, ho<br />
viaggiato a lungo per trovare un luogo di coabitazione<br />
simile a Sarajevo, un posto non inghiottito dalla corsa<br />
alle fedi militanti. C’era poco o nulla. In Kosovo la Chiesa<br />
di Roma approfittava della sconfitta del cristianesimo<br />
d’Oriente (decine di luoghi santi serbo-ortodossi<br />
dati alle fiamme per rappresaglia dopo i massacri del<br />
‘99) per soppiantarlo, convertire musulmani albanesi<br />
e costruire marmorei <strong>campanili</strong> estranei alla tradizione<br />
del luogo. Sui monti Rodopi in Bulgaria gli sceicchi<br />
rispondevano finanziando moschee in ogni sperduto<br />
villaggio della minoranza<br />
turca, giocando sul “revival”<br />
della fede dopo la sta-<br />
gione dell’ateismo rosso.<br />
Solo ad Aleppo avevo<br />
trovato uno spiraglio. <strong>La</strong><br />
città era percorsa da uno<br />
scampanio festoso; cortei<br />
di bambini attraversavano<br />
la strada per la prima<br />
comunione; donne velate<br />
e ragazze capelli al vento<br />
andavano insieme a braccetto<br />
all’ora dello struscio.<br />
Ma soprattutto navate<br />
strapiene, più affollate di<br />
qualsiasi chiesa italiana,<br />
proprio lì tra i minareti, nel cuore della repubblica islamica<br />
di Siria. Tra i colonnati tremolanti di fiammelle si<br />
levava una preghiera potente come un tuono, e nel<br />
rimbombo, nelle facce e nelle pietre c’era una manifestazione<br />
tenebrosa del sacro che apriva i chiavistelli di<br />
un mistero terribile e portava dritto alla radice abramitica<br />
comune. I cristiani si genuflettevano fronte a terra<br />
come i musulmani, rammentando agli europei che la<br />
prostrazione totale era stata cosa cristiana, atto primordiale<br />
più antico dell’islam.<br />
Se non hai dentro di te nostalgia della Gerusalemme<br />
celeste, vano è — specialmente oggi — cercare<br />
nella Gerusalemme di pietra una via di fuga dalla demenza<br />
dei monoteismi contrapposti. Arrivarci è<br />
una cocente delusione. Miagolio nasale di minareti,<br />
rintocchi stizzosi di campane, schiamazzo di ebrei<br />
alla fine del Sabato, brusio blasfemo di turisti nei<br />
luoghi santi, bip di metal-detector all’ingresso del<br />
Muro del pianto: la lite condominiale è prima di tutto<br />
acustica e genera una cagnara indecente. Il clima<br />
è così avvelenato che gli stessi preti cristiani si accapigliano<br />
tra loro, persino nel Santo Sepolcro, davanti<br />
alla tomba vuota del Dio figlio. Armeni contro<br />
greci, o greci contro se stessi e il loro patriarca. Gerusalemme<br />
è una città di pazzi.<br />
Solo la notte ti riconcilia col luogo. <strong>La</strong> grande notte<br />
stellata quando tacciono campane e minareti e la collina<br />
sembra affacciarsi con le sue luci sul deserto. Allora<br />
le mille voci ascoltate nel tuo cammino di ricerca<br />
tornano nella memoria. Le litanie in aramaico dei pochi<br />
siriaci di Mardin, a picco sulla Mesopotamia. Il<br />
commovente salmodiare stonato dei dieci ebrei rimasti<br />
ad Antiochia. Il canto sublime di un derviscio<br />
cieco in una “tekke” di Istanbul. Il vento sul cimitero<br />
di Bistrik, pieno di tombe di guerra, con vista su Sarajevo.<br />
Il coro delle russe nella cripta di San Nicola di<br />
Bari, imbarco millenario di ogni viaggio in Terrasanta.<br />
Solo nel buio, quando dalla valle del Giordano sale<br />
profumo di fiori di senape, tutto questo sembra ricomporsi.<br />
Nel silenzio del cielo d’Oriente.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
l’attualità<br />
Anniversari scomodi<br />
Il peggior risultato della Borsa di Wall Street<br />
nel giorno di un giuramento presidenziale?<br />
Con Barack Obama questa settimana<br />
Il secondo peggior risultato? Con Herbert<br />
Hoover, esattamente otto decenni fa<br />
È solo l’ultima di troppe somiglianze...<br />
L’America della crisi<br />
e lo specchio buio del ’29<br />
FEDERICO RAMPINI<br />
peggiore performance<br />
dell’indice<br />
Dow Jones durante<br />
un Inauguration<br />
Day, da quando<br />
«<strong>La</strong><br />
quell’indice fu<br />
creato 124 anni fa». Con una punta di<br />
sgomento il Washington Post commentava<br />
così l’accoglienza riservata<br />
dalla Borsa a Barack Obama martedì<br />
scorso. Il presagio diventa sinistro<br />
quando si scopre a chi spetta la seconda<br />
peggiore performance della storia:<br />
fu il calo del Dow Jones che salutò il 4<br />
marzo 1929 l’Inauguration Day di Herbert<br />
Hoover. Cioè il presidente che nell’autunno<br />
dello stesso anno sarebbe<br />
stato uno spettatore impotente di fronte<br />
al crac di Wall Street e all’inizio della<br />
Grande Depressione. Per chi crede ai<br />
segni del destino e ai ricorsi storici la<br />
coincidenza è funesta. Quanto dell’esperienza<br />
del 1929 rischia davvero di ripetersi<br />
ottant’anni dopo? Per capire<br />
cosa si è guastato nell’economia globale<br />
nel Ventunesimo secolo, rivisitare la<br />
più grave crisi del Novecento a caccia di<br />
analogie è un esercizio rivelatore.<br />
Obama e Hoover sono ai due poli opposti<br />
nella storia degli Stati Uniti. Da<br />
una parte il giovane afroamericano<br />
portatore di una potente ventata di<br />
speranza nel cambiamento. Dall’altra<br />
un repubblicano conservatore e ultraliberista<br />
che con il suo dogmatico laissez-faire<br />
contribuì ad aggravare la crisi.<br />
Profondamente diverso è anche il contesto<br />
economico dell’insediamento.<br />
All’Inauguration Day di Obama l’America<br />
è arrivata avendo già alle spalle un<br />
anno di recessione, stremata e angosciata,<br />
consapevole delle terribili difficoltà<br />
che il neopresidente deve affrontare<br />
per rilanciare la crescita.<br />
Al contrario, Hoover ottant’anni fa a<br />
quest’epoca (quando mancano mesi al<br />
crollo autunnale) assapora gli ultimi fasti<br />
di un’epoca beata. All’inizio del ‘29 gli<br />
americani — con rare eccezioni di lucidità<br />
— sono ignari del disastro che incombe<br />
su di loro. È il culmine, il botto finale,<br />
nella folle e spensierata Età del Jazz:<br />
il periodo eccitante iniziato subito dopo<br />
la conclusione della Prima guerra mondiale.<br />
Un’epoca di cui oggi si ricordano<br />
soprattutto gli eccessi, ma che incarna<br />
anche un’energia modernista, creativa,<br />
trasgressiva. Le innovazioni tecnologiche<br />
come l’automobile e l’aeroplano, la<br />
radio e il telefono, si diffondono rapidamente.<br />
Il fiorire dell’Art Déco dà a New<br />
York e Chicago alcuni dei più bei grattacieli<br />
della storia. Nelle grandi metropoli<br />
la cultura tollerante migliora la vita delle<br />
minoranze, dai neri agli omosessuali. Le<br />
donne — almeno nei ceti benestanti —<br />
assaporano un assaggio della rivoluzione<br />
sessuale.<br />
Fino all’autunno del crac, l’atmosfera<br />
in America è elettrizzante. Lo specchio<br />
fedele di quell’euforia è l’industria dello<br />
spettacolo. A Broadway regna con suc-<br />
cesso il musical Ziegfield Follies. Sull’altra<br />
costa la Metro Goldwyn Mayer lancia<br />
The Hollywood Revue of 1929, un kolossal-varietà<br />
con Joan Crawford e la prima<br />
versione del brano Singin’in the Rain.<br />
Nelle librerie trionfano i romanzi popolari<br />
di Horatio Alger, scomparso un ventennio<br />
prima: è un Dickens in versione<br />
ottimista, il cantore dell’American<br />
Dream, prolifico autore di dozzine di libri<br />
la cui trama è sempre la stessa, storie di<br />
giovani poveri che attraverso il sacrificio<br />
e la forza di volontà conquistano la sicurezza<br />
della middle class.<br />
Per l’élite colta invece quel sogno<br />
americano ha il suo interprete raffinato<br />
in Francis Scott Fitzgerald. L’autore più<br />
rappresentativo dell’Età del Jazz è sedotto<br />
dal mondo dei milionari, i suoi romanzi<br />
sono l’apoteosi di una fase di<br />
opulenza, il ritratto acuto del nuovo<br />
establishment capitalistico. Fra tutti<br />
spicca Il Grande Gatsby, personaggio<br />
circondato da un’aureola di seduzione<br />
e di mistero, il cui arricchimento troppo<br />
veloce ricorda le parabole effimere dei<br />
giovani banchieri d’affari nella New<br />
York del terzo millennio. Fitzgerald<br />
prova amore-odio per quella società del<br />
denaro, descrive i suoi fasti e ne coglie il<br />
decadimento morale. Nella tragedia finale<br />
del Grande Gatsby si congiungono<br />
i due elementi del sogno americano degli<br />
anni Venti: la fuga in avanti per emulare<br />
i costumi edonistici della élite dorata,<br />
e il presentimento di un disastro<br />
imminente: «Aveva fatto molta strada<br />
per giungere a questo prato azzurro e il<br />
suo sogno doveva essergli sembrato così<br />
vicino da non poter più sfuggire. Non<br />
sapeva che il sogno era già alle sue spalle,<br />
in quella vasta oscurità dietro la città<br />
dove i campi oscuri della repubblica si<br />
stendevano nella notte. Gatsby credeva<br />
nella luce verde, il futuro orgiastico che<br />
anno per anno indietreggia davanti a<br />
noi. C’è sfuggito allora, ma non importa:<br />
domani andremo più in fretta, allun-<br />
FOTO CORBIS<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
Gli anni Venti furono un’epoca di eccessi<br />
e di follie. Nel suo celebre saggio sulle cause<br />
della Grande Depressione, l’economista<br />
John Kenneth Galbraith stilò un elenco<br />
che suona terribilmente attuale. “Per prima<br />
cosa - scrisse - i ricchi sono troppo ricchi”<br />
IL CROLLO<br />
Qui accanto, il crollo di Wall Street<br />
del 29 ottobre 1929 in un disegno<br />
di James Rosenberg. Nelle due foto<br />
in alto, il giuramento di Herbert Hoover<br />
nel 1929 (a sinistra) e quello di Barack<br />
Obama ottant’anni dopo (a destra)<br />
gheremo di più le braccia… e una bella<br />
mattina…».<br />
Non è solo una ricchezza di carta,<br />
quella che regge il sistema fino alla vigilia<br />
del crac. Dietro il miracolo economico<br />
dell’America emergente c’è un<br />
modello avanzato, un’idea democratica<br />
del diritto universale al benessere.<br />
Detroit nel 1929 supera d’un balzo la<br />
soglia di produzione di cinque milioni<br />
di autovetture: dopo la Grande Depressione<br />
bisognerà aspettare il 1953<br />
per tornare a quel livello. Henry Ford<br />
ha una visione sociale lungimirante,<br />
crea la prima industria di massa fondata<br />
su alti salari. Un principio del fordismo<br />
è che l’operaio deve poter comprare<br />
la stessa auto che produce. Ma<br />
nel frattempo la General Motors fonda<br />
la prima “banca dell’automobile”, la<br />
Gm Acceptance Corporation, diffonde<br />
gli acquisti rateali e il germe dell’indebitamento<br />
dei consumatori. Il diritto<br />
di ogni famiglia americana ad avere<br />
l’auto e il frigorifero, la radio e il fono-<br />
NEW DEAL<br />
In basso a sinistra, due poster<br />
degli anni del New Deal rooseveltiano<br />
Quello di sinistra, di Robert Muchley,<br />
è dedicato alla sicurezza sul lavoro (1936);<br />
quello di destra alla campagna<br />
di distribuzione di terre (1935)<br />
grafo prefigura quello che ottant’anni<br />
dopo sarà il meccanismo infernale del<br />
mutuo subprime: la promessa della casa<br />
per tutti, l’illusione di una Bengodi<br />
immobiliare fondata sui debiti.<br />
Quando Hoover pronuncia il suo discorso<br />
d’insediamento, i più avvertiti<br />
hanno già smesso di credere a una prosperità<br />
senza fine. Il finanziere newyorchese<br />
Bernard Baruch scrive: «Acquistare<br />
a rate, puntando sulla propria capacità<br />
futura di ripagare una vita migliore,<br />
può essere saggio ma può anche<br />
essere spinto all’esagerazione. Abbiamo<br />
raggiunto l’esagerazione». Joseph<br />
Kennedy, padre del futuro presidente,<br />
prima dell’estate vende tutto il suo portafoglio<br />
di azioni e tiene la ricchezza<br />
parcheggiata in liquidità. John Kenneth<br />
Galbraith individuerà nel saggio Il<br />
grande crollo le cause strutturali del<br />
crac. Quell’elenco è terribilmente attuale.<br />
«Primo: una distribuzione del<br />
reddito squilibrata. Nel 1929 i ricchi lo<br />
sono troppo. Il cinque per cento della<br />
popolazione con i redditi più alti controlla<br />
un terzo della ricchezza nazionale».<br />
Al secondo posto Galbraith mette<br />
l’eccessivo indebitamento delle grandi<br />
holding finanziarie, che crea il rischio<br />
di una brusca e distruttiva inversione<br />
dell’effetto-leva: è la liquidazione precipitosa<br />
di tutti gli attivi, che scatta<br />
quando le società sono costrette a rientrare<br />
dai loro debiti. È lo stesso meccanismo<br />
che dal 2007 a oggi alimenta la<br />
spirale delle crisi bancarie. Nel ricostruire<br />
le cause del crollo di ottant’anni<br />
fa Galbraith si sofferma su un precedente<br />
sconcertante. A metà degli anni<br />
Venti l’America aveva già subìto un assaggio<br />
micidiale degli eccessi speculativi,<br />
con la bolla immobiliare della Florida,<br />
una pazza corsa all’acquisto di<br />
terreni conclusa in un crollo dei prezzi.<br />
Un incidente non abbastanza traumatico,<br />
però, da “vaccinare” gli investitori<br />
in Borsa. Una sequenza simile accade<br />
ottant’anni dopo: la bolla della New<br />
Economy e il tracollo del Nasdaq (marzo<br />
2000) in pochi anni sono cancellati<br />
da un’amnesia collettiva, la lezione è<br />
inutile. Inutili anche gli scandali Enron,<br />
Worldcom, Parmalat.<br />
Gli anni Venti sono memorabili per la<br />
sregolatezza dei mercati in preda all’aggiotaggio.<br />
«Un gruppo d’investitori dotati<br />
di capitali sufficienti — racconta lo storico<br />
Eric Rauchway della University of<br />
California — poteva creare un “pool” con<br />
lo scopo esplicito di manipolare un titolo<br />
in Borsa. Succedeva di continuo ed era<br />
perfettamente legale. Il Wall Street Journal<br />
riportava informazioni quotidiane<br />
sulle manovre di questi fondi». Ottant’anni<br />
dopo il bubbone della malafinanza<br />
avrà le apparenze più sofisticate<br />
dei derivati, titoli-spezzatino, credit default<br />
swaps e altri titoli tossici. Il quadro<br />
non è migliorato: il dilagare dei conflitti<br />
d’interessi, le complicità fra banche d’investimento<br />
e agenzie di rating, la latitanza<br />
dei controlli, la passività degli organi di<br />
vigilanza. In comune gli anni dorati han-<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />
no il mood, quell’atmosfera che per Galbraith<br />
ebbe un ruolo decisivo negli anni<br />
Venti: «Ben più importante dei tassi d’interessi<br />
o del credito facile, è il clima psicologico.<br />
<strong>La</strong> speculazione su una dimensione<br />
così vasta richiede un diffuso sentimento<br />
di fiducia e di ottimismo, la convinzione<br />
che anche le persone normali<br />
siano destinate a diventare ricche».<br />
Un’altra causa profonda del 1929 è negli<br />
squilibri internazionali. <strong>La</strong> Prima<br />
guerra mondiale ha lasciato l’Europa<br />
stremata dai debiti. Anche i vincitori come<br />
Inghilterra e Francia vivono di prestiti<br />
americani. Le condizioni della pace<br />
peggiorano il dissesto. L’economista britannico<br />
John Maynard Keynes è l’autore<br />
di un’implacabile requisitoria contro le<br />
clausole finanziarie del Trattato di Versailles.<br />
Le riparazioni di guerra impongono<br />
alla Germania oneri spaventosi, che<br />
travolgeranno la fragile democrazia della<br />
<strong>Repubblica</strong> di Weimar. In un mondo di<br />
debitori, l’America degli anni Venti è il<br />
banchiere universale, l’unico che finanzia<br />
le altre nazioni. Ma è un’America che<br />
sta già scegliendo la via del protezionismo,<br />
pratica alte barriere tariffarie. I suoi<br />
debitori sono stretti in una morsa: non<br />
possono venderle le merci essenziali per<br />
ripagare montagne di cambiali. Quando<br />
i flussi di finanziamenti americani s’interrompono,<br />
il mondo intero sprofonda<br />
di colpo nella recessione.<br />
Otto decenni dopo le parti sono cambiate,<br />
i ruoli invertiti, e ci sono protagonisti<br />
nuovi. Gli squilibri sono altrettanto<br />
massicci. Stavolta è l’Asia — Cina in testa<br />
— a svolgere il ruolo di banchiere planetario.<br />
I titoli del debito pubblico americano<br />
vengono acquistati dalle banche<br />
centrali di Pechino e Tokyo. <strong>La</strong> <strong>Repubblica</strong><br />
popolare cinese ha accumulato attivi<br />
commerciali verso il resto del mondo.<br />
Ma i suoi abitanti non consumano<br />
abbastanza, è difficile per l’America restituire<br />
i debiti esportando ai cinesi. <strong>La</strong><br />
crescita mondiale nel primo scorcio del<br />
Ventunesimo secolo è stata consentita<br />
dalla simbiosi della coppia sino-americana,<br />
Chimerica. Il giacimento di risparmio<br />
cinese ha consentito alle famiglie<br />
americane di vivere al di sopra dei propri<br />
mezzi. Il consumismo americano ha alimentato<br />
il boom cinese. Anche se l’incidente<br />
che ha portato alla recessione globale<br />
è accaduto in Occidente, con il crollo<br />
del castello di carte dei mutui subprime,<br />
sullo sfondo c’è l’immensità degli<br />
squilibri fra le due sponde del Pacifico.<br />
<strong>La</strong> crescita non ripartirà senza un aggiustamento<br />
dei rispettivi ruoli dentro il binomio<br />
Chimerica.<br />
E se per la presidenza Obama vale il<br />
precedente del New Deal, è anche all’interno<br />
della società americana che ci sarà<br />
un cambiamento di ruoli e di prospettive.<br />
Eric Rauchway ricorda: «Tra i lasciti<br />
profondi della Grande Depressione e<br />
dell’epoca rooseveltiana ci fu questo: il<br />
ceto medio americano imparò a riconoscersi<br />
nell’insicurezza dei tanti meno fortunati,<br />
anziché identificarsi nella minoranza<br />
dei privilegiati».<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO<br />
la memoria<br />
Top secret<br />
IERI E OGGI<br />
A destra, il leader<br />
libico Muammar<br />
Gheddafi<br />
in due foto:<br />
la prima è del 1971,<br />
quando era oggetto<br />
dei dossier,<br />
la seconda<br />
è recente. Ai lati<br />
dei due ritratti,<br />
le riproduzioni<br />
dei documenti<br />
inglesi<br />
ATTILIO BOLZONI<br />
Per anni si sono chiesti se fosse<br />
pazzo. Tutti a indagare<br />
sulla sua psiche, le sue sfuriate<br />
improvvise, paranoie e<br />
malinconie. Alla salute<br />
mentale del rais di Tripoli, le<br />
spie di Sua Maestà dedicano summit e<br />
una valanga di rapporti segreti. Il colpo<br />
di Stato del primo settembre 1969 li coglie<br />
di sorpresa; non riescono a capire<br />
chi sia veramente lui, il colonnello<br />
Muammar Gheddafi, il nuovo leader libico;<br />
le informazioni sicure sono scarse:<br />
non ha ancora trent’anni, viene dalle<br />
sabbie della Sirte, il suo idolo è il presidente<br />
egiziano Nasser.<br />
Dagli scaffali dei National Archives di<br />
Kew Gardens — a pochi chilometri da<br />
Londra — riaffiorano le schede e le informative<br />
del Foreign and Commonwealth<br />
Office su uno dei personaggi più controversi<br />
del Ventesimo secolo. Sono dossier<br />
«secret» e «confidential», molti dei quali<br />
resi pubblici fra il 2002 e il 2007. <strong>La</strong> figura<br />
misteriosa a capo del Consiglio Rivoluzionario<br />
della Libia è ossessivamente<br />
controllata dalle legazioni britanniche<br />
sparse fra Rabat e Bagdad, studiata, analizzata,<br />
sviscerata in ogni dettaglio.<br />
Tutte le notizie che gli inglesi raccolgono<br />
fra l’autunno del ‘69 e la primavera del<br />
‘72 riflettono un’ansia crescente per la<br />
«follia» di Gheddafi, data per certa da innumerevoli<br />
fonti. Le carte parlano di ricoveri<br />
in clinica. Di frequenti crisi di nervi.<br />
Anche di un tentativo di suicidio.<br />
Qualcuno al Foreign Office azzarda persino<br />
previsioni sul futuro dell’enigmatico<br />
colonnello e arriva a pronosticarne<br />
l’imminente fine politica.<br />
Il primo documento che riporta il suo<br />
nome è un telegramma (fascicolo Fco<br />
39/386), spedito da Bengasi il 10 settembre<br />
1969. Lo firma Wakefield, un diplomatico<br />
di carriera: «C’è da augurarsi che<br />
l’attuale ondata di adulazione nei suoi<br />
confronti non gli dia alla testa». Ma è solo<br />
Dossier riservati, resi pubblici negli ultimi tempi, rivelano<br />
che per anni le spie di Sua Maestà britannica hanno indagato<br />
sulla salute mentale del rais di Tripoli. Tutte le informative<br />
raccolte tra il ’69 e il ’72 riflettono un’ansia<br />
crescente per la “follia” del leader libico,<br />
documentano i suoi ricoveri e ne prevedono il crollo<br />
il 19 settembre che un funzionario del Foreign<br />
Office, D. J. Speares, invia all’ambasciata<br />
inglese di Teheran alcuni dati sulla<br />
sua identità: «È nato nel ‘42 nella Sirte, si<br />
è laureato in storia nel ‘63, è uscito dall’accademia<br />
militare nel ‘65 e ha frequentato<br />
un corso di addestramento militare<br />
in Inghilterra nell’estate ‘66».<br />
Nei giorni successivi le informazioni si<br />
incrociano freneticamente. Tutti vogliono<br />
saperne di più sul giovane ufficiale che<br />
nei decenni a venire diventerà il nemico<br />
numero uno dell’Occidente. Scrive a<br />
Londra l’11 settembre (Fco 39/380) P. J.<br />
Popplewell dell’ambasciata al Cairo: «È<br />
molto religioso, un ufficiale brillante,<br />
sempre di buon umore, coscienzioso e<br />
gran lavoratore. È un appassionato di calcio<br />
e di buone letture».<br />
Una nuova scheda «sulla personalità<br />
del colonnello Gheddafi» viene trasmessa<br />
l’8 ottobre ‘70 da Tripoli a Londra. È un<br />
documento (Fco 39/614) redatto da D. A.<br />
Gore-Booth e desecretato nel 2001. Comincia<br />
così: «Si sa poco del suo passato,<br />
si dice che suo padre sia un nomade che<br />
possiede alcuni cammelli nel deserto<br />
della Sirte. Corre voce che Gheddafi sia<br />
stato uno studente difficile a Seba, e che<br />
l’abbiano anche espulso dalla scuola secondaria<br />
di quella città. Ha grandi qualità<br />
come leader e durante il corso di addestramento<br />
militare in Inghilterra è stato<br />
descritto dal suo comandante come<br />
“un elemento prezioso per l’esercito libico”».<br />
Il diplomatico scava nella sua<br />
personalità: «Sebbene sia di bell’aspetto<br />
e abbia un bel sorriso, non ha niente dell’abilità<br />
del politico naturale. Di fronte<br />
alla folla ha difficoltà a cambiare tono,<br />
tende ad essere ripetitivo nei discorsi<br />
pubblici, la sua eloquenza ricorda la raffica<br />
di una mitragliatrice. Il suo fisico tradisce<br />
la malnutrizione sofferta in gioventù<br />
e la sua appassionata sincerità può<br />
sfiorare il fanatismo».<br />
Dall’ambasciata britannica di Tripoli<br />
cominciano ad avanzare i primi sospetti<br />
per le sue intolleranze e collere: «È scar-<br />
samente ricettivo alle critiche...». È un<br />
report da Kuwait City (Fco 39/622) che<br />
mette sul chi va là gli inglesi: «I kuwaitiani<br />
diffidano di Gheddafi. Il capo delle forze<br />
armate ha affermato che è pazzo: basta<br />
guardarlo negli occhi». Da quel momento<br />
è un susseguirsi di notizie sullo<br />
stato psichico del rais. Dispacci come<br />
quello del 10 dicembre ‘70, firmato da<br />
Michael Hannam dell’ambasciata inglese<br />
a Tripoli: «Nel presentarsi agli arabi<br />
come il nuovo messia, Gheddafi sfiora la<br />
follia. Il suo allontanamento dalla scena<br />
araba e libica non può essere lontano».<br />
Note come quella del 21 gennaio ‘71 firmata<br />
da J. P. Tripp: «Vi abbiamo già comunicato<br />
un anno fa che l’equilibrio<br />
mentale di Gheddafi era sospetto. Ora ha<br />
avuto un nuovo collasso, in seguito al<br />
quale è rimasto fuori combattimento per<br />
quattro giorni. Riteniamo che non si sia<br />
ripreso del tutto e che rischi un crollo totale».<br />
Informative come quella del 27<br />
gennaio ‘71 (Fco 39/802) di M. I. Goulding<br />
dell’ambasciata al Cairo: «Ho parlato<br />
con Muhammad Ahmad Muhammad,<br />
ex segretario privato del presidente<br />
egiziano Nasser. Mi ha detto che l’irri-<br />
tabilità e l’eccitabilità di Gheddafi sono<br />
probabilmente dovute a un’allergia.<br />
Muhammad non ha specificato i sintomi,<br />
ma ha aggiunto che il colonnello<br />
sembra soffrire di allergia verso certi fiori.<br />
Al Cairo si è sottoposto ad alcuni test».<br />
Il 17 marzo ‘71 un altro diplomatico<br />
britannico di stanza nella capitale egiziana,<br />
Beaumont, invia a Londra una notizia<br />
clamorosa. Scrive: «Secondo un rapporto<br />
ricevuto da un mio collega belga,<br />
Gheddafi è attualmente internato in una<br />
clinica privata per malattie mentali nei<br />
dintorni del Cairo». Ma dopo qualche<br />
giorno il colonnello riappare, scompare<br />
ancora, passa un mese e ritorna un’altra<br />
volta in mezzo alla folla. Gli agenti inglesi<br />
sono disorientati.<br />
Il 27 settembre ‘71, alle 14, Michael<br />
Hannam da Tripoli informa Londra che<br />
Gheddafi «sarebbe rimasto ferito in un<br />
incidente automobilistico il 18 settembre».<br />
E pochi minuti dopo spedisce un altro<br />
messaggio: «Non è ancora apparso in<br />
pubblico. E le dichiarazioni del ministro<br />
dell’Informazione Buasir non sono riuscite<br />
a dissipare le voci secondo le quali<br />
Gheddafi avrebbe sofferto un collasso<br />
nervoso e che addirittura potrebbe essersi<br />
dimesso». Due giorni dopo comunica:<br />
«A Tripoli continuano a circolare voci su<br />
di lui. Secondo i tedeschi sarebbe stato visto<br />
ieri alla guida della sua automobile, i<br />
diplomatici di New Delhi dicono invece<br />
che avrebbe tentato il suicidio. In ogni caso<br />
nessuno l’ha più visto di recente in<br />
pubblico».<br />
Alle 8,50 del 2 ottobre ‘71 Beaumont,<br />
dal Cairo, racconta a Londra le notizie<br />
che circolano negli ambienti governativi<br />
egiziani: «Gheddafi sarebbe rimasto<br />
molto scosso dall’incidente automobilistico<br />
accaduto il 18 settembre scorso, durante<br />
il quale cinque uomini del suo entourage<br />
sarebbero rimasti uccisi e otto feriti.<br />
Tutto ciò davanti ai suoi occhi. L’episodio<br />
avrebbe scatenato uno dei suoi periodici<br />
attacchi di nervi». Ma il 4 ottobre<br />
informa il Foreign Office che «Gheddafi è<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />
Gli 007 e il mistero Gheddafi<br />
I DOCUMENTI<br />
I documenti sul colonnello<br />
Gheddafi a cui si fa riferimento<br />
nell’articolo pubblicato<br />
in questa pagina<br />
sono stati trovati<br />
nei National Archives<br />
di Kew Gardens, presso Londra,<br />
dal ricercatore<br />
Mario J. Cereghino<br />
e sono conservati<br />
nell’Archivio Casarrubea<br />
di Partinico, Palermo<br />
(www.casarrubea.<br />
wordpress.com)<br />
appena arrivato al Cairo e sembra in buona<br />
salute». È già il 7 ottobre quando — ancora<br />
Beaumont — scrive a Londra: «Si è<br />
fatto visitare all’ospedale militare del<br />
Cairo per la sua sinusite».<br />
Nelle veline ritrovate a Kew Gardens<br />
c’è il resoconto di un pedinamento quotidiano.<br />
Il colonnello torna nella sua Tripoli<br />
e tre settimane dopo, il 28 ottobre, riceve<br />
all’aeroporto il nuovo presidente<br />
egiziano Sadat. Gli inglesi lo osservano da<br />
vicino e commentano: «Cammina come<br />
un sonnambulo». Una notizia che rende<br />
il clima ancora più teso arriva da Parigi il<br />
19 novembre. È il diplomatico J. N.<br />
Spreckley che rivela al Foreign Office:<br />
«Ho visto De Warren, mi ha riferito che<br />
sembra esserci stato un nuovo tentativo<br />
per uccidere Gheddafi: sarebbe stata trovata<br />
una bomba a bordo del suo aereo di<br />
ritorno dal Cairo... fortunatamente per<br />
lui la bomba ha fatto cilecca». E aggiunge:<br />
«Sembra che sia più nervoso del solito. I<br />
francesi sono convinti che dopo il probabile<br />
attentato in cui sono morti diversi<br />
membri della sua scorta, Gheddafi abbia<br />
avuto l’ennesimo collasso nervoso e che<br />
sia stato sottoposto a trattamento medico<br />
per tre settimane». Alla fine del 1971 gli<br />
inglesi aggiornano la «scheda personale»<br />
del rais. Il fascicolo è catalogato Fco<br />
39/805: «È spaventosamente magro, con<br />
delle cicatrici permanenti sulla fronte e<br />
attorno al collo. In pubblico sorride frequentemente,<br />
ma quando è stanco o sotto<br />
pressione irrigidisce spalle e braccia».<br />
Il dossier sul leader libico sarà arricchito<br />
di nuovi particolari sulla sua «sanità<br />
mentale» per tutti gli anni Settanta. Il 22<br />
giugno ‘72 l’ambasciata di Tripoli comunica:<br />
«Vi è una sorta di logica folle in tutto<br />
ciò che dice e fa. Ma, naturalmente, la sua<br />
logica non è la nostra». Il 29 gennaio ‘76,<br />
alla vigilia della proclamazione della<br />
«Grande Jamahiriya araba di Libia popolare<br />
e socialista», G. H. Boyce scrive (fascicolo<br />
Fco 93/828) da Tripoli al Foreign<br />
Office: «Spesso Gheddafi assomiglia più<br />
a Mussolini che a Nasser».<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
CULTURA*<br />
Si incontrarono giovanissimi. Lui, Richard Avedon, non era ancora<br />
“il maestro”; lei, Ann Theophane Graham, non era ancora<br />
colei che indosserà i capolavori di Dior. Ma subito nacque qualcosa<br />
tra il ragazzo col talento della fotografia e quella che divenne la sua prima top model<br />
Ora una mostra a Roma espone quegli scatti e il figlio della “donna cigno” tira fuori<br />
immagini mai viste della madre che, dice, sono della stessa mano<br />
RITRATTI D’AUTORE/1<br />
In questa pagina, sono di Avedon la foto numero 2: Ritaglio<br />
della rivista Harper’s Bazaar, ottobre 1949, dal servizio Report<br />
from Paris di Carmel Snow. Abito White Satin Column di Christian<br />
Dior indossato da Theo Graham; la numero 3: copertina<br />
di Junior Bazaar, luglio ’47<br />
RITRATTI D’AUTORE/2<br />
Nell’altra pagina sono di Richard Avedon le foto 7:<br />
ritaglio di Harper’s Bazaar, ottobre ’49. Jewelled Heads-<br />
Spangled Ball Gowns, l’abito indossato da Theo è Junon di Dior,<br />
la location è il Pré-Catelan di Parigi; la numero 8: ancora Theo<br />
su Harper’s Bazaar, settembre 1951<br />
IN CERCA D’AUTORE<br />
Vengono dall’Archivio Enrico Carlo Saraceni di Roma<br />
(courtesy Valentina Moncada) le foto 1, 4, 6: tre ritratti<br />
di Theo Graham e 5: Parigi, Cirque d’Hiver, novembre ’49. Cartolina<br />
Balmain’s Ivy Leaves, abito di Pierre Balmain<br />
1<br />
Avedon<br />
e il baule<br />
Theo di<br />
L’album privato della musa<br />
2 3<br />
FOTO © FONDAZIONE AVEDON<br />
4<br />
FOTO © FONDAZIONE AVEDON<br />
6<br />
LAURA LAURENZI<br />
Una mostra di grande fascino sta per aprirsi a Roma. Fotografie magistrali<br />
di Avedon saltate fuori da alcuni bauli e scatoloni rimasti<br />
chiusi per sessant’anni. Avedon agli esordi, ma già perfettamente<br />
padrone della sua tecnica. Le foto ritraggono una delle sue modelle<br />
preferite, l’americana Ann Theophane Graham detta Theo, eterea,<br />
moderna, sofisticata, fotografata da Avedon migliaia di volte ma poi<br />
misteriosamente cancellata dalla vita e delle opere del maestro.<br />
Quando cominciano a lavorare insieme a New York nel 1945 lui ha ventun anni<br />
e lei diciannove. Ma si erano già conosciuti qualche tempo prima quando lei aveva<br />
bussato alla sua porta in cerca di lavoro. Il posto che lui può offrirle, per il momento,<br />
è quello di sua assistente alla camera oscura nel retrobottega di un negozio<br />
di caramelle. Ma dopo un mese Theo comincia la sua folgorante carriera di fotomodella,<br />
guadagna ben venticinque dollari l’ora, all’epoca moltissimo; Avedon<br />
la rincontrerà e la porterà con sé a Parigi nel ‘49 per fotografarla con indosso le creazioni<br />
più sontuose del New Lookdi Dior, come il celebre e monumentale vestito Junon,<br />
considerato uno dei tre abiti haute couture più famosi del mondo.<br />
Sarà, con Dorian Leigh e con Dovima, una delle sue modelle predilette, con quel<br />
collo lunghissimo alla Marella Agnelli e lo sguardo trasognato. Diventerà protagonista<br />
di decine e decine di servizi fotografici su Junior Bazaar, patinata rivista per<br />
giovinette fra i tredici e i ventun anni, ma anche su Glamour, Mademoiselle, Vogue.<br />
Shooting molto diversi fra loro ma già contraddistinti dall’inconfondibile “Avedon<br />
touch”: servizi di moda scattati in Spagna, a Parigi nel sontuoso ristorante Le Pré<br />
Catelan, al mercato di Nassau alle Bahamas, in studio a New York, per esempio su<br />
una slitta accanto a un mucchio di neve finta, ma anche campagne pubblicitarie<br />
di linee aeree, di grandi department stores, di cosmetici, di industrie tessili.<br />
Theo, che in prime nozze aveva sposato un collega e amico di Avedon, il fotografo<br />
di origine russa Ted Corner, si trasferisce a Roma negli anni cosmopoliti della<br />
dolce vita dove frequenta il cosiddetto jet set e conosce l’uomo che diventerà il<br />
suo secondo marito, il produttore Carlo Saraceni. È stato il loro unico figlio Enrico<br />
Carlo, architetto, a mettere a disposizione della gallerista Valentina Moncada il<br />
contenuto di questi bauli, custoditi nella loro casa romana di via Serpieri.<br />
«Più che bauli, vere scatole cinesi. L’archivio privato di mia madre,<br />
morta nel ‘97. Migliaia fra foto, immagini, provini, contatti, ek-<br />
5<br />
tachrome, ritagli, copertine, album privati, e anche lettere di grande<br />
importanza, firmate Dick con il disegnino di una faccia sorridente.<br />
Segnano sette anni di collaborazione fra mia madre e Avedon<br />
proprio nel momento in cui il grande fotografo elaborava il<br />
suo stile e formava il suo gusto estetico — osserva Saraceni —. È<br />
un Avedon prima maniera meno cristallizzato, meno ripetitivo<br />
rispetto a quello che sarebbe venuto dopo. C’è anche molto suo<br />
lavoro dietro le quinte».<br />
Organizzare la mostra è stato difficilissimo. «<strong>La</strong> Fondazione<br />
Avedon, che ha sede a New York, si è immediatamente opposta,<br />
sostenendo che le foto non risultano nell’archivio curato personalmente<br />
dal maestro — racconta Valentina Moncada —.<br />
Questa assenza è un vero mistero, dovuta, sospetto io, a motivi<br />
personali. Theo è l’unica dei “cigni” di Avedon non inclusa<br />
nell’archivio, quando fu invece l’antesignana delle top model<br />
di oggi. Perché? Oltretutto, le foto in questione sono fondamentali:<br />
rivitalizzano enormemente la figura di Avedon».<br />
Theo e Dick rimangono amici. Quando nel ‘57 si gira il film<br />
Funny Face (Cenerentola a Parigi) con Audrey Hepburn e<br />
Fred Astaire nella parte di un fotografo di moda ricalcato perfettamente<br />
sulla figura di Avedon, il maestro, al culmine assoluto<br />
della sua carriera, invita Theo a partecipare al film nel<br />
ruolo di se stessa, assieme ad altre colleghe modelle, ma lei<br />
ormai si è stabilita a Roma e rifiuta l’offerta.<br />
Avedon comincia prestissimo — era un ragazzino — a<br />
fotografare. Ritrae la gente vera, per la strada. Va negli zoo,<br />
nei circhi, persino nelle discariche. <strong>La</strong> modella con cui si<br />
esercita è sua sorella Louise, due anni più giovane di lui, che morirà<br />
in manicomio a trent’anni, lasciando una traccia indelebile: «Tutte le mie prime<br />
modelle, da Dorian Leigh a Audrey Hepburn, erano brune, avevano un bel naso,<br />
collo lungo e viso ovale. Erano tutte ricordi di mia sorella. <strong>La</strong> mia immagine della<br />
bellezza si è formata, prestissimo, a partire da lei». Anche Theo corrisponde a questo<br />
identikit.<br />
A ventun anni è già sposato: lei è Dorcas Nowell, modella. Carriera rapidissima,<br />
fin dagli esordi. Comincia a lavorare, giovanissimo, come fotografo pubblicitario<br />
di un grande magazzino. Viene scoperto da Alexei Brodovitch, art director<br />
di Harper’s Bazaar, che rimane folgorato da una sua foto scattata a due<br />
reclute gemelle durante il servizio militare in marina: una a fuoco, l’altra sfuocata:<br />
«Se riesci a mettere la stessa intensità in una foto di moda, torna a farti vedere»,<br />
gli dice.<br />
Influenzato dal lavoro di Martin Munkacsi e dalle sue immagini in movimento,<br />
Avedon cambia la fotografia di moda per sempre, trasforma le modelle, le tramuta<br />
da manichini su cui sono appesi gli abiti — statue con pepli — in donne vere,<br />
reali, come Theo ritratta al luna park, al Cirque d’Hiver a bordo di un finto aereo<br />
di cartapesta, o addirittura in cucina o fra le suore e gli orfanelli di un collegio,<br />
la Maison d’Enfants Quennessen, vestita Balenciaga e Dior. Un set davvero<br />
insolito, se non rivoluzionario, per un servizio d’alta moda, indubbiamente fra<br />
le foto più interessanti nella mostra romana.<br />
Quando Carmel Snow, la mitica direttrice di Harper’s Bazaar, porta Avedon<br />
con sé a Parigi a fotografare le collezioni dei grandi, lui si immerge in un sogno,<br />
immortala una Francia della ricostruzione che esiste solo per gli americani: «Io<br />
ho fotografato una Parigi d’anteguerra, alla Lubitsch, che non esisteva… Avevo<br />
ventidue anni... attraversavo Parigi su un taxi decappottabile, bevevo champagne<br />
dalla bottiglia… Era la Liberazione: non solo quella della Francia, anche quella<br />
della mente, della creatività. Venivo presentato a Colette da Cocteau! Tutto era<br />
inebriante, ed è da quel delirio che sono nate le mie prime foto di moda».<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale<br />
FOTO © FONDAZIONE AVEDON
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
L’EVENTO<br />
<strong>La</strong> mostra Theo by Richard Avedon<br />
si inaugura il primo febbraio e resterà aperta<br />
per un mese. È ospitata in due sedi:<br />
i Musei Capitolini e l’Accademia di Francia<br />
a Villa Medici, a simboleggiare un ponte<br />
fra le due capitali dell’alta moda, Roma<br />
e Parigi. <strong>La</strong> mostra è il fiore all’occhiello<br />
di AltaRomAltaModa. «È un’ulteriore<br />
testimonianza del nostro impegno<br />
a promuovere la cultura della moda»,<br />
sottolinea Nicoletta Fiorucci, presidente<br />
di Altaroma. Altra mostra in programma<br />
durante le sfilate romane,<br />
che si svolgeranno dal 31 gennaio<br />
al 3 febbraio, è quella dedicata alla più nota<br />
giornalista di moda del mondo, la prima,<br />
nel lontano 1947, a scrivere degli stilisti<br />
italiani: Diana Vreeland. Si intitola Italian<br />
Porfolio – Vreelandesque. Omaggio a Diana<br />
Vreeland Da segnalare infine Fashion<br />
on Paper: per quattro giorni il Tempio<br />
di Adriano diventerà un centro<br />
di sperimentazione per l’editoria<br />
specializzata. In un salone interattivo<br />
sarà possibile consultare libri,<br />
pubblicazioni e riviste legati alla moda<br />
MA L’ITALIA È UNA NAZIONE?<br />
Incontri con<br />
Christopher Duggan<br />
autore di<br />
LA FORZA<br />
DEL DESTINO<br />
STORIA D’ITALIA<br />
DAL 1796 A OGGI<br />
PADOVA<br />
28 gennaio ore 18.00<br />
CAFFÈ PEDROCCHI<br />
con Mario Isnenghi<br />
e Gian Antonio Stella<br />
MILANO<br />
29 gennaio ore 18.00<br />
FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA<br />
SALA BUZZATI • VIA BALZAN 3<br />
con Simona Colarizi e Sergio Romano<br />
coordina Antonio Carioti<br />
TORINO<br />
30 gennaio ore 18.00<br />
LIBRERIA LA TORRE DI ABELE<br />
con Ezio Mauro e Luigi <strong>La</strong> Spina<br />
www.laterza.it chiedi a un libraio<br />
E d i t o r i L a t e r z a<br />
7<br />
FOTO © FONDAZIONE AVEDON<br />
8<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />
<strong>La</strong> lunga ricerca<br />
contro la paura<br />
L a<br />
MICHELE SMARGIASSI<br />
chiave per aprire lo scrigno della<br />
sua apparente algida durezza,<br />
Richard Avedon la buttò lì senza<br />
enfasi in un’intervista televisiva alla<br />
Cbs: «Fotografo ciò che mi fa paura».<br />
Non si riferiva, è chiaro, al levigatissimo<br />
sorprendente glamour delle sue foto<br />
per Harper’s Bazaar o per Vogue, che rivoluzionarono<br />
la visione stessa della<br />
moda. «<strong>La</strong> moda è quel che faccio per vivere,<br />
e mi piace», ma il suo «deep work»,<br />
il suo lavoro «profondo», era un altro.<br />
Lui si considerava un «ritrattista», ma<br />
c’era un po’ di studiata modestia in questa<br />
definizione classica. Avedon è stato<br />
in realtà uno dei più grandi esploratori<br />
del volto e del corpo nell’intera storia<br />
della fotografia. Un ricercatore ossessivo,<br />
mosso dalla paura almeno quanto<br />
dal desiderio di trovare ciò che cercava,<br />
un po’ come Diane Arbus. I primi piani<br />
impietosi, dettagliatissimi fino alla più<br />
piccola macchia cutanea, con cui documentò<br />
fino al giorno della morte la decadenza<br />
fisica di suo padre Jacob Israel<br />
malato di tumore sono difficili da sopportare<br />
per chiunque li guardi, perché<br />
traboccano di un affetto straziante e<br />
inorridito.<br />
Ma in fondo, anche le foto di moda che<br />
lo hanno reso forse il più ricercato e certo<br />
il più pagato professionista della sua<br />
generazione fanno parte di quella ricerca.<br />
Paura del decadimento del corpo e<br />
amore per la sua perfezione non si escludono.<br />
Dovima tra gli elefanti, forse la sua<br />
immagine più conosciuta, è un esperimento<br />
sul contrasto fra ruvido e liscio,<br />
fragile e dirompente: com’è la vita. Nastassija<br />
Kinski sdraiata sul cemento e vestita<br />
solo di un pitone vivo, in un poster<br />
che vendette due milioni di copie, è una<br />
variante sullo stesso tema.<br />
Ma Avedon non si accontentò mai dei<br />
simboli con cui irrorava d’inquietudine<br />
le pagine patinate dei rotocalchi femminili.<br />
Lui, che adorava la candida solitudine<br />
e le soffici luci artificiali del suo studio<br />
bianco sull’East Side, portò più volte<br />
nelle strade la sua ingombrante fotocamera<br />
a treppiede per cercare volti cari-<br />
Sapeva svelare<br />
l’imperfezione<br />
dolorosa e fatale<br />
delle maschere umane<br />
chi di significato. Quelli dei potenti, ma<br />
anche quelli senza potere. In the American<br />
West, galleria di ritratti di cowboy<br />
emaciati e bellezze da fast-food sbattuti<br />
sullo sfondo del suo ormai celebre lenzuolo<br />
bianco, passa per essere un capolavoro<br />
di cinismo: è invece un compianto<br />
pieno di umanità sulla fine ingloriosa<br />
di un mito americano.<br />
E anche un ribaltamento integrale<br />
delle sicurezze e delle presunzioni della<br />
fotografia umanista. Basta con la fiducia<br />
nell’imparzialità dell’occhio di vetro:<br />
«Tutte le fotografie sono precise, nessuna<br />
è la verità». Addio al mito steinbeckiano<br />
dell’empatia con gli spossessati:<br />
Avedon scambiava pochissime parole<br />
con i suoi soggetti, perché «non abbiamo<br />
le stesse aspettative dalla fotografia<br />
che verrà fuori». In fondo si comportava<br />
come Henri Cartier-Bresson,<br />
che pure sembrerebbe stare all’estremo<br />
opposto dell’universo fotografico, ma<br />
che un destino allusivo ha voluto far morire,<br />
nel 2004, poche settimane prima di<br />
lui. Per entrambi, la fotografia sapeva<br />
svelare una realtà ulteriore: per il francese,<br />
la perfezione matematica delle forme<br />
involontarie; per l’americano, l’imperfezione<br />
dolorosa e fatale delle maschere<br />
umane, anche quelle meravigliosamente<br />
vestite.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
SPETTACOLI<br />
VERA SCHIAVAZZI<br />
Era il Teatro del Principe, una sorta<br />
di grande stanza dei giochi dove<br />
applaudire saltimbanchi e attori,<br />
ascoltare cantanti, ballare e<br />
concedere al popolo chiassose<br />
feste di Carnevale. Quasi ogni sera<br />
Vittorio Amedeo di Carignano e la moglie<br />
Maria Vittoria, uscivano dal palazzo di fronte<br />
che porta il loro nome e, salendo due scale rigorosamente<br />
separate, si ritrovavano con i figli<br />
e la corte nell’ex Trincotto rosso, lo stanzone<br />
rettangolare che fino a pochi anni prima<br />
ospitava il jeu de paume (trincotto in italiano,<br />
o pallamano, amatissimo dai piemontesi).<br />
Ora il teatro settecentesco, più volte rimaneggiato<br />
nell’Ottocento e nel Novecento, viene<br />
restituito alla città dopo un cantiere record,<br />
durato diciotto mesi e costato quattordici milioni<br />
di euro, un altro record in tempi nei quali<br />
è difficile perfino programmare gli spettacoli<br />
e si risparmia su ogni centesimo.<br />
E per rinforzare il legame tra un contenitore,<br />
il teatro-gioiello tra i più belli d’Italia, e il suo<br />
contenuto, per la serata inaugurale il 2 febbraio<br />
si è voluto lo Zio Vanja di Cechov, con la<br />
regia di Gabriele Vacis. È la terza volta che questo<br />
testo viene allestito in grande stile per il Carignano,<br />
prima toccò a Luchino Visconti e a<br />
Mario Missiroli. <strong>La</strong> produzione è del Teatro<br />
Stabile di Torino (che gestisce il Carignano, di<br />
proprietà del Comune) e del Teatro Regionale<br />
Alessandrino. Vacis non nasconde la sua<br />
emozione: «È il teatro in cui<br />
Teatro<br />
ci portavano da<br />
Carignano<br />
dei Re<br />
piccoli, cercheremo di restituire la magia di<br />
Cechov».<br />
Ma un po’ tutti sono emozionati, non solo<br />
gli artisti. Perfino Bruno Ortu, sessantotto anni,<br />
il ruvido capomastro arrivato da Guspini,<br />
in provincia di Cagliari, e avvezzo a ogni difficoltà<br />
di cantiere, adesso sorride. Ma non si è tirato<br />
indietro quando c’è stato da prendere con<br />
le mani i vecchi mattoni e mostrare ai giovani<br />
muratori arrivati da Romania e Marocco come<br />
si fa a ricostruire con quelli anziché col cemento.<br />
«Sono stati bravissimi, tutti. Si iniziava<br />
alle sette il mattino e si andava a casa dieci ore<br />
dopo, anche il sabato, spesso la domenica»,<br />
racconta Ortu mentre mostra ai visitatori il<br />
“suo” teatro, la trasparenza del marmo decorato<br />
a stelle ottagonali, i legni chiari, i mancorrenti<br />
d’ottone, non troppo lucido, per carità. Il<br />
capomastro voleva sparire, evitare la prima<br />
del 2 febbraio, invece ci sarà con la moglie Rosina:<br />
«Hanno insistito, non potevo rifiutare.<br />
Ma voglio stare nel loggione, è quello il posto<br />
migliore».<br />
Sorride il professor Paolo Marconi, l’architetto<br />
romano che ha guidato il gruppo di progettisti<br />
e imprese: «C’è una grande differenza<br />
tra “restaurare” e “conservare”, e al Carignano<br />
si è scelta la prima strada, riportando il teatro<br />
al momento del suo massimo splendore, a<br />
cavallo della metà dell’Ottocento. Ma abbiamo<br />
lavorato anche sulle origini, quando il<br />
Principe utilizzava questo luogo come una<br />
I l<br />
Era una ribalta dove si esibivano<br />
saltimbanchi e ballerine, ma anche<br />
lo sfondo sul quale la nobiltà sabauda<br />
tesseva amori ed alleanze. Il 2 febbraio lo spazio<br />
restaurato, gestito dallo Stabile di Torino diretto<br />
da Mario Martone, viene restituito alla città<br />
Quel patto di carne<br />
tra attore e spettatore<br />
MARIO MARTONE<br />
pittore lascia tele, il compositore spartiti, il cineasta<br />
film, ma per chi fa teatro non c’è ripre-<br />
sa video che tenga, il suo lavoro resta scritto sui<br />
palcoscenici dei teatri. Lo spettatore ricorda<br />
sempre il teatro dove ha assistito alla «memorabile<br />
interpretazione di Re Lear» o alla<br />
«grande messa in scena dell’Opera da<br />
tre soldi», perché l’attore ogni sera realizza<br />
un’opera unica e il teatro raccoglie<br />
il patto di carne che lo lega agli spettatori<br />
che di quell’opera saranno per sempre<br />
gli unici depositari. In questo senso i teatri<br />
sono “sacri”, e le loro chiusure procurano<br />
sconforto quanto le loro riaperture gioia. Non sono<br />
dunque solo ragioni civili, storiche e monumentali<br />
a renderci felici per la riapertura del Carignano,<br />
ma il sapere che altri lavori vi nasceranno,<br />
che di nuovo si compirà il rito, che altri attori<br />
ed altri spettatori daranno vita a nuove opere.<br />
sorta di dépendance per i divertimenti suoi e<br />
della famiglia. Era una delle poche occasioni<br />
per le donne e gli uomini di incontrarsi, qui nascevano<br />
amori leciti e illeciti, intrighi, alleanze,<br />
dal Principe di Carignano fino a Carlo Alberto.<br />
Abbiamo incontrato sovrintendenti intelligenti,<br />
che ci hanno lasciato fare molte cose<br />
per recuperare tutto questo».<br />
Così la facciata barocca, sulla quale le colonne<br />
che erano state nascoste e il vecchio busto<br />
di Vittorio Alfieri sono stati riportati alla luce,<br />
può di nuovo guardare Palazzo Carignano,<br />
libera dalle vecchie bussole di legno e spaccata<br />
da grandi vetrate. A destra e a sinistra c’erano<br />
e ci sono altre due istituzioni torinesi: il ristorante<br />
del Cambio, dove Camillo Benso<br />
conte di Cavour mangiava in attesa che dal<br />
Parlamento subalpino, di fronte, gli facessero<br />
cenno che c’era bisogno di lui, e la gelateria Pepino,<br />
che diventerà presto la caffetteria del<br />
teatro. Dentro, l’ingresso è stato riportato ai<br />
volumi originari eliminando un alloggio che<br />
ne aveva ridotto lo spazio, un piccolo golfo mistico<br />
è stato ricreato davanti al palcoscenico,<br />
una grande sala circolare recuperata sotto la<br />
platea: era l’antica birreria che i principi avevano<br />
concesso ai borghigiani per ristorarsi tra<br />
un atto e l’altro, considerato anche che agli<br />
spettacoli si usava assistere in piedi, mentre i<br />
nobili sedevano nei palchi. Raccontano che<br />
quando il ministro Sandro Bondi è venuto a visitare<br />
il cantiere, in dicembre, un deputato del<br />
suo seguito abbia chiesto:<br />
«Come mai non avete ancora<br />
rifatto le dorature?». Le dorature<br />
c’erano già, invece, ricreate<br />
a mano con minuscoli<br />
pennelli, ma discrete,<br />
alla moda antica, tanto da<br />
sfuggire a occhi abituati a<br />
scenografie più rutilanti.<br />
«Dopo i principi, anche<br />
per i torinesi questo teatro<br />
è diventato un pezzo<br />
di casa propria, dove si<br />
va a passare il tempo,<br />
vedere, ascoltare, incontrare<br />
gli amici —<br />
racconta Evelina Christillin,<br />
che da signora<br />
delle Olimpiadi si è<br />
trasformata in poco<br />
tempo in “lady di<br />
ferro” del teatro<br />
pubblico torinese e<br />
che da presidente<br />
dello Stabile è riuscita<br />
nell’impresa<br />
di far quadrare<br />
conti e tempi del cantiere<br />
—. Il restauro era necessario<br />
anche per adeguarsi alle nuove norme di sicurezza,<br />
ma non ci saremo mai riusciti senza gli<br />
undici milioni di euro che il Comune ha stan-<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
IMMAGINI DI IERI<br />
Sopra, il palco<br />
del Carignano<br />
in un disegno<br />
di Gabriel P.M. Dumont<br />
(1757-’74); a sinistra,<br />
l’esterno del teatro<br />
in una stampa; al centro<br />
del paginone, Entr’acte,<br />
dipinto di Carlo<br />
Pollonera (1886); in alto,<br />
la facciata del Carignano<br />
in un disegno del 1824<br />
ziato per la parte più “pesante”<br />
del restauro quando<br />
ancora i bilanci pubblici<br />
non erano così in crisi.<br />
E senza gli altri tre milioni<br />
e oltre messi in moto<br />
da una grande raccolta<br />
tra semplici cittadini<br />
che hanno versato un<br />
euro e stimolato così<br />
tantissimi sponsor<br />
pubblici e privati: la Regione<br />
ha investito, la<br />
Fondazione Crt ha<br />
raddoppiato la sottoscrizione<br />
popolare, la<br />
Compagnia di San<br />
Paolo ha regalato il<br />
palcoscenico che ora è supertecnologico,<br />
tantissimi artigiani ci hanno donato tessuti, legni,<br />
passamanerie».<br />
E ora? «Ora Torino, e l’Italia, hanno di nuovo<br />
uno dei teatri più belli, con gli splendori che<br />
negli anni si erano appannati, come il soffitto<br />
di Gonin, riportati alla luce. Ma anche uno<br />
spazio nuovo, dove sarà possibile per esempio<br />
allestire l’opera barocca grazie alla buca<br />
per l’orchestra recuperata dal restauro. Che<br />
cosa possiamo dire se non grazie a chi ha lavorato<br />
e a chi ha pagato, dimostrando che si<br />
può continuare a investire sulla cultura pubblica<br />
anche in tempi di crisi?».<br />
LE IMMAGINI<br />
Le foto di Gabriele Basilico<br />
(le tre di sinistra, intervallate<br />
da una stampa d’epoca,<br />
e quella a destra) sono<br />
raccolte nel libro Teatro<br />
Carignano -Dalle origini<br />
al restauro (Contrasto/<br />
Agarttha Arte, 216 pagine,<br />
49 euro). Gli scatti saranno<br />
in mostra da febbraio a Torino<br />
al Teatro Carignano e, dal 23<br />
giugno al 23 agosto, a Parigi,<br />
alla Maison Européenne<br />
de la Photographie<br />
E la<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />
Il palcoscenico<br />
del potere che fu<br />
GIAN LUCA FAVETTO<br />
sera andavano al Carignano. Per figurare e divertirsi.<br />
Per assistere a drammi, commedie, opere liriche, gio-<br />
chi in musica, atti comici, conferenze, funambolerie. Di<br />
giorno, i solerti torinesi lavoravano e la sera si rifugiavano nella<br />
sala spettacoli che porta ancora il nome del ramo cadetto<br />
di casa Savoia, quello di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele. Un<br />
vero teatro di popolo e di principi. E per quasi due secoli anche<br />
l’esemplare specchio della borghesia cittadina, produttiva<br />
e intellettuale. Una bomboniera elegante e discreta. Preziosa,<br />
senza esagerazioni. Ricca, senza spatusseria. Colori tenui.<br />
Atmosfera da bisbiglio. Come la città vuole, per naturale<br />
predisposizione e luogo comune. Dove, se non fra i suoi stucchi<br />
e velluti, potevano trovarsi a proprio agio le gozzaniane signore<br />
«che mangiano le paste nelle confetterie»?<br />
Nel 1880, Edmondo De Amicis riassume così il fervore della<br />
città: tutti camminano guardando diritto davanti a sé; si discorre<br />
senza rallentare il passo; poche conversazioni ad alta<br />
voce; nelle strade si vede una specie di gara ad arrivare primi,<br />
a lasciarsi indietro chi cammina accanto, come se ogni vicino<br />
fosse un concorrente in affari; ma una certa apparenza di<br />
gentilezza corregge il carattere un po’ aspro di questa frettolosa<br />
vita industriale; la città fa i suoi affari alla lesta ma con dignità,<br />
da signora educata, non da rozza merciaia.<br />
È questa Torino che si ritrova al Carignano, questa Torino<br />
che in teatro si fa pubblico curioso ed esigente, pubblico<br />
difficile, magari non particolarmente colto, ma molto attento.<br />
Fra gli attori da sempre circola una leggenda: se sorridono<br />
a Torino, in Italia sarà un successo. Lo sapeva già<br />
Carlo Goldoni, che a metà del Settecento è in città con un<br />
suo lavoro e lamenta «la preferenza della folla per le commedie<br />
triviali» e «l’incessante girovagare in visita da un palco<br />
ad un altro del mondo elegante, quella continua conversazione<br />
mentre si recita».<br />
Ma sono appena quarant’anni di vita per il Carignano, e il<br />
Settecento proprio non è un secolo che gli si addice: s’incendia<br />
anche. Il suo secolo d’oro è l’Ottocento. Comincia negli<br />
anni Quaranta, quando viene messo in scena per la prima<br />
volta in Italia il Macbeth di Shakespeare, e si allunga fino allo<br />
spegnersi della Belle Èpoque. E questo non tanto per la programmazione<br />
degli spettacoli, i titoli, gli interpreti, le gesta di<br />
Sarah Bernhardt, gli exploit di Toscanini e di Eleonora Duse,<br />
gli allestimenti di Pirandello, ma perché nella geografia urbana<br />
e nell’immaginario collettivo il teatro acquista un’evidente<br />
forza simbolica. È al centro della città. Si viene a trovare<br />
nel cuore intellettuale e politico di Torino. Esattamente nel<br />
luogo dove il potere si manifesta, e non solo per ciò che riguarda<br />
la vita cittadina ma — a un certo punto e per un certo<br />
periodo — anche per ciò che riguarda tutta l’Italia. Insieme<br />
al potere, è qui che si concentra quell’intreccio di vizi e virtù,<br />
ritrosie e azioni, consuetudini e sorprese che si può definire<br />
“torinesità”.<br />
Il teatro Carignano si affaccia su una sorpresa (lo è sempre,<br />
anche per chi la frequenta spesso), una piccola piazza straordinaria.<br />
Anche lei Carignano, si chiama. Al di là della piazza,<br />
un palazzo sontuoso: Carignano anche lui, naturalmente. Vi<br />
è nato il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele. Ha ospitato il<br />
parlamento subalpino. Ha tenuto a battesimo il parlamento<br />
italiano. In pratica, ci viveva Cavour. E governava. Quando<br />
usciva da lì, faceva trentasette passi — era piccolo, aveva le<br />
gambe corte — e si trasferiva al ristorante del Cambio, dove,<br />
oltre a mangiare, progettava, consultava politici, riceveva<br />
ambasciatori, decideva e brindava. Il Cambio confezionava<br />
anche i piatti per la Prefettura, quando gli ospiti di riguardo<br />
preferivano non lasciare il palazzo del governo. Si trova, come<br />
un tempo, accanto al Teatro Carignano: stesso edificio, a<br />
un portoncino di distanza. All’altro angolo, sempre stesso<br />
edificio, nemmeno un portoncino che separi i muri, per non<br />
farsi mancare nessuna delizia, dal 1884 c’è il caffè Pepino,<br />
fondato da Domenico Pepino, arrivato da Napoli con le ricette<br />
del suo gelato. A far da quinta, appena al di là della via, è<br />
l’austero palazzo dell’Accademia delle Scienze che ospita il<br />
Museo Egizio.<br />
Dal teatro, sempre si vedevano due spettacoli, uno sul palco<br />
e uno sulla piazza. Due recite: politica e cultura, affari e divertimento.<br />
Non sempre si poteva dire dove finisse la realtà<br />
e cominciasse l’illusione.<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
i sapori<br />
Rotondità<br />
LICIA GRANELLO<br />
È uno dei piatti più svalutati della storia della gastronomia,<br />
perché di origine contadina e spesso fatto di avanzi<br />
Ma può trasformarsi in un trionfo di sapori e soprattutto<br />
è duttile quanto a cotture, condimenti, presentazioni<br />
è un piatto che<br />
tutti lo sanno fare…».<br />
Malgrado fosse colto e<br />
indagatore, anche il<br />
«Questo<br />
più celebre degli scrittori-gastronomi,Pellegrino<br />
Artusi, al momento di ultimare <strong>La</strong><br />
Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar bene,<br />
si arrese davanti alla regina del comfortfood.<br />
Ben oltre un secolo dopo, il pudore di<br />
appassionati e chef è rimasto immutato.<br />
Codificare la preparazione delle polpette è<br />
come decidere qual è il pane più buono del<br />
mondo o eleggere il vino dei vini: impossibile.<br />
Perché le ricette sono mille, diverse e<br />
— se fatte a regola d’arte — tutte irresistibili,<br />
tanto da attraversare il pianeta intero,<br />
con un’interminabile scia di ingredienti e<br />
combinazioni, dai fornelli più poveri alle<br />
cucine più alte.<br />
Una bella rivincita per uno dei cibi più<br />
svalutati e strapazzati della nostra storia.<br />
Infatti, malgrado il nome abbia in sé i propri<br />
quarti di nobiltà alimentare — se è vero<br />
che l’etimo “polpa” designa la parte tenera<br />
e pregiata della carne —, nel parlare comune<br />
si fan polpette di qualcuno o gli si regala<br />
una polpetta avvelenata, giù giù fino<br />
alla noia mortale (indigeribilità intellettuale)<br />
di leggere, ascoltare o vedere un<br />
“polpettone”.<br />
Tutto congiura contro i piccoli bocconi,<br />
come se fossero null’altro che cibo di risulta.<br />
E invece, le polpette possono tramutarsi<br />
in piccoli trionfi di gastronomia: il contrasto<br />
di consistenze fra croccantezza e setosità,<br />
il sapore fine o rustico, lo status di<br />
finger food modello “una tira l’altra”, o di<br />
pietanza d’antàn avvolta in una salsa di<br />
pomodoro che chiede solo di essere raccolta<br />
con un pezzetto di buon pane, la presentazione<br />
raffinata in versione mignon<br />
nel brodo, e quella finta leggera sul letto<br />
Polpette<br />
d’insalata.<br />
Da un paese all’altro, la definizione privilegia<br />
di volta in volta forma e contenuto.<br />
È il caso delle meatballs (palle di carne)<br />
americane, confezionate in versione maggiorata<br />
e servite con gli spaghetti o come<br />
toppings sulla pizza, nella bizzarra convinzione<br />
di mutuare dei piatti tradizionali<br />
italiani. In spagnolo, invece, la parola è<br />
albóndigas, termine che in lingua araba indica<br />
la nocciola (al-bunduq), e in senso lato<br />
un bocconcino rotondo. E poi le bouletten<br />
belghe — servite a coté di una montagna<br />
di patatine fritte —; le cinesi lion’s<br />
heads, teste di leone extra-large, fatte con<br />
carne di maiale, cotte in brodo di pollo e<br />
salsa di soia; le greche keftedes, aromatizzate<br />
con cipolle e foglie di menta; le finlandesi<br />
lihapullat, a base di polpa di renna.<br />
Per tutti vale la doppia vocazione originaria:<br />
dal Sudamerica alla <strong>La</strong>pponia, le<br />
polpette si preparano a partire da carne<br />
cruda, scelta, o da carne cotta, avanzata da<br />
pasti precedenti. Ispirazione analoga per<br />
le verdure. Non è detto che la prima soluzione<br />
sia necessariamente migliore della<br />
seconda: certi fondi d’arrosto, certi ritagli<br />
di biancostato lessato, se ben miscelati<br />
con uova e formaggio di qualità (più rifiniture<br />
a piacere), danno origine a polpette di<br />
clamorosa bontà.<br />
Resta il problema della cottura, con la<br />
sua scala di salubrità inversamente proporzionale<br />
al gusto, dalle leggiadre polpette<br />
al vapore, passando per il forno, fino al- l’appuntamento<br />
la padella tentatrice. Nel caso abbiate<br />
Appuntamento a fine febbraio<br />
smaltito gli eccessi natalizi e possiate per-<br />
con la manifestazione Sei Bollito o Fritto?<br />
mettervi la frittura, non lesinate su quan-<br />
ad Asti. In programma, tour guidati<br />
tità e qualità di extravergine, per evitare<br />
delle colline astigiane con visita<br />
che — appoggiate sul fondo della padella<br />
ai produttori di gourmandise della zona<br />
— le polpette arrostiscano sui due lati sen-<br />
E poi menù degustazioni a 25 euro a testa<br />
za cuocere all’interno, assorbendo, come<br />
in cinquanta tra ristoranti, osterie<br />
se non bastasse, molto più grasso del ne-<br />
e trattorie Protagonisti: il fritto misto<br />
cessario. <strong>La</strong>sciatele galleggiare nell’olio a<br />
piemontese con le polpette<br />
180 gradi, rigirandole appena con la palet-<br />
in passerella; e il bollito misto,<br />
ta, prima di appoggiarle sulla carta. Quello<br />
fonte primaria delle polpette<br />
è il momento più delicato: se le lasciate in-<br />
nella versione “regine degli avanzi”<br />
custodite, rischiate di portare in tavola un<br />
vassoio dimezzato.<br />
Un nome<br />
e mille<br />
maschere<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
360 le calorie<br />
per cento grammi<br />
di polpette fritte<br />
1464 prima apparizione<br />
delle polpette<br />
in un ricettario<br />
1880 Pellegrino Artusi<br />
certifica la ricetta<br />
delle polpette di lesso<br />
3il<br />
numero minimo<br />
di ingredienti: carne,<br />
uovo, parmigiano<br />
Di carne<br />
<strong>La</strong> madre di tutte le polpette<br />
ha come ingrediente-base<br />
la polpa – ovvero la parte tenera<br />
di manzo, pollo, maiale – cruda,<br />
tritata, mescolata con uova<br />
e formaggio grattugiato<br />
In alternativa, si utilizzano avanzi<br />
sgrassati di bolliti, arrosti e stufati<br />
Milano<br />
I Promessi<br />
Trattorie d’antàn<br />
e piccoli ristoranti<br />
sfiziosi esibiscono<br />
in menù polpettoni<br />
“light” e mondeghili,<br />
versione locale delle<br />
polpette. Nell’impasto,<br />
oltre al macinato<br />
di manzo: salsiccia, mortadella di fegato, aglio,<br />
cannella e chiodi di garofano. Cottura nel burro<br />
DOVE DORMIRE<br />
LA VILLETTA<br />
Via privata Chiasso<br />
Tel. 02-3270288<br />
Camera doppia da 90 euro,<br />
colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
GATTÒ<br />
Via Castelmorrone 10<br />
Tel. 02-70006870<br />
Chiuso domenica, menù da 30 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
MACELLERIA ANNUNCIATA<br />
Via Annunciata 10<br />
Tel. 02-6572299<br />
Fritte<br />
<strong>La</strong> cottura più golosa prevede<br />
passaggi diversi, a seconda<br />
delle ricette: nella sola farina,<br />
oppure nell’uovo sbattuto<br />
(o nel solo bianco poco montato)<br />
e poi nel pan grattato. Prima<br />
di mandarle in tavola, sosta<br />
obbligatoria sulla carta assorbente<br />
Di pesce<br />
Apprezzate dai fautori<br />
della cucina alleggerita,<br />
si preparano con tutte le qualità<br />
di pesce: dalle delicate neonate<br />
(tramutate in frittelle) ai saporiti<br />
sardoni. Di gusto ancora<br />
più robusto le polpette<br />
di baccalà<br />
sposi, capitolo VII. Renzo porta a cena Tonio e Gervaso<br />
per sorprendere Don Abbondio con questi inopinati<br />
testimoni di nozze. E l’oste a promettere: «Ora vi porterò un<br />
piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate».<br />
È fama che, letta questa pagina, Giulia Beccaria — madre<br />
del Manzoni — apostrofasse il figlio chiedendogli perché mai,<br />
fra tante buone cose, la scelta fosse caduta proprio sulle polpette.<br />
E che Alessandro rispondesse: «Perché, signora madre,<br />
di polpette me ne avete fatte mangiare tante da piccolo che mi<br />
sembrava giusto servirle anche a quei miei personaggi».<br />
Dagli esicia del romano Apicio agli odiernissimi hamburger,<br />
lunga è la strada delle polpette. E non priva di contraddizioni.<br />
Nel 1570 esce l’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto<br />
di Papa Pio V. <strong>La</strong> polpetta vi è definita come una fetta di<br />
carne intera arrotolata attorno a un po’ di macinata: quasi allo<br />
stesso modo di aglio, origano e quant’altro, oggi inseriti tra<br />
gli interstizi di un rollè di vitello. L’idea piccolo-borghese che<br />
una certa quantità di pane grattugiato mescolato alla carne<br />
poteva farne le veci, confondendosi con essa, stenta a farsi<br />
strada.<br />
Nel 1662 un altro Bartolomeo cuoco, lo Stefani di casa Gonzaga,<br />
pubblica L’arte di ben cucinare et istruire i non periti in<br />
questa lodevole professione. È un testo frutto di frequentazioni<br />
aristocratiche, e l’autore sente di dover farsi perdonare una<br />
polpetta non di tutta carne ma con un po’ di mollica dentro.<br />
Eccolo allora vincolare l’elaborato ad una materia prima nobilissima,<br />
il fagiano, e a intriderlo in un mare di spezie, di formaggio<br />
lodigiano e altre galanterie. Quasi un anticipo delle<br />
contraddizioni cui sarebbe andato incontro Olindo Guerrini<br />
nel 1916 quando, presentando L’arte di utilizzare gli avanzi<br />
della mensa, polpette in primis, formulò ricette così ricche e<br />
Forlì<br />
Col sugo<br />
Dopo la frittura, il passaggio<br />
nel pomodoro esalta il sapore:<br />
passata o pelati in un soffritto<br />
leggero, immersione delle polpette<br />
per pochi minuti. È la rifinitura<br />
classica della versione “comfort<br />
food”, che prevede abbondante<br />
scarpetta finale con il pane<br />
itinerari<br />
Vegetariane<br />
Dalle verdure ai legumi, basta<br />
aprire il frigo per inventare<br />
una ricetta golosa: cardi,<br />
melanzane, erbette, patate,<br />
carciofi, sbollentati e insaporiti,<br />
vengono mischiati con formaggio,<br />
uova, besciamella. Squisiti<br />
i libanesi falafel, a base di ceci<br />
Mauro Brun e Bruno Rebuffi preparano polpette squisite<br />
nel cuore di Milano. <strong>La</strong> coppia si sdoppierà tra vecchio<br />
e nuovo negozio a marzo, quando lo storico artigiano<br />
Ercole Villa lascerà ai due la più celebre macelleria cittadina<br />
<strong>La</strong> tradizione<br />
delle polpette,<br />
preparate dopo i bolliti<br />
natalizi e l’uccisione<br />
del maiale, attraversa<br />
la storia della cucina<br />
romagnola. Le diverse<br />
ricette sono riportate<br />
nel centro di cultura gastronomica domestica<br />
“Casa Artusi”, nella vicina Forlimpopoli<br />
DOVE DORMIRE<br />
LE MAGNOLIE<br />
Via Don Pollini 40<br />
Tel. 0543-781470<br />
Camera doppia da 70 euro,<br />
colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
CASA ARTUSI<br />
Via Costa 27, Forlimpopoli<br />
Tel. 0543-743138<br />
Chiuso martedì, menù da 25 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
SALSAMENTERIA TOMBA<br />
Corso Diaz 74<br />
Tel. 0543-20054<br />
Matera<br />
Al forno<br />
A metà fra opposte cotture<br />
(olio o acqua), il forno regala<br />
croccantezza senza grassi,<br />
ma occorre tener d’occhio<br />
termometro e tempistica<br />
per evitare che i bocconcini<br />
si asciughino troppo. Abbinare<br />
con insalata o erbette spadellate<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
Polpettone<br />
Nella versione maggiorata,<br />
l’impasto, che spesso racchiude<br />
un “cuore” goloso (uovo, frittata,<br />
nido d’erbette, castagne),<br />
si cuoce in forno o lessato<br />
in un canovaccio. Si serve tagliato<br />
freddo, con maionese a parte<br />
Appetitosa la versione con il tonno<br />
Nella città dei Sassi,<br />
si possono gustare<br />
i rummulèddi,<br />
bocconcini fritti<br />
e ripassati nel sugo,<br />
ricetta lucana<br />
delle polpette<br />
L’impasto<br />
di ingredienti tradizionali – uova, pecorino,<br />
patate, salame – viene arricchito con uva passa<br />
DOVE DORMIRE<br />
LE ANTICHE CASE DI MARTINA<br />
Quartiere Civita<br />
Tel. 348-7929213<br />
Camera doppia da 60 euro,<br />
senza colazione<br />
DOVE MANGIARE<br />
IL CANTUCCIO<br />
Via delle Beccherie 33<br />
Tel. 0835-332090<br />
Chiuso lunedì, menù da 25 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
IL BUONGUSTAIO<br />
Via Lucania 116<br />
Tel. 0835-331982<br />
Da secoli in altalena tra miseria e nobiltà<br />
CORRADO BARBERIS<br />
‘‘ All’osteria<br />
Lui<br />
non vende mai,<br />
ma proprio mai,<br />
delle polpette<br />
fredde<br />
e vecchie<br />
Da LA PAZIENZA<br />
DELLA PIETRA<br />
di Sara Shilo<br />
complicate da meritare il postumo commento di Aldo Santini:<br />
«Alla faccia del risparmio».<br />
L’azione dei Promessi sposi si colloca storicamente a metà<br />
strada tra il testo dello Scappi e quello dello Stefani. E certo sarebbe<br />
stato imprudente pretendere dall’oste di Renzo un<br />
piatto degno della corte pontificia o gonzaghesca. Pure, si sa<br />
come vanno le cose. Tra cucina popolare e signorile è tutto un<br />
saliscendi, le usanze dei signori si diramano al piano di sotto<br />
attraverso i loro domestici come quelle del piano di sotto approdano<br />
al nobile. Sbagliava quindi probabilmente Manzoni<br />
credendo di far mangiare a Renzo, Tonio e Gervaso le misere<br />
polpette di mamma Giulia. Tra il matrimonio dei Promessi<br />
e l’infanzia di Alessandro ci sono due secoli di decadenza<br />
alimentare. Ossia il pangrattato ed altre umiltà che<br />
hanno svolto, nella polpetta, funzioni di supplenza rispetto<br />
alla carne.<br />
In fondo le attuali polemiche sugli hamburgere sui loro nocivi<br />
grassi nascosti tra le pieghe del tritato non fanno che riprendere<br />
le antiche prevenzioni sul contenuto di quelle pallottole<br />
che talvolta — quando fritte — prendono anche il nome<br />
di crocchette. Cosa ci sarà mai dentro, quali scarti di piatto,<br />
magari già biascicati da altri avventori trovano rifugio in<br />
quelle confezioni? Non a caso Pellegrino Artusi tiene sull’argomento<br />
una posizione decisamente ambigua, ma finendo<br />
per scrivere: «Non crediate che io abbia la pretensione di insegnarvi<br />
a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno<br />
fare, cominciando dal ciuco, il quale forse fu il primo a darne<br />
il modello al genere umano». <strong>La</strong> lingua italiana avrebbe riservato<br />
lo stesso termine agli elaborati di cucina e agli escrementi<br />
dell’asino, se le polpette fossero state ancora quelle di<br />
Bartolomeo Scappi? Ahi, Giulia Beccaria...<br />
Al vapore<br />
<strong>La</strong> preparazione chinese-style<br />
piace molto a salutisti e dietologi:<br />
niente grassi aggiunti, niente<br />
pesantezza da temperature<br />
elevate, rispetto assoluto<br />
dei sapori originari. Oltre<br />
al vapore, leggera e gradevole<br />
anche la cottura nel brodo<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
le tendenze<br />
Eterni ritorni<br />
6<br />
1 2<br />
10<br />
4 5<br />
8<br />
11<br />
9<br />
Non più rigide corazze che mortificano la femminilità, i nuovi modelli<br />
sono adatti a tutte le donne. Dalle super manager alle eccentriche,<br />
dalle giovanissime alle “ragazze d’antan”. Ecco come le grandi firme<br />
della moda rivestono di nuovo appeal un classico<br />
dell’abbigliamento<br />
3<br />
7<br />
LAURA ASNAGHI<br />
giacca è il capo che avrei<br />
voluto inventare io». Giorgio<br />
Armani non ha dubbi:<br />
«<strong>La</strong> giacca ha un fascino irresistibile,<br />
è la regina del<br />
«<strong>La</strong><br />
guardaroba femminile».<br />
Nel mondo della moda, Armani è tra i più fedeli<br />
sostenitori della giacca, insieme al marchio<br />
Chanel, che alle recenti sfilate le ha reso<br />
omaggio con una scultura alta venti metri.<br />
«Nella moda ci sono cose che non passano<br />
mai di moda — spiega Karl <strong>La</strong>gerfeld, il grande<br />
interprete dello stile Chanel —: i jeans, una<br />
camicia bianca e la giacca sono per sempre».<br />
In tempi di crisi, la giacca da donna torna ad<br />
avere una nuova autorevolezza e tutti gli stilisti,<br />
nessuno escluso, l’hanno rilanciata. I nuovi<br />
modelli non sono più rigide “corazze” che<br />
mortificano la femminilità. Tutt’altro. Armani<br />
le ha fatte rivivere con uno spirito nuovo.<br />
«Le ho accorciate e alleggerite, realizzate in lana<br />
e seta, in versione elegante o spiritosa, con<br />
o senza bottoni, a chimono, a sahariana, a bolero».<br />
Le nuove giacche sono per tutte le donne,<br />
nessuna esclusa: dalle super manager alle<br />
donne eccentriche, dalle conservatrici alle<br />
amanti dell’innovazione spinta, dalle giovani<br />
alle più mature. Per ognuna, c’è un modello<br />
speciale. E scovarlo è semplice. Basta passare<br />
in rassegna le vetrine che in questo momento<br />
celebrano la riscossa della giacca, dopo anni<br />
in cui i giubbini casual le avevano rubato la<br />
scena, confinandola nei guardaroba più tradizionalisti<br />
e borghesi. Oggi non è più così.<br />
Complice la crisi, la moda si è reinventata la<br />
giacca, regalandole un nuovo appeal.<br />
«<strong>La</strong> giacca ha facoltà camaleontiche —<br />
spiega la stilista Alberta Ferretti —. In tempi<br />
difficili come questi, per le donne è un “bene<br />
rifugio” e le aiuta ad avere un’immagine più<br />
carismatica». Da Gucci trionfano quelle strette,<br />
tagliate alla garçon, mentre da Christian<br />
Dior siamo al revival dei modelli anni Sessanta,<br />
nei delicati colori pastello. Donatella Versace<br />
arriva a proporle in morbidissima pelle di<br />
coccodrillo, quasi scolpite sul corpo. «Io mi diverto<br />
a trasformare un look molto femminile<br />
e sexy con un blazer maschile — spiega Veronica<br />
Etro —. Con la giacca tutto diventa più accettabile:<br />
dalla scollatura più pronunciata a<br />
un paio di short cortissimi usati in alternativa<br />
alla gonna».<br />
Tra le creazioni più fashion e già oggetto di<br />
culto, ci sono le giacche di Dolce e Gabbana,<br />
con le maniche tonde come le orecchie di Topolino.<br />
Una soluzione divertente e ironica<br />
che si sposa con una sartorialità di alto livello.<br />
«<strong>La</strong> giacca è bella solamente se ben costruita<br />
e realizzata con materiali di qualità — ricorda<br />
<strong>La</strong>ura Lusuardi, la mente creativa del gruppo<br />
Max Mara —. Per le donne è un capo assoluto<br />
ma per essere estremamente femminile deve<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
Il capo che visse due volte<br />
essere declinato in chiave sartoriale». Roberto<br />
Cavalli concorda con queste regole e suggerisce<br />
di indossare la giacca su abiti svolazzanti<br />
o su jeans super sexy. «Il bello di una giacca<br />
è che sembra sempre uguale — spiega lo stilista<br />
fiorentino — ma in realtà è sempre diversa.<br />
Con un accessorio giusto diventa subito<br />
moderna e di tendenza». Una considerazione<br />
che dà il via libera anche al riutilizzo delle giacche<br />
conservate nell’armadio. A patto che abbiano<br />
un dettaglio nuovo. Qualche esempio?<br />
Una spilla ma anche un bottone gioiello.<br />
Nuova o vintage, la giacca funziona sempre<br />
e, come ricordano i Frankie Morello, «se<br />
ben costruita aiuta a rendere belle tutte le<br />
donne». Massimo Piombo, famoso per le<br />
sue giacche colorate e i suoi smoking iperfemminili,<br />
teorizza che «se una donna sa indossare<br />
bene una giacca è più intrigante di<br />
quando mostra un reggicalze». Moschino<br />
gioca sulle soluzioni surreali e giocose; Bottega<br />
Veneta esalta lo chic delle donne upper<br />
class; mentre, all’opposto,<br />
Marithé&François Girbaud sforna modelli<br />
che piacciono alle ragazze. Come la giacca<br />
“kombat” che si chiude con nastrini intrecciati.<br />
«Le giacche sono lo specchio della nostra<br />
società — conclude Wolfgang Joop, designer<br />
di Wunderkind, ex docente di costume<br />
all’università di Berlino — le guardi e capisci<br />
se viviamo momenti di crisi o di massimo<br />
edonismo».<br />
1. JIL SANDER. Giacca impeccabile, realizzata con tessuti preziosi, da indossare con short. 2. FRANKIE MORELLO. Piccola e affusolata, è un<br />
modello che si ispira a Jackie Kennedy, da portare con i classici occhialoni scuri e pantaloni a sigaretta. 3. ALBERTA FERRETTI. Comfort,<br />
femminilità e carisma. Ecco i concetti che ispirano questa giacca pensata per una donna che vuole essere elegante in ogni momento.<br />
4. DOLCE & GABBANA. <strong>La</strong> massima sartorialità applicata a un modello di giacca che ha le forme tondeggianti degli anni Cinquanta. Questo<br />
modello è stato ribattezzato Topolino perché le maniche ricordano le orecchie del personaggio Disney. 5. WUNDERKIND. Tutt’altro che<br />
tradizionali e con stampe dalle fantasie sorprendenti. Wolfgang Joop ama le giacche dalle forme sofisticate ma con tocchi di avanguardia.<br />
6. CHANEL. <strong>La</strong> giacca più amata dalle donne. è quella in tweed creata da Coco Chanel negli anni Cinquanta in alternativa allo stile di allora,<br />
troppo rigido e impettito 7. ARMANI. Lo stilista ha creato alla fine degli anni Settanta la giacca destrutturata, priva di imbottiture, adottata<br />
dalla donne manager per scalare il potere. 8. LOUIS VUITTON. Avvitate, con tagli sartoriali che sottolineano il punto vita e mettono in evidenza<br />
le spalle importanti, d’ispirazione anni Ottanta. 9. GUCCI. Strette giacche da “garçon”, tagliate all’altezza dei fianchi, molto femminili ma con<br />
una sartorialità scrupolosa presa in prestito dalla moda maschile. 10. ETRO. Pratico e chic. Ecco un modello firmato da Veronica Etro che<br />
ama abbinare giacche di gusto maschile a short con calze pesanti e scarpe dai tacchi altissimi. 11. VERSACE. Sono scolpite sul corpo le<br />
giacche di Donatella Versace. Oltre al cachemire e alle sete preziose usa pelle di coccodrillo e lucertola<br />
FOTO GIACCA MASCHILE DI ERMENEGILDO ZEGNA DA: “IL MOTORE DELLA MODA”, THE MONACELLI PRESS, 1998<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 GENNAIO 2009<br />
l’incontro<br />
Versatili<br />
Sergio Castellitto<br />
PAOLO D’AGOSTINI<br />
ROMA<br />
Mi propongo di fare<br />
meno, molto meno,<br />
annuncia Sergio Castellitto:<br />
ma, in attesa<br />
di applicare il proposito, di cose ha continuato<br />
a farne un sacco. Inventariando,<br />
tra lavori già consumati dal pubblico<br />
e altri al pubblico non ancora arrivati,<br />
eccolo saltare dal secondo capitolo<br />
della saga di Narnia dov’era il cattivone<br />
insieme con Pier Francesco Favino —<br />
buffo assortimento tra i due che, rispettivamente,<br />
erano stati Coppi e Bartali<br />
in tv — alla parabola di Pietro “O’<br />
Professore” di Scampia nel film tv di<br />
Maurizio Zaccaro dal libro di Paola Tavella<br />
Gli ultimi della classe. Nel 2008 ha<br />
girato il film di Vincenzo Terracciano<br />
Tris di donne & abiti nuziali e, passando<br />
per il set del grande vecchio Jacques<br />
Rivette, a fine anno ha interpretato l’opera<br />
seconda di Alessandro Angelini.<br />
Ora sta nei cinema con la metà della<br />
commedia Italians, dove sviscera quel<br />
tanto di anima sordiana che è in lui, e<br />
sul palcoscenico del teatro Valle di Roma<br />
dirige Stefano Accorsi in Il dubbio,<br />
testo del Pulitzer John Patrick Shanley<br />
su un prete accusato da una monaca di<br />
aver abusato di un ragazzo nero, lo stesso<br />
che va contemporaneamente nei cinema<br />
con Meryl Streep nel ruolo della<br />
tenace accusatrice. In mezzo c’è stato il<br />
giurato che a Cannes ha fatto la sua parte<br />
per Gomorra e Il divo.<br />
«Quella premiazione ha segnato una<br />
tappa, anzi tre; una è Gomorra, l’altra è Il<br />
divo, ma la terza è quello che hanno fatto<br />
succedere insieme. Per il cinema, di<br />
nuovo volano di cultura e non semplice<br />
episodio. Sono felice di aver contribuito,<br />
felice perché volevo che succedesse<br />
esattamente questo. In quella cornice<br />
internazionale, venendo dall’anno prima<br />
quando ero lì per tenere la “Lezione<br />
di cinema” e ci sputavano in faccia, e il cinema<br />
italiano sembrava homeless. È<br />
stata la dimostrazione che sappiamo andare<br />
oltre l’episodicità di qualche caso<br />
fortunato. C’è una generazione: attori,<br />
scrittura, libri. Due film diversissimi, tra<br />
l’altro. Gomorraè la classicità, Il divol’innovazione.<br />
Molto esperti anche se di autori<br />
giovani, con la coscienza di aver costruito<br />
qualcosa per il cinema italiano,<br />
non più gli isolati Moretti o Benigni. È la<br />
prima volta in tanto tempo». Con o senza<br />
la ciliegina dell’Oscar.<br />
«Sono successe tante cose, è vero, diverse<br />
fra loro. È il privilegio del mio lavoro.<br />
Non regalato, ma guadagnato e<br />
voluto. Andare sia al mare che in montagna:<br />
dice il mio modo di fare il mestiere.<br />
Passare dalla commedia di Veronesi<br />
a Rivette. È molto interessante essere<br />
ospiti dentro due mondi così pazzescamente<br />
diversi e stare bene in tutte<br />
e due le acque. Per poi passare ad Angelini,<br />
il regista de L’aria salata. Un vero<br />
talento, e un progetto molto speciale.<br />
Questa varietà è la cosa che mi piace di<br />
più». Una conquista? «Ma non è solo<br />
merito mio. È anche una possibilità che<br />
mi è stata offerta. Da Bellocchio a Padre<br />
Pio». Altro curioso destino, che ha confrontato<br />
i due attori italiani più popolari,<br />
lui e Michele Placido, con lo stesso<br />
personaggio del santo monaco.<br />
Ma non è semplice ed è un segno di<br />
maturità riuscire a passare con disinvoltura<br />
da una cosa all’altra. E magari<br />
non è sempre stato così. «Ma non mi sono<br />
mai fatto ingannare, a modo mio e<br />
per contrasto sono sempre stato molto<br />
snob; sono andato sempre a tutte le feste.<br />
Una personale forma di sciccheria.<br />
Trovo provinciale frequentare solo un<br />
mondo, riduttivo e ingeneroso. L’attore<br />
dev’essere uno che si offre: offre la<br />
propria arte, esperienza, e anche scrittura.<br />
Sì, scrittura, perché più vado<br />
avanti più penso di essere una penna.<br />
Devo trovare motivi e interessi, certo,<br />
che di nuovo è un privilegio, non mi ha<br />
mai ordinato il dottore di andare sul set.<br />
Sono contento che con il trascorrere<br />
degli anni non ho cambiato opinione.<br />
Per il futuro, questo sì, c’è l’intenzione<br />
di recitare il meno possibile».<br />
Non è nuova la sensazione che si sia<br />
stufato, che non gli basti più fare l’attore.<br />
«Francamente è così. Penso che a un<br />
certo punto bisogna smettere il mestiere.<br />
Oh, intendiamoci: parliamo sempre<br />
di chi ‘sti discorsi se li può permettere.<br />
Quando avverti di ri-recitare, di ri-fare.<br />
Semplicemente di annoiarti. Nessuna<br />
sofferenza speciale. Mi sono guardato<br />
allo specchio e mi sono chiesto: perché,<br />
malgrado il privilegio che ho? Perché<br />
non mi basta più sentirmi dire che<br />
quella cosa l’ho fatta bene? È ora di cercare<br />
altrove, di ridiventare studente. Di<br />
ricominciare da qualche altra parte.<br />
Certo: scrivo, faccio il regista. Ma non si<br />
tratta di smettere di recitare per fare il<br />
regista. Si tratta di smettere. Almeno di<br />
Film con registi-culto e film<br />
con esordienti, film di nicchia<br />
e blockbuster. E poi il teatro<br />
e il ruolo di giurato a Cannes<br />
Il 2008 è stato un anno pienissimo<br />
per il protagonista<br />
di “Italians”, che ora<br />
si è stancato e progetta<br />
di “cercare altrove,<br />
di ridiventare studente”<br />
E non è questione<br />
essere sempre più selettivi, di andare<br />
solo verso esperienze belle».<br />
E come vanno d’accordo la selettività<br />
con il darsi senza risparmio di sé? «Questo<br />
è il passaggio che mi aspetta. Vengo<br />
da quella generosità, disponibilità, curiosità,<br />
che credo sia un patrimonio. E<br />
vengo anche da quella nevrosi: l’attore<br />
ha bisogno di lavorare, veder programmata<br />
carriera e futuro, la cosa che più<br />
ama è dire “devo fare questo, devo fare<br />
quest’altro”. Ma non mi interessa più,<br />
ringraziando Dio». All’attore viene l’angoscia<br />
di non esistere se non sta su un<br />
palcoscenico, se non sta su uno schermo.<br />
«Io non ce l’ho più. Grazie a una<br />
quantità di reticoli affettivi che ho intorno,<br />
ad altre curiosità umane, di vita. Non<br />
è questione di attore o regista, ripeto, ma<br />
di lavorare sempre meno. Per poter fare<br />
più precisamente cose che abbiano significato<br />
per me. Dal prossimo futuro<br />
questo è il programma. Anche per via di<br />
questa intenzione nell’ultimo anno ho<br />
lavorato molto. E non voglio dire che è<br />
un giocoso testamento, però...».<br />
Riprendiamo dal ridiventare studente.<br />
«<strong>La</strong> cosa più difficile, interrompere<br />
la noia dell’esperienza». Studente,<br />
Sono diventato<br />
saggio e credo<br />
di invecchiare bene<br />
Mi godo l’osso<br />
del pollo molto di più<br />
Prima lo buttavo via<br />
che c’era ancora<br />
un sacco di polpa<br />
di scegliere tra il lavoro<br />
di attore, regista<br />
o scrittore ma di “lavorare sempre<br />
meno per fare solo cose che abbiano<br />
davvero significato per me”<br />
FOTO CONTRASTO<br />
però anche tentato dall’idea di trasmettere<br />
la propria esperienza. «Una<br />
delle cose che voglio fare, liberando<br />
spazio e tempo, è di creare un laboratorio<br />
di scrittura. Starci dietro senza delegare.<br />
In maniera artigianale, senza farla<br />
troppo Holden. In questo appartamento.<br />
Dare compiti a casa e poi rivederli,<br />
alla fine accorgersi se uno emerge<br />
e concentrarsi su quello. Iniziativa<br />
privata, senza sovvenzioni. Pochi ragazzi<br />
e patti chiari: non c’è una lira per<br />
nessuno fino a che un progetto monta<br />
e allora si va avanti. I giovani hanno un<br />
tale bisogno di essere ascoltati, e io mi<br />
offro. Seminare e vedere se succede<br />
qualcosa». Mica poco avere la possibilità<br />
di confrontarsi con Castellitto.<br />
«Con me e con Margaret». Mazzantini,<br />
moglie di Sergio e madre dei suoi quattro<br />
figli, al più grande dei quali ha dedicato<br />
il nuovo romanzo Venuto al mondo.<br />
È sempre un po’ commovente sentire<br />
come Castellitto si riferisce a lei,<br />
con quale orgoglio. «Ci starebbe anche<br />
lei. Sarebbe interessante ascoltare e<br />
istruttivo ascoltarsi: te ne accorgi se dici<br />
stronzate. Lo farò».<br />
Un giro di flash. «In Italians di Giovanni<br />
Veronesi io e Riccardo Scamarcio<br />
portiamo le Ferrari rubate agli sceicchi.<br />
Mi piaceva “sporcarmi” con un personaggio<br />
popolare, basso. In realtà è venuto<br />
pieno di malinconia e struggimento.<br />
Mi piaceva anche stare dentro a un<br />
blockbuster. E il più bello è stato di uscire<br />
da lì per presentarmi sul set di questo<br />
gigante: Rivette. Ritmi distesi. Il massimo<br />
di pressione che esercita sull’attore<br />
è un discreto “forse è meglio così”. Lui sì<br />
che è uno “studente” come intendo io, a<br />
ottant’anni suonati. Io sono un italiano<br />
tutto griffato che arriva in Porsche, non<br />
si capisce che faccio, dico di essere un<br />
manager. È stato come andare alla sorgente<br />
del fiume. Fai il cinema, con tutte<br />
le sue consuete melmosità, ma strada<br />
facendo ti accorgi che stai scalando la<br />
montagna fino alla sorgente dove esce il<br />
primo zampillo e bevi l’acqua pulita.<br />
L’essenzialità, tutto il frastuono del set<br />
non c’è più. Nutrimento puro. Vedere la<br />
vita che entra nel set è veramente raro.<br />
Vero privilegio. Non stai facendo solo<br />
qualcosa da mettere nel curriculum. Ma<br />
anche tutto molto luminoso, senza cupezza,<br />
malinconia o nevrosi. Ce n’è molta<br />
di più nei film cosiddetti normali. Anche<br />
molta più infelicità».<br />
Spesso nei luoghi dove si fa il cinema<br />
regna lo squallore. «Parola appropriatissima.<br />
A maggior ragione in quei giorni<br />
con Rivette ho avvertito la sensazione<br />
quasi infantile di partecipare alla costruzione<br />
di qualcosa di bello. Non “corto<br />
o lungo”, “funziona o non funziona”.<br />
Bello e basta. Poi il film con Terracciano.<br />
Mi è piaciuto raccontare una Napoli cecoviana.<br />
Morbida, senza scippi, poco<br />
traffico. Un uomo che si rovina col gioco.<br />
Con una moglie tedesca, trapiantata<br />
a Napoli ma più conservatrice e più napoletana<br />
del marito. Infine con Angelini<br />
sono un uomo che perde un figlio. Con-<br />
sente l’espianto degli organi. E poi se lo<br />
va a cercare, questo cuore trapiantato.<br />
Molto neorealistico e poetico. Non so se<br />
c’è dentro ancora qualche ingenuità da<br />
inesperienza ma te ne freghi e salti la<br />
pozzanghera. Meglio del compitino<br />
perfetto e clinico. E poi c’è dentro quello<br />
che mi interessa di più, il rapporto padre-figlio.<br />
Quando dico del limitarsi alle<br />
occasioni di riflettere su qualcosa che ti<br />
sta a cuore: ecco, questa è una. Di questo<br />
film mi è piaciuto subito il clima».<br />
Antidoti alla routine. «Già. Quando<br />
ho cominciato a fare l’attore l’immagine<br />
che avevo in testa era quella di entrare<br />
in una caverna e trovare l’oro, un<br />
antro che prima ti fa paura ma poi in<br />
fondo trovi l’oro. Invece ti accorgi che<br />
trovi anche discariche, mediocrità, assenza<br />
di fiducia e di fede, offese al privilegio<br />
di fare quel lavoro. Sono diventato<br />
saggio, vecchio nel senso buono, credo<br />
proprio di invecchiare bene. Mi godo<br />
l’osso del pollo molto di più, prima<br />
lo buttavo via che c’era ancora un sacco<br />
di polpa».<br />
Sa bene di essere una star ma gli piace<br />
il tema del traguardo sudato: non è<br />
partito a razzo, ha costruito lentamente.<br />
«È la mia fortuna non aver vinto la<br />
schedina troppo presto. Casomai l’ho<br />
vinta verso i quaranta. Carmelo Bene<br />
diceva: non puoi recitare Amleto prima,<br />
anche se di anni ne ha ventidue. <strong>La</strong><br />
tua vita ti deve aver passato qualcosa<br />
per poter dire quelle parole, non può<br />
essere un coglione qualsiasi a dirle. Un<br />
dolore, un entusiasmo devono averti<br />
plasmato. <strong>La</strong> schedina puoi pure vincerla,<br />
ma poi te la devi guadagnare. Io<br />
sono grato alla mia carriera di emersione<br />
lenta. Mi ha consentito di non sputare<br />
mai sulle scarpe di nessuno, di<br />
comportarmi con educazione». Non si<br />
deve mai dire: Castellitto si è montato<br />
la testa? «Proprio no, ho troppa stima di<br />
me stesso per montarmela».<br />
‘‘<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale