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La liberazione del Mezzogiorno e l'unità nazionale - Consiglio ...

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M i<br />

queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010<br />

<strong>La</strong> <strong>liberazione</strong> <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> e l’unità <strong>nazionale</strong><br />

di Rosario Villari*<br />

sembra infondata e ispirata ad un grossolano strumentalismo politico<br />

l’idea che pregiudizi ideologici e vecchi risentimenti impedirono nel<br />

primo centenario <strong>del</strong>lo stato italiano di affrontare, anche al livello <strong>del</strong>la<br />

sintesi e <strong>del</strong>la divulgazione, i problemi storici <strong>del</strong> Risorgimento. <strong>La</strong> pubblicazione<br />

di un discorso tenuto nel giugno <strong>del</strong> 1960 può forse offrire qualche elemento di confronto<br />

tra il clima culturale e politico di allora e quello di oggi. Ho lasciato quindi<br />

inalterata l’interpretazione degli avvenimenti storici data in quella occasione,<br />

limitando il mio intervento a qualche abbreviazione e a qualche tentativo di chiarimento<br />

formale <strong>del</strong>l’analisi.<br />

Di tutti gli avvenimenti che condussero all’unificazione <strong>del</strong> nostro Paese,<br />

la <strong>liberazione</strong> e l’annessione <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>, per il modo in cui si sono realizzate,<br />

indicano più chiaramente la natura, la consistenza e gli orientamenti<br />

<strong>del</strong>le forze che hanno contribuito al conseguimento <strong>del</strong>l’unità <strong>nazionale</strong>; mettono<br />

in rilievo i più gravi problemi connessi alla formazione <strong>del</strong> nuovo Stato<br />

e le difficoltà che presenta la fusione di regioni profondamente diverse l’una<br />

dall’altra; anticipano e determinano, infine, le linee di svolgimento <strong>del</strong>la vita<br />

politica e istituzionale italiana dopo il 1860.<br />

Negli anni più recenti, anche indipendentemente dalle occasioni e dagli<br />

stimoli che sono stati dati dalla ricorrenza <strong>del</strong> centenario <strong>del</strong>l’unità <strong>nazionale</strong>,<br />

l’attenzione degli studiosi si è rivolta nel modo più vivo alle vicende <strong>del</strong>l’impresa<br />

garibaldina e <strong>del</strong>la <strong>liberazione</strong> <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>. L’epopea garibal-<br />

___________________________<br />

* Discorso pronunciato nel Teatro Mercadante di Napoli l’11 giugno 1960.<br />

161


dina può oggi apparire, anche a coloro che non fanno professione di studi storici,<br />

non soltanto come un episodio glorioso <strong>del</strong>la lotta tra la libertà e la tirannide,<br />

ma anche come il momento in cui le alterne vicende <strong>del</strong> conflitto tra<br />

democratici e liberali moderati decisero sia il compimento e la tappa più<br />

importante <strong>del</strong> processo unitario, sia il futuro assetto <strong>del</strong> nuovo Stato.<br />

Le premesse <strong>del</strong>la <strong>liberazione</strong> <strong>del</strong> Regno <strong>del</strong>le Due Sicilie devono essere<br />

ricercate in due ordini di fatti: le insurrezioni <strong>del</strong>le regioni <strong>del</strong>l’Italia centrale<br />

che, tra l’aprile e il giugno <strong>del</strong> 1859, liberarono la Toscana, i Ducati di Parma<br />

e di Modena e le Romagne dai vecchi governi; e, dall’altra parte, i moti che si<br />

verificarono un anno più tardi in Sicilia e il profondo fermento antiborbonico<br />

diffuso nell’isola alla vigilia <strong>del</strong>lo sbarco dei Mille a Marsala.<br />

<strong>La</strong> conclusione <strong>del</strong>la guerra <strong>del</strong> ‘59 tra i franco-piemontesi e gli austriaci<br />

rivelò le contraddizioni esistenti tra una politica di accordi e compromessi<br />

diplomatici tra gli Stati europei ed il conseguimento <strong>del</strong>l’obiettivo unitario. Il<br />

trattato di Villafranca – che prevedeva il ritorno <strong>del</strong>le regioni insorte sotto i<br />

vecchi governi – veniva ad interrompere lo sviluppo <strong>del</strong> moto di unificazione<br />

<strong>nazionale</strong> proprio nel momento in cui esso aveva ripreso ad affermarsi con<br />

uno slancio nuovo. Il rifiuto dei governi provvisori <strong>del</strong>la Toscana e <strong>del</strong>le<br />

Romagne di accettare le clausole <strong>del</strong> trattato che li riguardavano fu, come è<br />

noto, la condizione fondamentale che permise la soluzione <strong>del</strong> problema <strong>del</strong>l’Italia<br />

centrale. Cavour, tornato al potere il 20 gennaio 1860, poté far leva su<br />

questa resistenza per risolvere il problema, cedendo alla Francia Nizza e Savoia<br />

come compenso per l’annessione <strong>del</strong>le regioni centrali al Piemonte. Condotta<br />

tra l’opposizione degli elementi più conservatori <strong>del</strong> regno sabaudo e dei<br />

democratici, che la consideravano come un atto di ulteriore asservimento<br />

<strong>del</strong>lo Stato piemontese alla Francia, questa operazione fu l’ultima possibilità<br />

che si offriva sul piano diplomatico per venire incontro alle esigenze unitarie<br />

che dal 1848 in poi si erano venute affermando nel Paese.<br />

Ma il modo in cui le vicende <strong>del</strong>l’Italia centrale si erano svolte, se chiudeva<br />

un capitolo importante <strong>del</strong> processo di unificazione <strong>nazionale</strong>, contribuiva<br />

a riaprire o a mantenere aperto il problema italiano nel suo complesso.<br />

Per tutto il periodo dall’aprile <strong>del</strong> 1859 al marzo 1860, fino al momento,<br />

cioè, in cui la questione <strong>del</strong>l’Italia centrale fu portata a conclusione, il partito<br />

liberale moderato mantenne saldamente la direzione <strong>del</strong> movimento unitario,<br />

pur accogliendo sollecitazioni e spinte che venivano dai democratici. Appunto<br />

nel quadro <strong>del</strong>la politica generale moderata, uno dei caposaldi <strong>del</strong>la linea<br />

dei governi provvisori fu la lotta contro ogni tentativo di fare <strong>del</strong>l’Italia centrale<br />

la base per una operazione unitaria di più vasto respiro, che comprendesse<br />

l’Umbria, le Marche e le Due Sicilie.<br />

Garibaldi, che in un primo momento era stato chiamato a far parte <strong>del</strong><br />

comando <strong>del</strong>la lega militare <strong>del</strong>le regioni centrali, fu costretto a dimettersi per<br />

la ferma opposizione che incontrava nel governo piemontese il suo desiderio<br />

162


di portare l’iniziativa oltre i confini <strong>del</strong>le Romagne e di appoggiare un eventuale<br />

moto rivoluzionario nell’Umbria e nelle Marche. I capi dei governi<br />

provvisori di Bologna e di Firenze, Cipriani e Ricasoli, misero a punto, nell’agosto<br />

<strong>del</strong> 1859, la decisione di arrestare Mazzini, tornato clandestinamente<br />

a Firenze dall’Inghilterra. I motivi che li spingevano non erano soltanto<br />

quelli <strong>del</strong>la lotta contro il repubblicanesimo, ma più particolarmente la preoccupazione<br />

che suscitava la sua insistente campagna e le sue sollecitazioni per<br />

una iniziativa rivoluzionaria verso lo Stato pontificio.<br />

Ma una volta realizzati i plebisciti <strong>del</strong> marzo 1860, la linea di resistenza <strong>del</strong><br />

partito moderato si rivelò priva di sviluppi.<br />

Tutti gli elementi di sollecitazione popolare e democratica che i governi<br />

provvisori avevano tenuto a freno durante il periodo <strong>del</strong>la resistenza contro le<br />

decisioni francesi e austriache sulla sorte <strong>del</strong>l’Italia cominciarono, invece, ad<br />

acquistare un peso determinante sulla scena politica italiana. <strong>La</strong> direzione <strong>del</strong><br />

movimento unitario si avviava ora a passare nelle mani dei democratici.<br />

Il movimento democratico elaborò allora un concreto programma di azione<br />

corrispondente alle prospettive che la situazione politica aveva fatto maturare.<br />

Ancora tra l’agosto e il settembre <strong>del</strong> ‘59, Mazzini propose a Ricasoli<br />

prima e poi direttamente a Vittorio Emanuele la ripresa <strong>del</strong>l’azione unitaria:<br />

suscitare un movimento insurrezionale in Sicilia e contemporaneamente<br />

inviare diecimila uomini, sotto il comando di Garibaldi, verso gli Abruzzi:<br />

“<strong>La</strong> rivoluzione non si difende localizzandola – egli scrisse. Non è col guadagnar<br />

tempo che potete ottenere l’intento. I dieci, i venti, i trentamila uomini<br />

che potrete aggiungere al vostro esercito son nulla a petto di ciò che perdete,<br />

indugiando. L’Italia si sfibra nello scetticismo e nello sconforto: l’entusiasmo<br />

si spegne; la diplomazia diffonde i germi <strong>del</strong> dissolvimento; le questioni si<br />

localizzano; il moto perde il suo carattere <strong>nazionale</strong>”.<br />

<strong>La</strong> proposta non fu presa in considerazione ed anzi accentuò, se era possibile,<br />

l’allarme dei moderati e <strong>del</strong> governo piemontese per la prospettiva che<br />

venisse messo in atto in modo indipendente il piano enunciato da Mazzini.<br />

A determinare una opposizione così rigida non erano certamente le resistenze<br />

che la politica <strong>nazionale</strong> di Cavour poteva ancora incontrare nei sostenitori<br />

<strong>del</strong> vecchio Stato sabaudo. <strong>La</strong> cessione di Nizza e <strong>del</strong>la Savoia segnò veramente<br />

la fine <strong>del</strong> vecchio Piemonte, come tristemente lamentavano i più<br />

tenaci conservatori subalpini, e l’abbandono di una politica a carattere regionale.<br />

Sia pure con cautela, Cavour e la monarchia avevano appoggiato i movimenti<br />

insurrezionali <strong>del</strong>l’Italia centrale; si erano legati ai governi provvisori<br />

<strong>del</strong>la Toscana e <strong>del</strong>l’Emilia, che basavano la loro azione proprio sul rifiuto<br />

degli accordi realizzati in sede di trattative diplomatiche. Ma si trattava di un<br />

movimento che, pur accogliendo alcune sollecitazioni che venivano dai rivoluzionari<br />

(come riconosceva esplicitamente il Massari quando affermava che<br />

purtroppo i conservatori erano costretti, finché c’era in Italia un austriaco,<br />

163


all’alleanza coi rivoluzionari “per non lasciare a questi il monopolio dei sentimenti<br />

generosi”) era sotto il controllo <strong>del</strong> partito moderato. <strong>La</strong> linea di azione<br />

indicata dai democratici aveva, invece, un orientamento e un contenuto<br />

assai diversi: essa traeva il suo valore ed il suo significato dal fatto di essere il<br />

risultato di una lunga opera preparatoria ideale e pratica che andava dalla<br />

missione dei fratelli Bandiera alla Repubblica romana, dalla spedizione di<br />

Pisacane alla propaganda democratica nelle province meridionali, allo sforzo<br />

di creare organismi e trame rivoluzionarie che dovevano far leva sulla partecipazione<br />

popolare. Questa preparazione dava dunque, inequivocabilmente, al<br />

progetto di spedizione nel Sud un carattere diverso da quello che aveva assunto<br />

il moto unitario nell’Italia centrale. Inserendo un elemento democratico<br />

nella prospettiva di formazione <strong>del</strong> nuovo Stato.<br />

Ma questo motivo doveva rivelarsi in tutta la sua pienezza soltanto quando<br />

quella impresa, che al principio sembrava a molti un’avventura destinata al<br />

fallimento, avrebbe acquistato le dimensioni e la consistenza di una vera ed<br />

entusiasmante guerra rivoluzionaria, il valore ed il significato di un avvenimento<br />

decisivo per l’avvenire e le sorti <strong>del</strong> Paese.<br />

Per il momento, a prescindere dal contenuto e dall’indirizzo di una eventuale<br />

azione nei confronti <strong>del</strong>lo Stato pontificio e <strong>del</strong> Regno <strong>del</strong>le Due Sicilie,<br />

l’attenzione di Cavour e di tutto il liberalismo italiano era concentrata sul<br />

consolidamento dei risultati raggiunti nell’Italia centrale e sul rafforzamento<br />

<strong>del</strong>l’alleanza con la Francia. Su questa, appunto, si basavano le prospettive di<br />

ripresa <strong>del</strong> moto unitario; ma erano prospettive vaghe ed incerte, che non si<br />

traducevano in una concreta linea di azione. Ancora nei primi mesi <strong>del</strong> ‘60 la<br />

maggior parte dei moderati era lontana dalla convinzione che il compimento<br />

<strong>del</strong>l’unità <strong>nazionale</strong> potesse realizzarsi a breve scadenza. <strong>La</strong> preoccupazione<br />

più viva era di non fare passi falsi, di non compromettere i risultati già ottenuti,<br />

di impedire ogni movimento che potesse turbare l’equilibrio raggiunto.<br />

Nei confronti <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>, sembrava ancora opportuno e sufficiente<br />

insistere nel tentativo di attirare Francesco II “in una alleanza <strong>nazionale</strong> con<br />

il Piemonte contro l’Austria, sulla base di riforme interne liberali moderate”,<br />

secondo le istruzioni date all’ambasciatore piemontese a Napoli nel gennaio<br />

<strong>del</strong> 1860.<br />

Il secondo ordine di fatti cui si deve fare riferimento nell’esame <strong>del</strong>le premesse<br />

<strong>del</strong>l’impresa dei Mille è in rapporto con la situazione politica e sociale<br />

<strong>del</strong>l’Italia meridionale e <strong>del</strong>la Sicilia.<br />

Specialmente in Sicilia, l’opposizione contro la monarchia borbonica aveva<br />

messo radici profonde nelle città e nelle campagne. <strong>La</strong> sconfitta <strong>del</strong>la rivoluzione<br />

<strong>del</strong> 1848 e la dispersione dei suoi capi non avevano potuto attenuarla;<br />

dopo il 1849, anzi, il fermento rivoluzionario aveva continuato ad estendersi,<br />

anche per reazione al regime sempre più nettamente poliziesco che era stato<br />

instaurato nell’isola ed all’indirizzo accentratore <strong>del</strong> governo napoletano.<br />

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Figure di funzionari di polizia come quelle <strong>del</strong> famoso Maniscalco, di spie ed<br />

agenti locali, che erano disseminati dappertutto, avevano attirato su di sé un<br />

odio profondo da parte di un numero di persone ben più grande che non i<br />

piccoli nuclei politicamente sospetti; mentre il secolare malcontento dei contadini,<br />

che fino allora era stato represso in un sistema feudale di violenti e di<br />

oppressione, restava inalterato e minaccioso in tutta l’isola.<br />

Rivolte e tentativi insurrezionali esplosero, quindi, ripetutamente in questa<br />

situazione: nel gennaio <strong>del</strong> 1850 tredici rivoltosi furono fucilati a Palermo<br />

nella piazza <strong>del</strong>la Fieravecchia; nel 1856 venne soffocata l’insurrezione capeggiata<br />

dal mazziniano Francesco Bentivegna a Mezzoiuso; nel 1857 un tentativo<br />

insurrezionale stroncato a Cefalù; due anni dopo, una rivolta scoppiò a<br />

Santa Flavia e Villabate; ancora il 27 novembre <strong>del</strong> ‘59 il direttore di polizia,<br />

Maniscalco, venne pugnalato a Palermo.<br />

Anche se non erano riusciti ad acquistare un ampio respiro ed erano di<br />

volta in volta rapidamente soffocati, questi tentativi erano appunto<br />

l’espressione di uno stato d’animo e atteggiamento cui partecipavano, per<br />

diversi motivi, larghi strati <strong>del</strong>la popolazione siciliana.<br />

I termini politici di questo fermento furono, da un lato, l’unitarismo e, dall’altro,<br />

l’autonomismo, il quale aveva le sue radici in una antica tradizione<br />

politica isolana, ma che aveva ormai perduto i suoi originari caratteri aristocratici<br />

ed acquistato un contenuto nuovo in cui il problema dei rapporti tra<br />

Napoli e Sicilia e tra questa e il futuro Stato <strong>nazionale</strong> era connesso al problema<br />

<strong>del</strong> rinnovamento <strong>del</strong>le istituzioni e <strong>del</strong> sistema di governo in senso<br />

liberale o democratico.<br />

Ma al di là e al di sotto <strong>del</strong>le formulazioni politiche più mature, era un<br />

fatto di grandissima importanza che lo scontento ed il risentimento esistenti<br />

nelle classi più numerose <strong>del</strong>la popolazione e derivanti dalla profonda crisi<br />

economica, sociale e politica che travagliava l’isola confluissero comunque in<br />

questa opposizione, si colorassero di anti-borbonismo.<br />

Occorre sottolineare con forza il carattere e la larghezza di questa opposizione<br />

popolare che esisteva in Sicilia prima <strong>del</strong> 1860 e che aveva finito col<br />

costituire una barriera insuperabile tra governo e popolazione. Essa fu un elemento<br />

fondamentale sia nel determinare la convinzione, l’entusiasmo e la<br />

fiducia che furono necessari per avviare un’opera che a molti poteva apparire<br />

disperata e sulla quale pesava il doloroso ricordo <strong>del</strong> tragico tentativo di Pisacane,<br />

sia nel creare le condizioni che portarono al successo la spedizione.<br />

Non molti degli stessi protagonisti <strong>del</strong>la spedizione dei Mille si resero conto,<br />

all’inizio, <strong>del</strong>l’importanza di questo fattore. Molti volontari si aspettavano di<br />

trovare, al loro arrivo a Marsala, ordinate schiere di insorti pronte ad unirsi a<br />

loro; e restarono <strong>del</strong>usi quando queste rosee previsioni non si verificarono.<br />

“Dove son mai quelle falangi d’insorti che magnificavi tanto a Genova,<br />

dove sono le città ribellate?”: questa domanda rivolgeva uno dei Mille, il gior-<br />

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nalista toscano Giuseppe Bandi, il giorno <strong>del</strong>lo sbarco, al siciliano Giuseppe<br />

<strong>La</strong> Masa. Quel tanto di schematico che era nella loro formazione politica,<br />

l’interesse degli emigrati siciliani a far apparire gli avvenimenti insurrezionali<br />

più vasti e meglio organizzati di quel che erano in realtà, la diffidenza verso<br />

popolazioni quasi completamente sconosciute e diverse per costumi e livello<br />

di vita dalle popolazioni <strong>del</strong>le province da cui proveniva la maggioranza dei<br />

volontari, tutti questi fatti erano alla radice <strong>del</strong>la <strong>del</strong>usione che molti garibaldini<br />

ebbero nei primi giorni <strong>del</strong>la marcia da Marsala verso Palermo e di cui<br />

rimangono non poche tracce nella ricca letteratura garibaldina, nelle memorie<br />

e nei diari <strong>del</strong>la spedizione. Diversamente da Garibaldi, essi non riuscivano<br />

a vedere in che cosa consistesse quella “situazione favorevole”, quella attitudine<br />

insurrezionale dei siciliani, su cui tanto avevano fatto leva i sostenitori<br />

<strong>del</strong>l’impresa.<br />

Gli avvenimenti successivi dovevano però dimostrare che gli esuli siciliani<br />

avevano buoni motivi per guardare al di là <strong>del</strong> fallimento di singole iniziative<br />

e <strong>del</strong>le difficoltà che presentava l’organizzazione di un moto insurrezionale.<br />

Già prima, infatti, mentre si concludevano con lo sfortunato combattimento<br />

al convento <strong>del</strong>la Gancia i moti palermitani <strong>del</strong> 4 aprile, capeggiati dall’artigiano<br />

Francesco Riso, l’equilibrio incerto su cui poggiava il governo poteva<br />

dirsi spezzato. Una guerriglia più insidiosa si allargava nelle campagne, senza<br />

dar luogo ad episodi clamorosi, dispersa e disorganizzata, ma non per questo<br />

meno travolgente e inesorabile. Rosolino Pilo (una <strong>del</strong>le figure più interessanti<br />

ed elevate <strong>del</strong> movimento mazziniano meridionale) e Giovanni Corrao,<br />

sbarcati clandestinamente nell’isola nel mese di marzo, non riuscivano ad<br />

afferrare il filo di questa rivolta, a darle unità e guida politica e organizzativa;<br />

ma essa stava già creando quell’atmosfera in cui l’audacia dei Mille avrebbe<br />

potuto dare i suoi frutti.<br />

“Ho trovato questa gente migliore ancora <strong>del</strong>l’idea che me n’ero fatta” –<br />

così scrisse Garibaldi al repubblicano milanese Agostino due giorni dopo lo<br />

sbarco. Certo, egli non aveva ancora potuto rendersi conto <strong>del</strong> nuovo ambiente<br />

in cui si trovava, <strong>del</strong>la disposizione reale dei siciliani; consapevole <strong>del</strong>la<br />

necessità <strong>del</strong>l’appoggio <strong>del</strong>la popolazione per il successo <strong>del</strong>l’impresa, egli<br />

indicava, con queste parole, la linea di azione che avrebbe seguito. Meno di tre<br />

mesi dopo, da Messina, in un appello ai siciliani, egli poteva dichiarare: “Questa<br />

guerra di emancipazione, da voi così eroicamente iniziata, deve la somma<br />

dei suoi successi allo slancio ed alle simpatie <strong>del</strong>le popolazioni”. In seguito, al<br />

momento di abbandonare definitivamente il <strong>Mezzogiorno</strong>, nel famoso proclama<br />

diretto a Vittorio Emanuele: “Voi troverete in queste contrade un<br />

popolo docile quanto intelligente, amico <strong>del</strong>l’ordine quanto desideroso di<br />

libertà, pronto ai maggiori sacrifici, qualora gli sono richiesti nell’interesse<br />

<strong>del</strong>la patria, e di un governo <strong>nazionale</strong>. Nei sei mesi ch’io ne ho tenuto la<br />

suprema direzione, non ebbi che a lodarmi <strong>del</strong>l’indole e <strong>del</strong> buon volere di<br />

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questo popolo, che ho la fortuna – io coi miei compagni – di rendere all’Italia,<br />

dalla quale i nostri tiranni l’avevano disgiunto”.<br />

Ho accennato alle ragioni che spingevano il governo piemontese a<br />

respingere l’idea di una estensione <strong>del</strong> movimento rivoluzionario nelle province<br />

pontificie e nel <strong>Mezzogiorno</strong>: ragioni di principio e, insieme, considerazioni<br />

connesse alla situazione politica inter<strong>nazionale</strong> e all’atteggiamento<br />

<strong>del</strong>la Francia.<br />

Quando quella idea cominciò ad essere tradotta nella realtà, le preoccupazioni<br />

prevalenti riguardavano il pericolo che l’equilibrio raggiunto nell’Italia<br />

centrale potesse in qualche modo venire turbato da un gesto intempestivo<br />

e controproducente. Nessuno pensava che l’azione di Garibaldi<br />

potesse ottenere il successo che in breve tempo riuscì a raggiungere; quel che<br />

si temeva soprattutto era che la spedizione si indirizzasse verso lo Stato pontificio,<br />

ciò che, dal punto di vista dei rapporti diplomatici, avrebbe avuto le<br />

più gravi conseguenze.<br />

L’opposizione di Cavour era quindi netta, specialmente in considerazione<br />

di questa seconda ipotesi, che corrispondeva, <strong>del</strong> resto, alla formulazione originaria<br />

<strong>del</strong> piano mazziniano. Poco dopo la partenza da Quarto, egli ordinò<br />

all’ammiraglio Persano, al governatore di Cagliari ed al luogotenente in<br />

Toscana di fermare la spedizione. Ma i preparativi per la partenza si erano<br />

svolti nei giorni precedenti a Genova, sotto gli occhi, si può dire, <strong>del</strong> governo,<br />

il quale non aveva fatto nulla per interrompere o per aiutare queste operazioni.<br />

Cavour spiega a Nigra, in una lettera <strong>del</strong> 12 maggio, questa contraddizione,<br />

sostenendo che non aveva impedito a Garibaldi di realizzare il suo progetto<br />

perché avrebbe dovuto usare la forza per raggiungere lo scopo. Il governo<br />

non era in grado di sfidare “l’immensa impopolarità” che lo avrebbe colpito.<br />

“Nell’imminenza <strong>del</strong>le elezioni – continuava Cavour – e dovendo contare<br />

su tutte le sfumature <strong>del</strong> partito liberale moderato per fare fallire gli intrighi<br />

<strong>del</strong>l’opposizione e fare approvare il trattato [per la cessione di Nizza e Savoia],<br />

non ho potuto prendere misure vigorose per impedire l’invio di aiuti<br />

destinati alla Sicilia”.<br />

Pochi giorni dopo, tuttavia, il corso degli avvenimenti doveva costringere<br />

Cavour a cambiare atteggiamento e ad affrontare con urgenza la questione<br />

siciliana che la spedizione garibaldina, al di là di tutte le previsioni, aveva<br />

aperto. <strong>La</strong> storia <strong>del</strong> nostro Risorgimento si avviava così a raggiungere il suo<br />

momento più alto e drammatico, a qualche settimana di distanza dalla partenza<br />

semiclandestina di un gruppo di uomini male equipaggiati, malissimo<br />

armati, contro quello che fino a pochi mesi prima era il maggiore degli Stati<br />

italiani. L’incontro tra il volontarismo <strong>del</strong> Nord, e particolarmente <strong>del</strong>le due<br />

regioni in cui il movimento democratico ebbe durante il Risorgimento più<br />

grande sviluppo, la Lombardia e la Liguria, e la rivoluzione siciliana aveva<br />

compiuto il miracolo. Un fattore nuovo, più importante di quello puramente<br />

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territoriale, acquistava evidenza e forza determinante nel processo unitario:<br />

l’affermazione, cioè, di una coscienza unitaria popolare e rivoluzionaria, alla quale<br />

Garibaldi aveva fatto appello in nome di Vittorio Emanuele e che aveva<br />

risposto con entusiasmo e con decisione al Nord e al Sud. In tutta l’Italia settentrionale<br />

e centrale l’impresa riceveva il sostegno di una parte sempre più<br />

larga <strong>del</strong>l’opinione pubblica; in Sicilia, un contributo fondamentale era venuto<br />

dalle popolazioni insorte.<br />

Senza immergersi spiritualmente nell’ardente atmosfera di quella rivoluzione,<br />

sarebbe assai difficile spiegarsi l’abbandono di Palermo da parte <strong>del</strong>l’esercito<br />

borbonico forte, bene armato, numeroso. Tumultuando, combattendo,<br />

resistendo al cannoneggiamento ed al saccheggio dei borbonici, Palermo<br />

aveva contribuito in modo decisivo a creare quel turbamento profondo, quel<br />

senso di insicurezza e di sfiducia che determinarono l’armistizio e l’imbarco<br />

<strong>del</strong>le truppe napoletane. Con la vittoria di Palermo, “la rivoluzione diventava<br />

Stato” (Omodeo); uno Stato che sembrava poggiare su un largo consenso che<br />

le popolazioni <strong>del</strong>l’isola, ivi compresa una parte importante <strong>del</strong> clero, esprimevano<br />

per Garibaldi, e sulla profonda simpatia che la rivoluzione e il suo<br />

capo suscitavano nell’opinione pubblica europea.<br />

Da questo momento, il problema <strong>del</strong>la influenza che la rivoluzione garibaldina<br />

poteva avere sui caratteri <strong>del</strong> futuro Stato unitario si pose con chiarezza<br />

a Cavour: le preoccupazioni diplomatiche si intrecciarono ora più strettamente<br />

con quelle di carattere, per cosi dire, interno e cedettero rapidamente<br />

il posto a queste ultime. Cominciò, appunto, il vero urto tra democrazia e<br />

moderatismo che doveva aggravarsi sempre più fino a giungere alle soglie<br />

<strong>del</strong>la guerra civile.<br />

Per spiegare l’azione che da questo momento Cavour comincia a svolgere<br />

nei confronti <strong>del</strong> movimento garibaldino, è stato detto che la ragione più profonda<br />

di allarme per il governo piemontese era il pericolo che la rivoluzione<br />

assumesse un orientamento repubblicano, per l’influenza che Mazzini, attraverso<br />

Crispi e Bertani, aveva nel movimento rivoluzionario. L’incapacità dei<br />

democratici di amministrare e governare il <strong>Mezzogiorno</strong>, la mancanza di un<br />

vero rinnovamento politico <strong>del</strong>la classe dirigente e lo sfacelo morale e politico<br />

<strong>del</strong>l’ex Regno borbonico avrebbero poi costretto il governo piemontese e i<br />

moderati, per potere realizzare e conservare l’unità <strong>nazionale</strong>, a liquidare ogni<br />

velleità di autogoverno e di autonomia, ad imporre una rapida annessione e<br />

un governo accentratore e a realizzare l’unione <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> al resto<br />

d’Italia sotto il segno <strong>del</strong>la forza e di una politica autoritaria e repressiva.<br />

Indubbiamente le ragioni da cui Cavour fu mosso nella sua azione non<br />

erano soltanto in funzione <strong>del</strong> prestigio <strong>del</strong>la monarchia; dietro il lealismo<br />

monarchico cavouriano c’era tutta una concezione <strong>del</strong>lo Stato, con uno specifico<br />

contenuto ideale e concreto: quello Stato liberale di cui già il Piemonte<br />

rappresentava il mo<strong>del</strong>lo. E non c’è dubbio che nel piemontesismo di Cavour,<br />

168


a differenza che in quello di altri suoi collaboratori, fosse contenuta piuttosto<br />

questa affermazione di un ideale liberale di governo e di Stato che non la difesa<br />

di interessi grettamente regionali, che anzi Cavour aveva combattuto e vinto.<br />

II problema, dunque, è di vedere in che misura questa linea politica – che<br />

a quella concezione <strong>del</strong>lo Stato era strettamente legata – poteva, in questa<br />

fase, dopo che l’iniziativa democratica aveva riaperto la strada al moto unitario,<br />

contribuire al compimento <strong>del</strong>l’unità <strong>nazionale</strong>; e, dall’altro lato, costituire<br />

in concreto il valido fondamento per l’inserimento effettivo <strong>del</strong>le regioni<br />

liberate nella nuova compagine statale.<br />

Non c’è dubbio che, ad un certo momento, l’azione <strong>del</strong> governo piemontese<br />

rese più difficile lo svolgimento vittorioso <strong>del</strong>la guerra rivoluzionaria. <strong>La</strong><br />

violenta campagna per l’annessione immediata <strong>del</strong>la Sicilia al Piemonte, condotta<br />

quando l’esercito rivoluzionario non aveva ancora liberato tutta l’isola,<br />

aveva lo scopo preciso di limitare alla Sicilia l’impresa garibaldina e di impedire<br />

lo sviluppo <strong>del</strong>la guerra sul continente; inoltre, essa incrinava di fatto<br />

quella solidarietà che la rivoluzione aveva creato e sulla quale poggiava la dittatura<br />

di Garibaldi e la prospettiva di successo per l’ulteriore svolgimento<br />

<strong>del</strong>le operazioni.<br />

Probabilmente, Giuseppe <strong>La</strong> Farina – inviato da Cavour in Sicilia per sollecitare<br />

l’annessione – andò, nell’eseguire la missione che gli era stata affidata,<br />

oltre le intenzioni di Cavour, che non erano quelle di provocare una rottura<br />

con Garibaldi.<br />

Comunque, il fallimento <strong>del</strong> tentativo di impedire a Garibaldi di passare<br />

sul continente apparve chiaro dopo la vittoria di Milazzo, che fece ancora<br />

aumentare grandemente il prestigio di Garibaldi e <strong>del</strong> suo esercito, rafforzato<br />

per l’arrivo di nuovi volontari e di armi moderne ed efficienti dall’Italia<br />

centro-settentrionale e per l’afflusso di forze locali, la cui utilizzazione diventava<br />

ora più regolare.<br />

Cavour accolse con entusiasmo la notizia <strong>del</strong>la vittoria, che innalzava di<br />

fronte al mondo il nome degli italiani; ma il problema di togliere l’iniziativa<br />

a Garibaldi e ai democratici si poneva ora con più forza: la rivoluzione aveva<br />

creato o stava creando in Italia le condizioni in cui lo stesso indirizzo moderato<br />

<strong>del</strong> governo centro-settentrionale poteva essere messo in pericolo.<br />

Consapevole che era ormai impossibile impedire a Garibaldi di passare sul<br />

continente, il 1° agosto Cavour scrisse a Nigra esponendo il suo piano: “Benché<br />

il nostro partito sia già preso, nell’ipotesi di un successo completo <strong>del</strong>l’impresa<br />

di Garibaldi sul Regno di Napoli, credo che sia nostro dovere di fronte<br />

al Re e all’Italia fare tutto quello che dipende da noi perché essa non si realizzi.<br />

C’è un solo modo per raggiungere questo obiettivo: far cadere il governo<br />

di Napoli prima che Garibaldi passi sul continente o se ne impadronisca.<br />

Una volta partito il Re da Napoli, prendere il governo nelle nostre mani in<br />

nome <strong>del</strong>l’ordine e <strong>del</strong>l’umanità, togliendo dalle mani di Garibaldi la direzio-<br />

169


ne suprema <strong>del</strong> movimento italiano. Questa operazione ardita o, se volete, audace<br />

farà lanciare alte grida in Europa, creerà serie complicazioni diplomatiche, ci<br />

spingerà forse, in un futuro più o meno lontano, a batterci con l’Austria. Ma ci<br />

salva dalla rivoluzione, conserva al movimento italiano il carattere che fa la sua<br />

gloria e la sua forza: il carattere <strong>nazionale</strong> e monarchico”.<br />

Questa linea era dettata dalla necessità di impedire lo sviluppo in senso<br />

rivoluzionario <strong>del</strong> movimento di unificazione ma anche dall’impossibilità di<br />

mettersi in aperto contrasto con Garibaldi e dal riconoscimento ormai inevitabile<br />

<strong>del</strong> contributo importantissimo che era venuto dalla sua impresa alla<br />

causa italiana: “Garibaldi – egli scrisse ancora a Nigra il 9 agosto – ha un<br />

grande potere morale e un immenso prestigio non solo in Italia ma soprattutto<br />

in Europa. Voi avete torto, a mio avviso, quando dite che noi siamo collocati<br />

tra Garibaldi e l’Europa. Se domani io mi mettessi in lotta con Garibaldi,<br />

avrei probabilmente dalla mia parte la maggioranza di vecchi diplomatici,<br />

ma l’opinione pubblica sarebbe contro di me, e l’opinione pubblica avrebbe<br />

ragione, perché Garibaldi ha reso all’Italia i più grandi servigi che un uomo<br />

potesse rendere: ha dato agli italiani fiducia in se stessi; ha provato all’Europa<br />

che gli italiani sanno combattere e morire sui campi di battaglia e per<br />

riconquistare una patria”.<br />

Importante e sincero riconoscimento: ciò non impediva, però, che il contrasto<br />

restasse aperto in tutta la sua portata: anzi, proprio la considerazione<br />

<strong>del</strong>la inevitabilità e <strong>del</strong>la imminenza <strong>del</strong> crollo borbonico e <strong>del</strong> rafforzamento<br />

<strong>del</strong>la guerra rivoluzionaria spingevano Cavour ad un impegno più diretto,<br />

ad una iniziativa più efficace nei confronti <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>.<br />

Il piano cavouriano di una insurrezione moderata a Napoli venne elaborato<br />

d’accordo con l’ambasciatore Villamarina e con l’ammiraglio Persano.<br />

Aveva le caratteristiche piuttosto di una congiura che di una vera e propria<br />

insurrezione; gli attori principali dovevano essere il ministro <strong>del</strong>l’Interno <strong>del</strong><br />

nuovo governo costituzionale borbonico Liborio Romano e il generale Nunziante;<br />

più tardi, anche un membro <strong>del</strong>la famiglia reale, il Conte di Siracusa,<br />

che aveva manifestato tendenze liberali, fu associato all’iniziativa. Naturalmente,<br />

le probabilità di successo erano minime, pur essendo tornati a<br />

Napoli, dopo la concessione <strong>del</strong>la Costituzione, molti liberali emigrati in<br />

Piemonte dopo il ‘48; erano minime anche per la qualità dei protagonisti; su<br />

uno dei quali, il generale Nunziante, lo stesso Cavour diceva dì poter contare<br />

soltanto perché aveva dato ai piemontesi tanto in mano da farlo impiccare<br />

all’occorrenza.<br />

II 16 agosto, Cavour cominciò ad avere qualche dubbio sulla riuscita, malgrado<br />

l’invio di denaro, armi, soldati e consigli, e, anticipando un atteggiamento<br />

che sarebbe stato più generale nei mesi successivi,cominciò ad attribuire alle pessime<br />

qualità dei meridionali i motivi <strong>del</strong>l’insuccesso; “Se poi la materia <strong>del</strong><br />

Regno è talmente infracidata da non essere più suscettibile di fermento, io non<br />

170


so che farci, e bisogna rassegnarsi al trionfo di Garibaldi o <strong>del</strong>la reazione”; questi<br />

napoletani, scriveva ancora, sono abbrutiti, senza sangue nelle vene.<br />

Intanto, tra il 18 e il 19 agosto, l’esercito garibaldino attraversò lo Stretto<br />

di Messina e sbarcò in Calabria: anche qui, una popolazione lungamente<br />

oppressa insorse in armi e nuovi, grossi contingenti e i volontari si unirono<br />

alle schiere garibaldine. Il disfacimento <strong>del</strong>l’esercito borbonico fu rapidissimo:<br />

migliaia di disertori si sbandarono nella regione, i poteri locali crollarono,<br />

l’avanzata <strong>del</strong>l’esercito meridionale si svolse fulminea. Il crollo <strong>del</strong> regime era<br />

così evidente che il 7 settembre, lasciando indietro le sue truppe, Garibaldi<br />

poteva entrare quasi solo a Napoli. Così Pasquale Villari descrive la situazione<br />

<strong>del</strong>la città alla vigilia <strong>del</strong>l’ingresso di Garibaldi: “<strong>La</strong> città di Napoli era<br />

ancora occupata da un numeroso esercito borbonico, diviso nei quartieri e<br />

nelle fortezze. Pure, Garibaldi era già moralmente padrone assoluto. Si vedeva<br />

dappertutto il suo ritratto. Nei vicoli di Mercato, Porto, Pendino… le mura<br />

erano letteralmente coperte di bandiere tricolori che uscivano da ogni finestra…<br />

<strong>La</strong> polizia guardava stupefatta e taceva. Le più singolari leggende si<br />

formavano sotto i nostri occhi... I giovani <strong>del</strong>le scuole secondarie andavano in<br />

giro distribuendo nei quartieri dei soldati proclami che li incitavano ad unirsi<br />

alla bandiera di Vittorio Emanuele, portata da Garibaldi”.<br />

L’iniziativa presa ora da Cavour di fronte a questi avvenimenti con l’invio<br />

<strong>del</strong>l’esercito piemontese verso il <strong>Mezzogiorno</strong> è troppo complessa e ricca di<br />

significato perché la si possa considerare, come recentemente è stato fatto,<br />

soltanto come una pura e semplice controffensiva all’incalzare <strong>del</strong>la rivoluzione.<br />

Essa permise di raggiungere due risultati: far compiere all’unificazione<br />

<strong>nazionale</strong> un ulteriore passo avanti con l’annessione <strong>del</strong>l’Umbria, <strong>del</strong>le Marche<br />

e <strong>del</strong> <strong>La</strong>zio e riaffermare l’egemonia dei liberali moderati sul movimento<br />

<strong>nazionale</strong> e nel nuovo Stato che allora sorgeva.<br />

Sotto il primo aspetto, essa portò a compimento l’opera di Garibaldi e servì<br />

anche a dare alle nuove conquiste maggiore solidità e definitiva sistemazione;<br />

per l’altro aspetto, essa spinse fino alle ultime conseguenze la lotta tra liberali<br />

e democratici ed eliminò, con l’annessione immediata, il governo garibaldino<br />

nell’Italia meridionale.<br />

<strong>La</strong> resistenza <strong>del</strong> movimento garibaldino all’annessione non era dettata<br />

soltanto dalla volontà di non interrompere un’opera che si considerava conclusa<br />

soltanto a Roma; ma anche e soprattutto dalla necessità per il movimento<br />

democratico di conservare le basi <strong>del</strong>la propria forza, costituite nel<br />

<strong>Mezzogiorno</strong> attraverso la guerra rivoluzionaria. Se i democratici sostenevano<br />

la necessità di convocare <strong>del</strong>le assemblee nel <strong>Mezzogiorno</strong> e di decidere<br />

attraverso queste il modo <strong>del</strong>l’annessione, essi erano convinti che ciò avrebbe<br />

consentito loro di poter condurre su questa base una più energica azione per<br />

dare al nuovo Stato un’impronta diversa da quella che aveva il Regno Sardo.<br />

E certamente, il contraccolpo <strong>del</strong>la rivoluzione meridionale, la profondità <strong>del</strong><br />

171


suo successo avevano ridato vigore a tutta la democrazia italiana, in Lombardia,<br />

in Toscana, in Emilia; nello stesso Piemonte alla minoranza democratica<br />

in lotta contro la maggioranza cavouriana nel Parlamento di Torino si aprivano<br />

per la prima volta (come è stato notato dal Passerin d’Entrèves) possibilità<br />

di gettare forti radici nel Paese. Tutto il movimento democratico <strong>nazionale</strong>,<br />

e non soltanto quello meridionale, era evidentemente impegnato in questa<br />

lotta: ed è significativo l’accorrere a Napoli dei suoi capi e dei maggiori<br />

esponenti <strong>del</strong> pensiero radicale italiano. Tuttavia il <strong>Mezzogiorno</strong> non era soltanto<br />

il terreno di manovra sul quale il movimento democratico occasionalmente<br />

combatteva l’ultima sua grande battaglia politica <strong>nazionale</strong>. A mano a<br />

mano che la rivoluzione meridionale si sviluppava, il movimento garibaldino<br />

intrecciava legami con le forze politiche unitarie e liberali esistenti nel Paese<br />

e con le popolazioni, ed in una certa misura riusciva a farsi interprete <strong>del</strong>le esigenze<br />

che queste forze esprimevano e a rendersi conto <strong>del</strong>le condizioni di<br />

fatto <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> assai meglio di quanto non facessero gli ex esuli o gli<br />

emissari cavouriani che con la rivoluzione non avevano contatti se non più o<br />

meno apertamente ostili. Probabilmente il frutto più maturo di questo sforzo<br />

di avvicinamento <strong>del</strong> movimento garibaldino alle esigenze <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong><br />

si ebbe in Sicilia con la politica di Mordini di alleanza tra democratici e autonomisti;<br />

ma in generale questo più diretto contatto con la realtà meridionale<br />

fu uno degli elementi che determinarono l’accettazione di posizioni autonomistiche<br />

da parte degli esponenti democratici che fino allora erano stati, per<br />

influenza di Mazzini, rigidamente unitari.<br />

Un rapporto nuovo si era stabilito tra governo e popolo nell’Italia meridionale:<br />

per la prima volta nella sua storia il governo aveva in Sicilia e nel <strong>Mezzogiorno</strong><br />

l’adesione <strong>del</strong>la grande maggioranza <strong>del</strong>le popolazioni. Con la sua<br />

azione personale, e con quella <strong>del</strong> suo stato maggiore politico e militare, Garibaldi<br />

aveva dato un contenuto e un indirizzo politico al loro malcontento: la<br />

bandiera <strong>del</strong>l’unità <strong>nazionale</strong> sotto Vittorio Emanuele, che egli aveva sollevata,<br />

era stata accolta dal popolo meridionale; ciò che aveva consentito di operare<br />

fin dal primo momento un taglio netto col vecchio regime. Né questo<br />

taglio netto era smentito dall’accordo con Liborio Romano al momento <strong>del</strong>l’ingresso<br />

a Napoli: l’accordo ebbe il limitato obiettivo di evitare combattimenti<br />

a Napoli, che il re aveva già abbandonato, e durò troppo poco per poter<br />

essere considerato come un vero patto politico e come l’accettazione <strong>del</strong> programma<br />

conservatore <strong>del</strong>l’ex ministro costituzionale di Francesco II.<br />

A parte l’inconciliabilità tra governo liberale e movimento democratico,<br />

altre contraddizioni <strong>del</strong> movimento garibaldino erano inevitabili e, per il<br />

momento, insuperabili. Sbarcando in Sicilia, Garibaldi aveva emanato decreti<br />

per l’abolizione <strong>del</strong> macinato, la riduzione di alcuni dazi di consumo e la<br />

divisione dei demani; in Calabria aveva preso provvedimenti analoghi per le<br />

terre silane. L’importanza di questi provvedimenti non deve essere sopravva-<br />

172


lutata; né in quanto prime manifestazioni di un programma di trasformazione<br />

<strong>del</strong>la struttura economica e sociale <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> e di soluzione <strong>del</strong><br />

problema <strong>del</strong>la terra, né come base esclusiva <strong>del</strong>la partecipazione dei contadini<br />

alla lotta antiborbonica. Non mancano gli elementi per poter affermare<br />

che, specialmente in Sicilia, sulla base <strong>del</strong>l’autonomismo si realizzò un legame<br />

politico tra una parte <strong>del</strong>le masse popolari ed il movimento liberale, e che<br />

i moti dei contadini ebbero talvolta, in virtù di questo legame, un contenuto<br />

più propriamente politico. Comunque, proprio intorno al problema <strong>del</strong>la terra<br />

doveva scoppiare la contraddizione latente nella insurrezione: e quando i contadini<br />

cominciarono a dirigere contro i proprietari terrieri il loro impeto<br />

insurrezionale, il movimento garibaldino non diede una risposta diversa da<br />

quella che in seguito avrebbe dato il governo piemontese. L’episodio <strong>del</strong>la<br />

repressione di Bronte non è isolato, in Sicilia o sul continente. Di fronte ai<br />

moti di questo tipo non si ebbe in genere che un atteggiamento repressivo:<br />

dalla missione di Bixio in Sicilia alla repressione dei moti di Matera <strong>del</strong> 2 settembre,<br />

alle sanguinose vendette <strong>del</strong>la guardia <strong>nazionale</strong> contro i contadini<br />

<strong>del</strong> distretto di <strong>La</strong>gonegro, ai numerosi proclami minaccianti la pena di morte<br />

contro i promotori di occupazione di terre, le manifestazioni di questo atteggiamento<br />

sono numerose e costanti.<br />

Una frattura era quindi inevitabile, era già in atto nell’estate; e però, malgrado<br />

gli episodi a cui si è fatto cenno, essa non giunse alle sue ultime conseguenze<br />

durante tutto il periodo garibaldino; cioè non giunse ad aprire una<br />

falla attraverso la quale potessero infiltrarsi, sfruttando il malcontento sociale<br />

dei contadini, ritorni di fiamma di borbonismo. <strong>La</strong> conseguenza più importante<br />

che essa ebbe fu quella di accentuare l’opposizione dei moderati napoletani<br />

e siciliani contro il governo garibaldino e favorire la loro conversione<br />

alla linea <strong>del</strong>l’annessione immediata e incondizionata. Ma, dal punto di vista<br />

generale, l’intransigente offensiva moderata contro il movimento garibaldino<br />

non era motivata soltanto – specialmente nel suo centro motore, che era Torino<br />

– dalle preoccupazioni suscitate dai moti sociali contadini e dal timore che<br />

la politica democratica potesse favorire la ripresa <strong>del</strong> fermento sociale nelle<br />

campagne: i fatti dimostravano che l’esercito meridionale e, in genere i comitati<br />

di governo creati nel <strong>Mezzogiorno</strong>, erano orientati verso la più decisa<br />

repressione di ogni moto insurrezionistico popolare che tendesse ad esorbitare<br />

dal quadro <strong>del</strong>la guerra antiborbonica.<br />

Sarebbe errato, inoltre, giudicare soltanto alla luce <strong>del</strong>l’inevitabile contrasto<br />

tra contadini e proprietari sulla questione <strong>del</strong>la terra e <strong>del</strong>la incapacità <strong>del</strong> movimento<br />

garibaldino di elaborare un programma in base al quale si potesse in<br />

qualche modo cominciare ad affrontare il problema agrario, la possibilità che il<br />

governo garibaldino aveva di esercitare la sua influenza politica sulla più larga<br />

massa <strong>del</strong>le popolazioni meridionali e di cointeressarle in qualche misura al<br />

nuovo regime. Intanto, anche dopo le repressioni dei moti contadini in Sicilia,<br />

173


l’adesione dei contadini alla rivoluzione continuò sia in Sicilia che nel <strong>Mezzogiorno</strong><br />

continentale; e il fenomeno <strong>del</strong> brigantaggio, tranne qualche sporadico<br />

episodio precedente, si verificò in Puglia, in Calabria e in Basilicata soltanto<br />

dopo che il governo garibaldino fu completamente liquidato.<br />

Indubbiamente, il rapporto tra Garibaldi e le popolazioni meridionali non<br />

avrebbe potuto restare a lungo inalterato di fronte agli enormi problemi che<br />

l’amministrazione di quelle zone arretrate presentava; ma esso costituiva un<br />

punto di partenza effettivo e concreto per stabilire un legame tra il <strong>Mezzogiorno</strong><br />

e il nuovo Stato, un patrimonio prezioso che, se non poteva cancellare<br />

le difficoltà che comportava l’instaurazione <strong>del</strong> nuovo regime, poteva tuttavia<br />

servire ad attenuarle.<br />

Senza esaminare minutamente le vicende che portarono Garibaldi ad<br />

abbandonare la resistenza alla richiesta di indire subito il plebiscito nelle due<br />

parti <strong>del</strong>l’ex Regno, si può dire che era questo il logico svolgimento e la conclusione<br />

inevitabile, <strong>del</strong>l’operazione intrapresa da Cavour con l’invio <strong>del</strong>l’esercito<br />

piemontese verso il Sud.<br />

Nello stesso giorno in cui l’esercito comandato dal generale Fanti varcava<br />

i nuovi confini <strong>del</strong>lo Stato pontificio, l’11 settembre, Garibaldi chiedeva da<br />

Napoli al re di allontanare Cavour dal governo; Cavour a sua volta scriveva a<br />

Nigra il 22 <strong>del</strong>lo stesso mese di comunicare nettamente all’imperatore che, se<br />

Garibaldi avesse perseverato sulla funesta strada che aveva imboccato, il<br />

governo sabaudo avrebbe ristabilito l’ordine a Napoli e a Palermo, a costo di<br />

gettare a mare tutti i garibaldini. “I soldati di Fanti e di Gialdini – scrisse –<br />

non chiedono di meglio che sbarazzare il Paese dalle camicie rosse”. E più<br />

tardi a Villamarina: “L’immensa maggioranza desidera che Napoli e la Sicilia<br />

cessino di essere il ritrovo di tutti i banditi d’Europa”. Ed ancora al Farini: se<br />

i garibaldini non riconoscono senza riserve l’autorità reale, “sterminateli sino<br />

all’ultimo, buttateli tutti in mare”.<br />

Il tre ottobre, subito dopo l’ultimatum lanciato dal Parlamento di Torino,<br />

Cavour scrisse al re, che attraverso le province pontificie si dirigeva verso<br />

Napoli: “Garibaldi non è più da temere, esso ha perduto ogni forza morale, e<br />

le sue forze materiali sono assai scemate... Villamarina mi ha spedito un corriere<br />

per farmi conoscere l’impotenza militare a cui egli è ridotto”.<br />

Questa considerazione non corrispondeva alla realtà: nei due giorni precedenti,<br />

infatti, quelle che ora Cavour chiamava le “orde garibaldine” avevano<br />

ottenuto la più grande vittoria militare di tutta la campagna meridionale. Era<br />

vero, però, che i democratici avevano ormai perduto la loro battaglia politica. Il<br />

21 ottobre ebbero luogo le votazioni plebiscitarie; poco dopo fu affidata al Farini<br />

la luogotenenza di Napoli ed a Montezemolo quella di Palermo ed il 9<br />

novembre, alle due dopo mezzanotte, Garibaldi partì da Napoli, con un gruppo<br />

di amici, alla volta di Caprera: “Vidi Garibaldi – scrisse il Bandi – pochi<br />

momenti prima che partisse: era calmo e sorridente secondo il solito, ma qual-<br />

174


che suo detto rivelò ciò che ognuno di noi sentiva in cuor suo... In quell’ora<br />

memoranda, egli m’apparve più grande che mai: Garibaldi, tornato povero e<br />

privo d’ogni autorità, simile ai grandi <strong>del</strong> tempo antico, umili dopo i trionfi e<br />

contenti <strong>del</strong>la propria gloria, era più nobile e più ammirando <strong>del</strong> capo d’un esercito...<br />

Lo vedemmo imbarcare e rimanemmo a contemplarlo con gli occhi pieni<br />

dì lacrime: ritto sulla barca, ed agitante il fazzoletto per salutarci ancora, mentre<br />

la robusta voga di sei marinai lo allontanava dalla spiaggia... Il piroscafo che<br />

lo accolse per trasportarlo a Caprera... fu salutato dalla salve <strong>del</strong> naviglio da<br />

guerra inglese ancorato nel golfo; ma le navi regie italiane non fecero mostra di<br />

accorgersi <strong>del</strong>la partenza <strong>del</strong>l’uomo che aveva liberata mezza Italia”.<br />

Nel momento in cui era stata avviata in Sicilia la campagna per<br />

l’annessione incondizionata, Cavour e i rappresentanti <strong>del</strong> governo piemontese<br />

avevano sottolineato la necessità di tener conto, una volta realizzata<br />

l’unità, <strong>del</strong>le esigenze autonomistiche <strong>del</strong>l‘isola e <strong>del</strong>le altre regioni italiane. Il<br />

30 agosto era stata diffusa in Sicilia una dichiarazione ufficiale di Farini,<br />

ministro <strong>del</strong>l’Interno <strong>del</strong> Regno sardo, in cui era enunciato esplicitamente il<br />

proposito di dare alle regioni alcuni poteri amministrativi e di non adottare<br />

per l’Italia il sistema di amministrazione accentrata in vigore nel Regno<br />

subalpino. Questo programma fu il terreno d’incontro tra gli autonomisti siciliani<br />

e il governo piemontese ed ebbe non piccola influenza nel determinare<br />

la conversione di numerosi autonomisti alla linea politica che Cavour indicava.<br />

Emerico Amari, uno dei più autorevoli autonomisti siciliani, “fondò la sua<br />

campagna per il plebiscito – scrive il Mack Smith – sull’ipotesi che il progetto<br />

di Farini per organizzare distinte e autonome regioni in Italia fosse ormai<br />

una acquisizione sicura”.<br />

Ancora alcuni mesi dopo, quando Cavour aveva già conseguito il completo<br />

dominio <strong>del</strong>la situazione ed i suoi rappresentanti erano impegnati nell’amministrazione<br />

<strong>del</strong>le nuove province, Farini ripeteva di ritenere necessario un sistema<br />

di largo decentramento e di autonomia amministrativa: “questa libertà sopra<br />

ogni altra cosa cara ai popoli è al nostro strettamente necessaria per servire di<br />

esca e di sfogo e di compenso all’operosità italiana solita ad esercitarsi in tanti<br />

separati Stati, e per affezionarli in questo modo al governo centrale”.<br />

E ancora il 15 gennaio 1861 lo stesso Cavour scrisse al luogotenente di<br />

Palermo: “Io non ho il menomo dubbio che quando siano sedati i sommovimenti<br />

che alcuni mestatori s’ingegnano di suscitare rinfocolando le ire personali,<br />

sarà facilissimo di mettersi d’accordo sopra uno schema d’organizzazione<br />

che lasci al potere centrale la forza necessaria per dar termine alla grande<br />

opera <strong>del</strong> riscatto <strong>nazionale</strong>, e conceda un vero self-government alle regioni e<br />

alle province”.<br />

Autonomia amministrativa <strong>del</strong>le regioni nel quadro <strong>del</strong>l’unità politica e<br />

legislativa <strong>del</strong>lo Stato e rispetto <strong>del</strong> sistema liberale e costituzionale: sono<br />

questi i cardini <strong>del</strong> programma cavouriano di fronte al problema <strong>del</strong>l’unità<br />

175


<strong>nazionale</strong>. A Vincenzo Salvagnoli che alla fine di settembre suggeriva la via<br />

<strong>del</strong>la dittatura regia da contrapporre a quella di Garibaldi, Cavour rispondeva<br />

di ritenere titolo di gloria per l’Italia di “aver saputo costituirsi a nazione<br />

senza sacrificare la libertà all’indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali<br />

di un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza<br />

cadere nel dispotismo rivoluzionario”.<br />

Evidentemente queste dichiarazioni corrispondevano all’ispirazione ideale<br />

<strong>del</strong> liberalismo cavouriano, il cui mo<strong>del</strong>lo era l’ordinamento politico ed<br />

amministrativo inglese, fondato su larghe autonomie locali. Ma, nei fatti, gli<br />

incitamenti all’uso <strong>del</strong>la forza, alla repressione, all’accentramento si fanno<br />

sempre più frequenti da parte <strong>del</strong> governo e <strong>del</strong> partito moderato; nessuna<br />

transazione, né con gli autonomisti napoletani, né con quelli siciliani, ai quali<br />

ultimi non si potevano certo rimproverare simpatie per il regime borbonico:<br />

“Si griderà molto meno contro di voi – consiglia Cavour al luogotenente di<br />

Napoli – quando vi si vedrà armato di un frustino menando botte a destra e<br />

a manca”: la maggior parte degli esuli napoletani in Piemonte insiste sulla<br />

necessità di reprimere e di accentrare. Una logica inesorabile sembra trascinare<br />

il governo sulla strada <strong>del</strong> centralismo. Il Farini tenta di avviare una politica<br />

di compromesso con forze ed aspirazioni locali, in base alla considerazione<br />

che “non si può tagliar corto e profondo nella piaga in un giorno” e mantenendo<br />

ferma, naturalmente, l’intransigenza antidemocratica; ma il tentativo<br />

viene aspramente liquidato dalla pressione dei liberali moderati di Torino e di<br />

Napoli. Un contrasto si <strong>del</strong>inea perfino tra Cavour e Vittorio Emanuele, perché<br />

questi è disposto ad accogliere alcune richieste dei democratici (come<br />

quella di lasciare Mordini al governo <strong>del</strong>la Sicilia e di concedere l’amnistia a<br />

Mazzini): Cavour lo considera vittima degli intrighi dei garibaldini e minaccia<br />

ripetutamente le dimissioni.<br />

Ai primi di gennaio <strong>del</strong> ‘61, Farini annuncia “razzie”, come egli le chiama,<br />

contro i borbonici recalcitranti e contro i democratici e chiede ripetutamente<br />

truppe per prevenire o per reprimere; ma ciò non impedisce che anche questa<br />

affermazione di severità e di intransigenza sbocchi in compromessi con gli<br />

elementi più servili <strong>del</strong> passato regime che trovano modo di inserirsi nella<br />

trama <strong>del</strong> nuovo potere.<br />

Questa contraddizione tra indirizzo programmatico e concreta costruzione<br />

politica fu anche la conseguenza <strong>del</strong>la lotta a fondo condotta contro il<br />

governo garibaldino e il partito d’azione. Una volta strappata l’iniziativa al<br />

movimento rivoluzionario, il governo non poté più contare sull’embrionale<br />

sistema di rapporti che il democratismo garibaldino aveva creato tra il movimento<br />

<strong>nazionale</strong> unitario e l’Italia meridionale. L’atteggiamento <strong>del</strong> governo<br />

verso l’esercito dei volontari – che suscitò poi uno dei più violenti e drammatici<br />

dibattiti <strong>del</strong>la nostra storia parlamentare – non fu che un aspetto di quest’opera<br />

distruttiva. “Spazzate senza pietà quelle stalle ripiene <strong>del</strong> letame ber-<br />

176


taniano, confortiano e simili” scrisse Cavour a Farini ai primi di novembre <strong>del</strong><br />

‘60. Il pericolo garibaldino e mazziniano fu sentito e fatto sentire, nei mesi<br />

successivi alla <strong>liberazione</strong>, finché il brigantaggio non dilagò nelle province,<br />

assai più che non il pericolo di un tentativo di rivincita dei Borboni. Anche<br />

l’ostilità verso i municipalisti conservatori e nostalgici fu assai minore che non<br />

quella contro i democratici: ciò che costituì un elemento tutt’altro che secondario<br />

nel fare acquistare ai primi, ai municipalisti, l’influenza che essi ebbero<br />

e nell’agevolare di fatto la loro campagna antipiemontese, nella quale non<br />

mancavano motivi ed obiettivi sostanzialmente reazionari e antiunitari.<br />

L’ultimo tentativo di ripresa <strong>del</strong>le tradizioni ideali e politiche <strong>del</strong> liberalismo<br />

italiano di fronte alla questione <strong>del</strong>l’ordinamento istituzionale <strong>del</strong> nuovo<br />

Stato fu il progetto di legge sul decentramento amministrativo presentato dal<br />

Minghetti alla Camera dei deputati il 13 marzo 1861.<br />

Anche il progetto <strong>del</strong> Minghetti fu respinto: esso non corrispondeva più al<br />

concreto orientamento <strong>del</strong>le forze che dirigevano il Paese.<br />

<strong>La</strong> lotta contro il decentramento giunse paradossalmente ad identificarsi<br />

con la lotta contro il movimento democratico: i più accesi sostenitori <strong>del</strong>la<br />

campagna antiregionalista, come il <strong>La</strong> Farina e il Paternostro, evocavano con<br />

veemenza lo spettro <strong>del</strong> disordine e <strong>del</strong>l’anarchia democratica di fronte alla<br />

prospettiva <strong>del</strong> decentramento. Questi “abbaiatori” – come li chiamò il<br />

Petruccelli – erano la punta più avanzata e provocatoria di quella corrente<br />

antiautonomistica che era ormai divenuta dominante nella Destra; l’indirizzo<br />

accentratore si è affermato, nel momento <strong>del</strong>la nascita <strong>del</strong>lo Stato italiano,<br />

anche in opposizione alle correnti democratiche.<br />

I fermenti autocritici che sorgeranno poi in seno alla Destra dopo il ‘60 e gli<br />

orientamenti riformistici di alcuni gruppi conservatori – che costituiranno un<br />

fenomeno caratteristico dei primi decenni <strong>del</strong>la vita unitaria – hanno in parte<br />

la loro origine nel rovesciamento che subì nel 1860 il programma politico dei<br />

liberali, a contatto con i problemi <strong>del</strong>l’unificazione. Si spiega anche cosi perché,<br />

negli anni posteriori al ‘60, la polemica meridionalista sia stata aperta ed avviata<br />

da un gruppo di conservatori, ideologicamente e politicamente legati alla<br />

Destra; e perché questo gruppo, muovendo da una posizione critica nei confronti<br />

<strong>del</strong> “formalismo liberale”<strong>del</strong>le istituzioni statali, abbia rivolto la sua attenzione<br />

alla realtà storica, politica e sociale <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>: proprio l’incontro<br />

con questa realtà aveva, infatti, rivelato nel ’60 i nodi più complessi e difficili <strong>del</strong><br />

processo di rinnovamento <strong>del</strong>la vita <strong>nazionale</strong> e i punti di maggiore debolezza<br />

<strong>del</strong> nuovo Stato e <strong>del</strong>la sua classe dirigente.<br />

Si pensi alle famose pagine conclusive <strong>del</strong>l’inchiesta di Sonnino sulla Sicilia;<br />

probabilmente in questa luce è possibile comprendere come mai un conservatore<br />

– il quale, <strong>del</strong> resto, possedeva un metodo di indagine e di osservazione sperimentale<br />

e positiva che mancava alla generazione dei moderati <strong>del</strong> 1948 – possa<br />

essere giunto a quella forza di denuncia: “In Sicilia colle nostre istituzioni, mo<strong>del</strong>-<br />

177


late sopra un formalismo liberale anziché ispirate a un vero spirito di libertà, noi<br />

abbiamo fornito un mezzo alla classe dirigente opprimente per meglio rivestire di<br />

forme legali l’oppressione di fatto che già prima esisteva, coll’accaparrarsi tutti i<br />

poteri mediante l’uso e l’abuso <strong>del</strong>la forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora<br />

le prestiamo man forte per assicurarla, che, a qualunque eccesso spinga noi non<br />

permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve<br />

ne può essere, poiché la legalità l’ha in mano la classe che domina”.<br />

Le enormi difficoltà incontrate di fronte ai problemi <strong>del</strong>l’Italia meridionale<br />

contribuirono ad allontanare i moderati da quei principi di libertà e di<br />

governo parlamentare la cui adozione aveva reso possibile la loro egemonia<br />

nell’Italia settentrionale e centrale. Difficoltà impreviste, per la quasi nessuna<br />

conoscenza che il governo piemontese e i suoi rappresentanti avevano <strong>del</strong><br />

<strong>Mezzogiorno</strong>, ma in parte anche provocate dalla stessa politica piemontese.<br />

Cavour era convinto che, una volta sconfitto il pericolo di una ripresa <strong>del</strong><br />

repubblicanesimo mazziniano, il metodo <strong>del</strong>la libertà avrebbe finito col<br />

ricomporre, su basi nuove, il tessuto politico lacerato e col sanare le ferite che<br />

l’anno conclusivo <strong>del</strong> Risorgimento aveva aperto.<br />

I mali <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> erano, però, più profondi di quelli che apparivano<br />

attraverso la diagnosi che ne avevano data gli stessi esuli meridionali in Piemonte:<br />

tanto più tragiche ed insanabili dovevano essere quindi le conseguenze<br />

negative <strong>del</strong>la violenta liquidazione e rottura dei rapporti che il movimento<br />

garibaldino aveva istituito con le popolazioni meridionali.<br />

I moderati napoletani esuli in Piemonte dopo la rivoluzione <strong>del</strong> ‘48 avevano<br />

concentrato la loro attenzione e quella <strong>del</strong>l’opinione pubblica liberale sullo<br />

sfacelo morale e politico <strong>del</strong>la classe dirigente borbonica, ma, tranne qualche<br />

eccezione (come quella rappresentata dalla prime Lettere meridionali di<br />

Pasquale Villari) erano rimasti assai lontani dalla analisi <strong>del</strong>la realtà meridionale<br />

nel suo complesso, dei rapporti sociali e civili esistenti nel <strong>Mezzogiorno</strong>,<br />

<strong>del</strong>le sue condizioni ed esigenze economiche. Il ritorno degli esuli dal Piemonte<br />

non fece quindi avanzare di molto la conoscenza <strong>del</strong>le reali condizioni<br />

<strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong>. Una valutazione più concreta dei caratteri specifici <strong>del</strong>la<br />

situazione meridionale cominciò ad essere fatta soltanto qualche anno più<br />

tardi; intanto, al momento <strong>del</strong>l’unificazione, non solo non si ebbe la consapevolezza<br />

<strong>del</strong>la realtà naturale ed economica <strong>del</strong>l’Italia meridionale e si continuò<br />

per tanto tempo a favoleggiare, com’è noto, <strong>del</strong>la sua grande ricchezza<br />

naturale, ma neanche si ebbe una chiara visione <strong>del</strong>le caratteristiche e possibilità<br />

di sviluppo <strong>del</strong>la sua vita politica e si oscillò tra la fiducia ingenua nell’influenza<br />

che un gruppo di liberali napoletani aveva o poteva acquistare nel<br />

Paese (gruppo che invece tendeva a rinchiudersi in un aristocratico isolamento<br />

ed a formare quel piccolo, ristretto e diffidente partito di governo a cui fu<br />

dato il nome di “consorteria”) e la negazione <strong>del</strong>la capacità <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong><br />

di portarsi ad un più elevato e moderno livello di coscienza politica.<br />

178


L’adesione data al Piemonte con il plebiscito aveva avuto un carattere tutto<br />

particolare e intimamente contraddittorio: era stata determinata, in grandissima<br />

parte, proprio da quelle forze radicali alle quali il governo toglieva ora<br />

ogni potere e possibilità di esprimersi e di far sentire le proprie esigenze ed<br />

aspirazioni. Quella che il Farini chiamava “la superstizione garibaldina <strong>del</strong>le<br />

moltitudini” era stata un elemento importante di avvicinamento <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong><br />

all’idea <strong>nazionale</strong>. Proprio alla vigilia <strong>del</strong> plebiscito, un conservatore<br />

come Ruggero Bonghi riconosceva che se il <strong>Mezzogiorno</strong> aveva cominciato a<br />

farsi un concetto <strong>del</strong>l’Italia e <strong>del</strong>l’indipendenza <strong>nazionale</strong> era meritò esclusivo<br />

di Garibaldi e <strong>del</strong> suo immenso prestigio. E più puntualmente Pasquale<br />

Stanislao Mancini: “Se ora il popolo accetta l’unione col Piemonte, è perché<br />

Garibaldi ha voluto cosi”.<br />

Si confronti, dunque, la situazione <strong>del</strong>l’Italia centrale al momento <strong>del</strong>l’annessione,<br />

con quella <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> e si vedrà subito che le differenze profonde<br />

che esse presentano non riguardano soltanto il grado di maggiore o<br />

minore maturità di forze politiche o il carattere più o meno arretrato ed elementare<br />

dei contrasti sociali, ma riguardano anche la continuità tra le forze<br />

che promuovono l’unione <strong>nazionale</strong> e quelle che poi governano o determinano<br />

l’indirizzo di governo; si vedrà che nel <strong>Mezzogiorno</strong> il fatto più rilevante<br />

è proprio la mancanza di questa continuità.<br />

Era quindi inevitabile che la validità <strong>del</strong> plebiscito venisse rimessa quasi<br />

subito in discussione e non già per l’atmosfera di intimidazione in cui si votò<br />

o per la mancata libertà reale di scelta tra Vittorio Emanuele o Francesco II,<br />

ma perché, ponendosi il dilemma appunto in questi termini, si era lasciata<br />

fuori la parte veramente importante dei problemi intorno ai quali si era accesa<br />

la lotta politica nel <strong>Mezzogiorno</strong> e si erano messi a tacere partiti e correnti<br />

che erano a più stretto contatto con la realtà meridionale.<br />

In queste condizioni, il governo liberale moderato a Napoli ed a Palermo era<br />

condannato all’isolamento, che doveva rendere estremamente difficile la ricerca<br />

di una via per amministrare le regioni liberate; certo assai più difficile di quanto<br />

non era stata alcuni mesi prima per il governo garibaldino. Ed era quasi naturale,<br />

allora, che si tendesse a riportare esclusivamente all’arretratezza, alla corruzione,<br />

all’ignoranza <strong>del</strong>le popolazioni meridionali la causa prima <strong>del</strong>la impossibilità<br />

di far funzionare in modo normale le leve <strong>del</strong> governo e di applicare il sistema<br />

<strong>del</strong>la libertà. “Altro, che Italia – scriveva Farini al Cavour – questa è Affrica:<br />

i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. E più tardi, da<br />

Napoli: “Questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio <strong>del</strong>lo Stato;<br />

che Italia, che libertà! Ozio e maccheroni... Se il parlamento <strong>nazionale</strong> non<br />

instaura con la sua grande autorità morale un poco di autorità effettiva, qua, credete<br />

a me, l’annessione di Napoli diviene la cancrena <strong>del</strong> rimanente Stato”.<br />

Era una opinione tutt’altro che isolata, tranne che per l’appello al Parlamento<br />

che diventava sempre meno attuale per lo stesso Farini: al contrario,<br />

179


non c’era una voce, tra i moderati piemontesi o napoletani, che fosse discordante<br />

da questa e che non tendesse ad affermare a tutte lettere la ingovernabilità<br />

<strong>del</strong>le province meridionali. D’Azeglio giungeva ad affermare che<br />

l’unione col <strong>Mezzogiorno</strong> gli dava l’impressione di “andare a letto con un<br />

vaioloso”; l’atteggiamento <strong>del</strong> re e dei suoi ufficiali che, secondo la testimonianza<br />

<strong>del</strong> Visconti Venosta, “non riuscivano a comportarsi e a parlare<br />

diversamente dal manico di uno scudiscio”, contribuiva ad aggravare le già<br />

drammatiche difficoltà.<br />

<strong>La</strong> frattura tra rivoluzione meridionale e moderatismo rese assai più problematico<br />

l’avvicinamento <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> allo Stato <strong>nazionale</strong> ed alle<br />

nuove istituzioni. Ed a questa frattura contribuirono l’orientamento oligarchico<br />

<strong>del</strong> liberalismo italiano (che poi, sul piano storico, metterà in rilievo la<br />

scarsa partecipazione popolare al Risorgimento dopo avere operato con ogni<br />

mezzo per impedirla e per tenere in posizione subalterna non solo le masse<br />

contadine ma anche strati importanti di piccola e media borghesia), le contraddizioni<br />

<strong>del</strong> movimento garibaldino e l’arretratezza politico sociale <strong>del</strong>le<br />

regioni liberate che rendeva assai difficile far convergere verso un comune<br />

obiettivo di fondo, tra inevitabili e necessarie differenze politiche, forze sociali<br />

così nettamente contrastanti come quelle dei contadini esasperati dalla<br />

miseria e <strong>del</strong>la borghesia incapace di sottrarsi radicalmente alla pressione<br />

politica e sociale <strong>del</strong>la aristocrazia terriera.<br />

Un problema complesso è quello <strong>del</strong> rapporto tra il nuovo governo e le<br />

correnti autonomistiche napoletane, che si fecero ad un certo momento portavoce<br />

<strong>del</strong> malcontento antipiemontese; certamente esse, come è stato rilevato<br />

dal Passerin d’Entrèves, con le formule <strong>del</strong> gran dualismo, <strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le<br />

tradizioni, <strong>del</strong>le leggi e degli istituti locali esprimevano la tendenza a lasciare<br />

sostanzialmente le cose come erano, a non rinnovare nulla, a conservare il<br />

borbonismo senza i Borboni; soprattutto poi, il limite <strong>del</strong>l’autonomismo<br />

napoletano era la sua incapacità di guardare al di là degli interessi, <strong>del</strong>le tradizioni<br />

e dei vecchi privilegi <strong>del</strong>l’ex capitale; il loro autonomismo era in gran<br />

parte municipale, napoletanistico è proprio in questo modo, attraverso questa<br />

caratteristica, esse si rivelano espressione di quel vecchio ceto politico napoletano<br />

che era sempre stato a mezza strada tra borbonismo e liberalismo.<br />

Al nuovo governo, dunque, non era più possibile in queste condizioni, fare<br />

appello al <strong>Mezzogiorno</strong> affinché i bisogni e le speranze da cui era nata la<br />

ribellione contro i Borbonici chiarissero ed acquistassero consistenza sul<br />

piano politico; lo impediva la lotta contro ì democratici, l’isolamento dei liberali<br />

“piemontesizzati”, la tendenza degli autonomisti napoletani a confondere<br />

la propria voce con quella dei nemici <strong>del</strong>lo Stato unitario; e intanto, nelle province,<br />

tornava a sollevarsi la bandiera dei Borboni e si riapriva, non più nel<br />

quadro di una rivoluzione democratica ma con un significato politico implicitamente<br />

o esplicitamente reazionario, una guerra sociale.<br />

180


Un compito, dunque, ingrato, difficile, doloroso spettava ora al nuovo<br />

governo <strong>nazionale</strong> ed a Cavour, che indicava una linea precisa e senza equivoci;<br />

“imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole <strong>del</strong>l’Italia. Sui mezzi,<br />

non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e, se questa non basta, la fisica”.<br />

Governo e moderati ebbero la precisa consapevolezza che Napoli ormai costituiva<br />

il banco di prova <strong>del</strong>la unità <strong>nazionale</strong> e che il superamento <strong>del</strong>le difficoltà<br />

che la situazione meridionale presentava avrebbe dato la misura <strong>del</strong>la<br />

forza ideale e politica <strong>del</strong> nuovo Stato.<br />

Ma ormai non si trattava più soltanto di imporre, com’era nelle intenzioni<br />

e nella visione dì Cavour, una rivoluzione dall’alto, un nuovo e più moderno<br />

sistema politico e amministrativo e di adeguare il <strong>Mezzogiorno</strong> al resto <strong>del</strong><br />

Paese vincendo con qualunque mezzo le resistenze che la società meridionale<br />

poteva opporre. Ben presto, il fondamento stesso di questa opera apparve<br />

in pericolo. Una nuova guerra di riconquista si doveva aprire contro il brigantaggio<br />

e i focolai di reazione che si erano riaccesi nelle province e che furono<br />

spenti con gli stati d’assedio, violenze, esecuzioni sommarie, soppressioni di<br />

garanzie e di libertà costituzionali.<br />

Il peso più grave e diretto di questa operazione ricadeva sulle regioni meridionali,<br />

le quali dovevano pagare a caro prezzo la conquista storica <strong>del</strong>l’unità<br />

<strong>nazionale</strong>; ma il carattere che aveva avuto la soluzione <strong>del</strong>la questione napoletana<br />

finì col gravare su tutta la vita politica <strong>nazionale</strong> e col rendere più incerto<br />

il processo di avvicinamento tra governo e Paese, più difficile e drammatico<br />

il cammino <strong>del</strong> popolo italiano verso la democrazia, cammino al quale il<br />

Risorgimento aveva dato il primo avvio.<br />

A conclusione di queste vicende, che liquidavano per sempre nell’Italia<br />

meridionale le velleità di rinascita di un regime sul quale ricadeva in parte la<br />

responsabilità <strong>del</strong>l’arretratezza di queste regioni, il problema <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong><br />

restava ancora aperto e si riproponeva in termini nuovi. Quella che allora<br />

si definiva la “questione napoletana” e che, nell’anno conclusivo <strong>del</strong> Risorgimento,<br />

i moderati identificavano con problemi di “risanamento” politico e<br />

morale – che era, poi, un modo particolare di avvertire le difficoltà di unificazione<br />

di regioni a diverso livello economico e civile – doveva ripresentarsi con<br />

un significato assai più ampio e svolgersi, nel corso <strong>del</strong>la storia unitaria, anche<br />

come contrasto tra le esigenze di rinnovamento <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> e la linea<br />

generale di sviluppo sulla quale concretamente si indirizzava la vita economica<br />

e politica.<br />

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