La liberazione del Mezzogiorno e l'unità nazionale - Consiglio ...
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non c’era una voce, tra i moderati piemontesi o napoletani, che fosse discordante<br />
da questa e che non tendesse ad affermare a tutte lettere la ingovernabilità<br />
<strong>del</strong>le province meridionali. D’Azeglio giungeva ad affermare che<br />
l’unione col <strong>Mezzogiorno</strong> gli dava l’impressione di “andare a letto con un<br />
vaioloso”; l’atteggiamento <strong>del</strong> re e dei suoi ufficiali che, secondo la testimonianza<br />
<strong>del</strong> Visconti Venosta, “non riuscivano a comportarsi e a parlare<br />
diversamente dal manico di uno scudiscio”, contribuiva ad aggravare le già<br />
drammatiche difficoltà.<br />
<strong>La</strong> frattura tra rivoluzione meridionale e moderatismo rese assai più problematico<br />
l’avvicinamento <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> allo Stato <strong>nazionale</strong> ed alle<br />
nuove istituzioni. Ed a questa frattura contribuirono l’orientamento oligarchico<br />
<strong>del</strong> liberalismo italiano (che poi, sul piano storico, metterà in rilievo la<br />
scarsa partecipazione popolare al Risorgimento dopo avere operato con ogni<br />
mezzo per impedirla e per tenere in posizione subalterna non solo le masse<br />
contadine ma anche strati importanti di piccola e media borghesia), le contraddizioni<br />
<strong>del</strong> movimento garibaldino e l’arretratezza politico sociale <strong>del</strong>le<br />
regioni liberate che rendeva assai difficile far convergere verso un comune<br />
obiettivo di fondo, tra inevitabili e necessarie differenze politiche, forze sociali<br />
così nettamente contrastanti come quelle dei contadini esasperati dalla<br />
miseria e <strong>del</strong>la borghesia incapace di sottrarsi radicalmente alla pressione<br />
politica e sociale <strong>del</strong>la aristocrazia terriera.<br />
Un problema complesso è quello <strong>del</strong> rapporto tra il nuovo governo e le<br />
correnti autonomistiche napoletane, che si fecero ad un certo momento portavoce<br />
<strong>del</strong> malcontento antipiemontese; certamente esse, come è stato rilevato<br />
dal Passerin d’Entrèves, con le formule <strong>del</strong> gran dualismo, <strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le<br />
tradizioni, <strong>del</strong>le leggi e degli istituti locali esprimevano la tendenza a lasciare<br />
sostanzialmente le cose come erano, a non rinnovare nulla, a conservare il<br />
borbonismo senza i Borboni; soprattutto poi, il limite <strong>del</strong>l’autonomismo<br />
napoletano era la sua incapacità di guardare al di là degli interessi, <strong>del</strong>le tradizioni<br />
e dei vecchi privilegi <strong>del</strong>l’ex capitale; il loro autonomismo era in gran<br />
parte municipale, napoletanistico è proprio in questo modo, attraverso questa<br />
caratteristica, esse si rivelano espressione di quel vecchio ceto politico napoletano<br />
che era sempre stato a mezza strada tra borbonismo e liberalismo.<br />
Al nuovo governo, dunque, non era più possibile in queste condizioni, fare<br />
appello al <strong>Mezzogiorno</strong> affinché i bisogni e le speranze da cui era nata la<br />
ribellione contro i Borbonici chiarissero ed acquistassero consistenza sul<br />
piano politico; lo impediva la lotta contro ì democratici, l’isolamento dei liberali<br />
“piemontesizzati”, la tendenza degli autonomisti napoletani a confondere<br />
la propria voce con quella dei nemici <strong>del</strong>lo Stato unitario; e intanto, nelle province,<br />
tornava a sollevarsi la bandiera dei Borboni e si riapriva, non più nel<br />
quadro di una rivoluzione democratica ma con un significato politico implicitamente<br />
o esplicitamente reazionario, una guerra sociale.<br />
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