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La liberazione del Mezzogiorno e l'unità nazionale - Consiglio ...

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L’adesione data al Piemonte con il plebiscito aveva avuto un carattere tutto<br />

particolare e intimamente contraddittorio: era stata determinata, in grandissima<br />

parte, proprio da quelle forze radicali alle quali il governo toglieva ora<br />

ogni potere e possibilità di esprimersi e di far sentire le proprie esigenze ed<br />

aspirazioni. Quella che il Farini chiamava “la superstizione garibaldina <strong>del</strong>le<br />

moltitudini” era stata un elemento importante di avvicinamento <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong><br />

all’idea <strong>nazionale</strong>. Proprio alla vigilia <strong>del</strong> plebiscito, un conservatore<br />

come Ruggero Bonghi riconosceva che se il <strong>Mezzogiorno</strong> aveva cominciato a<br />

farsi un concetto <strong>del</strong>l’Italia e <strong>del</strong>l’indipendenza <strong>nazionale</strong> era meritò esclusivo<br />

di Garibaldi e <strong>del</strong> suo immenso prestigio. E più puntualmente Pasquale<br />

Stanislao Mancini: “Se ora il popolo accetta l’unione col Piemonte, è perché<br />

Garibaldi ha voluto cosi”.<br />

Si confronti, dunque, la situazione <strong>del</strong>l’Italia centrale al momento <strong>del</strong>l’annessione,<br />

con quella <strong>del</strong> <strong>Mezzogiorno</strong> e si vedrà subito che le differenze profonde<br />

che esse presentano non riguardano soltanto il grado di maggiore o<br />

minore maturità di forze politiche o il carattere più o meno arretrato ed elementare<br />

dei contrasti sociali, ma riguardano anche la continuità tra le forze<br />

che promuovono l’unione <strong>nazionale</strong> e quelle che poi governano o determinano<br />

l’indirizzo di governo; si vedrà che nel <strong>Mezzogiorno</strong> il fatto più rilevante<br />

è proprio la mancanza di questa continuità.<br />

Era quindi inevitabile che la validità <strong>del</strong> plebiscito venisse rimessa quasi<br />

subito in discussione e non già per l’atmosfera di intimidazione in cui si votò<br />

o per la mancata libertà reale di scelta tra Vittorio Emanuele o Francesco II,<br />

ma perché, ponendosi il dilemma appunto in questi termini, si era lasciata<br />

fuori la parte veramente importante dei problemi intorno ai quali si era accesa<br />

la lotta politica nel <strong>Mezzogiorno</strong> e si erano messi a tacere partiti e correnti<br />

che erano a più stretto contatto con la realtà meridionale.<br />

In queste condizioni, il governo liberale moderato a Napoli ed a Palermo era<br />

condannato all’isolamento, che doveva rendere estremamente difficile la ricerca<br />

di una via per amministrare le regioni liberate; certo assai più difficile di quanto<br />

non era stata alcuni mesi prima per il governo garibaldino. Ed era quasi naturale,<br />

allora, che si tendesse a riportare esclusivamente all’arretratezza, alla corruzione,<br />

all’ignoranza <strong>del</strong>le popolazioni meridionali la causa prima <strong>del</strong>la impossibilità<br />

di far funzionare in modo normale le leve <strong>del</strong> governo e di applicare il sistema<br />

<strong>del</strong>la libertà. “Altro, che Italia – scriveva Farini al Cavour – questa è Affrica:<br />

i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. E più tardi, da<br />

Napoli: “Questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio <strong>del</strong>lo Stato;<br />

che Italia, che libertà! Ozio e maccheroni... Se il parlamento <strong>nazionale</strong> non<br />

instaura con la sua grande autorità morale un poco di autorità effettiva, qua, credete<br />

a me, l’annessione di Napoli diviene la cancrena <strong>del</strong> rimanente Stato”.<br />

Era una opinione tutt’altro che isolata, tranne che per l’appello al Parlamento<br />

che diventava sempre meno attuale per lo stesso Farini: al contrario,<br />

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