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(Il)legalità? - Pedagogika

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Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

2011_XV_1 - € 9<br />

(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?<br />

Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997<br />

Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559<br />

In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione


Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

anno XV, n° 1<br />

Gennaio, Febbraio, Marzo 2011


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/<br />

2<br />

Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni<br />

Anno XV, n° 1 – Gennaio/Febbraio/Marzo 2010<br />

Direttrice responsabile<br />

Maria Piacente<br />

maria.piacente@pedagogia.it<br />

Redazione<br />

Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti,<br />

Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo<br />

Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta,<br />

Cristiana La Capria, Laura Conti, Coordinamento<br />

pedagogico Coop. Stripes.<br />

Comitato scientifico<br />

Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio,<br />

Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino<br />

Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro<br />

Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti,<br />

Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa<br />

Hanno collaborato<br />

Roberta Sala, Cesare Moreno, Andrea Zummo,<br />

Giovanni Impastato, Franco Vassia, Salvatore Licata,<br />

Fabio Lucchini, Vincenzo D’Ambrosio, Alessandra<br />

Callegari, Cristina Busi, Giulia Depero, Isabella<br />

Grottola, Marisa Vecchi, Piero Abbondati e Roberta<br />

Ranalli, Grazia Cecchini, Fabio Dovigo, Alberto Dionigi,<br />

Dario Costantino, Antonella Cagnolati, Giulia Rossetti<br />

Edito da<br />

Stripes Coop. Sociale Onlus<br />

www.stripes.it<br />

Direzione e Redazione<br />

Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) -<br />

Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057<br />

e-mail: pedagogika@pedagogia.it<br />

Sito web: www.pedagogia.it<br />

FaceBook: <strong>Pedagogika</strong> Rivista<br />

Responsabile testata on-line<br />

Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it<br />

Progetto grafico/Art direction<br />

Raul Jannone - raul.jannone@studioatre.it<br />

Promozione e diffusione<br />

Fabio Degani, Federica Rivolta<br />

Pubblicità<br />

Clara Bonfante, Daniela Colombo<br />

Registrazione Tribunale di Milano n.187 del<br />

29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45%<br />

ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI<br />

MILANO - issn 1593-2559<br />

Stampa:<br />

Impressionigrafiche S.c.s.<br />

Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350<br />

Distribuzione in libreria:<br />

Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano<br />

Fotografie: stock.xchng<br />

é possibile proporre propri contributi inviandoli<br />

all’indirizzo e-mail articoli@pedagogia.it<br />

I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio<br />

della Direzione e del Comitato di redazione e<br />

in ogni caso non saranno restituiti agli autori<br />

Questo periodico è iscritto all’Unione<br />

Stampa Periodica Italiana


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/<br />

s o m m a r i o<br />

5 Editoriale<br />

Maria Piacente<br />

../dossier/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?<br />

8 Introduzione<br />

10 Legalità, legittimità, cultura<br />

Roberta Sala<br />

18 Tra <strong>legalità</strong> ed <strong>Il</strong><strong>legalità</strong>.<br />

Intervista a Cesare Moreno<br />

Salvatore Guida<br />

27 <strong>Il</strong><strong>legalità</strong> e <strong>legalità</strong>: confine<br />

labile, scommessa cruciale<br />

Andrea Zummo<br />

33 Resistere a Mafiopoli<br />

Giovanni Impastato e Franco<br />

Vassia<br />

44 La Rabbia di Esistere<br />

Salvatore Licata<br />

55 Terrorismo, il confine tra<br />

motivazione e vulnerabilità<br />

Fabio Lucchini<br />

../temi ed esperienze<br />

60 Una nuova educazione per<br />

superare la mente patriarcale<br />

Vincenzo D’Ambrosio<br />

70 SAT Educazione, un modello<br />

culturale per gli insegnanti.<br />

Intervista a Grazia Cecchini<br />

Alessandra Callegari<br />

74 Uno spazio per la mediazione<br />

delle controversie<br />

Fabio Dovigo (Traduz. A fronte)<br />

87 La funzione psicopedagogica<br />

e terapeutica del clown<br />

Alberto Dionigi<br />

95 Sport “senza frontiere”: note<br />

pedagogiche e pratiche educative<br />

Dario Costantino<br />

../cultura<br />

104 A due voci<br />

Angelo Villa, Ambrogio Cozzi<br />

108 Scelti per voi<br />

Libri Ambrogio Cozzi (a cura di)<br />

Musica Angelo Villa (a cura di)<br />

Cinema Cristiana La Capria (a cura di)<br />

116 Arrivati in redazione<br />

../In_breve<br />

119 In ricordo di Antonio Erbetta<br />

../In_vista<br />

120 Rovereto Musei per le scuole<br />

3


ABBONARSI è IMPORTANTE<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/<br />

Piano editoriale 2011<br />

(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?<br />

<strong>Il</strong> viaggio. Realtà e metafora<br />

Fratelli d'Italia?<br />

Educare alla creatività<br />

Rivista di educazione, formazione e cultura<br />

Numero di c/c postale 36094233<br />

intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS<br />

via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />

L’abbonamento annuale per 4 numeri è:<br />

€ 30 privati<br />

€ 60 Enti e Associazioni<br />

€ 90 Sostenitori<br />

Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista,<br />

una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo:<br />

Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco<br />

è consultabile sul sito www.pedagogia.it<br />

Per ordini e abbonamenti on line: www.pedagogia.it<br />

4<br />

Per informazioni: Redazione <strong>Pedagogika</strong>.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - pedagogika@pedagogia.it


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/editoriale<br />

La forza di Antigone<br />

L'essere umano, l'uomo e la donna fin dalla loro nascita devono fare i conti<br />

con le norme e le leggi che consentono alla vita stessa la sua sopravvivenza. In nuce<br />

ciascuno e ciascuna di noi è abitato da norme e leggi umane e divine – in un altro<br />

tempo il divino è stato parte inscindibilmente integrante della vita umana- che<br />

dovrebbero permetterci di riconoscere in coscienza il bene dal male, la giustizia<br />

dall'ingiustizia regolando così il nostro comportamento etico e sociale. E nello<br />

scrivere la parola “divino” vorrei, per non perdermi, stare ancorata al pensiero di<br />

Maria Zambrano che è stata grande filosofa, ma anche grande politica impegnata a<br />

fianco delle forze repubblicane per la liberazione della Spagna e per questo esiliata<br />

per quarant'anni.<br />

<strong>Il</strong> rispetto delle norme e delle leggi dovrebbe per così dire scaturire dal nostro<br />

essere più profondo, dalla giustizia, dalla verità, dalla bellezza, sentimenti così<br />

radicati e forti da respingere la tentazione sempre presente di fare, praticare, far<br />

praticare solo il proprio tornaconto personale. Un tornaconto personale che nulla<br />

ha a che vedere con il riconoscimento di se stessi in quanto soggetti bisognosi di<br />

rispecchiarsi nell'altro, di dare un senso alla propria vita sia nella dimensione pubblica<br />

sia in quella privata.<br />

Al centro del nostro divenire assume estrema importanza l'humus e la cultura<br />

che ci circonda e ci forgia: uomini e donne in relazione gli uni con gli altri facenti<br />

parte della società, uniti da interessi generali e progetti comuni con la necessità<br />

intrinseca alla nostra stessa specie di essere visti e riconosciuti .<br />

In quanto facenti parte della polis diventa naturale per ognuno di noi partecipare<br />

e seguire quello che accade nel nostro Paese, legittimando o delegittimando<br />

quanto avviene dentro e fuori dalle Istituzioni. Ma siamo capaci di orientarci, di<br />

dare ascolto al nostro senso critico ? Siamo in grado di capire, di leggere e interlegere<br />

le norme e le leggi, le regole del vivere civile?<br />

Etologi, biologi e antropologi – pensiamo a come in questo particolare periodo<br />

della nostra vita pubblica la questione antropologica sia divenuta cruciale - sono<br />

ormai convinti che la società nella quale viviamo è sempre più influenzata dalla<br />

società che l'uomo riesce a creare: se è fondata su una cultura della pace emergerà<br />

l'attitudine alla solidarietà e alla pace; se è fondata sulla guerra e sull'odio emergerà<br />

l'attitudine alla guerra e alla violenza organizzata; se è fondata sul disimpegno<br />

politico, sull'avidità, sul consumismo e sul proprio tornaconto personale, non ne<br />

potrà scaturire nulla di buono. Si tratta quindi di una questione culturale e non<br />

naturale.<br />

5


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/editoriale<br />

6<br />

Tutto ciò emerge, vistosamente, anche dai contributi pubblicati all'interno di<br />

questo dossier: nello spasmodico desiderio di fare parte di qualcosa, di lasciare un<br />

segno in questo mondo, possiamo vedere come chi non “conta” proprio niente,<br />

perché nessuno si è mai curato, preoccupato, di lui/lei, pur di esistere riemerge,<br />

come un fiume carsico e trova luogo all'interno di organizzazioni illegali, distruttive,<br />

mafiose. Risucchiato dagli inferi del consumismo e del godimento, sordo ad<br />

ogni richiamo , senza alcuna forma di pensiero critico si dispone ad infittire le orde<br />

dell'il<strong>legalità</strong> e della supponenza. Oppure cede ad un esasperato qualunquismo,<br />

non meno letale della supponenza che porta a dire a chi è più fragile, e meno<br />

costruito, che non si può fare niente, tanto... E' così che chi ci governa, alla povera<br />

gente che si trova di fronte alle catastrofi annunciate e alle ingiustizie patite, fa<br />

dire: “...è cosa 'e niente!”. No! Non è cosa da niente! Non dobbiamo mai lasciare<br />

perdere i nostri diritti, né ciò che ci è dovuto. Nessuno deve elemosinare ciò che<br />

gli è dovuto, nessuno. Così il pensiero critico ci può portare ad assumere, ad intraprendere,<br />

strade che possono sembrare illegali; tanti sono gli esempi e le storie che,<br />

a partire dall'antica Grecia, passando per la storia contemporanea ed alle vicende<br />

a noi più vicine – pensiamo a quanti nel nostro Paese, nell'epoca della dittatura si<br />

sono appellati alla pietas per soccorrere i perseguitati - ci fanno sperare nella giustizia<br />

e nel futuro, rendendo ancora attuale: ”La tua legge, Signore, scritta nel cuore<br />

degli uomini” di S. Agostino<br />

Oggi nel nostro Paese il qualunquismo e l'il<strong>legalità</strong> paiono esser diventate le<br />

leggi di chi, pur di mantenere il potere, il potere di perpetrare l'irrisione degli altri<br />

e perseguire il proprio narcisismo, diventa capace di minacciare con il “Muoia<br />

Sansone, con tutti i filistei”!<br />

Ma molti e molte di noi, moltissimi conoscono questi giochi di potere ed alla<br />

resistenza sono forgiati per eredità e per sapere. Tante belle politiche abbiamo visto<br />

in questi giorni in giro per le strade. E auspichiamo che, grazie alla sensibilità, alla<br />

cultura, all'esperienza ed alla bellezza, il qualunquismo, la volgarità, il male e gli<br />

scempi non passeranno, non diventeranno la norma.<br />

Come diceva Peppino Impastato: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si<br />

fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza<br />

di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni<br />

speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le<br />

piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima; ed<br />

ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre.<br />

È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e<br />

donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi<br />

la curiosità e lo stupore”.<br />

Maria Piacente


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/<br />

8<br />

(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?<br />

Un recente documento, presentato da Telmo Pievani e Alberto Martinelli, mette<br />

in discussione, proponendone un aggiornamento, la Carta di Siviglia del 1989,<br />

allorché un team di scienziati e studiosi si era cimentato a dimostrare come la<br />

guerra non sia un bisogno, una necessità insita nella natura umana. <strong>Il</strong> documento<br />

va oltre tale ottimistica e buonistica visione sostenendo che: “.... E' ora di smettere<br />

di cercare una spiegazione biologica o genetica alla guerra e anche di pensare che<br />

l'uomo sia naturalmente buono... la guerra e la pace stanno, entrambe, nelle possibilità<br />

dell'uomo..”. Queste considerazioni saranno sottoposte agli studiosi che interverranno<br />

alla conferenza mondiale sulla pace e saranno oggetto di una proposta<br />

nelle scuole italiane a partire dal concetto che “le stesse specie che hanno inventato<br />

la guerra sono capaci di inventare la pace”.<br />

Riteniamo che lo stesso approccio, che vede le antinomie guerra /pace, amore/<br />

odio come invenzioni culturali e sociali possa essere esteso agevolmente anche ai<br />

concetti di <strong>legalità</strong> e il<strong>legalità</strong>: si tratta di atteggiamenti culturali, legati alle evenienze<br />

storiche ed alla distribuzione geografica, non rispondono a niente di predeterminato<br />

e possono essere, per ciò stesso, soggetti ad azioni correttive, ad azioni ed intenzionalità<br />

politiche, a valutazioni etiche, a interpretazioni e scelte pedagogiche.<br />

Nell'affrontare questi temi ci siamo chiesti da dove traggono forza e credibilità<br />

le leggi; come nasce e si rafforza il conecetto di <strong>legalità</strong>; quali sono le condizioni<br />

ceh favoriscono il consolidamento di diffusi comportamenti di il<strong>legalità</strong>, devianza,<br />

criminalità più o meno pubblica, l'indebolimento dell'autorevolezza della figura<br />

del padre. Ci siamo chiesti se esistono codici, strutturati o meno, concepiti per<br />

trasmettere atteggiamenti di indifferenza o di impermeabilità ai concetti di legge,<br />

legittimità e <strong>legalità</strong>; e se è possibile perseguire coerenti strategie culturali e pedagogiche<br />

per contrastare quella sorta di relativismo estico che molti percepiscono<br />

come il terreno di coltura di un più ampio processo di degrado ed imbarbarimento<br />

della vita sociale che soprattutto negli ultimi anni sta investendo la dimensione<br />

pubblica.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/<br />

(<strong>Il</strong>)legality?<br />

A recent document, proposed by Telmo Pievani and Alberto Martinelli, debates,<br />

offering a revision, the Seville Statement on violence of 1989, when a team<br />

of scientists and scholars ventured on demonstrating that war is not an innate<br />

need, an innate necessity in human nature. The document goes beyond this optimistic<br />

vision maintaining that: “…It’s time to stop looking for a biological or genetic<br />

explanation of war and thinking that man is naturally good…war and peace<br />

are both in the abilities of man…”.<br />

These reflections are going to be submitted to scholars who will attend the<br />

world conference on peace and they are going to be the object of a proposal in Italian<br />

schools whose basic concept is that “the same species that have invented war<br />

are able to invent peace.”<br />

We believe the same approach, which regard war/peace, love/hate antinomies as<br />

cultural and social inventions, could be easily extended to concept of legality and<br />

illegality too: they are cultural attitudes bound to historical events and geographical<br />

distribution, they do not respond to nothing predetermined and, therefore,<br />

they could be subjected to corrective actions, political actions and intentions, ethical<br />

valuations, pedagogical interpretations and choices.<br />

Dealing with these topics we wonder where laws draw their force; how concept<br />

of legality originates and grows stronger; what are the conditions that promote<br />

the consolidation of widespread behaviors of illegality, deviance and more or less<br />

organized crime; what place takes the weakening of father figure authoritativeness<br />

in rarefying of public ethics. And, moreover, whether there are structured or unstructured<br />

codes conceived to transfer behaviors of indifference or impermeability<br />

to the concepts of law, lawfulness, and legality; whether it is possible to pursue<br />

consistent cultural and pedagogical strategies to contrast that sort of ethic relativism,<br />

perceived by many as the fertile source of a wider process of social life decay<br />

and barbarization that, especially in the last years, is assailing public dimension.<br />

Dossier 9


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/<br />

10<br />

Legalità, legittimità, cultura<br />

‘Giusto’, preciso ancora, non significa necessariamente condiviso: non è detto<br />

che una legge sia giusta solo perché essa è esito di una procedura legislativa corretta;<br />

ammettere che una legge possa essere ingiusta nonostante la giustezza<br />

procedurale con cui è stata posta significa considerare la ‘giustizia’ delle leggi<br />

come qualcosa di superiore e indipendente dalla loro validità.<br />

Roberta Sala*<br />

La domanda che qui mi pongo è se le nozioni di <strong>legalità</strong> e di il<strong>legalità</strong> siano<br />

contestualmente determinate o se, piuttosto, non indichino standard universali. Si<br />

tratta di una domanda rilevante: bisogna capire se, parlando di <strong>legalità</strong> e di il<strong>legalità</strong>,<br />

disponiamo di riferimenti indipendenti per regolamentare il vivere associato, ovvero<br />

se tali riferimenti siano contingenti, validi cioè solo relativamente al contesto del loro<br />

utilizzo. Una cosa è infatti dire che una prassi è giusta o sbagliata, disponendo di<br />

un’idea non controversa di giusto e sbagliato, altra cosa è invece dire che una prassi<br />

è giusta o sbagliata in quel determinato momento, per quel determinato gruppo<br />

di persone o in certe condizioni. Sosterrò, in questo mio intervento, l’esistenza di<br />

standard universali anche se mutevoli e molteplici possono essere le forme della loro<br />

applicazione. Questa affermazione risulterà chiara al termine della mia riflessione.<br />

Intendo procedere come segue: a) comincio con il chiarire il significato di <strong>legalità</strong><br />

mettendo in luce la differenza di <strong>legalità</strong> e legittimità; mi avvarrò dell’esempio<br />

socratico per spiegare meglio questa differenza; procedo con il dire perché il rinvio<br />

alla legittimità delle leggi agisca da istanza critica nei confronti dell’attualità, cioè<br />

nei confronti delle consuetudini che, nel tempo presente, sembrano invalse e non<br />

controverse, e nei confronti di quei meccanismi di comportamento che, per il fatto<br />

di essere tacitamente osservati dai più e nella maggior parte delle situazioni, rivendicano<br />

per ciò stesso autorità; dirò perché il rinvio alla legittimità assuma il significato<br />

di un gesto filosofico, cioè di un atteggiamento critico che non esita a sottoporre<br />

al vaglio della ragione automatismi e convenzioni; invocare la legittimità delle leggi<br />

non significa andare contro il sistema giuridico ma, proprio al contrario, significa<br />

sospendere l’obbedienza nei confronti di quelle singole leggi che, alla luce degli<br />

standard di legittimità cui si riferisce il sistema giuridico nel suo insieme, si rivelino<br />

ingiuste; b) procedo con un riferimento alle culture: mi interessa in questo discorso<br />

capire se sia una ragione di giustizia quella che spinge i portatori di una tradizione<br />

culturale a contestare le leggi di uno stato liberale e democratico o se, diversamente,<br />

si tratti di un’istanza non ricevibile dall’ordinamento in quanto illegittima. Si<br />

potrà decidere di accogliere un’istanza culturale, accomodandola all’interno di un<br />

sistema legislativo, ovvero di respingerla, motivate entrambe le alternative da una<br />

medesima ragione di giustizia.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

Mi concentro ora sulla differenza tra <strong>legalità</strong> e legittimità. Propongo di partire<br />

dalla imperitura lezione socratica così come Platone la narra nell’Apologia di Socrate.<br />

Comincio con il ricordare come la condanna a morte di Socrate fu decisa a<br />

seguito di un processo che lo vide imputato di empietà e di corruzione dei giovani.<br />

Ciò che di fatto Socrate fece, tale da attirargli il biasimo dei suoi concittadini,<br />

fu invitare i suoi interlocutori – chiunque essi fossero - all’esercizio della critica,<br />

all’assunzione di un atteggiamento di distacco dal sapere convenzionale, da quel<br />

plesso di tradizioni e abitudini fino ad allora incontroverso, onde sottoporlo al<br />

vaglio della razionalità. La vera guida di Socrate è appunto la ragione, il logos: non<br />

c’è alcuna condotta né alcuna legge che non possa essere sottoposta al giudizio della<br />

ragione anzi, potremmo dire, della filosofia. Non c’è nulla nell’esperienza umana<br />

cui la filosofia non si possa liberamente applicare 1 . Per via di queste e altre simili<br />

affermazioni Socrate viene accusato di empietà: è per i suoi concittadini empio, in<br />

quanto ha mostrato di non voler accettare passivamente l’ordine costituito, che è<br />

ordine naturale e divino insieme poiché naturali e divine insieme sono le leggi su<br />

cui si regge. L’accusa di empietà si affianca ad un’altra accusa, quella di corruzione<br />

dei giovani. Infatti, la libertà di filosofare, cioè di ricercare senza subire interferenze<br />

facendo uso soltanto della propria intelligenza e del proprio senso critico, è oggetto<br />

dell’insegnamento socratico; sono soprattutto i giovani ad avvicinarsi a Socrate e<br />

ad ascoltare le sue parole, essendo i più disposti ad apprendere, a farsi interpellare<br />

sul senso dell’esistenza, del vivere insieme, sul senso della politica e delle leggi. A<br />

loro Socrate si rivolge in particolare, insegnando a seguire il ragionamento fino<br />

in fondo, fino alle sue conseguenze più estreme, fino a respingere, se necessario,<br />

il sapere da sempre considerato verità senza che nessuno lo abbia mai indagato<br />

veramente. Ciò che ai giovani Socrate mostra è, in sintesi, l’esercizio della libertà<br />

del giudizio, l’autonomia del ragionamento ‘senza sponde’. Non è strano allora<br />

che i concittadini di Socrate, e in specie i più potenti, provassero preoccupazione:<br />

proprio i giovani, educati all’obbedienza, potevano ribellarsi, rifiutando ogni deferenza<br />

nei confronti di regole e convenzioni. Socrate è allora giudicato e condannato<br />

per empietà e corruzione; in realtà la sua colpa è mostrarsi del tutto indipendente,<br />

non deferente né sottomesso a potere e gerarchie.<br />

Mi sono soffermata sul caso di Socrate perché esso presenta spunti interessanti<br />

per comprendere in che senso la sua sfida sia una battaglia per la giustizia. Socrate<br />

invita i suoi ascoltatori a ripensare il senso del fare politica: bisogna – è questo in<br />

sostanza l’insegnamento di Socrate – accantonare gli interessi particolari e ridisegnare<br />

i confini stessi dell’agire politico, rinvigorire le regole costituzionali, gli<br />

standard immutabili della giustizia. La città cui Socrate si rivolge è una Atene resa<br />

fragile dalla guerra del Peloponneso, una Atene indebolita e corrotta. Ciò che So-<br />

1 “Ancor meno mi crederete se dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità<br />

di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare<br />

me stesso e altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo”<br />

(Apologia [38b], a cura di M. Sassi, Rizzoli, Milano, 2005, p. 165).<br />

Dossier 11


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

12<br />

crate intende fare è risvegliare la coscienza degli ateniesi perché si riprendano dalla<br />

decadenza dei costumi e tornino a celebrare l’eccellenza di una città, la loro, degna<br />

dei suoi eroi. Anzi, ancor più radicalmente, Socrate intende rivedere il significato<br />

stesso dell’eccellenza, ne propone una revisione. Quel che in concreto Socrate fa<br />

è giudicare le leggi onde capire se siano o meno leggi giuste; intende verificare la<br />

coerenza delle leggi con gli ideali morali ad esse superiori, con quelli che oggi noi<br />

chiameremmo i valori costituzionali. <strong>Il</strong> messaggio socratico è chiaro: non è il fatto<br />

di esser legge che rende una legge giusta. Esiste, infatti, uno standard di <strong>legalità</strong> ed<br />

esiste uno standard di legittimità. C’è la legge, e c’è la giustizia, e non è detto che<br />

coincidano. Dunque, Socrate invita a porsi a distanza dalle leggi positive e valutarne<br />

la giustizia oltre la giustezza formale del loro essere state legittimamente poste.<br />

Per far ciò occorre assumere la ‘posizione del filosofo’, occupando idealmente quella<br />

postazione critica che sta alla ‘giusta’ distanza da ciò che accade.<br />

A proposito di obbedienza o di disobbedienza alle leggi, Socrate mostra di essere<br />

un esempio di disobbediente civile: di fronte ad ordini iniqui ricevuti dai suoi<br />

superiori (per esempio, l’ordine di prelevare e uccidere un uomo giusto – Leone<br />

di Salamina - solo perché inviso al potere) Socrate disobbedisce e “torna a casa” 2 .<br />

Ancora, a fronte dell’alternativa alla pena di morte offertagli dai suoi accusatori,<br />

smettere di filosofare e andarsene in esilio, Socrate rifiuta: smettere di filosofare<br />

significherebbe tacere e mettere a tacere il suo diritto di critica, la sua inesauribile<br />

istanza di giustizia; per Socrate significherebbe ignorare la sua missione divina e<br />

tradire la giustizia.<br />

In conclusione, potremmo dire che il dono che Socrate fa alla sua città consiste<br />

nella sua filosofia, messa a disposizione della vita pubblica. <strong>Il</strong> dono del filosofo alla<br />

città è insegnare a ciascun cittadino a essere soggetto autonomo, a diventare valutatore<br />

indipendente capace di distinguere tra la <strong>legalità</strong> di un comando e la sua legittimità,<br />

ovvero la sua giustizia. Non i cittadini ma solo gli schiavi ricevono passivamente<br />

ordini ed ingiunzioni senza porsi la domanda se siano o meno legittimi.<br />

Ora, a partire dalla vicenda socratica e dall’ideale di cittadinanza che Socrate<br />

ha incarnato, capiamo in che senso la filosofia conferisca alla politica una dimensione<br />

utopica: significa che lo sguardo disincantato del filosofo – ovvero, in questa<br />

ricostruzione, di ogni cittadino che voglia dirsi libero – si può sempre rivolgere al<br />

potere e alle sue costrizioni, all’autorità e alle sue leggi. Si potrebbe persino riconoscere<br />

a questa istanza critica una dimensione anarchica: anarchia non significa qui<br />

negazione del potere o dell’ordine costituito; significa riservarsi il diritto di giudi-<br />

2 “I Trenta mi convocarono con altri quattro nella Rotonda, ingiungendoci di condurre qui da<br />

Salamina, per mandarlo a morte, Leone di Salamina. Di ordini simili a quelli là ne davano un bel<br />

po’ a parecchia gente, con l’intenzione di coinvolgerne il più possibile nella responsabilità dei loro<br />

crimini. Tuttavia anche allora, non a parole ma con i fatti, ho dimostrato che della morte non mi<br />

importa […] sopra ogni altra cosa, invece, m’importa di non compiere azioni ingiuste o empie.<br />

[…] Usciti dalla Rotonda, mentre gli altri quattro se ne andavano a Salamina a prendere Leone, io<br />

me ne sono tornato a casa” (Platone, Apologia di Socrate [32d], a cura di M. Sassi, Rizzoli, Milano,<br />

2005, p. 149.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

care i vincoli che il potere impone sulle libertà dei singoli; significa, ancora, sfidare<br />

il potere, obbligandolo a rendere conto delle sue azioni e ad assumersi in toto le<br />

sue responsabilità. <strong>Il</strong> significato utopico della filosofia in politica consiste proprio<br />

nell’opporsi a qualsiasi forma di pigrizia del pensiero, a quella che Berlin chiamerebbe<br />

immaturità 3 , che è all’origine di ogni degrado del sistema democratico.<br />

Discorrendo della legittimità come istanza critica della <strong>legalità</strong>, ho inteso difendere<br />

una prospettiva di giustizia per la quale il ‘giusto’ è inteso come un criterio al<br />

di sopra di qualsiasi ordine dato; il ‘giusto’ funge da norma stabile di valutazione<br />

che non è posta né dai cittadini né tanto meno da colui o coloro che li amministra<br />

e governa. ‘Giusto’, preciso ancora, non significa necessariamente condiviso: non<br />

è detto che una legge sia giusta solo perché essa è esito di una procedura legislativa<br />

corretta; ammettere che una legge possa essere ingiusta nonostante la giustezza<br />

procedurale con cui è stata posta significa considerare la ‘giustizia’ delle leggi come<br />

qualcosa di superiore e indipendente dalla loro validità. Se ammettiamo dunque<br />

un doppio criterio per valutare se una legge è giusta, dovremmo ammettere la<br />

possibilità che essa sia formalmente giusta – cioè posta legittimamente, secondo<br />

correttezza procedurale – e, al contempo, intrinsecamente ingiusta – perché in<br />

contrasto con valori superiori quali quelli custoditi dalle carte costituzionali. In<br />

fondo Socrate fa proprio questo: si domanda se le leggi di Atene, che la città condivide,<br />

siano giuste; quindi dichiara che alcune di queste non lo sono: non è giusta<br />

per esempio la decisione, peraltro presa in modo proceduralmente corretto, di<br />

mandarlo a morte, quale esito di pubblico processo. <strong>Il</strong> problema, a questo punto, è<br />

pratico: si tratta di decidere che fare di fronte a leggi ingiuste. L’alternativa è secca e<br />

consiste o nel seguire le leggi o nel disobbedire ad esse, accettando le conseguenze.<br />

Socrate opta per la seconda alternativa: disobbedisce e subisce la pena, e per questo<br />

lo consideriamo un esempio paradigmatico di disobbediente civile. In altri specifici<br />

casi sono le leggi stesse a riconoscere spazi di esenzione dall’obbedire definiti a precise<br />

condizioni: il disobbedire alle leggi non deve comportare, per esempio, alcuna<br />

violazione dei diritti fondamentali degli altri, né può contenere alcuna minaccia<br />

di destabilizzazione. In questi casi si parla di obiezione di coscienza; non me ne<br />

posso però occupare in questa sede, poiché richiederebbe maggior spazio di quello<br />

concesso a questo contributo.<br />

La questione cui ora vorrei fare cenno è quella relativa alle richieste di esenzione<br />

che portatori di codici culturali avanzano nei confronti della legge dello Stato. In<br />

primo luogo è necessario che io spieghi il nesso tra quanto fin qui detto e quanto<br />

mi appresto a introdurre. L’idea, comune ai due ragionamenti, a quello precedente<br />

e a quello che sto per fare, è che, a fronte di leggi stabilite, ogni individuo ha il diritto<br />

di esprimere un giudizio su di esse, a partire da criteri in qualche modo esterni<br />

alle leggi, a partire cioè da ideali che le leggi medesime dovrebbero rispettare.<br />

Nel caso di Atene, il cittadino Socrate si interroga sulla legittimità di alcune<br />

prescrizioni (potremmo dire sulla loro giustizia, considerata la giustizia il sommo<br />

3 I. Berlin, “Due concetti di libertà”, in Libertà, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 195 ss.<br />

Dossier 13


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

14<br />

criterio cui le singole leggi devono ispirarsi per essere, appunto, leggi giuste) e,<br />

trovandosi in profondo disaccordo con queste, si appella alla sua coscienza e disobbedisce.<br />

Certamente, nell’appello alla coscienza potrebbe annidarsi il pericolo<br />

di una deriva soggettivistica: chiunque, infatti, potrebbe addurre qualsivoglia impulso<br />

interiore come giustificazione della disobbedienza; se però tutti si appellassero<br />

discrezionalmente alla propria coscienza per disobbedire alle leggi, potremmo<br />

facilmente immaginare quali conseguenze di destabilizzazione e di generalizzato<br />

disordine tale appello porterebbe con sé. In Socrate tali conseguenze sono scongiurate<br />

nel momento in cui egli dichiara di essersi riferito, a giustificazione della sua<br />

condotta, a un comando divino, alla sollecitazione che gli è venuta dal dio che lo<br />

invita a filosofare; al dio e non ai concittadini Socrate dice di dovere obbedienza<br />

per cui – scrive - “finché avrò vita e forze non cesserò di fare filosofia” 4 . Socrate fa<br />

appello, in sostanza, alla ragione, anzi alla verità che detta la giustizia: “è nel dire<br />

cose giuste che io confido” 5 .<br />

Nei casi di individui ‘portatori’ di codici culturali, la questione non è se disobbedire<br />

o meno alle leggi in ragione della coscienza o della verità, ma chiedere di<br />

poter disobbedire a motivo della propria appartenenza culturale. L’idea che costoro<br />

esprimono è che alcune leggi risultano oppressive nei loro confronti, laddove se<br />

applicate finirebbero per sminuire o cancellare le loro peculiarità. Alcune leggi<br />

sembrano non tenere in debito conto le identità culturali di alcuni cittadini –<br />

membri di comunità culturali minoritarie – per il fatto di non garantire a loro<br />

il diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione. Un esempio per capire che<br />

intendo quando parlo di una legge che, per quanto ispirata a ideali di giustizia e<br />

non discriminazione, può portare a esiti discriminatori, è quello fornito dal cosiddetto<br />

“affare del velo”, scoppiato in Francia agli inizi degli anni Novanta. Ad<br />

alcune studentesse di fede islamica venne proibito di indossare lo hijab in classe,<br />

in quanto il principio di laicità dello spazio pubblico, e la scuola è senz’altro tale,<br />

esige che nessuno studente abbia il permesso di esibire segni visibili della propria<br />

appartenenza religiosa. Ora, senza addentrarci nella questione, è intuibile come a<br />

prima vista tale prescrizione mostri di ispirarsi al principio di non discriminazione:<br />

la neutralizzazione religiosa dello spazio pubblico dovrebbe impedire che le istituzioni<br />

siano parziali e incarnino una cultura (o una religione) a discapito delle altre.<br />

La prescrizione in oggetto risulta, tuttavia, iniqua: le ragazze islamiche, per le quali<br />

l’identità religiosa – in quanto minoritaria - è un valore da esibire pubblicamente e<br />

non da nascondere dentro ai contesti non pubblici delle rispettive comunità, non<br />

si sentono trattate da eguali. La richiesta delle ragazze islamiche di indossare il velo<br />

a scuola è dunque un’istanza di riconoscimento: loro intento è essere pubblicamente<br />

riconosciute per quel che sono, senza che ciò che le contraddistingue debba<br />

essere cancellato dagli spazi pubblici, poiché a tali spazi anch’esse hanno diritto di<br />

accesso come tutti gli altri e non a certe restrittive condizioni. La loro istanza di<br />

4 Platone, Apologia [29d], cit., p. 141.<br />

5 Platone, Apologia [17c], cit., p. 103.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

riconoscimento è dunque avanzata agli occhi del pubblico proprio per denunciare<br />

i limiti di una società liberale che pensa di affrontare la discriminazione mediante<br />

la neutralizzazione delle differenze, laddove tale neutralizzazione mostra nei fatti<br />

di perpetuarla 6 . Se dunque le differenze identitarie sembrano assumere, come nel<br />

caso del velo, la veste di legittime istanze di riconoscimento – riposando la loro<br />

legittimità sul principio di eguale considerazione e rispetto - si pone tuttavia la<br />

domanda relativa ai limiti del riconoscimento: esistono istanze di riconoscimento<br />

che non possono essere accolte da una società liberale? Quali sono, in sostanza, i<br />

limiti del riconoscimento? La domanda mira a stabilire se le richieste di esenzione<br />

dal rispetto della legge (nel caso delle ragazze islamiche la richiesta di esenzione è<br />

quella di poter disobbedire alla legge che vieta di indossare segni di appartenenza<br />

religiosa) debbano a loro volta essere sottoposte a un test di giustizia. Una bozza di<br />

risposta è la seguente: garantire riconoscimento alle caratteristiche identitarie dei<br />

singoli, appartenenti a gruppi o comunità, in base al principio dell’eguaglianza,<br />

non implica per ciò stesso accettazione indifferente di tutte le possibili istanze di<br />

riconoscimento. Nel nostro caso, ci si chiede se quel che le ragazze vogliono sia,<br />

prima di tutto, qualcosa che loro vogliono autonomamente, per rivendicare la propria<br />

identità e il diritto alla loro differenza; o se, al contrario, sia la loro comunità<br />

di appartenenza a imporre loro di indossare il velo come espressione della subordinazione<br />

delle donne secondo un codice culturale cui tali comunità si assoggettano<br />

per prime. Porsi questa domanda significa ritenere che le istanze di riconoscimento<br />

non sono tutte uguali: alcune sono accoglibili nel contesto della società liberale,<br />

poiché rimandano a suoi standard fondamentali quali l’eguaglianza e la non discriminazione;<br />

altre non loro sono, poiché esprimono istanze illegittime, quali la<br />

subordinazione di alcuni individui, perlopiù donne, ai dettami di una comunità<br />

che li opprime. La legittimità delle istanze di riconoscimento dipende dall’impatto<br />

che esse hanno sugli inviolabili diritti individuali. È alle ragioni della giustizia, agli<br />

standard superiori cui le leggi di uno stato devono rinviare, che occorre dunque<br />

tornare per fissare i limiti del riconoscimento: sono accolte quelle istanze che non<br />

si pongano in contrasto con i diritti individuali e, in particolare, con il diritto di<br />

ciascuno ad essere trattato con eguale considerazione e rispetto. È, in sostanza, il<br />

rispetto del singolo e delle sue scelte che va salvaguardato come criterio di massima<br />

per l’accettazione delle culture, ovvero per il loro pubblico riconoscimento. Limite<br />

del riconoscimento è dunque l’interesse del singolo, la sua volontà di aderire o<br />

meno alla cultura, la sua autonomia.<br />

Sono partita dalla vicenda socratica per mettere a tema la distinzione tra <strong>legalità</strong><br />

e legittimità, tra prescrizioni di legge e ragioni di coscienza, tra consenso e giustizia.<br />

Ho assimilato Socrate al disobbediente civile, colui che esime se stesso dall’obbedienza<br />

alle leggi legittimamente poste - nel senso che soddisfano lo standard di<br />

<strong>legalità</strong> - ma considerate intrinsecamente illegittime per riferimento a uno standard<br />

6 Sulla questione del velo, si veda A. E. Galeotti, Toleration and recognition, Cambridge University<br />

Press, Cambridge 2003, pp. 115-36.<br />

Dossier 15


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/(<strong>Il</strong>)<strong>legalità</strong>?/Legalità_legittimità_cultura<br />

16<br />

superiore di giustizia. Sono passata a un esempio di tutt’altra natura, desunto dal<br />

dibattito intorno alle richieste di riconoscimento delle minoranze culturali: mi<br />

sono soffermata sulla richiesta di esenzione dall’obbedienza alla legge francese che<br />

vieta di portare segni di appartenenza religiosa; tale richiesta di esenzione è motivata<br />

dal medesimo ideale di eguaglianza e non discriminazione che la legge intendeva<br />

perseguire. In entrambi i casi la disobbedienza viene spiegata per ragioni superiori<br />

o precedenti le singole leggi: sia da parte di Socrate sia da quella delle ragazze islamiche<br />

viene invocata la ragione superiore della giustizia. Socrate la invoca per dire<br />

che tutte le leggi vi si devono adeguare; le ragazze islamiche la invocano rivendicando<br />

il diritto ad essere trattate con equità. È alla luce dell’ideale di giustizia che<br />

le leggi, anche quelle che formalmente vi si ispirano, chiedono di essere riviste,<br />

integrate o reinterpretate. Dei modi di tale revisione non posso qui evidentemente<br />

occuparmi; rinvio tale approfondimento a discussione futura.<br />

*Ricercatrice di Filosofia politica presso l'Università Vita-Salute San Raffaele


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/<br />

Temi ed esperienze<br />

L’intenzione della sezione Temi ed Esperienze è quella di offrire al lettore<br />

uno spazio di condivisione su riflessioni, percorsi, progetti, testimonianze,<br />

narrazioni, presentando una serie di contributi che, pur non<br />

negando l’esigenza dell’approccio e della definizione teorica, cerchino<br />

di ricollegarsi all’idea della pratica, di quell’ambito del conoscere, legato<br />

alle forme dell’azione, della sperimentazione e della verifica in<br />

continuo divenire ed in costante trasmissione.<br />

Temi ed esperienze<br />

59


<strong>Pedagogika</strong>.it/2010/XIV_3/temi_ed_esperienze/l'idea_di_lavoro<br />

86


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/<br />

La funzione psicopedagogica<br />

e terapeutica del clown<br />

Da diversi anni la popolazione scientifica sta rivolgendo sempre di più il proprio<br />

interesse verso l’umorismo. Una figura particolare che sta inserendosi in un<br />

numero sempre maggiore di contesti è data dal personaggio del Clown sia come<br />

figura di supporto psicologico che come strumento pedagogico.<br />

Alberto Dionigi*<br />

Thomas Sydenham, autorevole medico del XVII secolo, era solito affermare<br />

che “l'arrivo di un buon clown esercita, sulla salute di una città, un'influenza benefica<br />

superiore a quella di venti asini carichi di medicinali” 1 .<br />

Questa frase ben illustra come il valore della comicità clownesca abbia sostenitori<br />

antichi e che le proprietà benefiche del ridere e dell’arte comica non siano<br />

affatto una scoperta recente.<br />

Per riuscire a comprendere il ruolo del clown, sia come strumento di formazione<br />

psicopedagogica che come strumento terapeutico, è bene soffermarsi sulla<br />

natura stessa della comicità. Nella letteratura comune, si riscontra una varietà<br />

decisamente ampia di parole connesse con il comico e l’umorismo che vengono<br />

spesso usate come sinonimi: ridicolo, satirico, buffo, ironico, comico, scherzoso,<br />

divertente, assurdo, risibile o spiritoso, solo per citarne alcune 2 . Se si va ad analizzare<br />

la radice etimologica della parola “comico” si nota che essa risale ai “komos”<br />

dell’antica Grecia: i komos erano i canti che accompagnavano i riti dionisiaci, legati<br />

all’ebbrezza prodotta dal vino, connotati di una natura contemporaneamente<br />

trasgressiva ed “estatica” 3 . Nel corso dei secoli tale accezione viene introdotta nella<br />

commedia, dove il riferimento ai culti dionisiaci è data dall’allusione all’esistenza<br />

di un mondo altro e alla possibilità di sovvertire l’ordine e la razionalità del mondo<br />

civile, esorcizzandone le paure e festeggiando il piacere e le gioie della vita.<br />

Bisogna ricordare che la figura del clown, e di conseguenza le origini dell’arte<br />

clownesca, sono legate, in moltissime culture, a pratiche magico-religiose in cui<br />

il clown è una figura capace di mantenere un legame, attraverso rituali e pratiche<br />

peculiari, con il mondo dell’aldilà; la risata, avrebbe in questo senso una funzione<br />

catartica volta a sdrammatizzare ed esorcizzare la paura della morte.<br />

Ruoli e funzioni primordiali del clown attuale sono rintracciabili anche nei<br />

“pagliacci divini” del Nord America, protagonisti di rituali con i morti e gli antenati<br />

per i quali è stato anche coniato il termine di “clownismo primitivo” 4 . Con<br />

tale termine ci si riferisce a queste primordiali forme di clown che si inserivano<br />

1 A. Dionigi, La Comicoterapia, in Psicologia Contemporanea, 2009, 214, pp. 58-62.<br />

2 A. Dionigi, P. Gremigni, Psicologia dell’umorismo, Carocci, Roma, 2010.<br />

3 A. Farneti, La maschera più piccola del mondo. Aspetti psicologici della clownerie, Alberto Perdisa,<br />

Bologna, 2004<br />

4 W. Willeford, <strong>Il</strong> Fool e il suo scettro, <strong>Il</strong> Tridente Saggi, 1998.<br />

Temi ed esperienze 87


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

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nei contesti mistici, magici e religiosi dei popoli primitivi. E’ poi attraverso l’allontanamento<br />

dalla sfera del divino ed un maggiore approfondimento verso una<br />

relazione più soggettiva, individuale e giocosa con la magia che si ha il passaggio<br />

dal clownismo rituale al clownismo comico 5 .<br />

Durante la sua evoluzione nei secoli, la figura del clown incontra e si confronta<br />

sempre più con un mondo sociale ed espressivo aperto a funzioni culturali e<br />

psicologiche sia di polemica sociale che di feroce ironia e sarcasmo. Attraverso la<br />

figura del clown diviene possibile guardare il mondo da un punto di vista altro, far<br />

emergere la disapprovazione, il risentimento e la critica popolare attraverso l’amplificazione<br />

grottesca ed esagerata.<br />

Un elemento che accomuna la storia del clown presso tutte le culture è rappresentato<br />

dal suo personaggio, apparentemente sciocco, ma in realtà depositario<br />

di una sapienza “altra”, incaricato di mettere a nudo le contraddizioni dell’umano<br />

agire, delle leggi, delle consuetudini, della parola dei potenti 6 . E’ di queste debolezze<br />

che il popolo ride.<br />

Appare evidente come questo ruolo venga mantenuto dalla figura del clown odierno:<br />

tutto o quasi è permesso se si indossa un naso rosso, ed una volta dinanzi, si resta in<br />

attesa che egli faccia o dica qualcosa di divertente in grado di scatenare una risata.<br />

Ma perché il clown fa ridere? Quali sono i meccanismi che vengono attivati nel<br />

momento in cui uno stimolo provoca divertimento? Nei laboratori espressivi e nei<br />

corsi di formazione sull’arte clownesca si cerca di capire e sperimentare quali siano<br />

i meccanismi utilizzati dal clown per strappare una risata: al contrario di quanto<br />

universalmente pensato le smorfie, i capitomboli e le torte in faccia provocano uno<br />

scarso apprezzamento umoristico. E’ nel momento del fallimento, in cui il clown è<br />

afflitto, imbarazzato, affranto che scatta la risata: non è il personaggio che fa ridere,<br />

ma è l’uomo, nel momento in cui viene “messo a nudo”.<br />

E’ dal concetto di fallimento che bisogna partire per far sì che la figura del clown<br />

diventi uno “strumento” pedagogico, in modo da poter lavorare sull’inadeguatezza<br />

di ogni uomo nei confronti della realtà. “<strong>Il</strong> clown non esiste al di fuori dell’attore che<br />

lo recita: siamo tutti dei clown, crediamo tutti di essere belli, intelligenti e forti, mentre<br />

ognuno di noi ha le sue debolezze, i lati ridicoli che, rivelandosi, provocano il riso” 7 .<br />

<strong>Il</strong> clown indossa sempre una maschera, il naso rosso, definito come la maschera<br />

più piccola del mondo e gliene affida un potere enorme. Attraverso il naso rosso è<br />

possibile scoprire i lati unici e nascosti della propria personalità, intraprendendo<br />

un viaggio alla riscoperta delle proprie debolezze, delle proprie fragilità, del proprio<br />

clown personale.<br />

Indossare la maschera più piccola del mondo porta a lavorare su aspetti di sé<br />

tenuti convenzionalmente nascosti, facendo emergere i lati ridicoli che esistono già<br />

in ognuno di noi e accettandoli attraverso una drammatizzazione teatrale. <strong>Il</strong> naso<br />

5 Idem, p.94.<br />

6 S. Fioravanti, L. Spina, La terapia del ridere. Guarire con il buonumore, Red Edizioni, Como,<br />

1999.<br />

7 J. Lecoq , <strong>Il</strong> corpo poetico, Ubulibri, Milano, 2000, pag. 167.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

rosso diventa quindi un potentissimo strumento pedagogico. Ogni volta che viene<br />

indossato, non vi è più necessita di recitare un personaggio in quanto non vi è più<br />

differenza fra attore e clown; è in questa unione simbiotica che l’attore/clown si<br />

accetta interamente con i propri difetti, le proprie insicurezze e li vive nel gioco<br />

scenico che la maschera da clown gli permette. L’attore vive il proprio fallimento e<br />

instaura un nuovo rapporto con se stesso, non ha più necessita di salvaguardare la<br />

propria faccia 8 diventa libero di ridere di se stesso per poter far ridere gli altri. Non<br />

si tratta di “fare il clown”, ma di “essere clown”.<br />

Anche i difetti fisici vengono messi in risalto attraverso il proprio abbigliamento<br />

che viene realizzato utilizzando abiti della vita quotidiana: il costume del clown,<br />

colorato e di dimensioni assurde, costringe così lo stesso clown a movimenti goffi e<br />

di difficile attuazione che diventano un modo per mettere in risalto possibili particolarità<br />

di deambulazione e facendola diventare una caratteristica unica e peculiare<br />

di quel personaggio specifico.<br />

A queste peculiarità personali, si aggiungono molto spesso competenze artistiche e<br />

tecniche, volte all’acquisizione di strumenti e metodi utili a far scaturire una risata.<br />

Ciò che rende pedagogicamente utile la figura del clown è il fatto che indossando<br />

il naso rosso, non si tratta di indossare una maschera, bensì utilizzare uno<br />

strumento che porta la persona alla scoperta di una dimensione di creatività e di<br />

ascolto sia di sé che degli altri che permette di vivere sia la scena che la quotidianità<br />

con un atteggiamento psicologico particolare e funzionale. <strong>Il</strong> clown è essenzialmente<br />

uno stato d’animo. Indossando il naso rosso ci si spoglia completamente<br />

delle proprie difese e sicurezze, si vive una condizione di emancipazione totale, in<br />

cui tutto è concesso e legittimato dalla maschera che si indossa: l’attore si libera<br />

degli schemi mentali e sociali soliti e ha libero accesso anche a gesti proibiti nella<br />

vita quotidiana. E’ in questa maniera che può emerge veramente l’unicità della<br />

persona e la sua forza personale; il clown diventa così il portatore di una filosofia di<br />

vita alternativa, una filosofia in cui non esistono convenzioni sociali e ciò conduce<br />

inevitabilmente a vedere il mondo in maniera diversa, da un’altra prospettiva.<br />

La funzione terapeutica del clown<br />

Vestire i panni del clown è divenuta ormai un’esperienza utilizzata nei più vari<br />

contesti, non solo in quello teatrale. Tale universalizzazione è data dal fatto che indossando<br />

i panni del clown ci si avventura verso un percorso di riscoperta di sé, una<br />

sorta di percorso psicoterapeutico autocelebrato volto a conoscere, individuare, far<br />

emergere ed accettare le proprie fragilità represse per paura del giudizio degli altri e<br />

della società. Indossando la maschera più piccola del mondo ci si spoglia dei ruoli<br />

abitualmente interpretati, ci si libera delle difese solitamente utilizzate allo scopo<br />

di affrontare la vita quotidiana da un’altra prospettiva, solitamente sottaciuta e<br />

nascosta: attraverso la figura del clown non si evitano le situazioni pericolose o pre-<br />

8 E. Goffman, Interaction Ritual: Essays on Face-to-Face Behaviour, Anchor Books, Gardena City<br />

(NY), 1967.<br />

Temi ed esperienze<br />

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<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

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occupanti, ma ci si fionda dentro, anche giocandoci per trovare una soluzione che<br />

tenga conto di un ribaltamento del punto di vista, non dando nulla per scontato e<br />

cercando di ristrutturare la scena anche vedendo il mondo “al contrario”.<br />

Indossando il naso rosso, anche in senso metaforico, è possibile acquisire temporaneamente<br />

una nuova immagine di sé, spesso contraria e paradossale a quella<br />

abituale, permettendo anche di osservarsi meglio: trovare un’identità nuova permette<br />

di aprirsi a nuove possibilità di relazione e alla scoperta di prospettive nuove,<br />

allargando il proprio orizzonte.<br />

Da quanto detto emerge che il clown non è solo un personaggio comico, il cui<br />

unico scopo è quello di fare ridere, ma appare la sua utilità e capacità relazionali,<br />

in quanto capace di abbattere barriere e permettendo di sovvertire il punto di vista.<br />

Appunto per tali caratteristiche, la figura del clown è stata presa in considerazione<br />

come possibile strumento di intervento nei percorsi di emancipazione dal disagio<br />

personale e collettivo. Vestire i panni del clown può quindi essere sia un’esperienza<br />

vissuta in prima persona allo scopo di affrontare le proprie debolezze, sovvertire i<br />

propri schemi relazionali e confrontarsi con i propri limiti sia un’esperienza indiretta,<br />

in cui beneficiare dell’intervento di uno o più clown, adeguatamente formati,<br />

con la finalità di promuovere il benessere psichico, fisico e sociale all’interno di<br />

contesti di disagio o di strutture di formazione e ricovero.<br />

Negli ultimi anni sono caduti diversi tabù, come quello che relegava il ridere ad<br />

argomento poco serio, enfatizzandone invece le peculiarità positive e permettendo<br />

così anche alla figura del clown di entrare in strutture fino a pochi decenni fa impensabili:<br />

è esperienza quotidiana trovare clown nelle scuole, negli ospedali, nelle<br />

case di riposo, nei carceri minorili e così via. A comprovare la funzione terapeutica<br />

della figura del clown vi è la nascita di un numero sempre maggiore di associazioni<br />

ONLUS il cui scopo è quello di promuovere l’utilizzo della clown terapia, cioè<br />

l’attuazione di tecniche clownesche, derivate dal circo e dal teatro di strada, in contesti<br />

di disagio, al fine di migliorare l’umore delle persone 9 e promuovere missioni<br />

umanitarie all’estero in cui i “clown dottori” portano oltre agli aiuti materiali anche<br />

la propria arte clownesca realizzando spettacoli di clownerie e gag comiche.<br />

<strong>Il</strong> clown è diventato così un vero e proprio messaggero di pace e il naso rosso è diventato<br />

simbolo di amicizia, di gioia, di speranza. È la possibilità di stupirsi e poter sorridere<br />

e ridere anche in quelle situazioni pregne di sofferenza in cui è possibile trovare un modello<br />

comunicativo comune che oltrepassa qualsiasi differenza e che lascia spazio ad una<br />

vicinanza umana in cui non esistono confini, barriere o diversità. <strong>Il</strong> clown diventa così un<br />

personaggio universale in grado di sovvertire anche la situazione più traumatica.<br />

È infatti un dato ormai assodato che ridere e l’utilizzo dell’umorismo abbiano<br />

proprietà rilassanti, che fungano da strategia di gestione dello stress e che sia coinvolta<br />

nella regolazione di secrezioni di ormoni e di endorfine implicati nel meccanismo<br />

fisiologico della regolamentazione del piacere 10 .<br />

9 A. Dionigi, La Comicoterapia, cit.<br />

10 A. Dionigi A., P. Gremigni P., Psicologia dell’umorismo, cit.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

L’umorismo può essere utilizzato anche per valutare le risposte emotive delle<br />

persone in relazione a determinate situazioni. Durante periodi di forte stress o<br />

pericolo, quando mostrare le proprie paure può essere vissuto come elemento di<br />

inferiorità, il ricorso allo humour può consentire di valutare il grado di emozioni<br />

negative sperimentate dal soggetto 11 .<br />

L’umorismo quindi favorisce il benessere personale attraverso meccanismi cognitivi,<br />

moderando l’effetto nocivo di stimoli stressanti. Numerose ricerche hanno<br />

dimostrato che eventi di vita particolarmente faticosi e impegnativi possono avere<br />

una ricaduta negativa su vari aspetti della salute personale, quali l’inibizione della<br />

funzione immunitaria e l’aumento del rischio di malattie attraverso la secrezione<br />

di ormoni stress-correlati come catecolamine e cortisolo 12 . L’umorismo può essere<br />

un’efficace strategia per fronteggiare lo stress, riducendone gli effetti nocivi per la<br />

salute: una visione umoristica della vita e la capacità di vedere il lato comico delle<br />

cose possono aiutare gli individui a fronteggiare al meglio gli eventi negativi, permettendo<br />

loro di distanziarsi emotivamente dalla situazione stressante aumentando<br />

le proprie capacità di controllo e padronanza dell’ambiente 13 .<br />

La funzione terapeutica del clown è rappresenta dalla capacità di sovvertire gli<br />

schemi standard e abituali. Mantenere schemi rigidi durante i momenti di stress<br />

e malattia può infatti peggiorare il proprio stato emotivo: schemi mentali negativi<br />

possono essere collegati a un maggiore stress psicofisico, una maggiore resistenza<br />

e difficoltà a trovare una soluzione efficace ai problemi ed è alla base dei disturbi<br />

depressivi 14 . Le persone che tendono a vedere in maniera negativa e senza speranza<br />

le situazioni stressanti in cui si trovano tendono ad avere una bassa autostima ed<br />

essere meno pronti ad affrontare situazioni di stress 15 .<br />

Riuscire a sovvertire gli schemi abituali, significa essere capaci di flessibilità<br />

mentale, riuscendo a trovare un maggior numero di soluzioni ai problemi che si<br />

presentano e riuscendo ad affrontare lo stress in maniera più positiva. Ciò porta a<br />

ridimensionare gli eventi negativi che vengono vissuti in maniera meno stressante e<br />

minacciosa in quanto la persona si sente capace di poter aver avere un ruolo attivo<br />

sulla modificazione degli eventi o di poter fare comunque qualcosa, essa ha quindi<br />

un maggior senso di autoefficacia.<br />

Attraverso la clown terapia è quindi possibile aiutare le persone non solo a rivedere<br />

in maniera alternativa la situazione problematica ma anche ad affrontare in<br />

modo più ottimistico la vita, portando ad un maggior grado di autoefficacia percepita<br />

attraverso l’esercizio sistematico e consapevole dell’autoironia che diventa così<br />

11 T. R. Kane, J. Suls, J.T. Tedeschi, Humor as a Tool of Social Interaction, in A. J. Chapman, H. C.<br />

Foot (eds.), It’s a Funny Thing, Humour, Pergamon Press, Oxford, 1977, p. 13.<br />

12 R.A. Martin, Humor, Laughter, and Physical Health: Methodological Issues and Research Findings,<br />

in Psychological Bulletin, 2001, 4, pp. 504-19.<br />

13 R. A. Martin, The Psychology of Humor, Academic Press, New York, 2007.<br />

14 A. T. Beck, La depressione, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.<br />

15 M. E. P. Seligman, Learned optimism. How to change your mind and your life, Simon & Schuster<br />

Inc, NY, 1996.<br />

Temi ed esperienze<br />

91


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

92<br />

uno strumento potentissimo per prendere consapevolezza e distaccarsi in maniera<br />

funzionale dal problema vissuto: vedendolo con occhi altri e dall’esterno è maggiormente<br />

probabile che esso venga non solo ridimensionato ma che la persona<br />

stessa si senta più capace di operare un cambiamento.<br />

La clown terapia si propone quindi di attuare, per mezzo dell’umorismo, della<br />

risata e del gioco, una vera e propria ristrutturazione interna portando un’innovazione<br />

in una situazione routinaria che altrimenti sarebbe rigida, spostando<br />

l’attenzione su elementi altrimenti esclusi e portando così ad un cambio di prospettiva.<br />

Attraverso un esercizio continuo e ripetuto è così possibile portare questa<br />

ristrutturazione ad una metodologia continua per diventare un nuovo e funzionale<br />

modalità di affrontare la vita.<br />

L’umorismo che si utilizza nelle tecniche di clown terapia poiché coinvolge<br />

incongruità e diverse possibili interpretazioni, fornisce alle persone una strategia<br />

alternativa che le rende capaci di cambiare prospettiva rispetto a una situazione<br />

stressante, reinterpretandola in un nuovo modo, cambiando punto di vista e rendendola<br />

meno minacciosa. Come conseguenza di questa reinterpretazione umoristica,<br />

l’evento è percepito come meno stressante e maggiormente affrontabile 16 .<br />

Sovvertire gli schemi risulta quindi fondamentale per il clown per suscitare la<br />

risata; chi fa il clown sa bene che un clown che fa “fiasco” è molto più divertente<br />

agli occhi del pubblico di uno che vince e che per far ridere in maniera ancora più<br />

forte è importante cercare sempre di perdere nel modo più rovinoso possibile.<br />

Mettendo in evidenza la propria difficoltà, la propria imperfezione e incapacità<br />

di riuscire, il clown mostra la propria impotenza: ed è questo, che a distanza<br />

di millenni, rappresenta ancora l’effetto catartico. La clown terapia diventa una<br />

terapia della vergogna che ha effetti sia sul clown che sullo spettatore. Attraverso<br />

rispecchiamenti e proiezioni anche il paziente/spettatore può ridere della propria<br />

goffaggine, pur restando difeso in una posizione di distanza e superiorità. 17<br />

Un altro aspetto che ha reso tanto popolare la figura del clown in ospedale è<br />

data dalla sua natura intrinsecamente tragicomica e malinconica. Egli è sempre in<br />

bilico fra la tristezza e la gioia, fra il pianto e il riso, perché la sua è un’ironia bonaria<br />

e perdente, un po’malata di malinconia. <strong>Il</strong> mestiere del clown è quello di far ridere<br />

ma anche, probabilmente, quello di piangere con chi piange, di essere piccolo e<br />

solo con chi è piccolo e solo 18 .<br />

Da quanto fin qui detto, si può quindi parlare di “clownterapia” cioè dell’attuazione<br />

di un insieme di tecniche derivate dal circo e dal teatro di strada, in contesti<br />

di disagio quali ad esempio gli ospedali, le case di riposo, le case famiglia, gli orfanotrofi,<br />

i centri diurni, ecc.<br />

Data la vastità e l’importanza della funzione della clownterapia, si è avvertita<br />

negli ultimi anni l’esigenza di fare chiarezza sul ruolo, sulle competenze, sulle<br />

16 A. Dionigi, P. Gremigni, Psicologia dell’umorismo, cit.<br />

17 A. Farneti, La maschera più piccola del mondo. Aspetti psicologici della clownerie, cit.<br />

18 Idem.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/temi_ed_esperienze/la_funzione_psicopedagogica_del_clown<br />

modalità di intervento, sulle metodologie formative dei “nasi rossi” definiti clown<br />

dottori come agenti di servizio per la persona.<br />

Con il termine clown dottori si intendono:<br />

- i volontari formati allo scopo di adattare le proprie capacità individuali specifiche<br />

e le loro varie professionalità al servizio svolto in ospedali, comunità, ecc.;<br />

- i non professionisti dello spettacolo formati professionalmente come professionisti<br />

clown dottori;<br />

- i professionisti dello spettacolo, non volontari, provenienti dai più diversi ambiti<br />

teatrali, appositamente formati allo scopo di adattare le proprie capacità artistiche<br />

e umane al lavoro in ospedali, comunità, ecc.<br />

<strong>Il</strong> clown dottore è quindi colui che (a prescindere dal proprio titolo di studio)<br />

opera nei contesti di disagio utilizzando le arti del clown e integrandole con conoscenze<br />

psico-socio-sanitarie al fine di agire sulle emozioni, per modificarle.<br />

<strong>Il</strong> clown dottore va visto, quindi, come una figura di sostegno e di aiuto concreto ai<br />

percorsi terapeutici dei pazienti ospedalizzati operando in stretto contatto con l’équipe<br />

ospedaliera e indossando un camice da dottore variamente colorato allo scopo di ironizzare<br />

sulla figura medica e sovvertirne l’immagine rendendolo più umano.<br />

L’intervento dei clown dottori, inoltre, non è mai imposto in quanto non forzano<br />

mai il bambino e i genitori ad accettare la loro visita: se si rendono conto che<br />

il dolore del piccolo paziente è cosi forte da non potergli permettere di vivere il<br />

gioco in serenità si adeguano e limitano il loro intervento (ad es. facendo un timido<br />

saluto dalle vetrate, facendo volare bolle di sapone o semplicemente sorridendogli<br />

con dolcezza).<br />

L’intervento dei clown dottori si basa sull’improvvisazione potendo contare su<br />

un bagaglio di tecniche e conoscenze che spazia dal repertorio clown, alla giocoliera,<br />

alla magia, all’espressività teatrale. Risulta fondamentale mantenere sempre<br />

spontaneità e sincerità in modo da fare emergere l’originale comicità che ognuno<br />

racchiude in sé; i clown dottori operano lasciandosi guidare dall’ispirazione del<br />

momento. <strong>Il</strong> clown dottore coglie gli spunti della situazione e si lascia andare al<br />

suo estro clownesco, stando sempre attento ad osservare le reazioni, sia per lavorare<br />

su ciò che effettivamente è importante per il bambino, sia per valutare eventuali<br />

errori.<br />

Quando i bambini partecipano attivamente ai giochi dei clown dottori, come<br />

per esempio nella risoluzione di semplici conflitti o nel portare a termine buffe magie,<br />

ricavano dall’esperienza la sensazione di essere artefici di qualcosa di speciale,<br />

di “magico”. <strong>Il</strong> bambino sente che la sua collaborazione e tutto il suo essere sono<br />

importanti per il clown, anzi essenziali. E questo rinforza il senso di fiducia e di<br />

stima in se stesso e verso gli altri; rinnova la sua disponibilità alla collaborazione<br />

verso gli altri; stimola il suo processo di sviluppo.<br />

*Psicologo, clown dottore, membro dell’International Society for Humor Studies<br />

e del Gruppo P.A.T. - Dipartimento di Psicologia di Bologna,<br />

svolge la sua attività di ricerca sull’umorismo<br />

Temi ed esperienze<br />

93


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/<br />

Angelo Villa<br />

104<br />

A due Voci<br />

“Con tutto quel che oggi si sente dire in<br />

giro; con tutto quel che si vede alla televisione!”<br />

Chi non ha sentito ripetere recisamente<br />

frasi del genere, ogni qual volta si<br />

pone concretamente la possibilità d’esercizio<br />

di un’autonomia minima per un bambino?<br />

Fosse anche il tornare a casa da solo da<br />

scuola o il recarsi da un amico a giocare…<br />

L’ossessione della sicurezza (del bambino?<br />

Dei genitori?) contagia tutto e tutti. Cosa<br />

diavolo è mai successo?<br />

Sono le condizioni di<br />

vita dei bambini, in un<br />

mondo popolato quasi<br />

esclusivamente da tristi<br />

vecchi egocentrici, che<br />

sono divenute maggiormente<br />

a rischio?<br />

Oppure siamo noi che<br />

abbiamo fatto della paranoia<br />

il pane quotidiano<br />

con cui ci nutriamo<br />

avidamente da mattina<br />

a sera?<br />

Simili preoccupazioni<br />

ruotano attorno a un<br />

terrore che le domina<br />

in maniera assoluta,<br />

quello che riguarda il<br />

fantasma di un cattivo<br />

incontro tra un adulto<br />

perverso e il povero, ingenuo<br />

bambino.<br />

L’orco, il “malato”, da<br />

una parte, e l’innocente,<br />

la vittima, dall’altra.<br />

<strong>Il</strong> male assoluto, insomma,<br />

contro il bene;<br />

la sporcizia contro la<br />

Melanie Benjamin<br />

Sono stata Alice<br />

Fazi Editore, Roma 2010<br />

pp. 383, € 19,00<br />

<strong>Il</strong> libro è la biografia romanzata di Alice Pleasence<br />

Liddell, una delle eroine più famose<br />

della letteratura, che ispirò Alice nel paese<br />

delle meraviglie di Lewis Carroll, il libro<br />

che l'ha consegnata all'immaginario della<br />

sua epoca e degli anni a seguire.<br />

Alice, io narrante del romanzo, racconta per<br />

la prima volta la sua storia affascinante, segnata<br />

dal morboso rapporto (dietro il quale si<br />

staglia l'ambigua ombra della pedofilia) con<br />

il reverendo Charles<br />

Dodgson, alias Lewis<br />

Carroll, professore di<br />

matematica al Christ<br />

Church di Oxford il<br />

cui Decano era Henry<br />

George Liddell, padre<br />

di Alice.<br />

<strong>Il</strong> pomeriggio del 4<br />

luglio 1862, Charles<br />

Dodgson e il suo<br />

amico Robinson<br />

Duckworth portarono<br />

Alice, che all'epoca<br />

aveva 10 anni, e le sue<br />

sorelle Ina ed Edith a<br />

fare una gita in barca<br />

sul fiume Isis, durante<br />

la quale Dodgson iniziò<br />

a raccontare la storia<br />

di una bambina che<br />

seguì un coniglio nella<br />

sua tana. Alice Liddell,<br />

affascinata, gli chiese<br />

quindi di mettere la<br />

storia per iscritto.<br />

Gli ci vollero due<br />

anni ma alla fine, nel<br />

novembre 1864, con-<br />

Ambrogio Cozzi


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/a_due_voci<br />

purezza. Poche situazioni, come quelle<br />

proprie alla pedofilia o dintorni, sollecitano<br />

e mobilitano giudizi così netti, assoluti<br />

e condivisi.<br />

Eppure, appena un secolo fa, tale Sigmund<br />

Freud aveva fatto una scoperta che poi, alla<br />

prova della realtà, non era così originale.<br />

Con la sua abituale modestia, il maestro<br />

di Vienna andava dicendo che quel che lui<br />

asseriva era a perfetta conoscenza della più<br />

sprovveduta bambinaia. Inutile aggiungere<br />

che l’ipocrisia perbenista eresse subito<br />

un muro contro le sue spregiudicate tesi.<br />

Come poteva sostenere che i bambini avessero<br />

una loro sessualità? Cosa gli saltava in<br />

mente? A nulla valevano i supporti clinici<br />

che Freud esponeva in difesa delle sue tesi.<br />

La tesi che il bambino possedesse una sua<br />

economia di soddisfazione sessuale toglieva<br />

il sonno agli educatori d’ogni risma e categoria.<br />

L’idea, insomma, che il bambino non incarnasse<br />

quella sorta di figura angelica, in<br />

cui l’adulto si compiaceva di vederlo, era<br />

inaccettabile. Così, tempo fa. E oggi, invece?<br />

Qualcosa è cambiato?<br />

Le intuizioni rivoluzionarie e, in un certo<br />

senso, adultizzanti di Freud permangono<br />

tuttavia agli occhi di molti individui, specialisti<br />

compresi, come astruse, fuorvianti,<br />

addirittura nefaste. Con buona pace<br />

di Freud, il bambino è stato ricondotto a<br />

quell’icona rassicurante che sembra fatta<br />

apposta per custodire gelosamente e silenziosamente<br />

quel godimento che gli adulti<br />

(castamente?) gli rovesciano addosso.<br />

Uno dei più noti e ambigui rapporti che la<br />

storia della letteratura ricorda tra un adulto<br />

e un minore, una bambina in questo caso,<br />

fu quello tra il reverendo Charles Lutwidge<br />

Dodgson, in arte Lewis Carroll (l’autore<br />

del celeberrimo Alice nel paese delle meraviglie),<br />

e la piccola Alice Pleasance Liddell.<br />

segnò ad Alice un manoscritto rilegato in<br />

pelle intitolato Le avventure di Alice sotto<br />

terra, contenente illustrazioni curate da lui<br />

stesso e una fotografia di Alice a sette anni<br />

sul retro. Da quel momento fu allontanato<br />

dalla famiglia Liddell.<br />

Riteniamo che, per introdurre questo testo,<br />

la cosa migliore sia dare la parola all’autrice,<br />

ci si perdonerà la lunga citazione, ma crediamo<br />

che vi si possano rintracciare le ragioni<br />

e le fantasie che hanno orientato e ispirato<br />

la sua scrittura.<br />

“Alcuni anni fa, mentre vagavo per le sale<br />

dell’Art Institute of Chicago, mi imbattei in<br />

una mostra molto interessante: Dreaming in<br />

Pictures: The Photografy of Lewis Carroll.<br />

Conoscevo Lewis Carroll solo come autore del<br />

classico Alice nel Pese delle Meraviglie. Suppongo<br />

di essermelo sempre immaginato come<br />

una benevola figura paterna.<br />

Immaginate quindi la mia sorpresa, quando<br />

scoprii che le fotografie di Lewis Carroll (o del<br />

Reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il suo<br />

vero nome) erano esclusivamente immagini di<br />

ragazzine. Ragazzine in pose alquanto provocanti.<br />

Anche se apparteneva all’ingenua epoca vittoriana,<br />

quella raccolta di fotografie mi sembrò<br />

inquietante. Tra quelle immagini affascinanti,<br />

una foto spiccava in particolare. Era la<br />

fotografia di una bambina vestita in modo<br />

succint, che metteva in mostra abbastanza<br />

pelle da far sentire a disagio anche me. Ma<br />

furono gli occhi a colpirmi; scuri, scintillanti,<br />

saggi, esperti, quasi insolenti. Gli occhi di una<br />

donna.<br />

La didascalia diceva che era Alice Liddell, sette<br />

anni, figlia privilegiata del Decano Liddell del<br />

Christ Church College di Oxford, dove Dodgson<br />

insegnava matematica; era la bambina che<br />

aveva ispirato il libro che aveva scritto il Reverendo<br />

con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Un<br />

classico: Alice nel Paese delle Meraviglie.<br />

Cultura<br />

105


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/a_due_voci<br />

106<br />

Dodgson/Carroll era il terzogenito e primo<br />

maschio degli undici figli di un curato del<br />

Nord dell’Inghilterra. Legatissimo alla madre,<br />

si divertiva a giocare con le sette sorelle<br />

per le quali creò un giornalino di famiglia.<br />

Brillante logico e matematico, si fece diacono<br />

per assecondare l’insistenza paterna.<br />

Pare fosse un uomo timido, ma vanitoso.<br />

Amava le sue eccentricità, senza darsi<br />

troppa pena per gli altri. Capelli lunghi,<br />

stile effeminato, molto attento alla dieta:<br />

un salutista della prima ora. Era sordo da<br />

un orecchio, soffriva di balbuzie, incespicava<br />

sino al punto che quando parlava gli<br />

tremava tutto il labbro superiore. Per un<br />

diacono ciò non costituiva un handicap da<br />

poco, visto che lo costringeva a non predicare.<br />

Sintomaticamente, però, il disturbo<br />

spariva, quasi una magia, all’improvviso,<br />

quando parlava con le bambine. La sua<br />

gioia più grande, del resto, era quella di<br />

intrattenersi con loro. Le femmine, esclusivamente.<br />

Pare, infatti, che Charles nutrisse<br />

un vero e proprio orrore nei riguardi dei<br />

maschietti, che cercò di evitare per tutta la<br />

vita. Era attratto dai corpi delle bambine<br />

che ritraeva nude o discinte, in pose spesso<br />

equivoche, ma, ovviamente, con il permesso<br />

della mamma. Ebbe a scrivere: “Se<br />

avessi la più bella bambina del mondo da<br />

disegnare o fotografare e trovassi una sia<br />

pur modesta riluttanza (per quanto lieve e<br />

facile da superare) ad essere ritratta nuda,<br />

riterrei un solenne dovere nei confronti di<br />

Dio di lasciar cadere definitivamente la richiesta”.<br />

Simonetta Agnello Hornby ha scritto un<br />

racconto sulle ambigue passioni del nostro<br />

reverendo, dal titolo equivocamente perfetto,<br />

Camera oscura, che riporta alla fine<br />

alcune delle sue belle e celebri foto. E’ stato<br />

forse l’autore di Dietro lo specchio un Humbert<br />

Humbert, il protagonista della “Lolita”<br />

Mi domandai cosa le fosse accaduto, da grande.<br />

Mi domandai anche cosa fosse accaduto tra<br />

i due guardando quella fotografia tanto sorprendente.<br />

Pensai che poteva essere una storia<br />

interessante.<br />

Nel 1862, Charles Dodgson raccontò ad Alice,<br />

allora decenne, e alle sue due sorelle, la storia<br />

di una bambina che era caduta nella tana di<br />

un coniglio. Cosa molto insolita – perché lui<br />

aveva raccontato molte storie alle tre bambine<br />

– Alice gli chiese di scrivere proprio quella.<br />

Dodgson raccontava queste storie alle bambine<br />

perché provava una grande, bizzarra affinità<br />

nei loro confronti; lui viveva in un edificio<br />

accanto al Decanato, la dimora del Decano<br />

del Christ Church di Oxford e della sua famiglia.<br />

Nel 1863, dopo anni di cordiale frequentazione<br />

con questa famiglia, accadde qualcosa che<br />

provocò una rottura definitiva dei loro rapporti;<br />

allora Alice aveva undici anni e Dodgson<br />

trentuno. Qualche tempo dopo, la madre di lei<br />

aveva distrutto, bruciandola in un caminetto,<br />

tutta la corrispondenza intercorsa tra Alice e<br />

il Reverendo. Dopo la sua morte, i parenti di<br />

lui avevano eliminato, forse strappandole, le<br />

pagine del suo diario relative a quel periodo.<br />

Alice e la sua famiglia non parlarono più<br />

in pubblico dei rapporti intercorsi tra loro e<br />

Dodgson, se non più tardi, quando lei fu costretta<br />

a vendere il manoscritto originale di<br />

Alice nel Paese delle meraviglie per salvare la<br />

sua amata casa. Fu solamente allora che sembrò<br />

che lei fosse capace di accettare il ruolo che<br />

aveva avuto nella creazione di quel capolavoro<br />

senza età.<br />

Questa era la storia che dovevo scrivere: le<br />

avventure di Alice dopo che aveva lasciato il<br />

Paese delle Meraviglie. Mi sembrava che tutto<br />

ruotasse attorno a ciò che era accaduto tra<br />

l’uomo e la bambina prima di quella misteriosa<br />

rottura, in quello splendido pomeriggio<br />

d’estate.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/a_due_voci<br />

del grandissimo Nabokov, vittoriano? Chi<br />

può dirlo? Fu un esteta? Un artista? Un pedofilo?<br />

Si chiede la scrittrice siciliana. D’accordo.<br />

Sì, ma i bambini, anzi, le bambine,<br />

anzi, Alice. Cosa si può dire di lei?<br />

Ora, io non so cosa abbia spinto Melanie<br />

Benjamin a identificarsi in maniera così<br />

esplicita nella piccola Liddell nel suo primo<br />

romanzo, quale inconscia intuizione le sia<br />

passata per la mente. Analiticamente sarebbe<br />

interessante saperlo. Anche il suo titolo,<br />

d’altronde, parla chiaro, sembra un indizio:<br />

Sono stata Alice. Ma lasciamo perdere,<br />

non è questo il punto. Sta di fatto che, per<br />

una volta, è per il tramite di questa finzione<br />

che un’eco del complesso rapporto che una<br />

bambina può intrattenere con la sessualità<br />

trova una sua voce. Può darsi che talune<br />

espressioni risultino eccessive, adulterazioni<br />

“adulteggianti” forse esagerate, troppo<br />

romanzate, come: “Volevo essere speciale,<br />

volevo essere bellissima, volevo essere amata”.<br />

Oppure, forse, insisto sul forse, non lo<br />

sono. <strong>Il</strong> libro della Benjamin si legge piacevolmente,<br />

è ben costruito e appassionante.<br />

Non ci risparmia nemmeno l’incontro tra<br />

Alice e … Peter Pan. Se ne consiglia vivamente<br />

la lettura ai nuovi e indefessi moralisti,<br />

psicologi e magistrati in testa, impegnati<br />

nella difesa a oltranza del bambino, quasi<br />

fosse una sorta di piccolo panda in versione<br />

umana da proteggere dal mondo. O, più<br />

realisticamente, dai loro fantasmi.<br />

Non sono una storica, non sono una studiosa<br />

di Lewis Carroll; di quelli ce ne sono molti,<br />

e questa non è la sua storia. Non ho alterato<br />

i fatti noti della vita di Alice, con l’eccezione<br />

dell’ultima fotografia fatta da Dodgson quando<br />

lei era una giovane donna; questa, in realtà,<br />

fu scattata quando Alice aveva diciotto<br />

anni, quindi prima del periodo in cui il Principe<br />

Leopold visse a Oxford.<br />

Ma che dire di quella rottura? Cosa avvenne<br />

realmente in quel pomeriggio d’estate da portare<br />

a una frattura così definitiva tra Dodgson<br />

e Alice? Come romanziera, quello era il mio<br />

regalo più grande. Perché nessuno – né Dodgson,<br />

né Alice, né sua madre, né le sue sorelle<br />

– ne ha mai parlato pubblicamente, se non<br />

per un interessante accenno in una lettera ad<br />

Alice da parte di sua sorella Ina, poco prima<br />

della loro morte. Ci furono delle chiacchiere,<br />

naturalmente, perché Oxford era famosa<br />

per i suoi pettegolezzi. Ma quello, uno degli<br />

eventi principali della vita di Alice – forse il<br />

più importante – rimane tuttora avvolto delle<br />

congetture.<br />

Tuttavia, il fatto più importante che si conosce,<br />

è stato sviluppato in un’opera di fantasia:<br />

un piccolo volume, ancora oggi un classico<br />

della letteratura, Alice nel Paese delle Meraviglie.<br />

Questo è ciò che rimane; questo è ciò<br />

che, credo, la stessa Alice avrebbe voluto che<br />

rimanesse.<br />

Spero che la sua storia vi sia piaciuta”<br />

Cultura<br />

107


libri<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/<br />

a cura di Ambrogio Cozzi<br />

108<br />

Scelti per voi<br />

libri, cinema, musica<br />

Giovanna Spagnuolo<br />

(a cura di)<br />

Intercultura<br />

e formazione.<br />

I lineamenti teorici<br />

e le esperienze<br />

Franco Angeli, Milano<br />

2010<br />

pp. 144, p. € 17,00<br />

<strong>Il</strong> volume si colloca su<br />

un percorso già felicemente avviato dalla<br />

Curatrice con la pubblicazione de <strong>Il</strong> magico<br />

mosaico dell’intercultura. Teorie, mondi,<br />

esperienze (Franco Angeli, 2007) in cui la<br />

criticità del binomio intercultura/formazione<br />

veniva sottolineata non solo in tutta<br />

la sua dirompente problematicità, bensì<br />

nell’ottica propositiva di far emergere la<br />

sfida che la globalizzazione pone a ciascuno<br />

di noi, in termini di adesione attiva e<br />

partecipe alla nuova società, che si profila<br />

sempre più chiaramente all’orizzonte in<br />

questo Terzo Millennio.<br />

L’approccio intenzionalmente perseguito<br />

dalla curatrice è interdisciplinare,<br />

con lo scopo di permettere un confronto<br />

approfondito sulla complessità<br />

del tema trattato, ovvero la necessità di<br />

preconizzare una forma di “cittadinanza<br />

europea”, che non pare ancora ben<br />

teorizzata e compiuta, così come l’idea<br />

di una “identità ed appartenenza” europea,<br />

che possa essere fondata su alcuni<br />

elementi comuni.<br />

I quattordici saggi che compongono il<br />

volume sono razionalmente suddivisi in<br />

tre parti distinte che si completano sinergicamente.<br />

Nella prima sezione, “Gli<br />

scenari”, si ragiona approfonditamente<br />

su parole-chiave di grande respiro teorico<br />

come i diritti umani, il dialogo e l’inclusione<br />

sociale, con l’esplicita finalità<br />

di far emergere un contesto eticamente<br />

alto al quale ogni modello comportamentale<br />

debba essere rapportato. Ne “I<br />

lineamenti teorici” gli autori mettono<br />

in esplicito rilievo la questione educativa<br />

come sfida per il futuro e come base<br />

per la costruzione di un’identità comune<br />

costruita sulla tolleranza, sul rispetto,<br />

nonché sul reciproco riconoscimento.<br />

Nella sezione dedicata a “Le esperienze”,<br />

si descrivono le buone prassi tratte<br />

da contesti assai differenziati: si tratta di<br />

esempi che denotano come si possa fare<br />

intercultura dando corpo e sostanza ai<br />

principi e agli ideali che siamo forse abituati<br />

a pensare come meramente teorici<br />

e, talvolta, privi di una specifica adattabilità<br />

ad ambiti nuovi o inusuali.<br />

Forti e giustamente sottolineate sono<br />

le criticità nello sforzo di costruire una<br />

nuova cittadinanza: se, infatti, la Comunità<br />

Europea pare procedere senza<br />

intoppi di sorta, nel suo sviluppo sul<br />

piano istituzionale ed economico, non<br />

altrettanto chiara sembra la volontà di<br />

edificare una “casa comune” sotto il<br />

profilo civico e culturale. In aggiunta,<br />

da molti saggi pare evidenziarsi una sorta<br />

di cahier de doléances che riguarda<br />

la scuola: se da una parte si sottolinea<br />

come la scuola sia l’unico luogo che può<br />

avere tutte le potenzialità richieste ad<br />

un ente di socializzazione, è altrettanto<br />

vero come sia carente la formazione e<br />

l’aggiornamento dei docenti sulle tematiche<br />

dell’intercultura. Altrettanto chiara<br />

è la necessità di transitare da un multiculturalismo<br />

ingannevole e a rischio<br />

di emarginazione culturale per coloro


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

che restano ai margini, ad un sincero<br />

atteggiamento interculturale, basato su<br />

un pensiero critico, aperto, alieno dai<br />

pregiudizi e dalle facili mistificazioni.<br />

Dunque un volume ricco di suggestioni,<br />

di aperture conoscitive, stimolante per<br />

la fiducia che la positività degli esempi<br />

proposti garantiscono a chi si avventura<br />

nel complesso “viaggio culturale”, come<br />

ben afferma la curatrice (pp. 9-10), un<br />

iter che deve diventare cammino condiviso<br />

per coloro che, a tutti i livelli, hanno<br />

il delicato compito di fare formazione<br />

con le generazioni che edificheranno<br />

la società del futuro.<br />

Antonella Cagnolati<br />

Francesco Berto,<br />

Paola Scalari<br />

Padri che amano<br />

troppo. Adolescenti<br />

vittime di attrazioni<br />

fatali<br />

La meridiana,<br />

Molfetta, 2009<br />

pp. 128, p. € 14,00<br />

Padri che amano<br />

troppo: ma cosa vorrà<br />

dire realmente “amare troppo”? <strong>Il</strong><br />

titolo si propone con un ossimoro che<br />

incuriosisce, ma al contempo inquieta.<br />

Amare è un termine dal sapore tutto al<br />

positivo, che difficilmente può essere<br />

concepito come un qualcosa di erroneo,<br />

di eccessivo, di nocivo. Troppo è un avverbio<br />

che suona come un rimprovero,<br />

che ci mette in guardia e ci ricorda il<br />

naturale equilibrio delle cose.<br />

E’ proprio da questo sottile tranello iniziale<br />

che il libro di Francesco Berto e<br />

Paola Scalari ci conduce dentro le storie<br />

di padri dei nostri giorni, così diversi,<br />

ma così uguali a quelli di qualche anno<br />

fa, alle prese con i loro figli adolescenti e<br />

con le loro paure, le loro contrazioni, le<br />

loro insicurezze e i loro eccessi.<br />

<strong>Il</strong> libro ci introduce subito alla consapevolezza<br />

che mai come in questi anni,<br />

di rivoluzione sociale, il ruolo del padre<br />

ha dovuto cambiare volto e reinventarsi:<br />

non sta più, severo osservatore, sullo<br />

sfondo della scena della vita dei figli che<br />

crescono; non è più l’unica fonte di sostentamento<br />

per la famiglia; non incute<br />

più quella sacra riverenza che mantiene<br />

le distanze; non è più l’uomo tutto d’un<br />

pezzo, saldo e difficilmente perturbabile.<br />

<strong>Il</strong> mutamento triangolare che caratterizza<br />

i nostri giorni ci porta quindi faccia<br />

a faccia con questi nuovi uomini, che<br />

si trovano in diretta e violenta relazione<br />

con i loro figli senza avere, per varie<br />

vicissitudini di vita, la protezione e<br />

la complicità della donna, di colei che<br />

materialmente ha dato alla luce il bambino<br />

e che storicamente deve fondersi<br />

e distaccarsi da lui per permettergli di<br />

crescere come individuo affettivamente<br />

autonomo.<br />

E da questa nuova figura di padre che<br />

quasi si reinventa madre, nascono le<br />

storie di questo libro che ci mettono in<br />

prima linea spettatori di realtà tanto inquietanti<br />

quanto quotidiane di padri e<br />

figli vittime della loro esistenza.<br />

In un continuum, che va dalla “soffice”<br />

storia di Rocco alla straziante vicenda<br />

di Veronica, ci sfilano davanti le vite di<br />

ragazzi e ragazze, alle prese con la loro<br />

fatica di crescere, con tutte le loro paure<br />

e inadeguatezze dove l’incontro o lo<br />

scontro con il padre rende questo già<br />

difficile processo ancora più esasperato.<br />

Ed è così che in una solida cornice spaziale,<br />

che si concretizza in Venezia e i<br />

suoi dintorni, tanti nomi di ragazze e<br />

Cultura<br />

109


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

110<br />

tanti nomi di ragazzi si rincorrono tra<br />

le pagine drammaticamente appassionanti<br />

di questo libro, e i loro padri e<br />

le loro storie tutte diversamente così<br />

invischianti ne disegnano quello che ci<br />

appare come un ineluttabile destino.<br />

… Ed è proprio nell’ultima storia,<br />

quando anche noi ci troviamo in volo<br />

a mezz’aria con la protagonista, che nelle<br />

sue parole troviamo un’imbarazzante<br />

via di uscita che sembra vanificare quella<br />

sensazione soffocante, quella sensazione<br />

di troppo… Veronica non dice molto…<br />

dice semplicemente “papà”.<br />

Giulia Rossetti<br />

Eugenio Rossi<br />

Paure e bisogni di<br />

sicurezza degli anziani<br />

Bruno Mondadori,<br />

Milano 2009<br />

pp. 192, p. € 15,00<br />

<strong>Il</strong> disagio evolutivo<br />

non è una prerogativa<br />

di una stagione<br />

della vita, in particolare di quella<br />

iniziale, dove esploratori senza mappa<br />

si provano quotidianamente. Tutto<br />

il tempo dell’esistenza umana, sulla<br />

scena dell’azione sociale, richiede forti<br />

capacità di adattamento e suscita<br />

continui mutamenti nei sentimenti<br />

e nell’emotività degli attori in gioco.<br />

L’evidenza scientifica prova che proprio<br />

la classe di età più anziana subisce<br />

in maniera più forte ed accentuata, a<br />

causa della maggiore vulnerabilità, le<br />

insidie e le insicurezze presenti nella<br />

vita quotidiana.<br />

Questo saggio rappresenta il felice<br />

esito di un’indagine sulla percezione<br />

della criminalità e sui bisogni di tutela<br />

individuale e collettiva degli anziani,<br />

dei Comuni dei territori a sud di<br />

Milano. L’indagine qualitativa e motivazionale<br />

ha interrogato un campione<br />

di 255 anziani sulla qualità della vita<br />

e sugli aspetti di criticità. L’indagine è<br />

importante perché rappresenta la testimonianza<br />

autentica di uno spaccato di<br />

stili di vita e di preoccupazioni reali,<br />

che, in parte e in similitudine, è stato<br />

sondato nelle due ricerche sulla vittimizzazione<br />

in Italia dall’ISTAT e da<br />

Carrer su un campione di anziani della<br />

città di Genova. Siamo all’inizio di un<br />

nuovo modo di incontrare e interpretare<br />

la realtà in cui viviamo; è uno dei<br />

primi tasselli di indagini di self-report<br />

(resoconto di sé) sull’opinione pubblica.<br />

Nessuno di noi è “nato imparato” e<br />

può arrogarsi di rappresentare i bisogni<br />

dei nostri simili. Questo lavoro afferma<br />

l’importanza di seguire una nuova<br />

strada, un nuovo metodo ecologico,<br />

per ascoltare i bisogni della gente e per<br />

fare un bagno di umiltà prima di proporre<br />

politiche sociali.<br />

<strong>Il</strong> volume parte dal presupposto che<br />

la condizione anziana misuri e produca<br />

sentimenti di paura nell’interazione<br />

sociale della vita quotidiana. Per questo<br />

sono state sondate la consistenza e la natura<br />

delle reti di amicizia, di sostegno e<br />

di protezione che circondano gli anziani<br />

e l’incidenza delle fonti di informazione<br />

televisive e della carta stampata che<br />

concorrono a formare le opinioni sulla<br />

realtà circostante. Assieme alle informazioni<br />

relative alla condizione di salute,<br />

alla scolarità ed ai mestieri patrimonio<br />

degli anziani intervistati, queste risultanze<br />

sulle reti di socializzazione sono<br />

state incrociate con una batteria di que-


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

siti sui reati realmente subiti, o a cui si<br />

è stati testimoni, o che si temono di più<br />

nella propria esistenza.<br />

Collocare il problema della sicurezza<br />

dentro i fattori relazionali e culturali<br />

dell’esistenza quotidiana degli anziani,<br />

permette all’indagine di suggerire concrete<br />

ipotesi di sviluppo della comunità,<br />

di buone prassi che possono essere prese<br />

a modello dai decisori politici nei territori<br />

considerati.<br />

Molti quesiti sondavano la qualità della<br />

vita nei Comuni considerati ed i luoghi<br />

ed i tempi quotidiani della paura.<br />

La ricerca empirica voleva approfondire<br />

le rappresentazioni sociali dell’insicurezza<br />

e la paura di vittimizzazione,<br />

comprendendone i riflessi sui comportamenti<br />

agiti nella vita quotidiana e<br />

sulle reali necessità di protezione. Questo<br />

è il vero valore aggiunto dell’indagine<br />

che affronta il punto di vista degli<br />

anziani, l’influenza della paura e i<br />

cambiamenti messi in atto nelle loro<br />

abitudini quotidiane e suggerisce, a<br />

tutti noi, un arco di bisogni concreti e<br />

di misure di protezione da realizzare a<br />

loro tutela.<br />

Anche nella parte del saggio che affronta<br />

la vittimizzazione subita, l’autore si<br />

concentra sulle conseguenze fisiopsichiche<br />

subite e sviluppate nel tempo dagli<br />

anziani e sulle ragioni che hanno motivato<br />

la denuncia o il non ricorso alla<br />

denuncia.<br />

<strong>Il</strong> libro è un punto di vista, è un racconto,<br />

è un approfondimento sull’influenza<br />

che le reti sociali hanno nel mitigare il<br />

sentimento della paura nelle interpretazioni<br />

della vita quotidiana ed è, anche,<br />

una riuscita testimonianza dei risvolti<br />

psicologici che governano la paura.<br />

Maria Piacente<br />

Codrignani Giancarla<br />

Ottanta, gli anni di<br />

una politica<br />

Editore Servitium,<br />

Fontanella di Sotto<br />

il Monte (BG), €<br />

16,00, pp. 224<br />

Due volte 80 Codrignani<br />

una signora<br />

della politica<br />

Non fosse “una delle figure più rappresentative<br />

della cultura italiana della nonviolenza”<br />

(così su Wikipedia), Giancarla<br />

Codrignani sarebbe una combattente;<br />

ma per rispetto alle sue convinzioni anche<br />

Stefano Rodotà la definisce “uno spirito<br />

indomito”. Quanto a lei, raggiunta la soglia<br />

dei suoi primi ottant'anni, tra le sue<br />

molte identità (docente, filologa, giornalista,<br />

cattolica, laica, teologa, femminista,<br />

pacifista) ha scelto quella oggi più difficile<br />

da indossare: politica. E ci gioca con autoironia<br />

nel titolo del libro che ora offre<br />

come un rendiconto alla sua città; Ottanta,<br />

gli anni di una politica (Servitium<br />

Editore) contiene, ovviamente, anche un<br />

altro gioco di parole: Ottanta è il decennio<br />

che la vide impegnata nella politica<br />

istituzionale, tre legislature in Parlamento<br />

come indipendente di sinistra. SE LA politica<br />

a Bologna non fosse quel paesaggio<br />

maciullato che è, avrebbe in Giancarla<br />

una coscienza critica: ruolo che lei s'è ritagliato<br />

comunque nel circolo di amici che<br />

riunisce da anni sotto il nome eloquente<br />

di Capire. Questo libro è un repertorio<br />

di temi che la politica va trascurando,<br />

sotto forma di antologia di articoli scritti<br />

in oltre cinquant'anni e cuciti con brevi<br />

note in un "diario in pubblico" sullo stile<br />

del suo amato Vittorini: più richiami al<br />

presente che rimpianti per il passato. Un<br />

Cultura<br />

111


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

112<br />

dizionario di argomenti che oggi sembrano<br />

avere un suono antico: cos'è la guerra?<br />

E la laicità? E l'etica? Su, chi risponde?<br />

Giancarla risponde, e le sue risposte scontentano<br />

perché non sono mai omologate.<br />

Come credente prima di tutto: cioè come<br />

laica, “perché i credenti dovrebbero essere<br />

i più laici di tutti”. Ribelle alle etichette.<br />

Cattolica di quelle che “quando il Vaticano<br />

si pronuncia, s'arrabbia più dell'ateo”.<br />

Scrivendo sul caso Englaro, confessa<br />

un amaro ricordo privato: “Nessuno mi<br />

disse che si poteva forzare la durata della<br />

macchina che aveva preso il posto del<br />

mio babbo; l'avrei certamente preteso”.<br />

Terzomondista, dice no ai Radicali quando<br />

le chiedono una firma contro la fame<br />

nel mondo, perché “anche il grano può<br />

essere usato come un'arma”. Eletta nelle<br />

liste Pci, si batte per la libertà di Sacharov.<br />

Pacifista, si aggiorna sui sistemi d'arma<br />

delle new war perché “per combattere la<br />

guerra devi conoscerla”. E ogni tanto traduce<br />

dal greco antico, cosa? Saffo, donna<br />

fra donne, il cui “amore in sé limpido viene<br />

insudiciato dall'ipocrisia della malizia”.<br />

Difficile fare i conti con Giancarla se non<br />

si accettano anche le sue utopie (nel 2008<br />

propose una “moratoria internazionale<br />

delle guerre”). Perché il libro? Per dare un<br />

piccolo rendiconto, dice lei. Ma, forse,<br />

anche perché Giancarla la pensa come la<br />

sua rimpianta amica Aura Maria Arriola,<br />

antropologa "guerrigliera" guatemalteca,<br />

che un giorno le confessò: “Se fossi stata<br />

uomo, alla mia morte qualcuno scriverebbe<br />

di me; ma sono una donna ed è meglio<br />

che provveda da sola”.<br />

Michele Smargiassi<br />

(Recensione su La Repubblica, 2 dicembre<br />

2010. Si ringrazia l'editore per l'autorizzazione<br />

alla pubblicazione).<br />

Artisti Vari<br />

No One Knows<br />

About Persian<br />

Cats: The Soundtrack<br />

Milan Records,<br />

2010, € 9,65<br />

Mohsen Namjoo<br />

Oy<br />

Stradivarius - Fabrica,<br />

2009,€ 11,93<br />

Non nutro grandi<br />

passioni per la politica,<br />

non ci riesco, è più forte di me. Mi<br />

verrebbe da dire che, quando il delirio<br />

era la norma, ivi compreso il mio ben<br />

s’intende, ho già dato. E’ una scappatoia,<br />

una risposta stupida e cialtrona,<br />

ma mi viene così, anche a sforzarmi,<br />

proprio non ci riesco. Che ci devo fare?<br />

In questa sorta di “desolation row” che,<br />

nella mia mente e nel mio cuore, tiene<br />

il posto che dovrebbe spettare alla politica,<br />

un’attenzione del tutto differente<br />

è invece riservata a quel che accade in<br />

Iran. Mi colpisce e mi addolora sinceramente<br />

la storia di quel travagliato e<br />

nobile Paese.<br />

Passato dallo Scià a Khomeni, ai mullah<br />

al delirante Al. Da una dittatura a<br />

un’altra senza che, dall’esterno, nessuno<br />

osasse alzare un dito, protestare. I contestatori<br />

professionisti, i bruciatori di<br />

bandiere, gli imbrattatori di muri, gli<br />

inventori degli slogan più trucidi, mai<br />

che abbiano proferito o proferiscano<br />

verbo quando a Teheran si massacra e<br />

s’imprigionano giovani, studenti, intellettuali<br />

o donne che osano ribellarsi. Un<br />

silenzio assordante, una latitanza imbarazzante,<br />

se si pensa alla sinistra.<br />

musica a cura di Angelo Villa


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

Quale ne è la ragione? Immagino, e se mi<br />

sbaglio mi si corregga, che non si voglia<br />

infastidire i pii musulmani, le obbedienti<br />

masse arabe. Forse, inoltre, qualcuno pensa<br />

che sostenere i sogni di libertà iraniani<br />

sia fare il gioco del capitalismo occidentale.<br />

E’ una scemenza che mi è capitato<br />

di sentire da uno che si picca di essere un<br />

alternativo. Mica uno qualsiasi!<br />

E allora? Allora, rock! Tocca ancora una<br />

volta alla musica, alla canzone dare voce<br />

alle aspirazioni, ai desideri di chi vuole<br />

esprimersi, vivere. In una parola, provare<br />

a prendersi in mano la responsabilità e<br />

il senso della propria esistenza. La cosiddetta<br />

rivoluzione di velluto di Praga,<br />

quella che portò al potere Havel, prende<br />

il suo nome da un mitico gruppo rock,<br />

i Velvet (per l’appunto) Underground.<br />

Insomma, Nico, Lou Reed e soci… E<br />

in Iran? Vi consiglio due cd che vale la<br />

pena di ascoltare. <strong>Il</strong> primo, molto bello,<br />

è la colonna sonora di un film altrettanto<br />

bello e struggente: Gatti persiani del<br />

regista Bahman Ghobadi, perseguitato<br />

dalla censura del suo Paese. Se non lo<br />

avete ancora visto, procuratevelo perché<br />

ne vale la pena. Purtroppo, il film risente<br />

del prezzo che ha dovuto pagare alla repressione<br />

del moralismo dei mullah e dei<br />

loro compagni, ma è toccante, veramente.<br />

Mostra che cosa significa cercare di<br />

fare musica pop in una dittatura che non<br />

la tollera, che la vive come una minaccia<br />

ai saldi principi morali che l’ipocrisia religiosa<br />

detta. Su un numero di qualche<br />

mese fa della rivista Indice (mannaggia,<br />

io non lo trovo più, chissà dov’è, ma voi,<br />

voi che siete abili, potete cercarlo su internet…)<br />

si trova un’ottima recensione,<br />

molto accurata ed esaustiva, del film e<br />

delle vicissitudini che ha patito il regista.<br />

<strong>Il</strong> cd è di grande qualità e varietà, rac-<br />

coglie il contributo di diversi artisti. Si<br />

parte con un brano di rap iraniano, poi<br />

si prosegue con un pezzo pop cantato in<br />

inglese e via di seguito. E’ tutta gente che<br />

sa suonare con la tecnica e con l’anima.<br />

Sarò un romantico, ma la mia preferenza<br />

va alla traccia numero sette, in cui Mirza<br />

canta “Emshab”. <strong>Il</strong> pezzo vale da solo<br />

l’intero cd. Un pezzo che strappa il cuore,<br />

non ho aggettivi a cui ricorrere.<br />

Spegnete la luce, create il silenzio intorno<br />

a voi, alzate il volume e lasciate che<br />

la sua musica vi entri dentro, regalandovi<br />

una sensazione d’intensità rara, unica.<br />

E’ il miracolo che una canzone può<br />

produrre. Voi dite: non comprendiamo<br />

le parole. Lo so, rispondo, ma non importa.<br />

Ve lo assicuro.<br />

<strong>Il</strong> secondo cd, invece, è quello di Mohsen<br />

Namjoo, detto il Dylan persiano,<br />

e si chiama “Oy”. Trascinante il brano<br />

d’apertura che sfuma riprendendo addirittura<br />

“Bang bang” di Sonny & Cher.<br />

C’è poi anche una bella versione di “Cielito<br />

lindo”. Insomma, la musica gira, passa<br />

le frontiere, circola nelle fessure che apre<br />

nei muri. Non ama le cupe barbe dei pruriginosi<br />

mullah, le sentenze fascistoidi di<br />

deliranti imam, … Dimenticavo, un’eccezione.<br />

Avevo già scritto queste note,<br />

quando mi è capitato di vedere, una domenica<br />

sera alla televisione, le immagini<br />

di giovani iraniani picchiati, brutalizzati.<br />

In sottofondo passava una canzone partigiana:<br />

“Bella ciao”. La rete era la Sette, il<br />

programma “Niente di personale”, mi ha<br />

commosso, emozionato. Ascoltate i “gatti<br />

persiani” o Namjoo. Sarà il rock e non la<br />

bellezza, come supponeva il grande russo,<br />

a salvare il mondo? Chissà? Rock on …<br />

Un riff seppellirà i mullah fascistoni e i<br />

loro feroci e stupidi servitori!<br />

Angelo Villa<br />

Cultura<br />

113


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

cinema<br />

a cura di Cristiana La Capria<br />

114<br />

Una vita tranquilla<br />

di Claudio Cupellini<br />

Germania, Francia,<br />

Italia 2010<br />

Produzione Acaba<br />

Produzioni,<br />

Babe Film, EOS<br />

Entertainment,<br />

Hofmann & Voges<br />

Entertainment GmbH<br />

Chi è 'o bbuono e chi è 'o malamente?<br />

Bisogna approvare la bellezza di questo<br />

film, che suggerisco a tutti gli adulti che<br />

vogliono vedere meglio.<br />

Dai fotogrammi passano attraverso gli<br />

occhi innumerevoli e pressanti questioni<br />

che tutte le si vorrebbe sviscerare ma<br />

che, per motivi logistici, qui riduciamo<br />

a due: il limite tra legale e illegale, il potere<br />

educativo nella distanza.<br />

La prima sequenza apre su una radiografia<br />

ravvicinata delle vene di un tronco<br />

d’albero; man mano che la ripresa si allontana<br />

l’albero appare sempre più alto,<br />

circondato da altri alberi a formare una<br />

immensa foresta tedesca. Una costruzione<br />

in pietra spunta da una radura, si<br />

legge “da Rosario”, tipica insegna di ristorante.<br />

Ancora più dentro, nei locali<br />

della cucina, vediamo armeggiare con le<br />

pentole lui, Rosario, cioè lo chef, intorno<br />

a cui ruotano una serie di assistenti,<br />

oltre alla moglie e al giovane figlio. Fin<br />

qui ci conducono le inquadrature, una<br />

musica d’acciaio e poche parole. Ma chi<br />

è quest’uomo? Che dà nutrimento agli<br />

umani con la sua cucina e però devitalizza<br />

gli alberi con chiodi iniettati nel tronco?<br />

Che urla aggressivo contro i dipendenti e<br />

accarezza la guancia del figlio?<br />

Le anomalie del comportamento restano<br />

confezionate dai nastrini tipici di<br />

una “vita tranquilla”: un lavoro onesto,<br />

una bella casa, una brava famiglia. Ma<br />

una delle solite mattine, mentre Rosario<br />

sta per colmare i piatti di prelibatezze<br />

alla tavola dei suoi ospiti, qualcuno<br />

fuori dalla finestra calamita il suo<br />

sguardo che, come un fuori campo, un<br />

fuori pasto si insinua velenoso nella sua<br />

tranquillità: è il figlio maggiore, Diego.<br />

Questo figlio, rimasto a Napoli insieme<br />

al resto della sua vita passata, gli riporta,<br />

fino in Germania, il ricordo dei suoi<br />

trascorsi di uomo “malamente” che si è<br />

sporcato di crimini e delitti.<br />

Più impacchettiamo rigidamente con<br />

carta colorata l’uovo di Pasqua della nostra<br />

vita rinnegata, più quella carta tende<br />

a stropicciarsi e a mostrare le brutture<br />

nascoste. Lui, Rosario, è un pentito<br />

che se l’e svignata dal posto in cui viveva,<br />

ha messo chilometri di distanza e di<br />

tempo tra il proprio sé cattivo e il proprio<br />

sé ripulito. Nulla può ostacolare il<br />

suo percorso riabilitativo verso una vita<br />

calma, composta, senza sbalzi emotivi,<br />

rispettabile, tranquilla appunto. Nulla<br />

e nessuno. Neppure il figlio. Che, rigorosamente,<br />

ha imitato l’attitudine criminale<br />

del papà cattivo; è diventato un<br />

malvivente, uno della camorra, uno che<br />

ammazza la gente.<br />

Ha ripetuto la disposizione del padre,<br />

anche se questo padre non lo vedeva da<br />

anni, anche se questo padre aveva annullato<br />

ogni indizio di malvivenza dai<br />

suoi documenti personali. O proprio<br />

per questo. Per questa lontananza e per<br />

allentarne gli effetti dolorosi, il figlio<br />

emula il padre. Non si sottrae alle pressioni<br />

di quel sistema diabolico che lo<br />

seduce, si fa prendere all’amo e diventa<br />

criminale. <strong>Il</strong> potere educativo del padre<br />

a distanza è tanto. Quando sorprende


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/scelti_per_voi<br />

da lontano il figlio nel bel mezzo di un<br />

gesto omicida, gli basta gridare “Diego”<br />

per pietrificare la mano del giovane con<br />

la pistola. <strong>Il</strong> figlio, in quel momento,<br />

non uccide. Ma il padre, dopo, si. Colpisce<br />

a morte il delinquente amico del<br />

figlio, quello che minaccia la sua vita<br />

tranquilla, lo fa senza un centimetro di<br />

rimorso. Impone al figlio di non uccidere<br />

ma lui uccide, eccome, per preservare<br />

la sua vita da ex-assassino. Tra i due<br />

criminali, tra il padre pentito e il figlio<br />

militante, chi è il buono e chi è il malamente?<br />

Sullo sfondo metallico di un paesaggio<br />

severo, fasci di sguardi densi emanano<br />

bagliori di passioni contraddittorie che<br />

ci risucchiano gli occhi dentro al loro<br />

pericoloso perimetro. E quando ne<br />

veniamo fuori non siamo più uguali a<br />

prima.<br />

Cristiana La Capria<br />

Cultura 115


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/<br />

ARRIVATI_IN_REDAZIONE<br />

116<br />

Adinolfi Isabella, Galzigna Mario (a cura di),<br />

Derive. Figure della soggettività.<br />

Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2010, pp. 339, € 20,00<br />

Rispetto ai saperi codificati e alle discipline accademiche consolidate, il percorso<br />

a più voci che qui presentiamo - l’erranza, il libero vagabondaggio lungo i<br />

più svariati profili della presenza - assume i caratteri di un movimento creativo<br />

e proteiforme. L’ambigua e poliedrica complessità semantica del termine “deriva”,<br />

perennemente in bilico tra il normale e il patologico, viene qui messa<br />

in gioco per mettere a fuoco la vasta gamma di significati e di sfumature che<br />

caratterizzano alcuni stati d’animo ed alcune esperienze soggettive: la malinconia,<br />

il furore, la disperazione, l’angoscia, la noia, la tristezza, la solitudine,<br />

l’ossessione...<br />

Cruz Manuel<br />

I brutti scherzi del passato.<br />

Identità, responsabilità, storia<br />

Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 164, € 18,50<br />

Tema centrale del libro è la memoria: l'autore esprime forti riserve contro<br />

l'eccesso di memoria che affligge il nostro tempo, contro quella che definisce<br />

un’industria della nostalgia. <strong>Il</strong> rapporto con il passato è materia molto delicata:<br />

il ricordo non è mai innocente. <strong>Il</strong> risultato è che il presente viene svuotato<br />

di contenuto, l'idea di futuro è scomparsa dal nostro campo visivo, ci si rivolge<br />

sempre più al passato come se non rimanesse altro progetto possibile che<br />

conservare il meglio di ciò che è stato. Di fronte a questi guasti e ai pericoli<br />

della malinconia e del rimpianto, Manuel Cruz rivendica come necessarie<br />

l'autonomia e la funzione critica della memoria…<br />

Edoardo Boncinelli, Michele Di Francesco<br />

Che fine ha fatto l'io?<br />

Editrice San Raffaele, Milano 2010,<br />

pp 208, € 19,50<br />

Chi è il colpevole? Forse una pigrizia mentale che ci spinge a non discutere<br />

i paradigmi del quotidiano. Forse una cultura ingessata su concetti divenuti<br />

dogmi. L’io oggi è scontato al punto che nel nostro immaginario non c’è<br />

scampo al farvi ricorso. Ma siamo sicuri che “io” voglia dire la stessa cosa<br />

anche solo da un giorno all’altro? Come ricostruiamo ciò che ci permette<br />

di avere un’identità, di essere riconoscibili ai nostri stessi occhi, di spiegare i<br />

nostri comportamenti, di assumerci responsabilità e, in sostanza, di dire “io”?<br />

Un filosofo della mente e un biologo si incontrano e si scontrano su un nodo<br />

concettuale ineludibile, nella speranza di gettarvi un po’ di luce sull’enigma.<br />

Crepet Paolo (a cura di)<br />

Perché siamo infelici<br />

Einaudi, Torino 2010, pp. 184 , € 15,50<br />

Le abbiamo dato nel corso dei secoli i nomi più diversi: malinconia, depressione,<br />

angoscia, pena, tristezza... Abbiamo tentato di esorcizzarla, di conviverci,<br />

di narcotizzarla, di addomesticarla o di farne una malattia da curare.<br />

Alcuni sono riusciti a farne la compagna di una vita, altri sono usciti sconfitti<br />

nel tentativo di negarla, altri ancora sono in cerca di consolazione. L'infelicità<br />

abita da sempre nel cuore dell'essere umano. Mai però come in questi<br />

anni la farmacologia è stata cosi invadente nel tentativo di appropriarsene per<br />

neutralizzarla. Ma siamo certi che l'infelicità sia una malattia?


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/arrivati_in_redazione<br />

Legrenzi Paolo<br />

Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze<br />

il Mulino, Bologna 2010, pp. 148, € 10,00<br />

"Stupido è chi lo stupido fa", diceva Forrest Gump. Per Carlo M. Cipolla invece<br />

gli stupidi esistono davvero: sono una categoria di persone dalle caratteristiche<br />

inconfondibili e incorreggibili. Purtroppo, sostiene Paolo Legrenzi, la<br />

stupidità non è assenza di intelligenza e può colpire chiunque, anche le persone<br />

dotate di un quoziente di intelligenza superiore. Quali sono allora le trappole<br />

cognitive e le circostanze sociali che ci inducono a commettere una sciocchezza<br />

di cui poi ci pentiremo? E quanto conta il giudizio degli altri? Legrenzi racconta<br />

cosa hanno da dirci le scienze cognitive alla luce di alcuni casi storici ed episodi<br />

di cronaca…<br />

Bruno Moroncini<br />

Sull'amore.<br />

Jacques Lacan e il Simposio di Platone<br />

Cronopio, Napoli 2005, pp.170, € 15,00<br />

Dopo quella freudiana, l'interpretazione del Simposio di Platone offerto<br />

da Jacques Lacan al fine di tematizzare da un punto di vista psicoanalitico<br />

il desiderio erotico, è senza ombra di dubbio la più profonda e articolata.<br />

Questo libro ripercorre il commento lucido e appassionato che nel seminario<br />

sull'amore da transfert del 1960-61 Lacan dedica all'opera platonica per<br />

porre in evidenza da un lato l'originalità della lettura lacaniana del Simposio<br />

e dall'altro l'apporto tutt'altro che marginale che essa offre agli studi di di<br />

filosofia antica per un'interpretazione del dialogo platonico.<br />

Llonto Pablo<br />

I mondiali della vergogna. I campionati<br />

di Argentina '78 e la dittatura<br />

Edizioni Alegre, Roma 2010, pp. 223, € 15,00<br />

Durante i campionati del mondo del 1978 successe di tutto. Eppure Argentina<br />

78 sarà il momento di maggior popolarità della dittatura Videla. Dalle simpatie<br />

comuniste dell'allenatore Menotti, alla finale con l'Olanda, il libro ripercorre i<br />

principali eventi sportivi che riempirono d'orgoglio il paese insieme ai tentativi<br />

di boicottaggio del Mondiale e alle azioni di guerriglia dei montoneros. Un libro<br />

che affronta le responsabilità collettive della società argentina nell'occultamento<br />

della realtà, e che dimostra come l'innocenza sportiva e i suoi festeggiamenti si<br />

convertono spesso in appoggio ai governi, anche ai più sanguinari.<br />

Naranjo Claudio<br />

La civiltà, un male curabile<br />

Franco Angeli, Milano 2007, pp. 144, € 16,50<br />

<strong>Il</strong> malessere di quella che definiamo "civiltà" ha radici nella civiltà stessa, che<br />

si identifica con l'organizzazione patriarcale della società e della. La "civiltà"<br />

si presenta come una reazione patologica degli esseri umani a una condizione<br />

traumatica di un lontano passato e attualmente non risulta essere più funzionale.<br />

Naranjo propone che solamente l'educazione possa avere il potere<br />

di capovolgere il corso della storia e operare una reale trasformazione. Sulla<br />

base di questa convinzione, propone un modello educativo alternativo che<br />

promuova lo sviluppo psico-spirituale dell'individuo e che lo renda capace di<br />

cooperare ad una necessaria evoluzione sociale.<br />

Cultura<br />

117


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/arrivati_in_redazione<br />

118<br />

Umberto Merli Zuccardi, Fabio Tognassi<br />

<strong>Il</strong> bambino iperattivo. Dalla teoria alle pratiche della cura<br />

Franco Angeli, Milano 2010, pp. 192, € 23,00<br />

L'applicazione della psicoanalisi al sintomo dell'iperattività nasce dal desiderio<br />

di confrontarsi con il disagio infantile contemporaneo che altera l'ingresso del<br />

bambino nel legame sociale. Contro il sintomo si tenta di opporre strategie di<br />

controllo del comportamento e del pensiero e una farmacoterapia prolungata<br />

nei casi più gravi. La prospettiva teorica e clinica degli autori di questo libro<br />

propone invece una lettura dell'iperattività che ha qualcosa che riguarda il suo<br />

legame con l'altro. Se la mente è un organo sociale, anche la sua cura può<br />

passare dal sociale…<br />

Luisella Mambrini<br />

Lacan e il femminismo contemporaneo<br />

Quodlibet, Macerata 2010, pp. 152, € 18,00<br />

Jacques Lacan ha operato una rivoluzione nella teoria e nella clinica rispetto<br />

al tema della femminilità. Per Lacan la donna non è la madre, ma le si apre<br />

un orizzonte che va al di là dell'Edipo. Oggi, che Lacan non è più coperto<br />

da interdizione, ma assurge a interlocutore negli scritti di molte femministe,<br />

si può davvero dire che la sovversione del suo approccio sia stata colta? E<br />

che cosa viene espresso nei confronti di Lacan dalle due posizioni "tipo" nei<br />

confronti della femminilità e cioè dall'approccio essenzialista, che guarda alla<br />

femminilità come essenza irriducibile, e da quello costruzionista, che guarda<br />

al genere come costruzione simbolica?<br />

José Bleger<br />

Simbiosi e ambiguità.<br />

Studio psicoanalitico<br />

Armando Editore, Roma 2010, pp. 382, € 30,00<br />

Un'opera ricca di esemplificazioni cliniche di personalità narcisistiche o<br />

borderline e incentrata sullo studio della parte psicotica della personalità, che<br />

evidenzia i fenomeni della dissociazione (clivaggio). Dall'osservazione dello<br />

psicoanalista alle prese con la parte psicotica della personalità nel transfert e<br />

nel controtransfert, Bleger estrapola alcune indicazioni che ampliano la teoria<br />

delle personalità ambigue.<br />

Erbetta Antonio (a cura di)<br />

Decostruire formando.<br />

Concetti pratiche orizzonti<br />

Ibis Edizioni, Como-Pavia 2010, pp. 142, € 15,00<br />

<strong>Il</strong> volume si articola su tre livelli di analisi. In primo luogo sui presupposti<br />

teorici della critica radicale come metodo di formazione pedagogica. In<br />

secondo luogo sulla definizione di una specifica e originale metodologia che<br />

consente di sperimentarlo nelle diverse situazioni operative. In ultimo sulla<br />

descrizione/interpretazione dei tre campi di applicazione in cui si mettono in<br />

gioco le diverse professionalità pedagogiche. Concepito come modello d'intervento<br />

educativo, il testo si presenta in forma di strumento/guida per coloro<br />

che intendono agire secondo una prospettiva che lega in maniera radicale<br />

il tema della formazione all'analisi dei processi culturali e sociali.


<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/in_breve<br />

In ricordo di Antonio Erbetta<br />

Antonio Erbetta (La Spezia, 1949) è stato professore ordinario di Storia dell’educazione<br />

europea nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Torino, tenendo anche<br />

l’insegnamento di Storia della Filosofia. Per un decennio Vicedirettore del «Centro Internazionale<br />

di Studi Italiani» dell’Università di Genova, per il quale ha tenuto i corsi di Storia delle Idee,<br />

è stato altresì condirettore di «Encyclopaideia», la rivista di fenomenologia pedagogia e formazione<br />

fondata e diretta da Piero Bertolini. Ha coordinato alcune collane per diverse case editrici.<br />

Era fondatore e direttore di «Paideutika. Quaderni di formazione e cultura». Studioso attento,<br />

in particolare, al significato formativo dell’esperienza morale, sia nelle sue risonanze esistenziali,<br />

sia nei suoi risvolti etico-politici, si è sempre occupato di filosofia dell’educazione e di storia<br />

delle idee educative. Centrali i suoi studi su Banfi, Gentile, Nietzsche, Simmel. Collaboratore<br />

di molte Riviste nazionali e internazionali di filosofia e di scienze dell’educazione, ha pubblicato<br />

oltre venti volumi. Tra i più recenti: <strong>Il</strong> tempo della giovinezza (La Nuova Italia, 2001); <strong>Il</strong> corpo<br />

spesso (Utet Libreria, 2001); Senso della politica e fatica di pensare (Clueb, 2003); In forma<br />

di tragedia (Utet Libreria, 2004); L’educazione come esperienza vissuta (Tirrenia Stampatori,<br />

2005); Pedagogia e nichilismo (Tirrenia Stampatori, 2007); L’umanesimo critico di Antonio<br />

Banfi (ed., Anicia, 2008); Decostruire formando. Concetti pratiche orizzonti (Ibis, 2010).<br />

Su <strong>Pedagogika</strong>.it, della quale è stato, ancor prima che membro del comitato scientifico,<br />

amico, ha pubblicato diversi articoli.<br />

Ci piace ricordare il suo splendido e lucido “Elogio del conflitto formativo” (<strong>Pedagogika</strong>.it,<br />

Anno VIII, numero 5, pagg. 26-37), seguito dai contributi, sullo stesso tema, di<br />

Silvano Calvetto ed Elena Madrussan.<br />

Di seguito riportiamo, quale segno della nostra affettuosa stima, un breve quanto attuale stralcio<br />

di un suo intervento ad un Convegno, “Alla ricerca del tempo vissuto”, svoltosi a Landriano<br />

(PV) nel 2004: “.... Sentiamo che il silenzio ha un prezzo e che mettere in discussione le premesse<br />

apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere e, aggiungerei, di educare, può essere considerato<br />

il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri, contrastando<br />

l'individualismo che si è insinuato nelle persone, nelle relazioni sociali, negli stili di vita e di pensiero<br />

e di cui non ci siamo accorti in questi anni. A questo individualismo assunto come paradigma<br />

della modernità ci siamo un po' tutti subalternamente piegati; la crisi dei luoghi di riproduzione<br />

sociale, delle identità collettive, della politica come passione civile, hanno fatto poi il resto. Un antidoto<br />

può essere, è, il narrare ed il narrarsi poiché la memoria è un diritto per le giovani generazioni<br />

ed un dovere per noi adulti se vogliamo che ragionare d'infanzia sia, ancora una volta scommettere<br />

sul futuro, giacché interrogarsi sull'infanzia è, da parte di noi adulti un rispondere ad un'ansia<br />

conoscitiva che il futuro appunto vuole prefigurare con l'ottimismo della ragione; perché essere<br />

qui insieme vuol dire resistere alla lusinga di accettare l'esistente per quello che è: immodificabile<br />

perché difficile da interpretare e da leggere nei suoi segni contraddittori e complessi”.<br />

Un ricordo, infine, tutto personale: a margine e conclusione di un convegno, qualche<br />

anno fa a Torino, sul conflitto formativo e nel contesto di un pranzo a cui, tra gli altri, partecipavano<br />

Elena Madrussan, Roberto Farné, Angela Nava Mambretti, ci siamo accaniti,<br />

stimolati da Antonio, per oltre tre ore a ragionare sulla figura di Giovanni Gentile e sul suo<br />

ruolo e peso nella storia dell'educazione italiana. Indimenticabile la passione e la competenza<br />

di Antonio e per me uno stimolo ad andare a rileggere, depurandolo dalla passione<br />

politica, i testi di un autore che, forse un po' troppo semplicisticamente, avevo archiviato<br />

tra i cattivi maestri del fascismo.<br />

Salvatore Guida<br />

in_breve<br />

In breve 119


in_vista<br />

<strong>Pedagogika</strong>.it/2011/XV_1/cultura/in_vista<br />

120<br />

Rovereto Musei per le scuole<br />

Mart Rovereto e Casa d'Arte Futurista<br />

Depero, Museo Civico, Museo<br />

Storico Italiano della Guerra e Fondazione<br />

Opera Campana dei Caduti<br />

Le esperienze, i temi e le attività dei<br />

Musei di Rovereto si abbinano per<br />

costruire percorsi alla scoperta delle<br />

mille sfaccettature della nostra realtà,<br />

tra arte, storia, natura e scienza.<br />

E' possibile concordare una o più<br />

giornate didattiche con esperienze<br />

suddivise tra il Museo Civico e gli<br />

altri musei cittadini, studiando interazioni<br />

tra scienza, storia e arte.<br />

I musei inoltre in collaborazione con<br />

l'Azienda per il Turismo di Rovereto<br />

e Vallagarina propongono viaggi<br />

d'istruzione per le scuole ed educational<br />

tour per insegnanti.<br />

<strong>Il</strong> Museo Civico di Rovereto ha<br />

attuato una strategia di "musealizzazione<br />

diffusa" che l'ha portato a<br />

muoversi con efficacia sul territorio,<br />

varcando i confini istituzionali delle<br />

sale museali.<br />

Un museo insolito, vivo e in movimento,<br />

che vuole accompagnare alla<br />

scoperta di un territorio straordinariamente ricco tutti coloro che intendono<br />

fare del proprio tempo libero occasione di conoscenza intelligente.<br />

Museo Civico di Rovereto | Borgo Santa Caterina, 41 - 38068 Rovereto (TN)<br />

Italy | Tel. +39 0464 452800 - Fax +39 0464 439487 - E-mail museo@museocivico.rovereto.tn.it


Di prossima uscita<br />

a cura di Barbara Mapelli, Lucia Portis, Susanna Ronconi<br />

Molti modi di essere uniche<br />

Percorsi di scrittura di sé<br />

per re-inventare l’età matura<br />

Collana POLIS<br />

Le donne che sono state giovani negli anni ’60 e ’70<br />

hanno dato vita a una radicale rivoluzione di genere.<br />

Rotture, conitti, cambiamenti e alternative che<br />

hanno aperto e frantumato quel bozzolo in cui le vite<br />

delle donne sino ad allora erano state chiuse.<br />

Oggi, dopo quella rivoluzione, queste donne si<br />

trovano a dover re-inventare la propria seconda età<br />

adulta, ad andare verso la vecchiaia in assenza di<br />

modelli. Come stanno vivendo questo transito d’età?<br />

E come stanno costruendo il loro futuro? Questo<br />

libro racconta la ricerca di nuove risposte a questa<br />

domanda da parte di 125 donne che hanno<br />

interrogato se stesse scrivendo di sé e ascoltando le<br />

scritture delle altre in 11 laboratori autobiograci.<br />

a cura di Eugenio Rossi<br />

Ragazzi che educano ragazzi<br />

Un intervento di peer education<br />

per la riparazione del disagio evolutivo<br />

Collana <strong>Pedagogika</strong><br />

Questo saggio impatta con un paradigma classico e apparentemente<br />

inconfutabile dei processi educativi: la trasmissione del sapere e delle<br />

competenze relazionali avviene nello scambio tra generazioni di simboli<br />

sociali ed i loro contenuti. Pur condividendo la logica ed intrinseca<br />

correttezza di questo evidente assunto, il libro prova ad aggirare il<br />

paradigma inconfutabile, raccontando di ragazzi che educano altri<br />

ragazzi e dell’efcacia dell’inuenza sulle opinioni collettive che alcuni<br />

giovani esercitano perché gli altri amici di pari età si dano di loro.<br />

mail: pedagogika@pedagogia.it

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