Tòno invece era basso, tarchiato, e quando parlava di cose che non fossero sementi, trattori o ortaggi, spesso “inciampava”, e si metteva a tartagliare. Allora stava un attimo in silenzio, poi tirava un mòccolo secco come un colpo di tosse che gli rimetteva a posto l’eloquio. La voglia di donne se la levava a pagamento, tutte le volte che andava in città al Consorzio per fare acquisti. La rivincita la prendeva con il vino. Se a Reno gli veniva aspro, troppo forte, che dopo un paio di bicchieri di troppo ti veniva mal di testa per due giorni, quello di Tòno invece era buonissimo, profumato, forte il giusto. Anche se una sera esageravi un po’, la notte poi dormivi bene e la mattina dopo ti alzavi come se niente fosse. Quando mi toccò partire per il militare, alla stazione ci andai con zio Reno. Mi diede i soliti consigli, disse di stare attento alle malattie e tirò fuori la storia <strong>del</strong>l’occhio. «O, fai per benino, eh? Io, giù a Viterbo, una volta che feci il cameriere al circolo ufficiali trombai anche la ’ognata <strong>del</strong> capitano. Iole si chiamava, era secca gli contavi gli ossi, ma c’era tutta, ’un ave’ paura! Mi raccomando, te guardagli l’occhio e scegli ammòdo. E comunque anche se ’un so’ tutte uguali, vanno bene tutte lo stesso.» «Zio, io ti do retta. Ma te prova a fare ammòdo il vino. Magari ti fai dare una mano da Tòno, e me lo fai trovare per quando torno congedato.» L’anno di naja passò in fretta. Dopo il CAR mi spedirono in Veneto, ci stetti bene. A fine settembre ero già nonno, e con il 10+2 <strong>del</strong>l’ordinaria venni in licenza per la vendemmia. Zio Reno era in gran forma. Venne a prendermi alla stazione e subito mi chiese quante donne mi ero fatto. Poi mi parlò <strong>del</strong>l’uva, mi disse che era rimasto d’accordo con Tòno e di star sicuro che per la cena <strong>del</strong> congedo avrei trovato il vino buono. Era parecchio infervorato; Gino, il vecchio proprietario <strong>del</strong> bar sulla piazza, aveva finalmente trovato da vendere. Il locale lo rilevavano certi Alfredo e Gigliola, una coppia che veniva dalle parti di Siena. In paese non si parlava d’altro, soprattutto di questa Gigliola, che si diceva fosse proprio una bella sposa. La vendemmia andò bene. Lo zio Reno si divideva tra i campi, la cantina e le serate al bar, con i nuovi padroni che facevano un periodo di prova assieme a Gino. Tornai a casa di nuovo per Natale, con il 5+2 <strong>del</strong>la ministeriale, e quando rientrai in caserma mi mancava meno di un mese. Il 25 gennaio al bar mi videro apparire con la drop, i gradi di Caporal Maggiore e il cordone tricolore da congedante. Zio Reno era tutto preso dall’organizzazione <strong>del</strong>la cena, da Alfredo e Gigliola naturalmente, visto che facevano anche trattoria. Era chiaro che lo zio si stava “lavorando” la bella sposa. Fu davvero una bella festa, venne tutto il paese. Si mangiarono pici al tartufo, chianina, coniglio e oco arrosto, pecorino di Pienza. Il vino lo mise zio Reno e stavolta era speciale. 53
Mi aspettavo di vederlo sfoderare tutta la sua chiacchiera con Gigliola, invece non le rivolse parola per tutta la sera. Al dolce, una zuppa inglese fatta in casa, Reno andò in cucina a chiamare la cuoca per farla venire a veglia assieme a noi. Arrivò una donnina minuta, si tolse zinàle e pezzòla e sciolse una matassa di lunghi capelli grigi. Si chiamava Rosa, era la mamma <strong>del</strong>la Gigliola. Mi prese le guance e mi dette un bacio, le mani le odoravano di rosmarino. «Bello, vostro nipote. È più bello di voi.» Lo zio Reno mi diede di gomito, e fu allora che mi accorsi di come brillavano gli occhi di Rosa. 54
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