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di barzellette - Circolo culturale Giancarlo Costa

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Anno 6 - Numero 2 R i v i s t a d i C u l t u r a S t o r i a e Tr a d i z i o n i<br />

Aprile - Giugno 2010


In copertina<br />

Acquarello e tecnica mista<br />

su cartoncino<br />

Don Giovanni Zorzoli (2010)<br />

Al centro: Gioacchino Rossini.<br />

Dall’alto, in senso orario:<br />

Garcìa Lorca, Trilussa, Moliére, Leibniz,<br />

Lorenzo il Magnifico, Totò,<br />

Ariosto, Stendhal.<br />

Il sorriso <strong>di</strong> un bimbo<br />

Il sorriso <strong>di</strong> un bimbo<br />

salva il tempo perduto,<br />

i ricor<strong>di</strong> svaniti<br />

<strong>di</strong> tutto quello che ho <strong>di</strong>menticato.<br />

Nel sorriso, bisbigliano<br />

gli anni della gioventù. Nelle labbra<br />

spuntano parole così dolcemente note<br />

e tanto lontane.<br />

Nella mente si scioglie una nuvola,<br />

il passato<br />

immancabilmente ritorna,<br />

sottobraccio alla mia desolazione.<br />

E<strong>di</strong>toriale<br />

Così si rideva duemila anni fa<br />

Secoli <strong>di</strong> <strong>barzellette</strong><br />

Lo humour del caro estinto<br />

Ironia, <strong>di</strong>vertimento e satira sociale nella poesia <strong>di</strong> Porta<br />

Il Carnevale nel tempo<br />

Quando la risata era una faccenda “artigianale”<br />

La gioia è il principio della vita<br />

Fermare il tempo<br />

Le tre damine, frate Cesco e il vescovo<br />

Allegria, signor Mike!<br />

da “Riflessi”,<br />

<strong>Giancarlo</strong> <strong>Costa</strong> (marzo 2009)<br />

XLIV Premio Nazionale <strong>di</strong> Poesia “Città <strong>di</strong> Mortara”<br />

Sommario<br />

<strong>di</strong> Umberto De Agostino<br />

<strong>di</strong> Na<strong>di</strong>a Farinelli<br />

<strong>di</strong> Graziella Bazzan<br />

3<br />

4<br />

6<br />

8<br />

<strong>di</strong> Maria Forni 11<br />

<strong>di</strong> Eufemia Marchis Magliano 15<br />

<strong>di</strong> Stefano Se<strong>di</strong>no 17<br />

<strong>di</strong> Alessandro Marangoni 19<br />

<strong>di</strong> Simone Menicacci 20<br />

<strong>di</strong> Luigi Balocchi 22<br />

<strong>di</strong> Sandro Passi<br />

24<br />

26


La cultura dell’umorismo e del <strong>di</strong>vertimento<br />

Alla fine<br />

non ci resta<br />

Nel linguaggio quoti<strong>di</strong>ano capita non <strong>di</strong> rado, per<br />

un singolare gioco <strong>di</strong> sinonimia, <strong>di</strong> sovrapporre la<br />

nozione <strong>di</strong> “serietà” con quella <strong>di</strong> “importanza”.<br />

Lecitando <strong>di</strong> fatto l’insorgere <strong>di</strong> un paradosso. In<br />

effetti, passando al setaccio gli atteggiamenti emotivi<br />

e ricercando tra <strong>di</strong> essi la spia dell’ottimismo,<br />

dell’energia, della salute spirituale e del pieno<br />

compiacimento esistenziale, si approda alla conclusione<br />

che questa dev’essere per forza una sana<br />

risata. Quin<strong>di</strong> ridere è una faccenda serissima. Lo<br />

riconoscono anche me<strong>di</strong>ci e psicologi, che assegnano<br />

al buon umore un valore terapeutico, in alcuni<br />

casi quasi taumaturgico, miracoloso. Non per niente<br />

l’esperienza del comico ha permeato la cultura<br />

artistico-letteraria, elevazione dell’animo umano<br />

e delle relative aspirazioni, fin dai suoi remotissimi<br />

albori. Ad esempio nel mondo latino le <strong>di</strong>verse<br />

forme <strong>di</strong> umorismo, come spiega Umberto De<br />

Agostino nelle pagine a seguire, ispirarono fior <strong>di</strong><br />

poeti e letterati, come Plauto, Terenzio, Marziale.<br />

Le sfaccettature del “ri<strong>di</strong>culum” trovano nella letteratura<br />

classica un crescendo <strong>di</strong> impieghi, che va<br />

dalle licenziose trasposizioni del sarcasmo popolare<br />

(spesso beffardo e denigratorio) fino alle raffinatezze<br />

del paludato Ovi<strong>di</strong>o. Strettamente correlato<br />

a questo argomento è il Carnevale, <strong>di</strong>scendente <strong>di</strong><br />

antiche usanze pagane, quali i Baccanali, i Saturnali<br />

e i Luperali. Con l’avvento del Cristianesimo, tratti<br />

caratteristici degli antichi cicli <strong>di</strong> festività vennero<br />

depurati delle originarie sfrenatezze e gradualmente<br />

assimilati dalle celebrazioni carnevalesche. Lo<br />

che ridere<br />

<strong>di</strong><br />

Marta <strong>Costa</strong><br />

racconta esaustivamente, ripercorrendo la parabola<br />

storica che congiunge l’età dei Romani ai giorni nostri,<br />

Eufemia Marchis Magliano nel servizio a sua<br />

firma. Il Vaglio vira poi nella <strong>di</strong>rezione dell’icastica<br />

satira sociale <strong>di</strong> Carlo Porta, poeta <strong>di</strong>alettale per<br />

eccellenza e cantore della Milano a cavallo tra il<br />

Settecento e l’Ottocento. Nella voce a lui de<strong>di</strong>cata<br />

da Dante Isella nella Storia della Letteratura Italiana<br />

si legge: “È manifesto che la eccezionale personalità<br />

portiana ha finito con lo schiacciare sotto <strong>di</strong><br />

sé, degradandolo a un ruolo più o meno passivo, <strong>di</strong><br />

allievo o imitatore, chi, <strong>di</strong>etro il suo esempio, [...],<br />

si è messo per la strada dello scrivere versi in milanese”.<br />

La forza dei suoi versi, traboccanti sferzanti<br />

critiche alle classi dominanti, all’ipocrisia, alla<br />

falsa religiosità e al cinismo dei potenti, emerge a<br />

chiare lettere nel puntuale servizio confezionato da<br />

Maria Forni. La gioia e la sua stretta connessione<br />

all’arte della musica sono invece il tema eviscerato<br />

magistralmente da Alessandro Marangoni, un’autorità<br />

nel campo delle sette note. Il suo intervento<br />

mette in risalto l’influenza che la melo<strong>di</strong>a esercita<br />

sugli stati d’animo, potente e incisivo veicolo <strong>di</strong><br />

trasformazione dell’umore. La risata è vita, ma in<br />

alcune circostanze sconfina ad<strong>di</strong>rittura nel territorio<br />

della morte. La penna <strong>di</strong> Graziella Bazzan si è<br />

perciò soffermata sugli epitaffi <strong>di</strong>vertenti, strampalati<br />

e insoliti sparsi per i quattro angoli del pianeta,<br />

presentati in una stuzzicante carrellata. In questo<br />

numero del trimestrale c’è materiale per ridere e<br />

sorridere. Buon <strong>di</strong>vertimento.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

3<br />

EDITORIALE


Cultura&&&<br />

Mondo Classico<br />

Gli autori<br />

<strong>di</strong> epoca romana<br />

ci hanno<br />

consegnato<br />

molte opere<br />

umoristiche:<br />

buona parte<br />

della letteratura<br />

latina consiste<br />

<strong>di</strong> variazioni<br />

su questo tema<br />

4 I L VA G L I O<br />

Così<br />

si rideva<br />

duemila anni fa<br />

LA MORDACITÀ DEL MONDO ROMANO DALLE COMMEDIE DI PLAUTO AGLI EPIGRAMMI DI MARZIALE<br />

Nessuno oserebbe affermare che imparare<br />

il latino sia <strong>di</strong>vertente e che Giulio<br />

Cesare sia un autore prevalentemente<br />

umoristico. Se queste – assieme alle<br />

devote pre<strong>di</strong>che <strong>di</strong> taluni insegnanti<br />

sulla gravitas e sulla <strong>di</strong>gnitas dei Romani – rimangono<br />

le uniche e più pregnanti impressioni dell’antichità<br />

romana, non ci si deve meravigliare del perdurare del<br />

quadro tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> Roma, in cui l’umorismo non<br />

ha posto alcuno. Il quoti<strong>di</strong>ano dei Romani era tuttavia<br />

<strong>di</strong>verso e, tanto nella realtà quanto in letteratura e retorica,<br />

tutte le forme del ri<strong>di</strong>culum avevano un ruolo<br />

importante, <strong>di</strong> fronte al tribunale come davanti a un<br />

bicchiere <strong>di</strong> vino, alla mensa imperiale non meno che<br />

a teatro.<br />

La documentazione letteraria dell’umorismo romano<br />

è molto vasta. Basti pensare alle comme<strong>di</strong>e <strong>di</strong> Plauto<br />

e Terenzio, alla poesia satirica (un autentico genere<br />

umoristico, “inventato” dai Romani), agli epigrammi<br />

<strong>di</strong> Marziale, allo spiritoso romanzo Satyricon <strong>di</strong> Petronio<br />

e all’umorismo raffinato e urbano per esempio<br />

<strong>di</strong> un Ovi<strong>di</strong>o: buona parte della letteratura latina consiste<br />

<strong>di</strong> variazioni su questo tema e molta <strong>di</strong> essa è uno<br />

specchio dell’umorismo quoti<strong>di</strong>ano. Alcuni epigrammi<br />

<strong>di</strong> Marziale costituiscono la forma linguisticamente<br />

condensata e raffinata del salace e aggressivo umorismo<br />

popolare, che non aveva rispetto per niente e<br />

per nessuno: sarcasmo e cattiverie prendevano <strong>di</strong> mira<br />

chiunque non corrispondesse alla norma consolidata.<br />

Le anomalie fisiche come strabismo, mancanza <strong>di</strong><br />

denti, obesità, magrezza erano oggetto <strong>di</strong> mordacità,<br />

come le pre<strong>di</strong>lezioni e le stravaganze sessuali, e anche<br />

se il colto Quintiliano esorta a «non rinunciare a un<br />

<strong>di</strong><br />

Umberto De Agostino<br />

Plauto in un’illustrazione<br />

tratta dalle “Cronache <strong>di</strong> Norimberga” (1493)<br />

caro amico piuttosto che a un’osservazione salace», è<br />

probabile che molti la pensassero <strong>di</strong>versamente.<br />

Il quoti<strong>di</strong>ano offriva numerose occasioni <strong>di</strong> scagliare<br />

dar<strong>di</strong> velenosi: banchetti con abbondanti libagioni,<br />

sempre con<strong>di</strong>ti da umorismo <strong>di</strong> genere e livello variabilissimo;<br />

matrimoni accompagnati “umoristicamente”<br />

da scherzi salaci e osceni, i versus fescennini;<br />

i Saturnali, una specie <strong>di</strong> Carnevale romano in cui


umorismo, scherno e scempiaggini facevano da padroni.<br />

Anche i trionfi avevano spesso il carattere <strong>di</strong><br />

festa popolare e, affinché il trionfatore non si elevasse<br />

troppo al <strong>di</strong> sopra dei comuni mortali, i soldati gli<br />

rammentavano la sua umanità con drastici scherzi.<br />

Anche gli eru<strong>di</strong>ti, sebbene non fossero estranei all’umorismo<br />

salace-volgare (che tuttavia poteva assumere<br />

le sfumature brillanti <strong>di</strong> un Marziale), apprezzavano<br />

anche un umorismo più raffinato, <strong>di</strong> carattere<br />

aneddotico, che invitava non tanto alla risata quanto a<br />

un sorriso compiaciuto o alla gioia per il male altrui.<br />

Una caratteristica fondamentale <strong>di</strong> questo umorismo,<br />

in parte anche messo per iscritto, era la prontezza<br />

<strong>di</strong> parola. Nella formazione <strong>di</strong> un oratore non potevano<br />

mancare l’appren<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> questo umorismo<br />

“classico” e l’affinamento delle capacità umoristiche<br />

personali: saper far ridere i giurati, al momento giusto,<br />

era considerato dall’antica retorica giuri<strong>di</strong>ca una<br />

caratteristica fondamentale del buon oratore. Alla fama<br />

<strong>di</strong> Cicerone, per esempio, contribuì non poco la<br />

sua prontezza <strong>di</strong> parola esibita nei tribunali come nei<br />

salotti. Eccone un assaggio, riportato da Quintiliano.<br />

Quando Fabio Dolabella affermò <strong>di</strong> avere trent’anni,<br />

Cicerone annuì <strong>di</strong>cendo: «È vero! Sono vent’anni che<br />

glielo sento <strong>di</strong>re».<br />

I Romani conoscevano sicuramente anche le <strong>barzellette</strong>,<br />

ma non ce ne sono pervenute. Dalle comme<strong>di</strong>e<br />

<strong>di</strong> Plauto si evince che esistevano vere e proprie raccolte<br />

<strong>di</strong> <strong>barzellette</strong> scritte privatamente o ad<strong>di</strong>rittura<br />

sotto forma <strong>di</strong> libro; i parassiti che vogliono spacciarsi<br />

per ospiti <strong>di</strong>vertenti ed essere così invitati a mangiare<br />

gratis ricorrono, quale ultima spes, anche a queste.<br />

«Bisogna che mi procuri un libro e impari a memoria<br />

le <strong>barzellette</strong> migliori», annuncia uno <strong>di</strong> costoro agli<br />

spettatori. Queste <strong>barzellette</strong> infioravano anche molti<br />

degli spettacoli tanto amati nel teatro imperiale, i cui<br />

copioni tuttavia non ci sono pervenuti probabilmente<br />

anche a causa della loro salacità. Il punto conclusivo<br />

della tra<strong>di</strong>zione dei parassiti è costituita da quei “professionisti”<br />

che alcuni imperatori tenevano a palazzo<br />

come buffoni <strong>di</strong> corte o come spiritosi conversatori, a<br />

seconda dei casi.<br />

Un’unica raccolta <strong>di</strong> <strong>barzellette</strong> antiche è giunta sino a<br />

noi: quella redatta in lingua greca da Filogelo (letteralmente<br />

“amico del riso”). Essa nacque in età imperiale<br />

romana, ma fu redatta nella forma attuale solo nella<br />

tarda antichità. In massima parte si tratta <strong>di</strong> <strong>barzellette</strong><br />

che prendono in giro gli abitanti delle “fortezze<br />

<strong>di</strong> pazzi” dell’antichità (soprattutto gli abitanti <strong>di</strong> Abdera,<br />

fiorente città della Tracia) o gli “Scholastikòi”:<br />

gente fuori dal mondo come se ne trova in tutte le professioni<br />

e fa ridere il prossimo con analogie taglienti<br />

quanto false. Le <strong>barzellette</strong> sugli Abderiti, menzionati<br />

anche da Cicerone perché proverbialmente stupi<strong>di</strong>,<br />

erano sicuramente in latino. Ecco due assaggi dalle<br />

265 <strong>barzellette</strong> <strong>di</strong> Filogelo. «Uno Scholastikòs vide<br />

il suo me<strong>di</strong>co e si nascose per non farsi vedere. Il suo<br />

compagno gli chiese perché lo facesse ed egli rispose:<br />

“È tanto tempo che non mi ammalo e mi vergogno”».<br />

«Un Abderita aveva cremato il padre defunto, come<br />

vuole l’usanza. Poi corse a casa, dalla madre malata,<br />

e le <strong>di</strong>sse: «Mi è rimasta un po’ <strong>di</strong> legna. Se vuoi e<br />

puoi, fatti cremare con lui!». Più realistico è certo il<br />

consiglio che un umorista <strong>di</strong> tendenze filosofeggianti<br />

fece incidere sulla sua lapide: «Tu che sei qui davanti<br />

e leggi la mia lapide: gioca, scherza… e vieni!».<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

5<br />

Mosaico romano<br />

del I secolo a.C.<br />

raffigurante le maschere<br />

della Trage<strong>di</strong>a<br />

e della Comme<strong>di</strong>a<br />

(Roma, Musei Capitolini)<br />

I Romani<br />

conoscevano<br />

anche<br />

le <strong>barzellette</strong>,<br />

ma non ce ne sono<br />

pervenute.<br />

Dalle comme<strong>di</strong>e<br />

<strong>di</strong> Plauto si evince<br />

l’esistenza<br />

<strong>di</strong> vere e proprie<br />

raccolte


Cultura&&&<br />

Spiritosaggini<br />

La più vecchia<br />

raccolta<br />

<strong>di</strong> racconti ironici<br />

è il Philogelos,<br />

libretto greco<br />

con una sfilza<br />

<strong>di</strong> facezie<br />

risalente<br />

a 1500 anni fa<br />

e giunto intatto<br />

fino a noi<br />

6 I L VA G L I O<br />

Secoli<br />

<strong>di</strong> <strong>barzellette</strong><br />

DAGLI EGIZI ALLA TIVÙ DEI GIORNI NOSTRI, PASSANDO PER FREUD<br />

Non basta la passione. Per raccontare una<br />

barzelletta ci vuole talento. Sì, perché la<br />

barzelletta è un racconto umoristico troppo<br />

breve per ottenere l’effetto voluto senza<br />

una mimica che gli <strong>di</strong>a forza.<br />

Bisogna strappare la risata finale, unica misura del successo.<br />

L’origine del termine barzelletta è incerto. Potrebbe<br />

derivare da ballata, una forma musicale lieve e<br />

scherzosa tipica del XV e XVI secolo, ma i primi esempi<br />

sono decisamente più vecchi. Secondo le ricerche <strong>di</strong><br />

Anita Rubini (Focus Storia 37), una delle più antiche<br />

storielle risale al 1600 a.C. ed è stata rinvenuta su <strong>di</strong><br />

un papiro egizio. La più vecchia raccolta <strong>di</strong> <strong>barzellette</strong><br />

è invece il Philogelos, libretto greco con una sfilza <strong>di</strong><br />

facezie risalente a 1500 anni fa e giunto intatto fino a<br />

noi. Il professor Mario Andreassi, docente <strong>di</strong> letteratura<br />

greca all’università <strong>di</strong> Bari, ci spiega che questa raccolta<br />

rappresentava il cosiddetto “manuale del parassita”,<br />

dove per parassita si intende la persona che si presenta<br />

ai banchetti senza essere stata invitata. Mangia con voracità<br />

ed intrattiene i presenti con argute storielle, per<br />

far passare inosservata, tra una risata e l’altra, l’enorme<br />

quantità <strong>di</strong> cibo trangugiata. Il libricino permetteva <strong>di</strong><br />

avere sempre a portata <strong>di</strong> mano più <strong>di</strong> duecento storielle,<br />

visto che le <strong>barzellette</strong> si <strong>di</strong>menticano facilmente.<br />

Quest’ultimo aspetto aveva attirato anche l’attenzione<br />

<strong>di</strong> Freud, che attribuiva la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> imprimerle nella<br />

memoria ad una loro analogia con i sogni. Deriverebbero<br />

entrambi dall’inconscio e, anche se la barzelletta deve<br />

essere capita mentre il sogno il più delle volte rimane<br />

oscuro, raccontarli libererebbe dai tabù erotici. Certo la<br />

lettura <strong>di</strong> antiche <strong>barzellette</strong> ci lascia un poco in<strong>di</strong>fferenti<br />

o al massimo ci strappa un sorriso. D’altronde sono<br />

troppo lontane dal loro contesto e non sono valorizzate<br />

dal talento del barzellettiere.<br />

I protagonisti e le vittime designate sono più o meno<br />

quelli <strong>di</strong> sempre. A partire dall’intellettuale pedante con<br />

la testa tra le nuvole del Philogelos, si è passati dapprima<br />

al monello Pierino, poi ad intere categorie (i politici,<br />

i carabinieri), fino ad arrivare al calciatore sempliciotto<br />

<strong>di</strong><br />

Na<strong>di</strong>a Farinelli<br />

dei giorni nostri. Nell’antica raccolta greca, per la verità,<br />

si prendono <strong>di</strong> mira anche persone per le quali c’è<br />

poco da ridere, come gli ammalati con particolari malformazioni<br />

e vi si legge anche qualche piccola crudeltà<br />

su etnie <strong>di</strong>verse: per esempio le città <strong>di</strong> Cuma e Sidone<br />

erano considerate la patria degli stupi<strong>di</strong>.<br />

Va anche ricordato che proprio nell’antica Grecia qualcuno<br />

non approvava affatto questo andazzo: il filosofo<br />

Aristotele (384-322 a.C.) <strong>di</strong>ceva che l’arguzia era una<br />

forma <strong>di</strong> educata insolenza, sulla scia <strong>di</strong> Platone (427-<br />

347 a.C.), che prima <strong>di</strong> lui aveva raccomandato <strong>di</strong> togliere<br />

dalla letteratura i passaggi in cui i protagonisti,<br />

eroi e dei, sghignazzavano troppo.<br />

Tuttavia ad Atene, nel IV secolo a.C., in barba ai filosofi,<br />

esisteva ad<strong>di</strong>rittura un circolo <strong>di</strong> aristocratici, i “Sessanta”,<br />

che si riunivano nel santuario <strong>di</strong> Eracle a raccontare<br />

<strong>barzellette</strong>. Erano così famosi che ogni storiella iniziava<br />

con: “I sessanta <strong>di</strong>cono che…”.<br />

Durante tutto il Me<strong>di</strong>oevo non erano ammesse spiritosaggini.<br />

Solo i giullari <strong>di</strong> corte potevano permettersi<br />

qualche battuta, spesso utilizzata per trasmettere al sovrano<br />

delle verità scomode. Quando però, alla fine del<br />

’400, presero piede i caratteri mobili <strong>di</strong> stampa, ci fu<br />

la rinascita della barzelletta: il massimo promotore <strong>di</strong><br />

tale rinnovato passatempo fu Poggio Bracciolini, che<br />

nel 1450 pubblicò il “Liber Facetiarum”. Si tratta <strong>di</strong> una<br />

raccolta <strong>di</strong> storielle più o meno scabrose, che circolavano<br />

a Roma in ambiente pontificio. Bracciolini era stato<br />

il segretario <strong>di</strong> ben otto papi e aveva raccolto centinaia<br />

<strong>di</strong> aneddoti: gli impiegati della Cancelleria Pontificia si<br />

riunivano spesso al cosiddetto “Bugiale”, nel cuore dei<br />

palazzi vaticani, per scatenarsi in un gossip sfrenato.<br />

E Bracciolini trascriveva, in latino, ciò che ascoltava.<br />

Il successo fu gran<strong>di</strong>oso, anche perché le masse non<br />

avevano <strong>di</strong>mestichezza con la lingua latina, dunque ne<br />

godevano solo gli aristocratici, compresi gli stessi ecclesiastici.<br />

Per questo dal papa non arrivò alcuna censura,<br />

nonostante l’argomento principe fosse la dubbia<br />

moralità degli uomini <strong>di</strong> Chiesa. Anche nel ’600 chi<br />

voleva sfondare in società doveva attirare l’attenzione


Poggio Bracciolini, incisione <strong>di</strong> Johann Theodor de Bry (1597)<br />

Achille Campanile in una caricatura <strong>di</strong> Augusto Camerini<br />

nei salotti borghesi, dunque ritornò <strong>di</strong> fondamentale importanza<br />

il talento del barzellettiere. I “libri delle burle”<br />

abbondavano ovunque e venivano aggiornati ogni sera:<br />

nessuna biblioteca privata doveva esserne priva.<br />

La satira politica <strong>di</strong>venne poi un’estensione della barzelletta,<br />

che nel ventesimo secolo fu portata ad<strong>di</strong>rittura<br />

in tribunale, spesso con drammatiche conseguenze. Fu<br />

imposto il bavaglio a chi raccontava storielle contro i<br />

vari tipi <strong>di</strong> regime.<br />

Dobbiamo arrivare agli anni Sessanta per leggere serenamente<br />

il “Trattato delle <strong>barzellette</strong>”, del famoso umorista<br />

Achille Campanile, fonte <strong>di</strong> ispirazione per gran<strong>di</strong><br />

nomi del varietà e del piccolo schermo, come Gino<br />

Bramieri, Walter Chiari e Carlo Dapporto. In TV ci fu<br />

un grande rilancio della barzelletta, con gradevolissimi<br />

siparietti comici e fu soprattutto Gino Bramieri, definito<br />

il “re della barzelletta”, a dare notorietà e <strong>di</strong>gnità a questo<br />

genere <strong>di</strong> risata popolare.<br />

Gli antenati<br />

<strong>di</strong> Pierino<br />

• Come intrattieni un faraone annoiato? Navighi<br />

lungo il Nilo con una nave carica <strong>di</strong><br />

giovani donne vestite solo <strong>di</strong> reti da pesca e<br />

lo inviti ad andare a pescare.<br />

Egitto 1600 a.C.<br />

• Una donna, cieca da un occhio, era sposata<br />

a un uomo da vent’anni. Quando il marito<br />

si trovò un’altra donna, le <strong>di</strong>sse: “Divorzierò<br />

da te perché sei cieca da un occhio”. Al<br />

che lei rispose: “E l’hai scoperto solo dopo<br />

vent’anni <strong>di</strong> matrimonio?”.<br />

Papiro egizio 1100 a.C.<br />

• Un uomo che voleva insegnare al suo asino<br />

a non mangiare decise <strong>di</strong> non dargli più<br />

cibo. Quando l’asino morì <strong>di</strong> fame, l’uomo<br />

<strong>di</strong>sse: “Mi è capitata una <strong>di</strong>sgrazia. Proprio<br />

quando aveva imparato a non mangiare,<br />

l’asino è morto!”.<br />

Philogelos, Grecia, IV sec d.C.<br />

• Un uomo entra da un barbiere. Questi, tra<br />

mille complimenti, gli chiede come vuole<br />

che gli tagli i capelli. E l’uomo: “In silenzio”.<br />

Philogelos, Grecia, IV secolo d.C.<br />

• Augusto era in giro per l’Europa quando,<br />

tra la folla, notò un uomo che gli assomigliava<br />

in maniera straor<strong>di</strong>naria. Incuriosito,<br />

gli si avvicinò e gli chiese: “Sua madre<br />

è mai stata a servizio a palazzo?” “ No,<br />

Vostra Altezza”, rispose l’uomo “ma mio<br />

padre sì!”.<br />

Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia,<br />

V secolo d.C.<br />

• Questi codar<strong>di</strong> <strong>di</strong> inglesi! Non hanno avuto<br />

il coraggio <strong>di</strong> gettarsi in mare come i vostri<br />

soldati francesi, che sono saltati giù dalla<br />

nave lasciandola in balìa dei nemici, i quali<br />

non hanno mostrato alcuna inclinazione a<br />

seguirli!<br />

Giullare del re <strong>di</strong> Francia Filippo VI che<br />

annuncia al sovrano il <strong>di</strong>sastro navale all’Ecluse<br />

, 1340<br />

• Mulier, si filas, et ca<strong>di</strong>t tibi fusus, quando te<br />

flectis, tene culum clausum”<br />

Poggio Bracciolini, Liber Facetiarum,<br />

1450<br />

• E’ la prima volta che quella coppia <strong>di</strong> coniugi<br />

va d’accordo: hanno deciso <strong>di</strong> separarsi.<br />

Achille Campanile, Trattato delle <strong>barzellette</strong>,<br />

1961<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

7<br />

Negli anni<br />

Sessanta<br />

Achille Campanile<br />

pubblica<br />

il “Trattato<br />

delle <strong>barzellette</strong>”,<br />

fonte d’ispirazione<br />

per gran<strong>di</strong> nomi<br />

del varietà<br />

e del piccolo<br />

schermo


Cultura&&&<br />

Al<strong>di</strong>qua<br />

L’epitaffio<br />

racconta<br />

in breve la storia<br />

della persona,<br />

ciò che <strong>di</strong> buono<br />

o cattivo<br />

ha fatto, le virtù<br />

e le viltà,<br />

i desideri<br />

sod<strong>di</strong>sfatti<br />

e delusi<br />

“<br />

8 I L VA G L I O<br />

Lo humour<br />

del caro estinto<br />

Ti tocca anche se ti tocchi” è il titolo <strong>di</strong> un<br />

libro e contemporaneamente un modo un<br />

po’ bizzarro per introdurre il <strong>di</strong>scorso sull’evento<br />

degli eventi che coinvolge in<strong>di</strong>stintamente<br />

ogni essere umano.<br />

La morte è senza dubbio un grande mistero e la tomba<br />

è l’unico tramite che unisce i defunti ai viventi costituendo<br />

“quella corrispondenza <strong>di</strong> amorosi sensi, che ci<br />

fa credere, finchè siamo vivi, che qualche cosa <strong>di</strong> noi<br />

sopravviverà nel ricordo dei nostri cari”.<br />

Essere ricordati! Ecco l’origine dell’epitaffio, nato come<br />

orazione funebre che si teneva pubblicamente ad Atene<br />

in onore dei guerrieri che avevano perso valorosamente<br />

la loro vita in battaglia, e poi iscrizione in memoria <strong>di</strong><br />

un defunto sopra il sepolcro. Iscrizione che rappresenta<br />

l’appello postumo del medesimo al vivo. In essa chi non<br />

è più vuole attirare ancora l’attenzione fermando colui<br />

che guarda e passa, e nel riassumere la propria vita,<br />

esprime nella forma più genuina e più breve (appunto<br />

lapidaria) la scala dei valori del tempo in cui ha vissuto,<br />

la sua concessione della vita e del destino umano.<br />

Negli epigrammi <strong>di</strong> epoca classica, l’espressione poetica<br />

ha quasi sempre il sopravvento, mentre in quella delle<br />

epigrafi <strong>di</strong> epoca moderna, ci troviamo quasi sempre<br />

davanti a componimenti in cui prevalgono gli elementi<br />

del romanticismo.<br />

L’epitaffio racconta in breve la storia della persona, ciò<br />

che <strong>di</strong> buono o cattivo ha fatto, le virtù più o meno eroiche<br />

e le spicciole viltà, i desideri sod<strong>di</strong>sfatti e delusi.<br />

Spesso viene in<strong>di</strong>cata la causa della morte, viene descritto<br />

l’evento, vengono rivelati la professione, i comportamenti<br />

del defunto o <strong>di</strong> chi è rimasto a piangerlo e<br />

ha voluto che dei versi o delle parole, incise su <strong>di</strong> una<br />

lapide, lo ricordassero ai posteri.<br />

Attraverso questa glittografia cimiteriale, l’epitaffio fornisce<br />

del defunto una fotografia con accenti il più delle<br />

volte lirici e allegri, cosicchè la morte non faccia paura<br />

perché appare sdrammatizzata dall’umorismo e dalla<br />

teatralità delle parole.<br />

Alcuni <strong>di</strong> loro sono sorprendenti, alcuni sono enigmatici<br />

UNA CARRELLATA DI LAPIDI BUFFE E CURIOSE<br />

<strong>di</strong><br />

Graziella Bazzan<br />

L’epitaffio <strong>di</strong> Gianfranco Funari: “Ho smesso <strong>di</strong> fumare”<br />

o da brivido, altri invece sono buffi e curiosi. Diversi ci<br />

emozionano mentre altri ironicamente ci fanno sorridere<br />

come quello del comico gallese Spike Milligan: “Ve<br />

l’avevo detto che ero malato”, o quello dello scrittore<br />

francese Georges Bernanos: “Si prega l’angelo trombettiere<br />

<strong>di</strong> suonare forte, il defunto è duro d’orecchie”.<br />

In un’iscrizione sepolcrale nelle isole Shetlands si piange<br />

ad esempio il pacifico, tranquillo e in ogni apparenza<br />

buon cristiano Donald Robertson, morto nel 1785 a sessantatre<br />

anni: “La sua deplorevole morte è stata provocata<br />

dalla stupi<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> Laurence Tulloch <strong>di</strong> Clothister che<br />

gli ha venduto nitrato al posto dei sali <strong>di</strong> Epsom e l’ha<br />

così ucciso nello spazio <strong>di</strong> cinque ore”.<br />

“Giace qui da qualche parte” è scritto sulla lapide del<br />

fisico tedesco Werner Heisenberg, a riferimento del suo<br />

“principio <strong>di</strong> indeterminazione” secondo il quale non è<br />

possibile in<strong>di</strong>care simultaneamente posizione e quantità


<strong>di</strong> un corpo.<br />

Sulla tomba <strong>di</strong> un certo Ignaz Breitenseher: “Silenziosa<br />

e solitaria fu la sua vita, fedele e attiva la sua mano”.<br />

Questa è l’incisione funeraria sulla tomba <strong>di</strong> un gentiluomo<br />

famoso in vita per la sua cortesia: “Qui giace lord<br />

Barlington. Scusate se non mi alzo”.<br />

Epitaffio <strong>di</strong> un avvocato in Inghilterra: Sir John Strange<br />

(strange significa raro): “Qui giace un avvocato onesto,<br />

questo è Strange”.<br />

Nel cimitero <strong>di</strong> Wimborne, sempre in Inghilterra, a ricordo<br />

<strong>di</strong> John Penny sta scritto: “Se ritrovare sol<strong>di</strong> è il<br />

tuo mestiere, scavando qui, alla profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> qualche<br />

metro, potrai trovare un Penny”.<br />

Ancora in Inghilterra, a Ribbesford, per Anna Wallace:<br />

“I bambini <strong>di</strong> Israele volevano il pane e Dio mandò loro<br />

la manna . Il signor Cler Wallace voleva una moglie e il<br />

<strong>di</strong>avolo gli mandò Anna”.<br />

Epitaffio sulla tomba <strong>di</strong> Ezechial Aiklein Dalhousie. In<br />

Scozia: “Qui giace… età 102 anni, era buono. Morto<br />

giovane”.<br />

Su <strong>di</strong> un’urna funeraria le parole: “Pace alle mie ceneri.<br />

Si prega <strong>di</strong> non starnutire, grazie”.<br />

Ancora epitaffi: “Questa è la tomba <strong>di</strong> Serafino Viola,<br />

pagata a rate quand’era in vita”.“Qui giace Leo Cinquemani,<br />

instancabile lavoratore”.“Qui riposa Onofrio<br />

Mondragoni, uomo pieno <strong>di</strong> vita”.<br />

Celeberrimo quello <strong>di</strong> un vignettista e umorista <strong>di</strong> cui si<br />

è persa la conoscenza, morto a Roma nel 1998: “Ed ora<br />

che mia suocera qui giace, lei non lo so, ma io riposo in<br />

pace”. Di un attore etrusco: “Sono morto tante volte, ma<br />

così mai”.<br />

Per un incidente: “Uomo <strong>di</strong> grande <strong>di</strong>rittura morale, vissuto<br />

con linearità e rettitu<strong>di</strong>ne, morto in curva”.<br />

Rovinato dalle me<strong>di</strong>cine: “Per stare meglio sono finito<br />

qua”. Di Benedetta Gaia Bellina sta scritto: “Qui riposa...<br />

donna instancabile. Ha amato la vita. Suo marito.<br />

Tutto il paese”.<br />

“Nacque, visse, morì Emilia Peruzzi Dell’Antella. Ora<br />

ella qui riposa in pace e finalmente tace”.<br />

Il poeta <strong>di</strong>alettale romano Giovan Battista Marini vol-<br />

le per sé questo epitaffio: “O passeggero, qui fra tanta<br />

quiete, ‘sto morto senza er nome su la targa, volemo armeno<br />

adesso, un po’ de requie, prega li vivi de passà a<br />

la larga”.<br />

Per il condottiero e politico Gian Giacomo Trivulzio,<br />

sepolto nella basilica <strong>di</strong> San Nazaro Maggiore a Milano,<br />

la scritta: “Chi non riposò mai, ora riposa”.<br />

Il celebre Piovano Arlotto, membro della confraternita<br />

<strong>di</strong> Cristo Pellegrino in Firenze, fece scrivere sulla sua<br />

lapide ciò che ancor oggi si legge: “Questa sepoltura il<br />

Piovano Arlotto fece fare, per sè e per chi ci vuole entrare”.<br />

“Ho smesso <strong>di</strong> fumare”, epitaffio per Gianfranco<br />

Funari a Roma e al Monumentale <strong>di</strong> Milano, sulla lapide<br />

<strong>di</strong> Walter Chiari, umorista fino alla fine, l’ultima battuta<br />

che ci ha lasciato: “Amici non piangete, è soltanto sonno<br />

arretrato”. Questo invece è un esempio <strong>di</strong> epitaffio a<br />

doppio senso, ovvero quando il marito si chiama Felice:<br />

“Alla moglie prematuramente scomparsa, il marito Felice<br />

QMP” (qui memore pose).<br />

In America, ma in stati <strong>di</strong>versi, queste epigrafi quasi<br />

tragicomiche. Di Margaret Danieli, nel cimitero <strong>di</strong><br />

Richmond, Hollywood, Virginia, leggiamo: “Diceva<br />

sempre che aveva dei dolori ai pie<strong>di</strong> che l’uccidevano,<br />

ma nessuno le ha mai creduto”. Ad Enosburg Cade, Vermont,<br />

<strong>di</strong> Anna Hopewell sta scritto: “Qui giace il corpo<br />

della nostra Anna, morta a causa <strong>di</strong> una banana. Non<br />

è del frutto però la causa ma la buccia <strong>di</strong> esso che l’ha<br />

fatta scivolare”. A Thurmont, nel Maryland: “Qui riposa<br />

un ateo, tutto vestito bene e senza alcun luogo dove<br />

andare”. Albany, New York: Enrico Edsel Smith, nato<br />

nel 1903, morto nel 1942, “Ha guardato verso l’alto dal<br />

pozzo dell’ascensore per vedere se la cabina stesse scendendo.<br />

Sì, lo stava facendo”. In Girard, Pennsylvania,<br />

sulla tomba <strong>di</strong> Ellen Shannon: “Morto tragicamente in<br />

un rogo, il 21 marzo 1870, causato dall’esplosione <strong>di</strong><br />

una lampada riempita con R.E.Danforth, olio per lampada<br />

non esplosivo”. Sempre nel Vermont: “Alla memoria<br />

<strong>di</strong> mio marito John Barnes che morì il 3 gennaio 1803.<br />

La sua vedova bella e giovane, <strong>di</strong> 23 anni, ha molte qualità<br />

<strong>di</strong> buona moglie e desidera essere confortata”.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

9<br />

Da sinistra:<br />

Emily Dickinson,<br />

Werner Heisenberg<br />

e Georges Bernanos<br />

Una quantità<br />

enorme <strong>di</strong> notizie<br />

è stata tramandata<br />

dalle lapi<strong>di</strong><br />

fin dai tempi<br />

remoti:<br />

basti pensare<br />

alla loro<br />

utilità<br />

nella decifrazione<br />

delle lingue


I vecchi cimiteri<br />

appaiono<br />

come mon<strong>di</strong><br />

purgatoriali<br />

<strong>di</strong> quella lunga<br />

attesa, a cui l’essere<br />

umano non sa<br />

dare un nome,<br />

ma della quale<br />

non può<br />

fare a meno<br />

A Silver City in Nevada: “Qui giace Butch, giovane pistolero.<br />

Era rapido sul grilletto ma lento a scansarsi”.<br />

Uniontown, Pennsylvania in memoria <strong>di</strong> un incidente:<br />

“Qui giace il corpo <strong>di</strong> Jonathan Blake, ha messo un<br />

piede sull’acceleratore al posto del freno”. Qualcuno<br />

deciso a rimanere anonimo in Stowe, nel Vermont ha<br />

fatto incidere queste parole: “Ero qualcuno, chi non è<br />

affar tuo”. Imbattibile in stringatezza sembra l’iscrizione<br />

sepolcrale della poetessa americana Emily Dickinson:<br />

“called back” (richiamata). Per la scrittrice Dorothy<br />

Parker invece: “Scusate la polvere”.<br />

Terminiamo questa carrellata con l’iscrizione tombale<br />

(che è tutta un programma) dell’attore e cantante Frank<br />

Sinatra: “Il meglio deve ancora venire”!<br />

Una quantità enorme <strong>di</strong> notizie è stata tramandata dalle<br />

lapi<strong>di</strong> fin dai tempi remoti, quante figure e quanti fatti si<br />

sono conosciuti attraverso un epitaffio e quanto contributo<br />

esso ha dato alla decifrazione delle lingue.<br />

Cicerone a Siracusa riuscì a in<strong>di</strong>viduare la tomba <strong>di</strong> Archimede<br />

trovando sulla lapide incisi un cilindro e una<br />

sfera, il cui rapporto fu la grande scoperta dello scienziato,<br />

ma quanti messaggi sono giunti sino a noi anche<br />

da umili sepolcri?<br />

10 I L VA G L I O<br />

Ritratto <strong>di</strong> Gian Giacomo Trivulzio Walter Chiari Dorothy Parker<br />

Il comico Spike Milligan Frank Sinatra Archimede, Domenico Fetti (1620)<br />

L’epitaffio un tempo raccoglieva la summa <strong>di</strong> un’esperienza,<br />

un ammonimento, il frutto estremo <strong>di</strong> un’esistenza<br />

tanto che ne ha fatto tesoro la letteratura.<br />

Molte composizioni dell’Antologia Palatina, la grande<br />

raccolta <strong>di</strong> poesia bizantina, sono forme poetizzate <strong>di</strong><br />

epitaffi. Lo stesso proce<strong>di</strong>mento usò Edgar Lee Masters<br />

nell’Antologia <strong>di</strong> Spoon River, e anche i <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> coloro<br />

che Dante incontra nella Divina Comme<strong>di</strong>a, non<br />

sono che gran<strong>di</strong> epitaffi.<br />

Ora però ciò che ai nostri predecessori sembrava un giusto<br />

tributo <strong>di</strong> onore e <strong>di</strong> memoria per gli scomparsi, non<br />

si usa più: oggi suona altra musica!<br />

Nel giro <strong>di</strong> pochi decenni le tombe dalla terra si sono<br />

sollevate <strong>di</strong>ventando megalopoli tutte uguali, alveari <strong>di</strong><br />

anime; e i vecchi cimiteri appaiono come mon<strong>di</strong> purgatoriali<br />

<strong>di</strong> quella lunga attesa, a cui l’essere umano non<br />

sa dare un nome, una forma, ma della quale sa che non<br />

può fare a meno.<br />

L’uomo nel profondo più profondo sa che qualcosa deve<br />

venire e come il personaggio <strong>di</strong> Kafka nel Messaggio<br />

dell’Imperatore, si siede alla finestra e lo sogna, mentre<br />

passa la notte.


Ironia, <strong>di</strong>vertimento<br />

e satira sociale<br />

nella poesia <strong>di</strong> Porta<br />

TRA L’AMORE PER MILANO E L’AVVERSIONE ALLE IPOCRISIE<br />

<strong>di</strong><br />

Maria Forni<br />

Tra il Parini e il Manzoni, come poeta satirico e del costume,<br />

come inventore e modellatore <strong>di</strong> tipi saltanti su dalla vita,<br />

non può stare che il gran Meneghino Carlo Porta.<br />

Giosuè Carducci.<br />

L’impiegaa Carlo Porta, ovvero Carlin,<br />

definito affettuosamente dal Foscolo<br />

“l’Omero <strong>di</strong> Porta Ticinese”, trascorse la<br />

sua non lunga vita (1775-1821) nella città<br />

<strong>di</strong> Milano, <strong>di</strong> cui fu il cantore appassionato<br />

e critico, mosso da autentico amore ma senza remore<br />

né ostacoli alla lucida visione della realtà. Porta<br />

è un poeta interessato alla rappresentazione della vita<br />

vera, quoti<strong>di</strong>ana, dura e pur cara, della società del suo<br />

tempo e della sua comunità, colta nel suo complesso,<br />

nelle relazioni tra in<strong>di</strong>vidui della stessa classe sociale,<br />

ma anche in quelle, spesso complicate e inique, tra i<br />

<strong>di</strong>versi ceti e gruppi <strong>di</strong> una città vivace, <strong>di</strong>namica e<br />

inquieta come la Milano dell’età napoleonica, <strong>di</strong>visa<br />

tra il vecchio e il nuovo, mossa da ine<strong>di</strong>te prospettive<br />

e antiche fedeltà.<br />

Figlio <strong>di</strong> un funzionario statale della Milano austriaca,<br />

il Porta nacque a Milano nel 1775; dopo stu<strong>di</strong> regolari,<br />

intraprese la stessa carriera del padre, fino al grado <strong>di</strong><br />

cassiere generale al banco <strong>di</strong> Monte Napoleone. Apparteneva<br />

dunque a quel ceto impiegatizio borghese,<br />

abbastanza agiato, al quale toccò storicamente il compito<br />

<strong>di</strong> impegnarsi nello svecchiamento dei costumi e<br />

delle idee, lottando con le armi della cultura e dell’ironia<br />

contro l‘atmosfera soffocante, ipocrita e bigotta<br />

delle classi dominanti dell’aristocrazia e <strong>di</strong> un certo<br />

clero. Era quello un momento particolarmente inquieto<br />

e movimentato della storia europea, e naturalmente<br />

delle vicende <strong>di</strong> Milano, passata nel giro <strong>di</strong> pochi anni<br />

dalla dominazione austriaca a quella francese napoleonica,<br />

e <strong>di</strong> nuovo a quella austriaca dopo la sconfitta<br />

dell’Imperatore.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

Cultura&&&<br />

11<br />

Letteratura<br />

Ritratto<br />

<strong>di</strong> Carlo Porta,<br />

<strong>di</strong> Giuseppe Bossi<br />

(Museo <strong>di</strong> Milano)<br />

Porta, definito<br />

dal Foscolo<br />

“l’Omero <strong>di</strong> Porta<br />

Ticinese”,<br />

è un cantore<br />

della vita vera,<br />

quoti<strong>di</strong>ana,<br />

dura e pur cara,<br />

della società<br />

del suo tempo<br />

e della sua comunità


Formatosi<br />

sui testi<br />

illuministici<br />

francesi<br />

e lombar<strong>di</strong>,<br />

l’autore milanese<br />

sostiene<br />

i gran<strong>di</strong> valori<br />

della libertà,<br />

della giustizia<br />

e dell’eguaglianza<br />

Non era facile prendere una posizione coerente, ma il<br />

Porta, al <strong>di</strong> là degli inevitabili dubbi e perplessità, fu<br />

sempre fermo su alcune convinzioni ra<strong>di</strong>cate e in<strong>di</strong>scusse,<br />

in primo luogo l’ideale <strong>di</strong> giustizia e <strong>di</strong> buona<br />

amministrazione, intimamente legato all’aspirazione<br />

alla libertà politica, religiosa e <strong>culturale</strong> contro ogni<br />

dogmatismo e oppressione.<br />

Fu dunque uno scrittore morale quasi senza saperlo,<br />

come <strong>di</strong>ceva lui stesso scherzosamente: morale sì,<br />

ma anche non all’oscuro delle umane debolezze, specialmente<br />

<strong>di</strong> quelle dei modesti citta<strong>di</strong>ni esposti alle<br />

angherie e alle ritorsioni. Gh’hoo miee, gh’hoo fioeu,<br />

sont impiegaa… e perciò stesso non posso fare l’eroe.<br />

Negli ultimi anni della sua vita, con il ritorno oppressivo<br />

del governo austriaco e la rivincita della nobiltà<br />

più retriva, il poeta si convinse della necessità <strong>di</strong><br />

un’in<strong>di</strong>pendenza italiana da qualsiasi dominio straniero,<br />

anche dopo le deludenti esperienze fatte sotto<br />

la dominazione dei francesi. Egli con<strong>di</strong>vise pertanto<br />

le attese e i positivi atteggiamenti della borghesia illuminata<br />

e progressista milanese: dapprima filonapoleonico,<br />

in considerazione della ventata <strong>di</strong> novità e <strong>di</strong><br />

spinte democratiche <strong>di</strong> cui l’armata <strong>di</strong> Bonaparte sembrava<br />

portatrice, fu ben presto amaramente deluso dai<br />

soprusi e dai comportamenti tirannicamente arbitrari<br />

dei “liberatori” francesi, fino al punto <strong>di</strong> vedere con<br />

sollievo la partenza dell’esercito imperiale da Milano.<br />

Paracar che scappee de Lombar<strong>di</strong>a, apostrofa così<br />

con ironica gaiezza i soldati francesi in fuga dalla sua<br />

terra, definendoli paracarri per la somiglianza dei loro<br />

alti copricapi con questi oggetti stradali: così del resto<br />

li chiamava il popolo.<br />

E tuttavia ciò non lo indusse a un ripiegamento su posizioni<br />

<strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo qualunquista o tanto meno<br />

<strong>di</strong> moderatismo acquiescente all’antico dominatore<br />

ritornato, ma , doppiamente deluso dalla politica della<br />

Restaurazione e della Santa Alleanza, interessata a ripristinare<br />

i privilegi delle antiche classi dominanti e la<br />

politica del “trono e dell’altare”, si accostò al gruppo<br />

liberale e romantico del “Conciliatore”, ossia al primo<br />

gruppo milanese <strong>di</strong> “patrioti” iniziatori del Risorgimento.<br />

Strinse così una profonda e intensa amicizia<br />

con Grossi, Torti, Visconti, Berchet e con lo stesso<br />

Manzoni, tutti frequentatori della “Cameretta” del<br />

Porta, ove si riunivano a leggere e <strong>di</strong>scutere ciascuno<br />

i propri scritti, mentre nascevano interessi politico-letterari<br />

sempre più rivolti alla <strong>di</strong>mensione liberale europea,<br />

proprio perché profondamente legati all’ambiente<br />

milanese, conosciuto e amato con autenticità <strong>di</strong> analisi<br />

e <strong>di</strong> interesse. E a Milano Porta morì nel 1821, anno<br />

fati<strong>di</strong>co per i primi moti risorgimentali che egli tuttavia<br />

non giunse a vedere.<br />

***<br />

Formatosi sui testi illuministici non solo dei philosophes<br />

francesi ma anche della più schietta tra<strong>di</strong>zione<br />

lombarda (Verri, Beccaria, Parini, il “Caffè”), il Porta<br />

sostiene i gran<strong>di</strong> valori della libertà, della giustizia e<br />

dell’eguaglianza, ma continua pure la consuetu<strong>di</strong>ne,<br />

tipica dell’Illuminismo italiano, o meglio milanese, <strong>di</strong><br />

12 I L VA G L I O<br />

attenersi a una convinta fedeltà al reale, ai problemi<br />

concreti e pressanti della società, al desiderio <strong>di</strong> una<br />

“rivolta” contro le regole <strong>di</strong> una letteratura astrattamente<br />

classicheggiante, vuota <strong>di</strong> emozioni e <strong>di</strong> sentimenti<br />

“veri”, lontana dagli interessi e dalla comprensione<br />

della maggioranza dei lettori.<br />

Ma la produzione poetica del Porta finisce col <strong>di</strong>ventare<br />

una personalissima sintesi tra istanze illuministiche<br />

e apertura alle nuove tematiche e finalità culturali<br />

prodotte dal sorgere in Europa della corrente romantica.<br />

Si pensi soprattutto all’estrema attenzione al dato<br />

realistico e sociale, all’assunzione del punto <strong>di</strong> vista<br />

delle classi subalterne mai prima considerate nella loro<br />

profonda umanità, agli ambienti degli emarginati colti<br />

nella sor<strong>di</strong>da miseria della loro esistenza, ma anche<br />

nella loro solidarietà reciproca e nel tenace attaccamento<br />

alla vita. C’è davvero un nuovo epos soprattutto<br />

nei poemetti portiani, l’epos degli sfruttati e degli<br />

oppressi (si pensi a Manzoni, ma in un clima <strong>culturale</strong><br />

laico), che vivono nell’in<strong>di</strong>genza e tuttavia non sono<br />

privi né <strong>di</strong> una loro spiritualità né della capacità vitalissima<br />

<strong>di</strong> scherzare sulle loro e altrui vicende, con una<br />

evidente <strong>di</strong>alettica tra farsa e trage<strong>di</strong>a, o meglio con la<br />

<strong>di</strong>sposizione tutta popolana a costruire una comme<strong>di</strong>a<br />

della trage<strong>di</strong>a, “ con una continua frizione tra i due<br />

poli e il conseguente scintillio elettrico della battuta,<br />

il guizzo impertinente della comicità”. (Paolo Mauri,<br />

1995).<br />

Esplosiva è anche la novità espressiva e formale del<br />

Porta, il quale sceglie con consapevolezza <strong>di</strong> cultura<br />

e <strong>di</strong> poetica l’uso del <strong>di</strong>aletto, che si rifaceva sì a una<br />

lunga tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong>alettale milanese dal sec.XV in poi,<br />

attraverso scrittori come Carlo Maria Maggi, canonizzatore<br />

della figura <strong>di</strong> Meneghino nel 1600 e Tanzi,<br />

Balestrieri, lo stesso Parini (pur severo classicista in<br />

lingua) nel 1700, ma aveva anche la forza <strong>di</strong>rompente<br />

<strong>di</strong> uno strumento nuovo e completamente libero,senza<br />

freni o autocensure. A ben vedere, il poeta portò alle<br />

estreme conseguenze l’obiettivo del Romanticismo<br />

italiano <strong>di</strong> scrivere in modo comprensibile ai più, <strong>di</strong><br />

utilizzare cioè uno strumento linguistico liberato dagli<br />

artificiosi e polverosi accademismi classicistici e capace<br />

<strong>di</strong> parlare al popolo e per il popolo. Ma il popolo<br />

milanese in quel periodo utilizzava come strumento<br />

quoti<strong>di</strong>ano <strong>di</strong> comunicazione il <strong>di</strong>aletto, e perciò, assumendolo<br />

come suo co<strong>di</strong>ce espressivo, il Porta operò<br />

una scelta decisamente romantica e fortemente innovativa.<br />

Il <strong>di</strong>aletto era davvero in quell’età la “lingua”<br />

<strong>di</strong> un’intera città, in tutti i suoi ceti: così nel mondo<br />

poetico portiano il messaggio linguistico viene adoperato<br />

nelle sue varie sfumature, dal livello schiettamente<br />

popolare e gergale tipico <strong>di</strong> quartieri e <strong>di</strong> gruppi sociali<br />

“bassi”, al cosiddetto “parlar finito”, proprio dell’aristocrazia<br />

reazionaria e ottusamente conservatrice. E’<br />

quel modo <strong>di</strong> parlare in punta <strong>di</strong> labbra, altezzoso e<br />

tagliente, mo<strong>di</strong>ficato rispetto al linguaggio della plebe<br />

dalla maggior vicinanza all’italiano, che lo rende artefatto<br />

e ambiguo come il costume e il modo <strong>di</strong> sentire<br />

<strong>di</strong> quella classe.<br />

In polemica con i sostenitori assoluti della lingua della


tra<strong>di</strong>zione, il Porta riba<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> aver appreso i propri<br />

mezzi espressivi “alla scoera de la lingua del Verzee”,<br />

ossia alla scuola <strong>di</strong> lingua del mercato della verdura,<br />

dove egli si recava spesso, attratto dai vari tipi umani<br />

e dalla molteplicità <strong>di</strong> casi <strong>di</strong> quel vero laboratorio <strong>di</strong><br />

vita e <strong>di</strong> linguaggio genuinamente popolaresco.<br />

Accanto all’uso sempre più consapevole e magistralmente<br />

vario del <strong>di</strong>aletto milanese, si riscontra nella<br />

produzione portiana anche il ricorso a quello che si<br />

chiama pastiche linguistico e che si costruisce accostando<br />

nello stesso testo linguaggi o ad<strong>di</strong>rittura lingue<br />

<strong>di</strong>verse: è il caso della mescolanza francese-milanese<br />

in molti testi riferiti alla dominazione francese a Milano<br />

nell’età napoleonica, particolarmente nel poemetto<br />

Desgrazi de Giovannin Bongee, il cui protagonista è<br />

un modesto lavoratore a cui quell’accident d’on cavion<br />

frances insi<strong>di</strong>a apertamente la moglie provocando<br />

le sue proteste in un gustosissimo <strong>di</strong>alogo plurilinguistico.<br />

Un altro esempio <strong>di</strong> rara sapienza linguistica<br />

ed espressiva è costituito dal pastiche tra <strong>di</strong>aletto meneghino<br />

e lingua latina, usato con particolare efficacia<br />

nel famoso componimento On funeral, noto anche col<br />

titolo <strong>di</strong> Miserere, datogli dal Grossi. Il testo rientra<br />

nella numerosa produzione satirica nei confronti <strong>di</strong><br />

una parte del clero, quella formata da preti senza vocazione,<br />

grettamente egoisti e avi<strong>di</strong>, meschinamente<br />

attaccati ai potenti per trarne lucro. Non si creda che<br />

il poeta voglia propagandare una concezione atea o<br />

irreligiosa: il Porta è piuttosto erede <strong>di</strong> quello spirito<br />

illuministico per cui la fede è un fatto personale e privato,<br />

che non può ridursi a gerarchie, riti, ipocrisie e<br />

interessi materiali: egli esprime il suo sdegno, ancorché<br />

sempre in forme <strong>di</strong> <strong>di</strong>vertimento satirico, nei con-<br />

fronti <strong>di</strong> chi in nome <strong>di</strong> una falsa religiosità inganna il<br />

prossimo e soprattutto gli umili. Dalla satira abilissima<br />

emerge la condanna dell’ipocrisia e della violenza<br />

morale, in nome anche <strong>di</strong> una più schietta religiosità.<br />

El Miserere racconta <strong>di</strong> come il Porta assista in San<br />

Fedele all’ufficio funebre in suffragio <strong>di</strong> un ricco defunto<br />

e afferri nel contempo la conversazione che gli<br />

officianti intercalano ai versetti del Salmo, rivelando<br />

una assoluta in<strong>di</strong>fferenza al rito che si va compiendo e<br />

una preoccupazione rivolta esclusivamente al pranzo<br />

che li aspetta e ad altri consimili questioni materiali e<br />

volgarmente quoti<strong>di</strong>ane.<br />

Miserere mei Deus-E a <strong>di</strong>snà?<br />

Secundum magnam-do cosett o tre<br />

...<br />

E el scabbi come l’è? (scabbi= vino)<br />

Et multum lava me<br />

Ab injustitia mea, et a delicto-<br />

Eel car?-Puttasca! E subet, munda me…<br />

La stessa satira, ma meno grottesca del canto salmo<strong>di</strong>ante<br />

dei due preti blasfemi, si trova in molti altri<br />

componimenti: ne La mia povera nonna la gh’aveva<br />

parla un nipote a cui la nonna ha lasciato in ere<strong>di</strong>tà on<br />

vignoeu, una piccola vigna, raccomandandogli <strong>di</strong> dare<br />

la loro parte ai frati che venivano a bene<strong>di</strong>re il podere,<br />

se voleva avere prodotto abbondante. Ma quando Napoleone<br />

elimina molti or<strong>di</strong>ni religiosi, questo obbligo<br />

viene meno, eppure nulla <strong>di</strong> male accade alla vigna,<br />

anzi Franzeschin, l’erede, si trova avvantaggiato: in<br />

scambi hoo bevuu anch quell che dava ai fraa.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

13<br />

“Il Naviglio a Milano”,<br />

stampa colorata<br />

della prima metà<br />

del XIX secolo<br />

Attraverso<br />

la potente<br />

arma della satira,<br />

Porta esprime<br />

il suo sdegno<br />

nei confronti<br />

<strong>di</strong> chi in nome<br />

<strong>di</strong> una falsa<br />

religiosità<br />

inganna<br />

il prossimo


Piazza della Scala<br />

in una stampa<br />

ottocentesca<br />

Grazie<br />

al sapiente uso<br />

del <strong>di</strong>aletto<br />

milanese,<br />

Carlo Porta<br />

sostiene<br />

la posizione<br />

romantica<br />

nel <strong>di</strong>battito<br />

tra i nuovi poeti<br />

e il classicismo<br />

Né si può <strong>di</strong>menticare il potente affresco de La nomina<br />

del Cappellan, in cui una dama altezzosa e conformista,<br />

la Marchesa Paola Cangiasa, sceglie, attraverso<br />

un sussiegoso maggiordomo, il nuovo cappellano <strong>di</strong><br />

palazzo. Poiché in casa dopo la padrona viene subito al<br />

secondo posto la cagnetta, la Lilla, il cui accompagnamento<br />

a passeggio rientra nei compiti del Cappellano,<br />

viene alla fine scelto tra tanti postulanti non molto<br />

puliti e male in arnese, quello che sembra essere più<br />

gra<strong>di</strong>to alla poco simpatica bestiola. Solo alla fine si<br />

saprà che il fortunato aveva in tasca tre o quatter fett/<br />

de salamm de basletta…<br />

Del <strong>di</strong>aletto il Porta si serve anche per sostenere, dopo<br />

il 1815-16, la posizione romantica nel <strong>di</strong>battito tra i<br />

nuovi poeti e i classicisti, <strong>di</strong>mostrando pure così, oltre<br />

che nell’uso <strong>di</strong> una metrica sciolta, armonica e regolarissima,<br />

soprattutto nelle ottave ariostesche e negli<br />

endecasillabi , che l’utilizzo del <strong>di</strong>aletto milanese non<br />

si risolve affatto per lui nelle “bosinate” dalla facile<br />

comicità o nelle poesie d’occasione, come fa notare<br />

Dante Isella, il grande stu<strong>di</strong>oso soprattutto della filologia<br />

portiana. Il <strong>di</strong>aletto <strong>di</strong>venta così uno strumento<br />

linguistico frutto <strong>di</strong> elaborazione <strong>culturale</strong> e tanto ampio<br />

nel respiro da poter affrontare anche temi <strong>di</strong> poetica<br />

e argomentazioni a sostegno della nuova corrente<br />

<strong>culturale</strong>.<br />

A buon <strong>di</strong>ritto il Porta rientra nel <strong>di</strong>battito <strong>culturale</strong> dell’epoca,<br />

<strong>di</strong>mostrando <strong>di</strong> aver perfettamente in<strong>di</strong>viduato<br />

l’elemento strutturale fondativo del Romanticismo,<br />

che consiste nel rifiuto delle regole cosiddette aristoteliche<br />

e nella riven<strong>di</strong>cazione dell’assoluta libertà del<br />

poeta nelle tematiche e nel linguaggio. Naturalmente<br />

14 I L VA G L I O<br />

lo fa assecondando lo spirito spregiu<strong>di</strong>cato, scherzoso<br />

e ammiccante dell’i<strong>di</strong>oma milanese. Così, nel componimento<br />

intitolato “Il Romanticismo”, sotto forma <strong>di</strong><br />

una lettera a una signora, Madama Bibin (Barbara),<br />

che si era <strong>di</strong>chiarata avversa alla poesia romantica<br />

con competenza in merito quanto meno sospetta, il<br />

Porta spiega affettuosamente che la poesia è un fatto<br />

<strong>di</strong>namico, che segue come tutte le cose i movimenti<br />

della storia e lo spirito del tempo. Ma la chiusa della<br />

lunga epistola, secondo le migliori tra<strong>di</strong>zioni satiriche<br />

dell’inaspettato alla fine (fulmen in clausola secondo<br />

i Latini), paragona la libertà dei Romantici all’impossibilità<br />

<strong>di</strong> un passante nei pressi del Duomo <strong>di</strong> frenare<br />

i propri bisogni corporali: Fan tal e qual che fava quel<br />

bon omm/ che ghe criaven (che la scusa un poo)/perché<br />

el fava i fatt soeu depos al Domm:/ Se po’ no, se<br />

po’ no!..Ma mi la fo,… E il poeta conclude l’insolita<br />

quanto efficace similitu<strong>di</strong>ne con la frase S’el gaviss<br />

tort o no la <strong>di</strong>ga lee.<br />

Il successo che i testi poetici del Porta (a cui il Cherubini<br />

aveva riservato il XII volume della “Collezione<br />

delle migliori opere scritte in <strong>di</strong>aletto milanese” iniziata<br />

nel 1816) riportarono fin dalla loro prima uscita<br />

pubblica è testimoniato, tra le varie e numerose<br />

attestazioni, dal giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> un altro grande scrittore<br />

lombardo, Carlo Cattaneo: “…Fu allora che…il nostro<br />

<strong>di</strong>aletto si impregnò della più audace ironia. Nelle<br />

storie <strong>di</strong> Porta ella si unì a tutto il vigore e a tutta la<br />

verità <strong>di</strong> un <strong>di</strong>pinto fiammingo. La moderna poesia <strong>di</strong><br />

tutta Italia non ha una pagina che somigli alla parlante<br />

evidenza <strong>di</strong> quelle scene”.


Il Carnevale<br />

Il carnevale è gioia <strong>di</strong> vivere, amore, allegria,<br />

giovinezza, vuole cancellare i momenti <strong>di</strong>fficili<br />

dell’anno appena trascorso ed è speranza nel<br />

futuro. Esalta il concetto edonistico della vita<br />

così bene espresso nel delizioso Canto Carnascialesco<br />

<strong>di</strong> Lorenzo il Magnifico, il Trionfo <strong>di</strong> Bacco<br />

ed Arianna, in cui l’autore, secondo il critico Natalino<br />

Sapegno, “ si fa cantore <strong>di</strong> un’ebbrezza vasta e <strong>di</strong>ffusa<br />

quanto indeterminata e povera <strong>di</strong> rilievo in<strong>di</strong>viduale.”<br />

Quant’è bella giovinezza<br />

che si fugge tuttavia!<br />

Chi vuol esser lieto sia:<br />

<strong>di</strong> doman non c’è certezza...<br />

...Ciascun apra ben gli orecchi,<br />

<strong>di</strong> doman nessun si paschi,<br />

siam, giovani e vecchi<br />

lieti ognun, femmine e maschi,<br />

ogni tristo pensier caschi:<br />

facciam festa, tuttavia.<br />

Chi vuol esser lieto sia<br />

Di doman non c’è certezza!<br />

Celebrare il carnevale è vivere una festa <strong>di</strong> libertà, un<br />

rito liberatorio, un mutare d’identità, un gioco delle<br />

parti, come riscatto da schemi in cui si è costretti ad<br />

operare. Ci si traveste, si indossa una maschera, si assumono<br />

ruoli <strong>di</strong>versi dal quoti<strong>di</strong>ano. Questo è lo spirito<br />

del carnevale da anni lontani che si perdono nel tempo<br />

ed è ancor vivo ai giorni nostri: gli uomini indossano<br />

abiti femminili, le donne quelli maschili, si <strong>di</strong>venta un<br />

personaggio illustre o un poveraccio, il malinconico<br />

Pierrot o l’allegro Arlecchino, si <strong>di</strong>venta un’ immagine<br />

caricaturale <strong>di</strong> una persona nota, oppure un gattone,<br />

una tigre aggressiva, un mostro... Le feste dei bimbi<br />

sono affollate <strong>di</strong> fatine, Biancaneve, damine, pellerossa,<br />

Zorro, Batman, extraterrestri...<br />

L’etimologia della parola carnevale non è chiara; va<br />

per la maggiore la derivazione dal latino “carnem<br />

vale”, ad<strong>di</strong>o alla carne, proprio del primo giorno <strong>di</strong><br />

quaresima. Le feste carnevalesche sono nate da miti<br />

nel tempo<br />

ABBUFFATE, MASCHERATE, DANZE E ALLEGRIA<br />

<strong>di</strong><br />

Eufemia Marchis Magliano<br />

antichissimi, proprii <strong>di</strong> varie civiltà, dal concetto della<br />

deità del Sole e della Terra e dei loro poteri misteriosi<br />

da propiziare con cerimonie sacre. Le costumanze<br />

carnevalesche nel corso degli anni si sono rifatte alle<br />

antiche feste religiose per gli auspici del nuovo anno<br />

agli inizi della primavera, la rinascita della natura dopo<br />

la stasi invernale. Assiri, Babilonesi, Egizi, Greci,<br />

Romani solevano de<strong>di</strong>care i giorni <strong>di</strong> fine inverno a riti<br />

festosi con cortei, danze, maschere, canti, che terminavano<br />

per lo più con il sacrificio agli Dei <strong>di</strong> un animale,<br />

simbolo dello spirito del male. I popoli mesopotamici<br />

davano alla loro festa la caratteristica <strong>di</strong> un rituale magico<br />

in cui la lotta fra il bene ed il male rappresentava<br />

la ricerca dell’immortalità con le cerimonie dell’acqua<br />

e della “pianta <strong>di</strong> vita” nello svolgersi delle stagioni.<br />

A Babilonia il <strong>di</strong>o Sole era posto su <strong>di</strong> una nave con<br />

ruote che procedeva accompagnata da gente festante<br />

in ruoli invertiti: il ricco <strong>di</strong>ventava povero, lo schiavo<br />

padrone ed era concessa una gran<strong>di</strong>ssima libertà;<br />

infatti non c’era freno alla lussuria, al gioco, a pantagrueliche<br />

abbuffate.<br />

Nell’antico Egitto l’avvento della primavera era celebrato<br />

con sette giorni <strong>di</strong> cerimonie e luculliani banchetti.<br />

Uomini, donne, giovani ed anziani, tutti mascherati,<br />

seguivano per le vie delle città un bue <strong>di</strong>pinto e dalle<br />

corna dorate, addobbato con un manto sontuoso.<br />

L’avanzare del corteo era accompagnato da fanciulle<br />

nude e da sacerdoti che danzavano cantando lo<strong>di</strong> al<br />

bue, ad Osiride, <strong>di</strong>o della vegetazione, ed alla sua sposa<br />

Iside, dea della natura. Al termine delle feste il bue<br />

era sacrificato agli dei fra il salmo<strong>di</strong>are dei sacerdoti.<br />

Questo tipo <strong>di</strong> festeggiamenti, passato in Grecia, <strong>di</strong>ede<br />

origine alle celebrazioni del ritorno della primavera nel<br />

mito <strong>di</strong> Demetra, la madre Terra, e Persefone, sua figlia,<br />

simbolo della rinascita della vegetazione. Per una<br />

settimana, uomini e donne in maschera danzavano e<br />

cantavano inni <strong>di</strong> auspicio per il ritorno alla vita della<br />

natura, seguendo il corteo orgiastico del <strong>di</strong>o Dioniso,<br />

protettore del vino e del ciclo delle stagioni.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

Cultura&&&<br />

15<br />

Storia<br />

L’etimologia<br />

della parola<br />

non è chiara:<br />

va per la maggiore<br />

la derivazione<br />

dal latino<br />

“carnem vale”,<br />

ad<strong>di</strong>o alla carne,<br />

proprio del primo<br />

giorno<br />

<strong>di</strong> quaresima


Come tanti<br />

riti pagani,<br />

Baccanali,<br />

Saturnali<br />

e Lupercali,<br />

furono accolti<br />

nelle feste<br />

dell’epoca<br />

cristiana,<br />

evolvendosi<br />

nel Carnevale<br />

Il rito greco continuò a Roma nei Baccanali, nei Saturnali,<br />

nei Lupercali. I primi in onore <strong>di</strong> Bacco, il Dioniso<br />

dei greci, signore della vendemmia e dei prodotti della<br />

terra. Nati fra i conta<strong>di</strong>ni che si davano ad una sfrenata<br />

allegria <strong>di</strong>vennero così licenziosi a Roma da essere<br />

proibiti dai consoli e dal Senato nel 185 a.C. I Saturnali,<br />

de<strong>di</strong>cati a Saturno, <strong>di</strong>o della semina, esaltavano<br />

l’età dell’oro, allorchè tutti gli uomini erano uguali,<br />

con cortei <strong>di</strong> maschere e carri decorati, trascinati da<br />

animali con strane bardature. Durante i festeggiamenti<br />

che duravano da tre a sei giorni, cessava l’autorità dei<br />

padroni sui propri schiavi i quali, indossata una maschera,<br />

avevano il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> agire come desideravano.<br />

Veniva creato un re da burla, uno schiavo cui andavano<br />

tutti gli onori, ma che, a volte, veniva sacrificato al<br />

termine delle feste. I Lupercali, in onore della lupa, la<br />

leggendaria nutrice <strong>di</strong> Romolo e Remo, o del <strong>di</strong>o fauno<br />

Luperco, tutore della terra e della fecon<strong>di</strong>tà femminile,<br />

si celebravano il 15 febbraio <strong>di</strong> ogni anno con funzioni<br />

religiose dei sacerdoti lupercali, i quali mascherati e<br />

coperti <strong>di</strong> pelli, correvano intorno all’antica città palatina<br />

percuotendo con strisce <strong>di</strong> pelle le donne a cui il<br />

<strong>di</strong>o Luperco avrebbe donato la fertilità. Come tanti riti<br />

pagani, Baccanali, Saturnali e Lupercali, furono accolti<br />

nelle feste dell’epoca cristiana. I Lupercali giunsero a<br />

trasformarsi in una sfrenata orgia della plebe e furono<br />

proscritti dal papa Gelasio I nel 400. I Baccanali<br />

ed i Saturnali <strong>di</strong>vennero un <strong>di</strong>vertimento buffonesco:<br />

le cosiddette “Feste dei pazzi” che si tenevano nelle<br />

chiese con il permesso dei vescovi. Ma anche queste<br />

degenerarono; per le canzoni ad<strong>di</strong>rittura oscene tollerate<br />

dall’autorità ecclesiastica furono abolite e sostituite<br />

dalle feste del Carnevale dette Ba<strong>di</strong>e, organizzate da<br />

associazioni <strong>di</strong> giovani sotto la responsabilità <strong>di</strong> un<br />

Abbà ed il controllo della Chiesa. Nei secoli che seguirono<br />

si svolsero le feste carnevalesche nei paesi cattolici-romani.<br />

In Italia, Francia, Spagna si organizzarono<br />

festeggiamenti burleschi, talora sfrenati, al termine<br />

dei quali una figura grottesca dai nomi vari secondo i<br />

luoghi, veniva bruciata, gettata in acqua o comunque<br />

<strong>di</strong>strutta fra urla, improperi, male<strong>di</strong>zioni degli astanti<br />

come in uso fra i popoli antichi. Il fantoccio messo a<br />

morte ci riconduce al mito dell’incarnazione dell’arcaica<br />

<strong>di</strong>vinità della vegetazione uccisa annualmente insieme<br />

alle sue negatività per rinascere in primavera, ricca<br />

<strong>di</strong> promesse e doni.<br />

Venezia era già celebre nel me<strong>di</strong>oevo per le mascherate<br />

in cui il popolo si mescolava ai signori del Gran<br />

Consiglio, ai rappresentanti dei Sestieri, ad allegre<br />

compagnie <strong>di</strong> Siciliani, Napoletani, Calabresi, nei loro<br />

costumi caratteristici. Tutti solevano indossare una<br />

maschera, <strong>di</strong>ritto inviolabile tutelato da apposite leggi,<br />

che poteva, però, essere complice d’intrighi e scherzi <strong>di</strong><br />

cattivo gusto, allorchè, come venne <strong>di</strong> moda, riproduceva<br />

il viso <strong>di</strong> qualche persona e permetteva incresciosi<br />

scambi d’identità. I Veneziani, cui s’aggiunsero persone<br />

d’ogni parte d’Europa, si davano alla pazza gioia:<br />

balli, rappresentazioni teatrali, cortei <strong>di</strong> gondole sul<br />

Canal Grande tra suoni <strong>di</strong> piatti e mandolini e scambio<br />

<strong>di</strong> lazzi e frizzi dalla singolare arguzia e comicità.<br />

16 I L VA G L I O<br />

Le feste carnevalesche a Napoli hanno una tra<strong>di</strong>zione<br />

più che secolare; nel 1400 giunsero ad essere <strong>di</strong> particolare<br />

splendore, organizzate con gran <strong>di</strong>spen<strong>di</strong>o <strong>di</strong><br />

denaro, ammirate anche dagli stranieri. I <strong>di</strong>vertimenti<br />

<strong>di</strong> quell’anno furono tanti e tanto liberi da sfociare in<br />

tumulti, risse, incidenti ad<strong>di</strong>rittura mortali che produssero<br />

perfino condanne a morte. Ad ogni termine del<br />

periodo invernale, le feste napoletane erano ricche <strong>di</strong><br />

carri, <strong>di</strong> maschere popolari che occupavano le vie della<br />

città in allegria anche smodata, mentre gli aristocratici<br />

si <strong>di</strong>vertivano con galà, spettacoli, lauti pranzi. Nel<br />

secolo XIX i toni si fecero più moderati; per l’antico<br />

splendore è ricordato il ballo al Teatro Regio del 1827,<br />

sontuosamente allestito con quadri storici viventi i cui<br />

protagonisti erano gli appartenenti alla migliore società<br />

<strong>di</strong> Napoli.<br />

Maschere, danze, cortei <strong>di</strong> gente festante, sfilate <strong>di</strong> carri,<br />

scorpacciate caratterizzarono anche il carnevale <strong>di</strong><br />

Firenze. I citta<strong>di</strong>ni usavano aggirarsi per strade e piazze<br />

cantando canzoni satiriche ed erotiche. All’epoca <strong>di</strong><br />

Lorenzo il Magnifico, i carri, detti “Trionfi” raffiguravano<br />

personaggi storici o mitologici ed erano accompagnati<br />

da suonatori <strong>di</strong> piatti e liuti e da maschere che<br />

cantavano i canti carnascialeschi del Magnifico e dei<br />

poeti della sua corte. Si percorreva la via dal ponte Vecchio<br />

a piazza del Duomo, mentre folleggiavano ninfe e<br />

satiri, redarguiti dai Piagnoni, seguaci del Savonarola,<br />

con la recita del Miserere sul loro nero carro adorno <strong>di</strong><br />

scheletri e <strong>di</strong> casse da morto.<br />

Roma non fu da meno delle altre città sunnominate nelle<br />

allegre gazzarre dei giorni <strong>di</strong> carnevale, anche per la<br />

propensione ad atteggiamenti e linguaggi lontani dal<br />

comune senso morale. Il carnevale romano nacque nel<br />

X secolo ed il suo periodo <strong>di</strong> maggior sfarzo e raffinatezza<br />

si ebbe nel 1500. Papi, car<strong>di</strong>nali, alti prelati amavano<br />

travestirsi e mescolarsi ai cortei popolari. Vestivano<br />

abiti lussuosi, bordati d’oro, e seguivano i “trionfi”<br />

accompagnati da autorità, da uomini in arme, da paggi<br />

e valletti. Come nelle altre città i “trionfi” erano raffigurazioni<br />

<strong>di</strong> scene mitologiche o storiche. Negli anni <strong>di</strong><br />

Paolo III, oltre i soliti carri, c’era un proliferare <strong>di</strong> banchetti<br />

<strong>di</strong> ecclesiastici, mentre il giovedì grasso erano<br />

d’uso sfilate <strong>di</strong> taverneri, falegnami, calzolai, musici,<br />

muratori, soldati alla presenza <strong>di</strong> una folla chiassosa<br />

e sovente rissosa. Il carnevale romano continuò i suoi<br />

fasti nel 1600 e nel 1700, ma non mancarono gravi zuffe<br />

fra popolani e signorotti prepotenti che sovente sfociarono<br />

in scene violente con morti e feriti. Il governo<br />

<strong>di</strong> Roma si trovò a comminare la pena <strong>di</strong> morte a chi,<br />

durante le feste, avrva commesso omici<strong>di</strong>.<br />

A tutt’oggi il carnevale è presente in molte località con<br />

manifesrazioni eterogenee, maschere caratteristiche<br />

delle varie città, sfilate <strong>di</strong> figuranti e carri che ricordano<br />

epoche passate importanti. Il tutto accompagnato<br />

da ricchi pasti. E’ una festa alimentata da uno spirito<br />

affrancatorio, è un gioco che non vuole avere memoria<br />

degli avvenimenti negativi dell’anno trascorso, è la coscienza<br />

ancestrale dello scorrere della vita dal male al<br />

bene desiderato, propiziato, sperato.


Quando la risata<br />

era una faccenda<br />

“artigianale”<br />

LE EVOLUZIONI DEL SENSO UMORISTICO CONFRONTATE AI REPERTI DELLA SATIRA CHE FU<br />

Uno degli effetti deteriori derivanti dall’ingresso<br />

della società nell’era cato<strong>di</strong>ca, o<br />

meglio, nel suo sta<strong>di</strong>o morboso, è il generale<br />

appiattimento del senso dello humour.<br />

Ne sono prova i cosiddetti “tormentoni”,<br />

battute ad effetto che una volta conquistato il gusto popolare<br />

si trasformano in martellanti cantilene, piante infestanti<br />

allignate sul ciglio della strada della massificazione<br />

me<strong>di</strong>atica contemporanea. Le gag dei comici televisivi<br />

<strong>di</strong>ventano un <strong>di</strong>sco rotto che la gente continua a suonare<br />

<strong>di</strong><br />

Stefano Se<strong>di</strong>no<br />

nella convinzione <strong>di</strong> risultare simpatica, togliendo spazio<br />

vitale all’inventiva. C’è un rapporto <strong>di</strong> reciprocità, se non<br />

<strong>di</strong> subor<strong>di</strong>nazione, tra questo fenomeno e la complessiva<br />

standar<strong>di</strong>zzazione <strong>culturale</strong> prodotta dai me<strong>di</strong>a. Assottigliandosi<br />

il <strong>di</strong>vario <strong>di</strong> conoscenze tra le <strong>di</strong>verse classi<br />

sociali (<strong>di</strong> per sé un’ottima cosa) è progressivamente venuta<br />

meno la relativa variabilità linguistica. In realtà, il<br />

lessico dell’italiano me<strong>di</strong>o (altra creatura mostruosa delle<br />

comunicazioni <strong>di</strong> massa) corrisponde ad una porzione<br />

assai limitata dell’i<strong>di</strong>oma nel suo complesso.<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

Cultura&&&<br />

17<br />

Memoria<br />

“Il Tavolo Rotto”<br />

del 16 febbraio 1946<br />

Oggi non c’è spazio<br />

per l’inventiva:<br />

la gente ripete<br />

a oltranza<br />

i “tormentoni”<br />

comici sentiti<br />

alla tivù,<br />

convinta<br />

per questo<br />

<strong>di</strong> risultare<br />

simpatica


Le prime pagine<br />

<strong>di</strong> “Al Giaferr”<br />

e del “Fasoulin”<br />

Il “Tavolo Rotto”<br />

e “Lo zio<br />

del Tavolo Rotto”<br />

sono la sintesi<br />

cartacea<br />

<strong>di</strong> quello spirito<br />

goliar<strong>di</strong>co<br />

<strong>di</strong> casa<br />

al Caffé Lomellino<br />

nell’imme<strong>di</strong>ato<br />

secondo Dopoguerra<br />

Lo si definisce “linguaggio <strong>di</strong> uso comune” e la tivù ha<br />

non poco contribuito a delimitarne i contorni. Parallelamente<br />

si è ristretto e conformato anche lo spettro<br />

dell’umorismo, che del linguaggio è parente strettissimo.<br />

Prima che il piccolo schermo smettesse <strong>di</strong> essere<br />

una macchina meravigliosa, spettacolare in sé e per sé,<br />

la ricerca <strong>di</strong> evasione passava per forme <strong>di</strong> creatività<br />

“personalizzate” e <strong>di</strong>rettamente correlate alle con<strong>di</strong>zioni<br />

socio-culturali degli in<strong>di</strong>vidui. I conta<strong>di</strong>ni, dopo<br />

una giornata <strong>di</strong> estenuante lavoro, si ritrovavano nelle<br />

stalle per compensare gli sforzi <strong>di</strong>urni con lo svago<br />

dei pruwèrbi, “false friend” del termine “proverbi”,<br />

trattandosi quasi esclusivamente <strong>di</strong> apologhi spassosi:<br />

ognuno ci metteva del suo, adattando al proprio<br />

quoti<strong>di</strong>ano e guarnendo con fantasia storielle facete<br />

trasmesse dalla tra<strong>di</strong>zione orale. L’altro estremo della<br />

risata era l’umorismo raffinato delle classi colte, uno<br />

humor elitario dotato <strong>di</strong> un corpus lessicale più ampio<br />

<strong>di</strong> quello popolare. A metà strada si potevano trovare<br />

parecchie sfumature. Lo rivelano “reperti archeologici”<br />

come “Il Tavolo Rotto” o “Lo zio del Tavolo Rotto”,<br />

due pubblicazioni garbatamente satiriche redatte e<br />

date alle stampe nella Mortara dell’imme<strong>di</strong>ato secondo<br />

Dopoguerra, più precisamente nel febbraio e nel<br />

novembre del 1946. Queste pagine, oggi ammantate<br />

<strong>di</strong> gusto retrò, sono la traduzione cartacea del clima<br />

che si respirava al “Caffé Lomellino”, quartier generale<br />

degli sc-ciapatàvul. Il tipo <strong>di</strong> buon umore proposto<br />

è un punto <strong>di</strong> sintesi tra l’animo bohèmiene degli<br />

studenti universitari che frequentavano l’esercizio (tra<br />

cui un giovanissimo <strong>Giancarlo</strong> <strong>Costa</strong>) e la schietta comicità<br />

<strong>di</strong> provincia. Il registro che ne risulta è un felice<br />

impasto <strong>di</strong> terminologie forbite e spora<strong>di</strong>che incursioni<br />

vernacolari, in pieno spirito goliar<strong>di</strong>co. Ne “Lo zio<br />

del Tavolo Rotto” è inoltre presente una rassegna <strong>di</strong><br />

18 I L VA G L I O<br />

notizie leggere come piume intitolata “Giro <strong>di</strong> Mortara”,<br />

spazio che tra<strong>di</strong>sce un forte debito d’ispirazione<br />

verso il “Can<strong>di</strong>do” <strong>di</strong> Guareschi e Mosca: l’incipit<br />

“Qui a Mortara tutto bene” ricalca il motto “Qui in<br />

Italia va tutto bene” con cui l’ideatore dei personaggi<br />

<strong>di</strong> Peppone e Don Camillo era solito iniziare la rubrica<br />

“Giro d’Italia”. Si potrebbe obiettare che, alla luce<br />

<strong>di</strong> ciò, allora come oggi i “tormentoni” e i modelli<br />

preconfezionati avevano la loro incidenza sul sentire<br />

umoristico comune. La <strong>di</strong>fferenza sostanziale sta nel<br />

fatto che mentre gli stereotipi o<strong>di</strong>erni sono scimmiottati<br />

senza esercizio <strong>di</strong> personalità, i vecchi schemi<br />

facevano da impalcatura a libere variazioni sul tema,<br />

nel caso specifico rese originali da tratti, per così <strong>di</strong>re,<br />

<strong>di</strong> genuino sarcasmo territoriale. Tra le peculiarità<br />

dei fogli mortaresi si trova la capacità <strong>di</strong> chiamare in<br />

causa, con abili frizzi, i protagonisti della vita citta<strong>di</strong>na:<br />

politici del tempo, intellettuali, macchiette, amici<br />

e conoscenti... In questo “Il Tavolo Rotto” si fa erede<br />

dell’impostazione <strong>di</strong> fortunati settimanali dell’area<br />

“pavesofona” come il “Fasoulin”, “Ael ramolass”, il<br />

“Bagoulin” o “Al Giaferr”, castigamatti dei ghiribizzi<br />

delle mode, delle goffaggini popolane e in generale<br />

<strong>di</strong> ogni aspetto risibile dell’ambiente provinciale nei<br />

decenni sfavillanti della Belle Époque. Pochissimi gli<br />

esempi in questa <strong>di</strong>rezione negli anni a venire. Si è<br />

perso il gusto della satira “localizzata”, forse perché<br />

si sono ridotte le <strong>di</strong>stanze tra la realtà rurale e quella<br />

urbana, e al contempo si è rimpicciolita la gamma dei<br />

tipi umani <strong>di</strong>vertenti. Allargando la visuale si può constatare<br />

come è la stampa satirica in genere ad essere in<br />

declino, confinata sempre più in una nicchia dai co<strong>di</strong>ci<br />

televisivi. Tuttavia, riflettendoci, il genio dello humour<br />

non è affatto scomparso. È solo nascosto dalla torma<br />

<strong>di</strong> replicanti che ne emulano le brillanti trovate.


La gioia<br />

è il principio<br />

LA FORZA CREATRICE E LA PORTATA CREATIVA DELLO STATO D’ANIMO PIÙ LEGGERO<br />

La gioia è il principio della speranza! La<br />

gioia è il canto della terra! La gioia è la<br />

musica del cielo!<br />

Quante volte nell’arte abbiamo sentito,<br />

visto o assaporato la manifestazione della<br />

gioia, attraverso un <strong>di</strong>pinto, una scultura, una sinfonia,<br />

un piatto <strong>di</strong> pasta al sugo: è lo stato d’animo<br />

per eccellenza che crea, fa scaturire, porta avanti, fa<br />

camminare, progettare, inebriare. E’ la spinta che forse<br />

convinse Colui che fece il mondo a non essere più<br />

solo, a mettere da parte il nulla e a dare inizio a tutte le<br />

cose. Anche nella musica essa è spesso il principio che<br />

fa tacere il silenzio e incominciare una linea melo<strong>di</strong>ca<br />

o un concatenarsi <strong>di</strong> armonie: basti sentire ad esempio<br />

qualsiasi coro dal Messiah <strong>di</strong> Händel o il celeberrimo<br />

Joy to the world per rendersi conto <strong>di</strong> quanto la musica<br />

da un lato sia originata da questo sentimento e dall’altro,<br />

invece, quanto essa stessa possa trasmetterlo in chi<br />

ha fortuna <strong>di</strong> ascoltarla o <strong>di</strong> eseguirla.<br />

L’atto dell’ascolto è infatti un momento <strong>di</strong> grande<br />

gioia; anzi, molto <strong>di</strong> più: è il momento nell’esistenza<br />

quoti<strong>di</strong>ana in cui maggiormente si prova tale stato<br />

d’animo, un attimo o un tempo prolungato – se si ha<br />

particolare fortuna – in cui l’anima è ricolma <strong>di</strong> sovrabbondanza.<br />

Anche nelle gran<strong>di</strong> avversità, nei momenti<br />

<strong>di</strong> depressione, in cui ci si accanisce contro se<br />

stessi e contro il mondo, i gran<strong>di</strong> animi sanno e osano<br />

gioire, come nel caso <strong>di</strong> Beethoven, che passa dallo<br />

struggimento nero del “testamento <strong>di</strong> Heiligenstad”, al<br />

finale glorioso della Nona Sinfonia, <strong>di</strong>ventato uno dei<br />

brani più famosi della storia, conosciuto da tutti come<br />

l’Inno alla gioia (su testo <strong>di</strong> Schiller) ed adottato come<br />

inno e simbolo dell’Europa. Anche nelle forme religio-<br />

della vita<br />

<strong>di</strong><br />

Alessandro Marangoni<br />

se primor<strong>di</strong>ali l’importanza della musica era centrale,<br />

insieme all’idea che essa fosse un veicolo potente <strong>di</strong><br />

una forza, fino ai nostri tempi in cui è vista come strumento<br />

<strong>di</strong> eccitazione o <strong>di</strong> “sballo” (come nel rock ad<br />

esempio), capace <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficare gli stati d’animo anche<br />

grazie all’alternarsi <strong>di</strong> specifiche tonalità (maggiori,<br />

minori e così via).<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

Cultura&&&<br />

19<br />

Musica<br />

Friedrich Schiller<br />

(1759 - 1805),<br />

autore del testo<br />

dell’Inno alla gioia<br />

Nelle forme<br />

religiose<br />

primor<strong>di</strong>ali<br />

l’importanza<br />

della musica<br />

era centrale,<br />

insieme all’idea<br />

che fosse<br />

un veicolo capace<br />

<strong>di</strong> pilotare<br />

le emozioni


Sempre<br />

più frequentemente<br />

nelle giovani<br />

generazioni<br />

esiste un muro<br />

inibitore,<br />

oppure<br />

un’ignoranza,<br />

<strong>di</strong> tutto ciò<br />

che fa nascere<br />

la gioia<br />

Conoscendo e apprezzando quanto nei secoli è stato<br />

prodotto in musica ma in generale in ogni forma <strong>di</strong><br />

arte, sembra quasi che nell’epoca contemporanea (e<br />

con questo termine intendo il tempo in cui noi siamo<br />

viventi) si sia smarrito questo principio eccitante della<br />

vita, la gioia appunto. Sempre più frequentemente nelle<br />

giovani generazioni esiste un muro inibitore oppure<br />

un’ignoranza (più o meno volontaria) <strong>di</strong> tutto ciò che<br />

fa nascere la gioia: la quoti<strong>di</strong>anità si rattrappisce sotto<br />

un velo che ci fa ombra, senza riuscire a comprenderne<br />

il perché fino in fondo, in modo spesso misterioso<br />

e inaspettato. E’ questo il tramonto dell’Occidente <strong>di</strong><br />

cui parlava Spengler? O forse questa luce fioca appartiene<br />

solo a una sfortunata élite?<br />

Talvolta occorre osare e stare vicino a quelle cose che<br />

ci trasmettono quella gioia <strong>di</strong> cui abbiamo parlato finora.<br />

Un appello: ministri, amministratori pubblici,<br />

docenti <strong>di</strong> ogni rango, pensatori, uomini tutti “<strong>di</strong> buona<br />

volontà”, sarà forse la “Grande Musica” la soluzione<br />

che porterà la gioia?<br />

Ludwig van Beethoven e il frontespizio della Nona sinfonia<br />

20 I L VA G L I O<br />

Fermare<br />

il tempo<br />

L’INESORABILE FLUIRE DEI SECONDI....<br />

SFUGGE ANCHE ALLE MANIERE FORTI<br />

<strong>di</strong><br />

Simone Menicacci<br />

Sdraiato sul <strong>di</strong>vano, lungo e stravaccato, con<br />

gambe e braccia posizionate da sembrare,<br />

usando un po’ <strong>di</strong> fantasia, la <strong>di</strong>sposizione<br />

dei rami d’un olmo durante la stagione invernale,<br />

osservava, ancora intorpi<strong>di</strong>to dal<br />

riposo pomeri<strong>di</strong>ano, l’assoluta immobilità delle cose<br />

che lo circondava. Pareva tutto fosse inerte, statico,<br />

sprovvisto <strong>di</strong> iniziativa verso una qualsiasi sorta <strong>di</strong><br />

movimento trasversale o laterale che potesse essere,<br />

né tanto meno obliquo o millesimale. Comprese le sue<br />

stesse funzioni cerebrali assolutamente coerenti con lo<br />

stato <strong>di</strong> immobilità collettiva. Solo un minuscolo oggetto,<br />

apparentemente innocuo, all’interno del micro<br />

universo quale era la stanza dove si trovava, con insolenza<br />

infasti<strong>di</strong>va la comune pigrizia che aleggiava<br />

soffice nell’aria: la lancetta dei secon<strong>di</strong>. Lei si muoveva<br />

con un fare a <strong>di</strong>r poco irritante e nevrotico, e le<br />

altre due, quella dei minuti e delle ore, sembravano<br />

contrad<strong>di</strong>rla, rinnegarla, anche se, grazie ai <strong>di</strong>segni<br />

sul <strong>di</strong>sco dell’orologio, ci si poteva accorgere usando<br />

un po’ <strong>di</strong> pazienza dei loro millimetrici spostamenti.<br />

Specialmente per quella dei minuti, che cercava <strong>di</strong> non<br />

farsi notare così spudoratamente come invece faceva<br />

la sorella più alta e secca.<br />

«Ad ogni passo <strong>di</strong> quella maledetta, un infinitesimo<br />

deterioramento in ogni atomo <strong>di</strong> un oggetto qualsiasi<br />

− pensava − anche ogni singola mia cellula sprecherà<br />

quel briciolo quasi invisibile <strong>di</strong> energia, stancandola<br />

verso un inesorabile processo d’invecchiamento».<br />

Pareva proprio non stargli bene questa irremovibile<br />

legge della natura. Ci sono questioni che per quanto<br />

noi ci si possa sforzare, non c’è verso <strong>di</strong> cambiare,<br />

nemmeno minimamente, possiamo scordarcelo. Ma<br />

lui, no. Non aveva intenzione <strong>di</strong> rassegnarsi a questa<br />

sconfitta senza provare almeno un tentativo.<br />

Si alzò lentamente, prima a sedersi, poi in pie<strong>di</strong>, con<br />

lo sguardo <strong>di</strong> sfida fisso sul marchingegno. Si avvicinò


a lui puntandolo col <strong>di</strong>to in<strong>di</strong>ce, come solo saprebbe<br />

fare un pazzo degenerato. Mirò una zona qualsiasi<br />

della sua superficie ed avanzò fino a toccarla con la<br />

punta del <strong>di</strong>to, approfittando dell’assenza <strong>di</strong> coperture<br />

che avrebbero protetto il movimento delle lancette.<br />

Aspettò, pazientemente, mentre un briciolo <strong>di</strong> cinismo<br />

gli storceva l’angolo della bocca, <strong>di</strong>segnando un ghigno<br />

quasi perfido ad attendere che la lancetta sbattesse<br />

contro il <strong>di</strong>to, sicuramente più forte del meccanismo<br />

che la faceva girare. E cosi fu.<br />

«Ecco, e adesso?»<br />

Certo era consapevole che quel gesto avesse del surreale.<br />

Sentiva la meccanica premere ripetutamente a<br />

scatti contro la carne e ciò gli infondeva una profonda<br />

sod<strong>di</strong>sfazione, tanto da alleviare ogni pensiero negativo<br />

che <strong>di</strong> solito lo accompagna ai risvegli. La lancetta<br />

si sfiancava invano con tutte le sue forze per proseguire<br />

ciò che era stato presumibilmente interrotto: lo<br />

scorrere del tempo.<br />

Ad un tratto si ricordò, non seppe come, che avrebbe<br />

dovuto prendere il bus delle se<strong>di</strong>ci e trentacinque che<br />

passava puntuale ogni giorno davanti casa sua. L’orologio<br />

era fermo e immobile sulle 4 e 32 circa. «Ma<br />

cosa stavo facendo?», pensò confuso, «Ah, sì! Ero già<br />

vestito e pronto per andare a sbrigare delle commissioni<br />

in città che mi sono proprio assopito sul <strong>di</strong>vano.<br />

E’ un miracolo che mi sia svegliato giusto giusto per<br />

prendere il bus. Che tempismo!», ragionò con sod<strong>di</strong>sfazione,<br />

«Saranno passati poco più <strong>di</strong> due minuti da<br />

quando ho bloccato l’orologio». E pigiò ulteriormente<br />

col <strong>di</strong>to quasi facendo flettere la superficie del cerchio.<br />

Indugiò ancora qualche minuto scrutando fuori dalla<br />

finestra. «Mah… ora saranno passati almeno cinque o<br />

ad<strong>di</strong>rittura sei minuti. Vorrebbe questo forse <strong>di</strong>re che<br />

stia veramente funzionando? Che sia riuscito in qualche<br />

maniera a fermare il…t…t…tempo? Ho sempre<br />

saputo <strong>di</strong> essere una persona speciale, ma fino a questo<br />

punto… mi sembra un esagerazione!». Guardò ancora<br />

fuori sulla strada. Niente. Nessun bus e per giunta non<br />

un autoveicolo o un passante che lo <strong>di</strong>silludesse dalla<br />

sua convinzione.<br />

Incominciò a preoccuparsi seriamente e a sudare qualche<br />

gocciolina. «Saremo almeno al settimo o all’ottavo.<br />

E’ impossibile!». Riflettendo su quest’assurda<br />

questione e perdendosi in qualche strana congettura,<br />

spostò ancora lo sguardo verso la finestra. Un ingombrante<br />

lamiera blu riempì in un lampo l’intera visuale<br />

della sua finestra, accompagnando il tutto con un rauco<br />

rombo <strong>di</strong> pistoni che saltellavano al minimo.<br />

Liberò imme<strong>di</strong>atamente la presa mortale con la quale<br />

teneva alle strette il passare dei secon<strong>di</strong> e, infilatosi le<br />

scarpe, cercò le chiavi ed aprì la porta in tutta fretta.<br />

Il blu volgare dell’autobus lasciava ora spazio ad un<br />

azzurrino sbia<strong>di</strong>to con tanto <strong>di</strong> macchiette bianche soffici,<br />

e puntini neri lontani che si rincorrevano in evoluzioni<br />

curvilinee. Spostò lo sguardo alla sua destra.<br />

L’autobus che l’avrebbe portato in città spernacchiava<br />

sgarbatamente dalla marmitta nella sua <strong>di</strong>rezione con<br />

un non so che <strong>di</strong> derisione, svignandosela a più non<br />

posso.<br />

Guardò l’orologio del campanile sopra i tetti delle case.<br />

Segnava le 4 e 36 del pomeriggio.<br />

«Puntuale come sempre».<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

Cultura&&&<br />

21<br />

Riflessioni<br />

“La persistenza<br />

della memoria”,<br />

Salvador Dalì (1931)


Cultura&&&<br />

Storielle<br />

“Davanti a sé<br />

si trovò tre donne.<br />

Mezze congelate.<br />

Che d’impressa<br />

gli domandano<br />

<strong>di</strong> entrare.<br />

Mica bisognava<br />

esser dei geni<br />

par capì<br />

ch’ieran<br />

le tre tapine”<br />

22 I L VA G L I O<br />

Le tre damine,<br />

frate Cesco<br />

e il vescovo<br />

PERFINO LA CARITÀ CRISTIANA PUÒ FAR NASCERE SPASSOSI EQUIVOCI<br />

La cena dei frati era giunta al termine. Altro<br />

non si doveva che menar le chiappe<br />

al calduccio <strong>di</strong> un letto. Quando a un<br />

tratto…«Ma chi la l’è a q’l’ura chì?» Insorge<br />

un fraticello.<br />

A quell’ora e con quel tempo! Da almen due dì seguitava<br />

a nevicare. Sulla piana nostra vasta. Che, se mai<br />

aspra pe’ l’intarsio dell’erbe e delle rogge, qualora<br />

quarciata <strong>di</strong> neve dona agli occhi l’incanto <strong>di</strong> un’interminata<br />

levità. Allora tutto tace. Tutt al dròma. Gli<br />

uomini arretrano il passo. Si scondono in casa. Terso<br />

si spande un silenzio ancestrale. Per tal motivo, l’insolito,<br />

insistente, gracchiare del campanello non poteva<br />

che stupire i frati <strong>di</strong> quel convento sperso nella<br />

terra <strong>di</strong> Lomellina. Tra loro, frate Cesco fu il più lesto<br />

a sgambettare. Par andà a duer la porta.<br />

«Salve!..C’è bisogno <strong>di</strong> qualcosa?» Davanti a sé si<br />

trovò tre donne. Mezze congelate. Che d’impressa gli<br />

domandano <strong>di</strong> entrare. «Prego! Venite pure…». Farfuglia<br />

il fraticello. Or che son dentro, la vispa luce<br />

su quei musetti, fra Cesco risente in sé, ma <strong>di</strong> molto<br />

aumentato, lo stupore che, appena sverto l’uscio, lo<br />

aveva incolto. No. Mica bisognava esser dei geni par<br />

capì ch’ieran le tre tapine. Eran ben messe. E <strong>di</strong> carne<br />

generosa. Ecumenica, <strong>di</strong>rei. Tre peripatetiche. Tre damine.<br />

Tre <strong>di</strong> quelle, insomma. E vestite <strong>di</strong> gran lusso.<br />

Qual si conviene a chi la vita se la gioca per la strada.<br />

Fra Cesco ha ben capito. Delle tre, la più vistosa parla<br />

piano. Una notte! Una sola notte, s’abbia la carità! Per<br />

sfuggire al gran gelo <strong>di</strong> tormenta che fuori impazza.<br />

E star lì. Al caldo. In una stanzetta. Del convento. Fra<br />

Cesco concede. Ma quella notte, l’insolita presenza<br />

<strong>di</strong> tre damine sotto il tetto, per anni ricetto <strong>di</strong> uomini<br />

<strong>di</strong><br />

Luigi Balocchi<br />

Espressioni<br />

<strong>di</strong>alettali lomelline<br />

<strong>di</strong><br />

Emanuela Cotta Ramusino<br />

In vernacolo si usa molto il paragone, riferito, in<br />

prevalenza, alle precipue caratteristiche degli animali<br />

e delle cose semplici della natura:<br />

• L’è biänc mé ‘l lat.<br />

• L’è biänc mé ‘n linsö.<br />

• L’è négar mé ‘l carbón.<br />

• L’è négar mé la nòt.<br />

• L’è giald mé ‘n limón.<br />

• L’è russ mé ‘n pivrón.<br />

• L’è vérd mé na lüsérta.<br />

• L’è vérd mé na föia.<br />

• L’è vérd mé i mé sacocc.<br />

• Ghè scür mé ‘n buca ‘l lù<br />

• L’è bèl mé ‘l su<br />

• L’è brüt mé la nòt<br />

• L’è bón mé ‘n tòc ad pän<br />

• L’è gràm mé ‘l rüd<br />

• L’è grass mé ‘n frà<br />

• L’è màgar mé n’anciüda<br />

• L’è fort mé ‘n tòr<br />

• L’è fiàc mé na räna<br />

• L’è malà mé ‘l rüd<br />

• L’è säc mé j armél<br />

• L’è gränd mé ‘l mar<br />

• L’è gränd mé na pértia<br />

• L’è duls mé la mé<br />

• L’è màr mé ‘l tòsi<br />

• L’è màr mé la fé<br />

• L’è dür mé ‘l mür<br />

• L’è mòl mé ‘n fic<br />

• L’è fräsc mé na rösa<br />

• L’è fürb mé ‘n ràt<br />

• L’è fürb mé ‘n gàt<br />

• L’è stüpid mé n’ oca<br />

• L’è gnuränt mé na cràva<br />

• L’è svèlt mé na légura<br />

• L’è nuiùs mé na musca<br />

• L’è sincér mé l’àcua<br />

• L’è fals mé Giüda<br />

• L’è siùr mé ‘l màr<br />

• L’è lòng mé la quarésma


con il frullo della santità, non lo fece granché quietare.<br />

Le tre donne, ogni sera, timbravano il cartellino<br />

sullo stradone. Sempre lì. Lo stesso posto. Tutte insieme.<br />

Una sorta <strong>di</strong> cooperativa autogestita <strong>di</strong> servizi.<br />

Tra loro c’era chi pensava al grappino per la notte, chi<br />

alla legna nel bidone da brusà, chi alla macchina che<br />

portava sul luogo d’esercizio. Tutto regolato. Tutto<br />

calcolato. Si arrivava. Si praticava. As’turnava a cà.<br />

Abituate alla sveltezza, le donne lasciarono il convento<br />

appena l’alba. Fu fra Cesco in persona a svigiài. Ma<br />

qualcuno aveva visto. Qualcun <strong>di</strong> fuori. Malalingua<br />

<strong>di</strong> paese. E in breve, per la plaga tutta intorno, d’altro<br />

non s’ebbe a parlare…<br />

Si sa…Sesso e Religione son fratelli. Di padre e madre<br />

separati. Da una parte c’è l’Istinto, dall’altra la<br />

Morale. In mezzo, la morbosa curiosità.<br />

Sta <strong>di</strong> fatto che sto pisspiss <strong>di</strong> voci e vocette non tardò<br />

a giungere all’orecchio del vescovo <strong>di</strong>ocesano. Era<br />

costui tra quei teologi infelici che spesso si rincagniscono<br />

sui mali e sui <strong>di</strong>fetti, con quel gusto assai bizzarro<br />

<strong>di</strong> voler a tutti i costi raddoppiare il peso della<br />

croce sulle nostre malmesse spalle ed anzi spendendo<br />

ovunque il fardello del peccato.<br />

Si dà il caso che, passato qualche mese dal fattaccio,<br />

giusto il vescovo dovesse visitar il convento dei fraticelli.<br />

Andar per il quale era d’obbligo passar sullo<br />

stradone, transitar là dove le damine s’apprestavano al<br />

mestiere. A fra Cesco fu dato il compito d’andà a pià il<br />

vescovo. Di ciò ne fu lieto. Assai meno allorquando,<br />

dovendo tornare al convento con l’illustre passeggero,<br />

lo stradone risalì il declivio <strong>di</strong> un dosso, un alto<br />

gonfiore d’erba e gera, sul quale un largo spiazzo vedeva<br />

da tempo immemore sorgere un’osteria, posta a<br />

sentinella <strong>di</strong> tre strade. A tutta birra, fra Cesco vi si sta<br />

avvicinando. A tutta birra. Nella segreta speranza che<br />

le damine, chissà per qual ragione quel giorno giunte<br />

al lavoro in anticipo, non procurassero scandalo a pia<br />

sua Eccellenza. Che bene pensò, accidenti!, <strong>di</strong> intimare<br />

al fraticello <strong>di</strong> inserir la marcia bassa, giacché e<br />

calma e pacatezza son virtù da coltivare assai. Fra Cesco<br />

stortocollo obbedì. Si votò al silenzio. Sebben gli<br />

occhi ci vedessero molto bene. Così, ahimè, da schiarirle<br />

alla perfezione le tre damine. Sì. Giusto quelle<br />

ospitate in convento nella notte <strong>di</strong> tormenta! Eran lì.<br />

Ad attendere.<br />

Dapprima ritte sul dosso, non appena apparsa l’auto,<br />

si fecero vicinissime alla strada. E una volta riconosciuto<br />

il fraticello alla guida, mulinarono e gambe e<br />

braccia in vistosa contentezza.<br />

Costretto a passo d’uomo dal vispo calore delle nostre<br />

graziose che avevano invaso la strada, fra Cesco, russ<br />

mé ‘n pivrón, sorride e suda, suda e sorride. La mano<br />

abbozza un saluto. Bene<strong>di</strong>ce. Fa ciao. Fa segno, per<br />

pietà!, <strong>di</strong> sparire d’impressa dallo stradone. Il vescovo,<br />

sitàa da drera, ovvio che sboffi. Miope e avanti<br />

negli anni com’è, mica si rende conto che le damine<br />

hanno invaso la strada tutte in broda per il gentile fraticello.<br />

E sì che ha certo inteso la loro professione.<br />

Così da sbottar fuori tra l’iroso e il malmostoso: «Ma<br />

insomma, queste prostitute, con chi ce l’hanno? Chi<br />

mai stanno salutando?..»<br />

Ed è allora che la Grazia, colei che tutto puote e mai<br />

prevale, d’un tratto t’illumina appieno fra Cesco. Con<br />

un colpo <strong>di</strong> genio invero raro…<br />

«…Ma come, Eccellenza, non l’ha capito? Salutan<br />

lei! Salutano il loro amato vescovo!»<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

23<br />

“La tentazione<br />

<strong>di</strong> Sant’Antonio”,<br />

Salvador Dalì (1946)<br />

“Dapprima ritte<br />

sul dosso,<br />

non appena<br />

apparsa l’auto,<br />

si fecero vicinissime<br />

alla strada. E una<br />

volta riconosciuto<br />

il fraticello alla<br />

guida, mulinarono<br />

e gambe e braccia<br />

in contentezza”


Cultura&&&<br />

Tivù<br />

La favola <strong>di</strong> Mike<br />

Bongiorno inizia<br />

a New York, passa<br />

per Torino,<br />

per la Resistenza,<br />

per il carcere<br />

<strong>di</strong> San Vittore,<br />

ma specialmente<br />

per le case<br />

e per la vita<br />

<strong>di</strong> tutti gli italiani<br />

24 I L VA G L I O<br />

Allegria,<br />

signor Mike!<br />

LE DUE STORIE CHE LEGANO IL RE DEL QUIZ ALLA LOMELLINA<br />

Mike Bongiorno (1924 - 2009) è stato<br />

l’ospite d’onore <strong>di</strong> uno dei più<br />

gran<strong>di</strong> eventi mondani della Mortara<br />

dell’altro secolo, nel 1975, ed<br />

è il protagonista <strong>di</strong> un libro a lui<br />

de<strong>di</strong>cato scritto dal lomellino Giorgio Lazzarini nel<br />

2001. Due storie <strong>di</strong> “mister allegria”, due storie targate<br />

Mortara<br />

Partiamo con il libro e spieghiamo chi è l’autore.<br />

Giorgio Lazzarini (1943 - 2002), abitava (anche,<br />

quando il lavoro non lo portava in giro per il mondo)<br />

in una cascina appena fuori Mortara in <strong>di</strong>rezione<br />

Castello d’Agogna, è stato giornalista nei più famosi<br />

settimanali italiani (Oggi, Gente, Sorrisi, Noi). Negli<br />

ultimi anni era l’inviato speciale <strong>di</strong> Chi. Ha realizzato<br />

reportage internazionali e incontrato personaggi<br />

della scena mon<strong>di</strong>ale, tra i quali Gorbaciov e Arafat.<br />

Specializzato sulle famiglie reali europee e su Mike.<br />

Ha ricoperto il ruolo <strong>di</strong> “signor no” nell’e<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

Superflash dell’84/85. Nel 2001 pubblica la biografia<br />

non autorizzata “Il signor Mike – Un’intervista durata<br />

25 anni” per la casa e<strong>di</strong>trice Frontiera. “Biografia<br />

non autorizzata” in gergo non significa una cosa fuori<br />

legge, Bongiorno ne era perfettamente a conoscenza e<br />

gra<strong>di</strong>va, solo che non aveva firmato qualcosa del tipo<br />

“ti ho chiesto io <strong>di</strong> farla”, in funzione probabilmente<br />

del fatto che dopo poco ne ha scritta una lui stesso, su<br />

se stesso, per Mondadori.<br />

La favola (dolce-amara) <strong>di</strong> Michael Nicholas Bongiorno<br />

inizia a New York, passa per Torino, per la<br />

Resistenza italiana, per il carcere <strong>di</strong> San Vittore, ma<br />

specialmente passa per le case e per la vita <strong>di</strong> tutti gli<br />

italiani e nessuno meglio del suo amico Giorgio Lazzarini<br />

poteva raccontarla.<br />

Il libro venne presentato anche nella città dell’autore,<br />

a Mortara, alla libreria Mirella, il 6 maggio del 2001.<br />

Giorgio Lazzarini fino alla fine dei suoi giorni, quando<br />

un male che non perdona se lo portò via, mantenne<br />

un contatto con Mortara facendo ogni mercoledì<br />

mattina il collegamento telefonico dalla redazione <strong>di</strong><br />

“Chi” con la ra<strong>di</strong>o locale (ra<strong>di</strong>o RTM Mortara) per<br />

<strong>di</strong><br />

Sandro Passi<br />

La copertina del libro <strong>di</strong> Giorgio Lazzarini<br />

dare le anticipazioni <strong>di</strong> quello che aveva in pagina il<br />

settimanale in quel determinato numero. Un lusso per<br />

una piccola ra<strong>di</strong>o <strong>di</strong> provincia, una cosa che succede<br />

solo nei grossi network, un regalo <strong>di</strong> un amico legato<br />

comunque alla sua terra.<br />

Adesso lo spettacolo e il suo grande protagonista.<br />

Sagra del Salame d’Oca 1975, e<strong>di</strong>zione numero nove,<br />

trentacinque anni fa. Sicuramente il nome <strong>di</strong> Mike<br />

Bongiorno tra i tanti ospiti passati per il Settembre<br />

mortarese è stato quello più vip e certamente quello fu<br />

l’evento più chic tra gli appuntamenti nei vari cartelloni<br />

in oltre quarant’anni <strong>di</strong> Sagra. Era domenica 28


settembre 1975, ore 22, in chiusura della nona Sagra<br />

del Salme d’oca “sfilata <strong>di</strong> alta moda della Pellicceria<br />

Annabella <strong>di</strong> Pavia allo Spazio dei Fratelli Bottazzi.<br />

Conduce Mike Bongiorno”. Il negozio dei Bottazzi<br />

era un nuovo, avveniristico, mobilificio appena aperto<br />

all’angolo tra contrada <strong>di</strong> Loreto e via Ciro Pollini.<br />

Per lanciare l’attività, i Bottazzi hanno pensato in<br />

grande puntando su una serata che mai prima si era<br />

vista e mai poi fu eguagliata. L’ingresso era gratuito,<br />

ma per poter assistere alla sfilata bisognava andare<br />

in negozio (molti giorni prima) e richiedere gli inviti<br />

numerati e nominali. Preve<strong>di</strong>bile il tutto esaurito nel<br />

giro <strong>di</strong> una manciata <strong>di</strong> ore. Una platea con tutta la<br />

Mortara che contava, sod<strong>di</strong>sfattissima <strong>di</strong> essere protagonista<br />

in una cerchia comunque ristretta, e i mobilieri<br />

che avevano fatto centro con il loro grande evento<br />

pubblicitario. C’era Giuliano Ravizza in persona, le<br />

pellicce (e le modelle), c’era Mike adorato dal pubblico,<br />

come sempre d’altronde. Quella sera, quando<br />

cenò al ristorante Bottala, prima dello spettacolo,<br />

Mike teneva sul tavolo un pacco <strong>di</strong> cartoline con la<br />

sua fotografia. Una piccola processione <strong>di</strong> fan entrava<br />

timidamente nel locale, i Baletti (il “signor” Siro e la<br />

“signora” Li<strong>di</strong>a, come li chiamavano tutti, gli storici<br />

titolari dell’albergo) permettevano loro, specialmente<br />

ai bambini, <strong>di</strong> avvicinarsi al privé. Lui autografava col<br />

pennarello nero la foto e ci scriveva sopra la sua solita<br />

frase: «Allegria!».<br />

Uno <strong>di</strong> quei bambini oggi ha scritto questo pezzo.<br />

La prima pagina della Domenica del Corriere<br />

del 21 ottobre 1956<br />

a p r i l e - g i u g n o 2 0 1 0<br />

25<br />

Mike Bongiorno<br />

a Mortara<br />

con Giuliano Ravizza<br />

e i fratelli Bottazzi<br />

In occasione<br />

della nona<br />

Sagra del Salame<br />

d’Oca, trentacinque<br />

anni fa,<br />

“mister allegria”<br />

raggiunse Mortara<br />

in qualità<br />

<strong>di</strong> ospite d’onore.<br />

Tutta la città<br />

partecipò all’evento


1<br />

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12<br />

XLIV Premio<br />

Nazionale <strong>di</strong> Poesia<br />

“Città <strong>di</strong> Mortara”<br />

REGOLAMENTO<br />

I poeti partecipanti dovranno inviare due poesie, ognuna che non superi i 50 versi, in 4 copie dattiloscritte.<br />

Al premio non sono ammessi i vincitori dei primi premi delle ultime tre e<strong>di</strong>zioni.<br />

Tutte le opere dovranno in<strong>di</strong>care le generalità degli autori, eventuali email e dovranno essere inviate entro il 5 luglio<br />

2010 a:<br />

<strong>Circolo</strong> Culturale Lomellino<br />

Via XX Settembre 70, 27036 MORTARA (PV) - Tel/Fax 0384 91249 allegando Euro 10,00 per spese <strong>di</strong> Segreteria.<br />

Il Premio si articola in 3 sezioni:<br />

Poesia a tema libero Primo classificato Euro 500,00 e scultura d’autore<br />

Secondo classificato € 250,00 e medaglia d’oro<br />

Terzo classificato € 150,00 e targa<br />

Poesia in Vernacolo Lomellino Primo classificato Euro 300,00 e Medaglia d’oro<br />

Secondo e terzo classificato: Targa<br />

Poesia sulla Lomellina Premio <strong>Giancarlo</strong> <strong>Costa</strong> Primo classificato Euro 300,00 Medaglia <strong>di</strong> conio speciale<br />

Secondo e terzo classificato: Targa<br />

Verranno inoltre conferiti premi speciali, consistenti in medaglie conio d’autore.<br />

I premi verranno assegnati a giu<strong>di</strong>zio insindacabile della Giuria, la cui composizione verrà resa nota durante la cerimonia<br />

<strong>di</strong> premiazione che avrà luogo a Mortara, venerdì 24 settembre 2010 alle ore 21, nel corso <strong>di</strong> una pubblica manifestazione,<br />

in concomitanza con la Sagra del Salame d’oca. Tutti i concorrenti sono invitati sin d’ora.<br />

I vincitori sono tenuti a presenziare alla cerimonia <strong>di</strong> premiazione. I premi in denaro <strong>di</strong> ogni sezione dovranno essere<br />

ritirati dagli interessati al momento della premiazione, pena il deca<strong>di</strong>mento del <strong>di</strong>ritto al premio; per quelli speciali, in casi<br />

eccezionali, è tuttavia consentito il ritiro del premio da parte <strong>di</strong> altra persona, purchè presenti delega del vincitore.<br />

Tutti i premi non ritirati personalmente o per delega, non verranno inviati e resteranno a <strong>di</strong>sposizione del <strong>Circolo</strong> Culturale.<br />

L’invito alla premiazione non dà <strong>di</strong>ritto al rimborso delle spese <strong>di</strong> viaggio, soggiorno, eccetera<br />

Il <strong>Circolo</strong> Culturale Lomellino avviserà per tempo i premiati, personalmente o con lettera raccomandata, comunicando<br />

il luogo dove si terrà la manifestazione; dell’esito del concorso sarà comunque data notizia alla stampa e sul nostro<br />

sito:<br />

www.circolo<strong>culturale</strong>lomellino.it<br />

Ogni autore risponde dell’autenticità dei lavori presentati. L’organizzazione non assume responsabilità per eventuali<br />

deprecabili plagi.<br />

Gli elaborati non verranno restituiti e la partecipazione al concorso implica la totale accettazione del presente regolamento.<br />

Eventuali mo<strong>di</strong>fiche del presente regolamento potranno essere attuate dall’organizzazione in relazione a situazioni<br />

contingenti<br />

Sarà escluso dal concorso chi non osserverà le norme sopra riportate.<br />

I dati personali trattati sono tutelati nel rispetto delle leggi vigenti in materia <strong>di</strong> privacy


CARICATURE E RITRATTI DI DON GIOVANNI ZORZOLI<br />

Wolfgang Amadeus Mozart (1977) Albert Einstein (2007)<br />

Fryderyk Chopin (2007) Autoritratto (1974)<br />

Gioachino Rossini (2007) Giuseppe Ver<strong>di</strong> (2007)<br />

TRIMESTRALE<br />

DEL CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO<br />

GIANCARLO COSTA<br />

RIVISTA DI CULTURA, STORIA E TRADIZIONI<br />

Anno 6 - Numero 2<br />

Aprile - Giugno 2010<br />

Reg. Trib. <strong>di</strong> Vigevano<br />

n. 158/05 Reg. Vol. - n. 1/05 Reg. Perio<strong>di</strong>ci<br />

Direttore responsabile<br />

Marta <strong>Costa</strong><br />

Elenco speciale<br />

Albo professionale dei Giornalisti <strong>di</strong> Milano<br />

Coor<strong>di</strong>namento<br />

Sandro Passi<br />

Hanno collaborato a questo numero<br />

Luigi Balocchi<br />

Graziella Bazzan<br />

Emanuela Cotta Ramusino<br />

Umberto De Agostino<br />

Na<strong>di</strong>a Farinelli<br />

Maria Forni<br />

Alessandro Marangoni<br />

Eufemia Marchis Magliano<br />

Simone Menicacci<br />

Stefano Se<strong>di</strong>no<br />

(La collaborazione è a titolo gratuito)<br />

In copertina<br />

don Giovanni Zorzoli<br />

acquarello e tecnica mista su cartoncino<br />

(2010)<br />

E<strong>di</strong>tore<br />

<strong>Circolo</strong> Culturale Lomellino <strong>Giancarlo</strong> <strong>Costa</strong><br />

via XX Settembre, 70 - 27036 Mortara (PV)<br />

Coor<strong>di</strong>namento e<strong>di</strong>toriale<br />

Alberto Paglino<br />

Realizzazione grafica<br />

& Impaginazione<br />

PromoPavese comunicazione<br />

by LogosMe<strong>di</strong>a srl<br />

Info: 0382.800765 - info@promopavese.it<br />

Stampa<br />

La Terra Promessa<br />

Via E.Fermi, 24<br />

28100 Novara<br />

INFO: 0384.91249


AGENZIA COSTA<br />

Stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> consulenza automobilistica<br />

Via XX Settembre, 70 - 27036 MORTARA<br />

Telefono e fax 0384.91249<br />

Delegazione ACI Garlasco<br />

Piazza Repubblica, 25/26<br />

Telefono 0382.810053<br />

E<strong>di</strong>toria•Public Relations•Graphic Design•Marketing•Agenzia Pubblicitaria•Organizzazione Eventi<br />

E<strong>di</strong>toria•Public Relations•Graphic Design•Marketing•Agenzia Pubblicitaria•Organizzazione Eventi<br />

Vicolo del Forno, 12 - Garlasco (Pavia) • T 0382.800765 • info@promopavese.it - www.logosme<strong>di</strong>a.it

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