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Bruno Cartosio Mito e storia - Università degli studi di Bergamo

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questione non è che Turner non tiene conto del contributo e del ruolo delle donne “sulla frontiera”, esplorati<br />

soltanto decenni dopo da una nuova storiografia, quanto il concreto problema della miscegenation inevitabile<br />

nelle zone in cui avveniva il concreto contatto fisico tra i bianchi anglosassoni e le popolazioni locali, in<strong>di</strong>ane<br />

o messicane che fossero. In un contesto tanto sensibile alla questione razziale come quello entro cui scrive<br />

Turner, il ratto delle Sabine era <strong>di</strong>ventato innominabile.<br />

Quel “momento” ipostatizzato da Tatum non è esistito. La “frontiera” non è un momento, né la serie<br />

ciclica <strong>di</strong> momenti, ipostatizzata da Turner, che si succedono sempre più lontani nella prospettiva <strong>di</strong> un<br />

osservatore il cui occhio si trovi sull’Atlantico. La “frontiera” è sempre un luogo, o meglio una quantità <strong>di</strong><br />

luoghi fisici, geografici, nei quali forme <strong>di</strong>verse <strong>di</strong> cultura, socialità e interessi si sono incontrati e trasformati<br />

in tempi <strong>di</strong>versi e senza interruzioni, senza alcun parallelismo tra le progressioni nel tempo e nello spazio.<br />

Gli in<strong>di</strong>vidui che hanno agito nei luoghi fisici del contatto si sono sempre trovati ad agire anche in ambienti<br />

socialmente definiti. Rispetto a questa semplice verità, l’autore de L’ultimo dei mohicani è molto più avvertito<br />

<strong>di</strong> Turner. Scrive Patricia Nelson Limerick: “La frontiera <strong>di</strong> Turner era un processo, non un luogo. Quando la<br />

‘civiltà’ aveva vinto sul ‘selvaggio’ in un certo posto, il processo - e l’attenzione dello storico - si spostava. Il<br />

ripensare la <strong>storia</strong> dell’Ovest ci permette <strong>di</strong> pensare all’Ovest come luogo, come tanti ambienti complicati<br />

abitati da nativi che guardavano alle loro terre come al centro, non come al margine”.( xviii ) Non si tratta solo <strong>di</strong><br />

rovesciare la prospettiva, <strong>di</strong> adottare il punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> chi “si trova già lì”, invece che quello <strong>di</strong> chi “arriva da<br />

fuori”. Visto in questa luce l’Ovest statunitense <strong>di</strong>venta “un importante terreno d’incontro, il punto in cui<br />

l’America in<strong>di</strong>ana, l’America latina, l’Angloamerica, l’Afroamerica e l’Asia si intersecano. In fatto <strong>di</strong> rapporti tra<br />

le razze, l’Ovest potrebbe far apparire come una riunione <strong>di</strong> famiglia il faccia a faccia tra immigrati europei e<br />

nativisti americani nelle città del Nordest <strong>di</strong> fine Ottocento. Allo stesso modo, per <strong>di</strong>versità <strong>di</strong> lingue, religioni<br />

e culture, l’Ovest superava anche il Sud”.( xix )<br />

Ridurre questa complessità, e storicità, alla contrapposizione semplice tra civiltà e barbarie non può<br />

che essere forzatura interpretativa, oppure velo censorio steso su una complessità rifiutata perché percepita<br />

come minacciosa. Si torna dunque al mito come semplificazione: “Il mito non nega le cose”, <strong>di</strong>ce ancora<br />

Roland Barthes, “anzi, la sua funzione è <strong>di</strong> parlarne: semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce<br />

come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della<br />

constatazione: se io constato l’imperialità francese senza spiegarla, mi ci vuole ben poco per trovarla<br />

naturale, qualcosa che va da sé: ed eccomi rassicurato”.( xx ) Vedremo come all’imperialità francese del<br />

<strong>di</strong>scorso barthesiano si possa sostituire l’espansionismo statunitense e raggiungere lo stesso obiettivo<br />

rassicurante e consolatorio: tutto era predestinato ed è avvenuto tutto per il bene della nazione.<br />

Per Richard Slotkin che, contrariamente a Roland Barthes, ha lavorato proprio sul rapporto tra realtà<br />

storica dell’Ovest e costruzione mitica nazionale, “un mito è una narrazione che concentra in una singola<br />

esperienza drammatizzata l’intera <strong>storia</strong> <strong>di</strong> un popolo sulla sua terra”.( xxi ) Slotkin si riferiva in particolare<br />

all’esperienza dell’in<strong>di</strong>viduo Daniel Boone, che viene “elevata” a mito nazionale. In realtà, non è mai l’intera<br />

<strong>storia</strong> <strong>di</strong> un popolo che viene mitizzata. Lo stesso Slotkin, tre<strong>di</strong>ci anni più tar<strong>di</strong>, correggeva la formulazione<br />

appena citata, precisando che nei miti si raccolgono gli “elementi essenziali della visione del mondo tipica <strong>di</strong><br />

una cultura” e che il mito è una “rappresentazione parziale che si fa passare per l’intera verità”.( xxii ) Sarebbe<br />

stato meglio <strong>di</strong>re subcultura, intendendo la visione del mondo tipica <strong>di</strong> un gruppo, o riconducibile a un gruppo<br />

oppure a una componente sociale dominante. D’altro canto, l’accento da lui stesso posto subito dopo sulla<br />

parzialità sembra portare anche il suo <strong>di</strong>scorso proprio in quella <strong>di</strong>rezione. In effetti è sempre soltanto una<br />

parte della “<strong>storia</strong>” nazionale che viene ridotta a mito: sono quasi sempre - per lo meno nelle culture<br />

occidentali - i “fatti” delle guerre e della conquista, della fondazione della nazione stessa attraverso<br />

l’affermazione della <strong>di</strong>nastia originaria. Sono cioè i pilastri ideologici su cui i gruppi dominanti fanno poggiare<br />

la propria legittimazione in quanto tali<br />

La produzione del mito nazionale, da Virgilio in poi, è frutto della penna <strong>di</strong> uno o più autori, non è un<br />

“folk process” ma un “literary myth”,( xxiii ) che poi magari utilizza tra i suoi materiali anche quelli che i processi<br />

della mitopoiesi popolare elaborano in parte autonomamente e in parte attraverso l’interazione con i miti<br />

letterari, sempre in un qualche rapporto con la <strong>storia</strong>. Nel caso <strong>di</strong> Daniel Boone, il colonizzatore per<br />

antonomasia dei territori al <strong>di</strong> là dei monti Appalacchi, il produttore originario del mito fu un maestro e<br />

speculatore fon<strong>di</strong>ario <strong>di</strong> nome John Filson, che nel 1784 pubblicò The Adventures of Col. Daniel Boon in<br />

appen<strong>di</strong>ce al proprio The Discovery, Settlement and Present State of Kentucke. Quel breve racconto che si<br />

presenta come autobiografico - <strong>di</strong> fatto è la “razionalizzazione” a opera <strong>di</strong> Filson della testimonianza a lui<br />

resa dallo stesso Boone - fu ripetutamente ristampato, plagiato, imitato e usato come modello narrativo e<br />

tematico nei decenni successivi in un processo che fissò i tratti <strong>di</strong> quei “personaggi letterari [che], per essere<br />

cre<strong>di</strong>bili come eroi americani, avrebbero dovuto essere ra<strong>di</strong>cati nel territorio selvaggio, invece che tra le<br />

raffinatezze della civiltà europea”.( xxiv )<br />

Tra l’altro, lo stesso processo ripetitivo-creativo sarebbe continuato nei decenni successivi alla<br />

guerra civile, quando l’impren<strong>di</strong>toria e<strong>di</strong>toriale avrebbe sfornato migliaia <strong>di</strong> romanzucoli western pressoché<br />

uguali nei personaggi e nella formula per un pubblico popolare crescente. In quel lungo processo più che<br />

secolare, dopo Daniel Boone, altri uomini dell’Ovest vennero elevati da autori ed e<strong>di</strong>tori molto <strong>di</strong>sinvolti al

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