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Elena dell'Agnese La mascolinità del cowboy nel cinema western ...

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Introduzione<br />

<strong>Elena</strong> <strong>del</strong>l’Agnese<br />

<strong>La</strong> <strong>mascolinità</strong> <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> <strong>nel</strong> <strong>cinema</strong> <strong>western</strong> americano<br />

tra iconografia nazionale e identificazione narcisistica<br />

“Ho sempre avuto un<br />

debole per il <strong>cowboy</strong><br />

come concetto”<br />

Il Grande Lebowski,<br />

di J. Coen, 1998<br />

Nell’autunno <strong>del</strong> 2005 (in Italia, <strong>nel</strong> gennaio <strong>del</strong> 2006) è uscito, nei grandi circuiti<br />

<strong>cinema</strong>tografici di tutto il mondo occidentale, un film che da un lato ha fatto gridare allo<br />

scandalo (<strong>nel</strong>lo Utah, una catena di <strong>cinema</strong>tografi ne ha persino bloccato la<br />

distribuzione locale), dall’altro ha raccolto un numero tanto elevato di premi (c’è chi ne<br />

ha contati più di centoventi in meno di un anno) da essere acclamato come un vero<br />

capolavoro. Il titolo <strong>del</strong> film è Brokeback Mountain (in Italia, I segreti di Brokeback<br />

Mountain). Tratto da un romanzo breve <strong>del</strong>la scrittrice americana Annie Proulx e diretto<br />

da un regista di origine cinese, Ang Lee, il film narra le vicende di due giovani<br />

mandriani arruolati a stagione per gestire il pascolo estivo di un gregge di pecore, <strong>nel</strong><br />

Wyoming.<br />

Come moltissimi altri film di <strong>cowboy</strong>, Brokeback Mountain è un landscape movie, che<br />

con eleganza riprende i canoni tipici <strong>del</strong> genere <strong>western</strong> 1 , sia per quanto riguarda l’uso<br />

simbolico <strong>del</strong> paesaggio, sia in relazione ai personaggi al centro <strong>del</strong>la trama. Come nei<br />

grandi classici di John Ford, dove la Monument Valley rappresenta, più che una<br />

semplice location, il vero focus <strong>del</strong>la pellicola 2 , <strong>nel</strong> film di Ang Lee il paesaggio non fa<br />

solamente da sfondo alle vicende dei protagonisti, ma assume, sin dal titolo, il ruolo <strong>del</strong><br />

co-protagonista, giocando a fare da costante contraltare a tutto il dispiegarsi <strong>del</strong>la<br />

vicenda. Così <strong>nel</strong>la struttura visuale <strong>del</strong>la narrazione diventa centrale la<br />

contrapposizione fra la grandiosa bellezza <strong>del</strong>la montagna, che costituisce il luogo<br />

simbolico <strong>del</strong>la natura e <strong>del</strong>la libertà, e la monotonia arida <strong>del</strong>le pianure urbanizzate,<br />

dove la società impone i propri vincoli, facendo valere le ragioni <strong>del</strong> conformismo su<br />

quelle dei veri sentimenti.<br />

Anche per quanto riguarda la trama, il film di Ang Lee riprende gli schemi <strong>del</strong> film di<br />

<strong>cowboy</strong>, non solo perché riproduce fe<strong>del</strong>mente la vita nomade dei mandriani, o perché<br />

1 Nell’ambito <strong>del</strong>la critica <strong>cinema</strong>tografica, il concetto di genere è stato utilizzato come strumento<br />

classificatorio in relazione al <strong>western</strong> a partire dal lavoro di Bazin, <strong>del</strong> 1953. Tuttavia, l’idea che esistesse<br />

un filone <strong>cinema</strong>tografico caratterizzato da canoni che lo rendevano riconoscibile come “<strong>western</strong>” è assai<br />

anteriore. Perciò, se è vero che si possono definire come appartenenti ad un genere i gruppi di testi che<br />

sono stati percepiti come tali <strong>nel</strong> corso <strong>del</strong>la storia (Todorov, 1993), allora si può parlare <strong>del</strong> <strong>western</strong><br />

come “genere” già dai primi decenni <strong>del</strong> Novecento (Leutrat e Kiandrat-Guigues, 1990).<br />

2 Secondo una celebre frase attribuita a John Ford, il principale protagonista di ogni film <strong>western</strong> è “la<br />

terra”.


eplica, <strong>nel</strong> loro abbigliamento, gli elementi tipici <strong>del</strong> costume tradizionale (come il<br />

cappello Stetson, le camicie a quadri o il cravattino di cuoio), ma anche, e soprattutto,<br />

perché, come moltissimi <strong>western</strong> precedenti, racconta di una relazione fra uomini,<br />

lasciando alle figure femminili solamente un ruolo di secondo piano. Nel corso <strong>del</strong>la<br />

tradizione <strong>del</strong> <strong>western</strong>, dal classico Fiume Rosso, di Howard Hawks, <strong>del</strong> 1948, sino al<br />

recente Terra di confine di Kevin Costner, <strong>del</strong> 2003, questa relazione è stata variamente<br />

<strong>del</strong>ineata, trascolorando lungo le diverse sfumature <strong>del</strong>la conflittualità, <strong>del</strong> rapporto<br />

simil-paterno, <strong>del</strong>l’amicizia virile, persino <strong>del</strong> rapporto di velata omosessualità (come<br />

avviene <strong>nel</strong> controverso L’ultima notte a Warlock, di Edward Dmytryk, <strong>del</strong> 1959). Nel<br />

caso di Brokeback Mountain, tuttavia, l’omosessualità per la prima volta si svela e<br />

l’amicizia, invece di rimanere “fraterna”, si trasforma in un passionale rapporto d’amore<br />

che accompagna le vicende dei due protagonisti per un ventennio. Lungo questo arco di<br />

tempo, la vita si dipana in vari tentativi di normalità, che si compiono sullo sfondo di<br />

una squallida pianura urbanizzata; mentre la routine viene spezzata solo dai “weekend<br />

di pesca”, vale a dire dai rari momenti di incontro, di “libertà” e di “vero amore” che i<br />

due <strong>cowboy</strong> riescono a concedersi <strong>nel</strong> cuore <strong>del</strong>le selvagge montagne <strong>del</strong> Wyoming.<br />

L’irrompere <strong>del</strong>la dimensione sentimental-sessuale all’interno di un mondo di relazioni<br />

iper-mascoline come quelle che apparentemente caratterizzano il genere <strong>western</strong> e la<br />

narrativa simbolica <strong>del</strong>la mito nazionalista <strong>del</strong>la “frontiera americana” che ad esso si<br />

accompagna, rappresenta, ovviamente, l’elemento che ha fatto gridare ad alcuni allo<br />

scandalo, ad altri al capolavoro. In particolare, la creazione mediatica dei “<strong>cowboy</strong><br />

gay”, come rapidamente sono stati etichettati dalla stampa i due protagonisti <strong>del</strong> film, è<br />

stata salutata da gran parte <strong>del</strong>la critica e <strong>del</strong> pubblico come un momento di rottura<br />

verso la tradizione <strong>western</strong> americana, uno strappo dichiarato nei confronti di un genere,<br />

letterario e <strong>cinema</strong>tografico che <strong>del</strong>la <strong>mascolinità</strong> eroica aveva fatto il suo punto di<br />

riferimento.<br />

In realtà, il <strong>cowboy</strong> rappresenta una icona gay, o meglio, come scrive Fischer (1977),<br />

“una fantasia sessuale prestabilita” all’interno <strong>del</strong> mondo omosessuale americano, sino<br />

dai tardi anni sessanta. Come tale viene rappresentato anche <strong>nel</strong>la cultura popolare: <strong>nel</strong><br />

<strong>cinema</strong>, dove Un uomo da marciapiede, di John Schlesinger, <strong>del</strong> 1968, racconta le<br />

vicende di Joe Buck, un giovane texano che giunge a New York vestito da <strong>cowboy</strong> per<br />

fare il gigolo, ma riesce ad attrarre solamente l’attenzione di un omosessuale (Le Coney<br />

e Trodd, 2006); <strong>nel</strong>la musica pop, dove il gruppo dei Village People, creato <strong>nel</strong> 1977<br />

per soddisfare tutti gli stereotipi di un pubblico omosessuale, propone fra i propri<br />

costumi di scena proprio quello <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> 3 (insieme all’indiano americano, al<br />

poliziotto, al marinaio…).<br />

Se è vero che ai gay, tutto sommato, i <strong>cowboy</strong> sono sempre piaciuti 4 , viene allora da<br />

domandarsi il perché di tanto clamore. Per rispondere a questa domanda, è forse<br />

necessario distinguere, <strong>nel</strong>l’acquisizione simbolica <strong>del</strong>l’immagine <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, il<br />

meccanismo di costruzione di un oggetto sessuale da parte <strong>del</strong> soggetto da quello di<br />

identificazione con l’immagine di quell’oggetto da parte <strong>del</strong> soggetto, per poi verificare<br />

come questo meccanismo di identificazione sia stato potenziato dall’adozione <strong>del</strong><br />

<strong>cowboy</strong> da parte <strong>del</strong>la iconografia americana. A tal fine, dopo una breve introduzione<br />

dedicata al ruolo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> <strong>nel</strong> processo di edificazione <strong>del</strong>le narrative nazionali, si<br />

tenterà di <strong>del</strong>ineare il percorso che ha portato ad elevare il <strong>cowboy</strong> al ruolo di eroe<br />

3 Il gruppo, reso famoso da successi come YMCA, In the Navy, e Macho Man, venne lanciato <strong>nel</strong> 1977 dal<br />

produttore Jacques Morali, il quale dichiarò di aver osservato lungamente i personaggi e gli stereotipi<br />

tipici <strong>del</strong>l’ambiente gay <strong>del</strong>l’East Village, a New York.<br />

4 Nel film di Schlesinger, il riferimento è reso più che esplicito, quando Rizzo, l’amico newyorkese di<br />

Joe, gli spiega “Tutta quella cianfrusaglia da <strong>cowboy</strong> non piace a nessuno, tranne che ai gay <strong>del</strong>la 42°<br />

strada. E’ roba da finocchi, se vuoi proprio chiamarla per nome…” (vedi Le Coney e Trodd, 2006).


americano, figura iconica dalla <strong>mascolinità</strong> esemplare che tuttavia nasconde, proprio per<br />

i meccanismi con cui viene congegnata, ampi spazi di latente ambiguità. Accanto alle<br />

basi teoriche offerte dalla Critical Geopolitics alla analisi <strong>del</strong>la cultura popolare e al<br />

discorso geopolitico di cui essa può farsi veicolo (vedi Toal, 1994, e <strong>del</strong>l’Agnese, 2005a<br />

e 2005b), verranno perciò utilizzati come strumenti d’indagine anche gli spunti offerti<br />

dalla prospettiva femminista ai Film Studies, in particolare per quanto riguarda il<br />

contributo analitico relativo al piacere visuale <strong>nel</strong> <strong>cinema</strong> (si veda in proposito Kaplan,<br />

2000).<br />

Cinema e nazioni, eroi e paesaggi<br />

Raccontare storie significa articolare o rinforzare valori e norme stabilite all’interno di<br />

una società. <strong>La</strong> narrazione popolare, ancor più dall’alta cultura, riflette i caratteri <strong>del</strong><br />

proprio contesto sociale e specifica chi ne sarà l’eroe, insegnando agli uomini a<br />

comportarsi “come uomini”, e alle donne “da donne”, secondo i parametri <strong>del</strong>la loro<br />

cultura. Inoltre, essa dimostra che solo alcuni tipi di persona possono aspirare al ruolo di<br />

eroe: <strong>nel</strong>le storie tradizionali, si tratta di una questione di ceto che riguarda solamente i<br />

principi e i cavalieri; in quelle contemporanee, contano altre caratteristiche, come la<br />

bellezza, la razza, il denaro, la capacità e, ovviamente, il genere. Chi non risponde alle<br />

caratteristiche adeguate, impara a lasciar perdere, limitandosi a sognare (Wright, 2005).<br />

<strong>La</strong> narrazione popolare perciò non costituisce solo una versione spettacolarizzata <strong>del</strong>la<br />

realtà sociale, capace di nasconderla come una “cortina fumogena” (<strong>La</strong>coste, 1976); ma<br />

insegna ad adeguarsi ad essa, in qualche modo rafforzando la conformità ai suoi<br />

mo<strong>del</strong>li. Come ogni altra forma di geo-grafia (cioè, di narrazione <strong>del</strong> mondo), anche<br />

quella che scaturisce dalla cultura popolare è uno strumento di “normalizzazione”,<br />

ovvero una modalità di rappresentazione che produce e ri-produce la realtà in<br />

conformità con le relazioni di potere esistenti (Dematteis, 1985).<br />

Per la sua forza immaginifica, il <strong>cinema</strong> costituisce, da questo punto di vista, un veicolo<br />

di comunicazione privilegiato, uno strumento mitopoietico tanto potente da oltrepassare<br />

il meccanismo mimetico <strong>del</strong>la messa-in-scena, per diventare un momento costitutivo<br />

<strong>del</strong>la realtà sociale; in altre parole, come scrivono Aitken e Zonn (1994, p. 21), “la<br />

camera da presa non riflette la realtà, ma la crea, attribuendole un significato, un<br />

discorso, un’ideologia”. Molto spesso, anche una narrativa di carattere nazionale.<br />

Nel suo ruolo performativo, a livello nazionale, il <strong>cinema</strong> merita di essere osservato da<br />

vicino; non solo perché parla alla nazione utilizzando, per esigenze di mercato, una sola<br />

lingua ufficiale, che viene così ad essere imposta come lingua “nazionale” a scapito<br />

<strong>del</strong>la varie parlate regionali (Schlesinger, 2000). Ma anche, e soprattutto, perché si<br />

rivolge alla nazione proponendole dei mo<strong>del</strong>li standardizzati di comportamento e la<br />

porta a costituirsi come una “comunità immaginata” che condivide un unico bagaglio di<br />

riferimenti e di valori 5 .<br />

Se ritrae il presente, il <strong>cinema</strong> descrive la nazione, ratificando l’assetto sociale di quello<br />

specifico momento storico e reificandone i costrutti come “dati-per-scontati”. Mediante<br />

l’articolazione <strong>del</strong>le trame e dei personaggi e la ricorrente corrispondenza fra ruoli e<br />

5 Ogni film è dunque un film nazionale, anche se la sua forza comunicativa può andare ben al di là dei<br />

confini <strong>del</strong>la nazione (Shoat e Stam, 2003). In tal caso, il suo ruolo politico è ancora più rimarchevole,<br />

perché riesce a comunicare sogni “nazionali” ad un pubblico transnazionale, che può adottarli come<br />

propri (come spesso avviene per il pubblico <strong>del</strong>le diaspore), o imitarli adattandoli al proprio contesto<br />

locale, oppure ancora rielaborarli attraverso un complesso meccanismo di transculturazione. E’ quanto si<br />

è verificato, come vedremo più avanti, con il mito <strong>del</strong> West e il <strong>cinema</strong> italiano.


attori, può imporre norme di virilità 6 sulla base <strong>del</strong>le quali riscrivere la sintassi <strong>del</strong>le<br />

relazioni di genere; può decidere quali generazioni sono protagoniste di quale tipo di<br />

avventura e chi invece ne è escluso, talora adeguandosi alle dinamiche demografiche<br />

<strong>del</strong>la nazione, in altri casi semplicemente anticipandole 7 ; può persino stabilire chi può<br />

aspirare ad essere protagonista <strong>del</strong>la storia e chi invece si deve limitare a un ruolo di<br />

comprimario 8 , sulla base di una gerarchia nazionale costruita in termini di razza e di<br />

etnia.<br />

Quando invece racconta il passato, il <strong>cinema</strong> non può che farlo con la sensibilità <strong>del</strong><br />

presente. In tal modo la nazione può raccontare la propria storia, trasformandola in una<br />

“etnostoria” dove vengano esaltate le esperienze formative <strong>del</strong>l’unità nazionale, le<br />

figure eroiche che ne sono state protagoniste, le caratteristiche e i valori di cui quelle<br />

figure sono campioni esemplari. In questa narrazione, anche la location dove si svolge<br />

l’azione assume un significato, trasformandosi da spazio fisico e concreto a “spazio<br />

<strong>del</strong>la mente” (Short, 1991), luogo sacro e irrinunciabile che per le proprie specificità<br />

diventa il paesaggio simbolico <strong>del</strong>la nazione.<br />

<strong>La</strong> frontiera americana come prodotto culturale<br />

Che la frontiera abbia svolto un ruolo fondativo <strong>nel</strong>la storia <strong>del</strong>la nazione americana<br />

forse non rappresenta il fatto inconfutabile che Frederick J. Turner tentò di dimostrare<br />

con il suo celeberrimo intervento al meeting annuale <strong>del</strong>la American Historical<br />

Association <strong>del</strong> 1893 9 ; è però un dato certo per quanto riguarda l’edificazione<br />

<strong>del</strong>l’identità nazionale. Se infatti è poco probabile che i valori <strong>del</strong>la democrazia,<br />

individuati da Turner come elementi centrali <strong>del</strong> carattere nazionale americano, siano<br />

scaturiti dall’esperienza <strong>del</strong>la frontiera occidentale, è invece sicuro che<br />

<strong>nel</strong>l’elaborazione mitica di quella esperienza gli Stati Uniti abbiano trovato il<br />

riferimento condiviso necessario per fare, di una pluralità di immigrati, una comunità<br />

capace di “immaginarsi” come nazione.<br />

Nella elaborazione epica <strong>del</strong> mito, più ancora di quello degli studi di storici quali Turner<br />

o Theodore Roosevelt 10 , primario fu il ruolo <strong>del</strong>la cultura popolare. Già <strong>nel</strong> corso<br />

6 Così, i diversi mo<strong>del</strong>li di virilità <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano sono passati dallo charme antieroico di Marcello<br />

Mastroianni alla maschera popolaresca di Renato Salvatori o Claudio Amendola, il fascino britannico ha<br />

variamente puntato allo humour seducente di David Niven, Peter Sellers o Hugh Grant, e quello francese<br />

alla figura <strong>del</strong> brutto, ma irresistibile, gaglioffo portata in epoche diverse sullo schermo da Jean Gabin,<br />

Jean-Paul Belmondo o Vincent Cassel.<br />

7 <strong>La</strong> tendenza è quella di utilizzare, per i ruoli sentimentali, solo attrici giovani (ed è per questo che ad<br />

Hollywood, se gli attori di cinquant’anni sono sempre sulla breccia, per le attrici <strong>del</strong>la stessa età è assai<br />

difficile trovare dei ruoli). Tuttavia, l’attuale necessità di appagare il pubblico dei cosiddetti baby<br />

boomers, cioè <strong>del</strong>la fittissima generazione dei nati fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta <strong>del</strong><br />

Novecento, ha favorito l’uscita di alcune commedie rosa sul tema <strong>del</strong>la riscossa <strong>del</strong>le cinquantenni (vedi<br />

per esempio Tutto può succedere, di D. Meyers, <strong>del</strong> 2003).<br />

8 Come scrive Stuart Hall (1997), a proposito <strong>del</strong>la rappresentazione <strong>del</strong>lo stereotipo razziale <strong>nel</strong> <strong>cinema</strong>,<br />

non vi è da stupirsi se <strong>nel</strong>la tradizione hollywodiana alle donne nere sia stato riservato il ruolo <strong>del</strong>le<br />

mammies e a quelle mulatte quello <strong>del</strong>le prostitute.<br />

9 <strong>La</strong> relazione, intitolata “Il significato <strong>del</strong>la frontiera <strong>nel</strong>la storia americana”, è stata poi pubblicata in<br />

molteplici sedi, sino a divenire il lavoro forse più importante e citato di tutta la produzione storiografica<br />

americana.<br />

10 Il futuro presidente degli Stati Uniti, prima di dedicarsi alla carriera politica, fu infatti storico e<br />

saggista, ma anche allevatore e cacciatore, innamorato <strong>del</strong>l’Ovest nonostante le sue origini fossero quelle<br />

di un piedidolci <strong>del</strong>l’Est. Dal punto di vista storiografico, il suo lavoro principale fu proprio l’opera The<br />

Winning of the West, pubblicata in più volumi dal 1889 al 1896, in cui ricostruiva l’epopea <strong>del</strong>la frontiera<br />

e <strong>del</strong>l’espansione ad Ovest. L’interpretazione offerta da Roosevelt <strong>del</strong> ruolo <strong>del</strong>la frontiera <strong>nel</strong>la storia<br />

americana è comunque differente da quella di Turner; se infatti Turner <strong>del</strong>la frontiera sottolinea


<strong>del</strong>l’Ottocento, la frontiera aveva iniziato ad essere esaltata come una epopea all’interno<br />

di una varietà di forme artistiche o di intrattenimento, come canzoni e ballate, racconti<br />

orali, quadri e stampe, romanzi e dime novels 11 , ma anche esibizioni dal vivo e<br />

rappresentazioni teatrali, che divennero presto popolari non solo all’Ovest, ma anche<br />

presso le platee <strong>del</strong>la costa orientale. Grazie all’accumularsi di un corpus testuale così<br />

ricco e variegato, ma sempre riconducibile alla specificità degli argomenti trattati (la<br />

conquista <strong>del</strong> West e i suoi eroi), si giunse ben presto alla affermazione di una tipologia<br />

di produzione artistica popolare capace di porsi agli occhi <strong>del</strong>la “nazione” come un<br />

veicolo comunicativo specificamente “americano”. In questo modo, gli Stati Uniti come<br />

nascente “comunità comunicativa” si trovarono ad avere da un lato una epica nazionale,<br />

la frontiera, tramite la quale trasformare la propria storia in etnostoria; dall’altro, un<br />

genere privilegiato attraverso cui forgiare la propria immagine nazionale. <strong>La</strong> confusione<br />

fra realtà storica e rilettura fantastica <strong>del</strong>la stessa fu resa possibile, sin dall’inizio, dal<br />

fatto che la spettacolarizzazione <strong>del</strong> West e la sua riproposta in chiave commerciale<br />

avevano luogo in contemporanea agli eventi di cui narravano le vicende, mentre i loro<br />

protagonisti erano ancora attivi sulla scena. Così, William F. Cody, lo scout cacciatore<br />

di bisonti reso celebre dalle dime novels con il soprannome di Buffalo Bill 12 , era anche<br />

il personaggio centrale <strong>del</strong> Wild West Show, spettacolo itinerante da lui stesso<br />

organizzato che in un arco di tempo compreso fra il 1882 e il 1917 avrebbe offerto alle<br />

platee prima <strong>del</strong>l’Ovest, poi <strong>del</strong>l’Est, e poi persino europee, la rappresentazione dei<br />

principali episodi <strong>del</strong>la conquista <strong>del</strong> West e <strong>del</strong>le guerre indiane. Insieme a lui,<br />

recitavano come comprimari alcuni capi indiani, compreso Toro Seduto, che venivano<br />

esposti al pubblico insieme ai pistoleri più veloci, ai più abili cavallerizzi, e a quegli<br />

stessi militari che avevano in precedenza combattuto contro di loro.<br />

Alcune di queste forme di cultura popolare, come gli spettacoli itineranti, erano<br />

destinate a ridurre progressivamente la propria diffusione; altre sono invece andate<br />

aumentando di incidenza e rilievo, sino a divenire produzioni di massa. Così, i canti dei<br />

bivacchi, riprodotti su disco, sono confluiti in un vero e proprio stile musicale (la<br />

country <strong>western</strong> music), mentre i romanzi di ambientazione <strong>western</strong>, che già<br />

costituivano un filone letterario di grande divulgazione, <strong>nel</strong> Novecento hanno raggiunto<br />

quote di vendita strabilianti 13 (Wright, 2001). Il prodotto culturale che più di ogni altro<br />

ha contribuito a fare <strong>del</strong> West il paesaggio mitico <strong>del</strong>l’epopea nazionale americana è<br />

principalmente il significato di “fucina <strong>del</strong>la democrazia”, Roosevelt ne mette in evidenza soprattutto la<br />

forza rigeneratrice, capace di esaltare la superiorità razziale degli anglosassoni (maschi) tramite lo scontro<br />

violento con i popoli inferiori (vedi in proposito Slotkin, 1992 e Dyer, 1980).<br />

11 Le prime dime novels, il cui nome deriva dal fatto che erano poste in vendita a dieci centesimi l’una,<br />

vennero lanciate <strong>nel</strong> 1860 da un certo Erastus Beadle, un editore di New York che voleva produrre<br />

stampa popolare per un pubblico di massa. Il rapido successo <strong>del</strong>l’iniziativa (presa presto a mo<strong>del</strong>lo da<br />

un’altra trentina di editori) portò alla pubblicazione di migliaia di titoli, alquanto stereotipati e formulaici<br />

<strong>nel</strong>le trame, inizialmente ispirati in modo più o meno evidente all’opera <strong>del</strong> romanziere James Fenimore<br />

Cooper e, poi variamente alle gesta di eroi <strong>del</strong> West, come il pistolero “Wild” Bill Hickock, il bandito<br />

Jesse James e il cacciatore di bisonti William Cody (Nash Smith, 1970).<br />

12 <strong>La</strong> notorietà di Cody, inizialmente basata sul passa-parola e sulla reputazione guadagnata come scout,<br />

venne enfatizzata a livello nazionale con la pubblicazione, <strong>nel</strong> 1869, <strong>del</strong>la prima dime novel a lui dedicata.<br />

Negli anni successivi, Cody alternò la sua attività di scout per la cavalleria degli Stati Uniti a quella di<br />

attore in varie produzioni teatrali in cui veniva messa in scena la selvaggia vita <strong>nel</strong>l’Ovest. Nel 1873 mise<br />

su una propria compagnia. Nel 1876, mentre era impegnato sui palcoscenici <strong>del</strong>l’Est, fu richiamato ai suoi<br />

servigi militari <strong>nel</strong>l’ambito <strong>del</strong>le guerre indiane (quando, in un episodio destinato a diventare celeberrimo,<br />

tolse lui stesso lo scalpo ad un indiano morto). Poi tornò, ancora più celebre, sulle scene ad interpretare se<br />

stesso. A parte Jesse James, Cody fu il personaggio cui venne dedicato, in assoluto, il maggior numero di<br />

dime novels <strong>nel</strong>la storia <strong>del</strong> West (Slotkin, 1998).<br />

13 Louis L’Amour, autore di romanzi di <strong>cowboy</strong>, ha venduto circa 225 milioni di copie dei suoi libri,<br />

qualificandosi in tal modo, insieme a Spillane, come uno dei romanzieri americani di maggior successo<br />

commerciale di tutto il ventesimo secolo.


però stato il <strong>cinema</strong>. Il primo film di fiction girato negli Stati Uniti fu The Great Train<br />

Robbery, <strong>del</strong> 1903: pur durando appena pochi minuti, aveva inseguimenti, spari e tutta<br />

l’azione che avrebbe in seguito qualificato ogni <strong>western</strong> che si rispetti. A partire da<br />

allora, il <strong>western</strong> come genere <strong>cinema</strong>tografico si è affermato con forza sempre<br />

maggiore, tanto da abbracciare, fra gli anni venti e gli anni settanta, circa un quarto<br />

<strong>del</strong>l’intera produzione hollywoodiana (Buscombe 1988). Anche nei decenni successivi,<br />

pur caratterizzati da un certo calo <strong>nel</strong> numero <strong>del</strong>le pellicole 14 , il genere ha comunque<br />

mantenuto un notevole appeal in termini qualitativi, grazie ad opere premiate da una<br />

pioggia di riconoscimenti come Balla con i lupi, di Kevin Costner, <strong>del</strong> 1991, Gli<br />

spietati, di Clint Eastwood, <strong>del</strong> 1992, e il più recente Brokeback Mountain, <strong>del</strong> 2005.<br />

Il <strong>cinema</strong> <strong>western</strong> e la geopolitica popolare americana<br />

Come tutti gli altri testi che fanno riferimento all’epopea <strong>del</strong>la frontiera, anche il <strong>cinema</strong><br />

<strong>western</strong> si qualifica un prodotto culturale decisamente connotato dal punto di vista<br />

“nazionale” 15 , e per questo ha giocato, e tuttora ricopre, un ruolo fondamentale <strong>nel</strong>la<br />

produzione discorsiva <strong>del</strong>la geopolitica popolare americana. Parte <strong>del</strong>la sua<br />

straordinaria popolarità, e <strong>del</strong>l’ottima tenuta manifestata <strong>nel</strong> corso <strong>del</strong> tempo, può essere<br />

attribuita proprio alla disposizione dimostrata <strong>nel</strong> sapersi adattare alle istanze culturali e<br />

geopolitiche <strong>del</strong> momento, facendo loro di volta in volta da cassa di risonanza presso il<br />

grande pubblico.<br />

L’uso di fare <strong>del</strong>la frontiera lo spazio mitico in cui ambientare le pulsioni <strong>del</strong>l’America<br />

contemporanea risale forse ai tempi <strong>del</strong>la presidenza di Theodore Roosevelt, il quale<br />

estese il discorso geopolitico <strong>del</strong> “destino manifesto” sino a giustificare la conquista<br />

<strong>del</strong>le Filippine da parte degli Stati Uniti (Weinberg, 1938). Con la diffusione <strong>del</strong><br />

<strong>cinema</strong>, ovviamente, il ricorso all’epopea <strong>del</strong> West come frame interpretativo per<br />

articolare altri frangenti geopolitici si è fatto sempre più complesso e articolato. Per<br />

esempio, i film a basso costo prodotti negli anni immediatamente antecedenti la seconda<br />

guerra mondiale (i cosiddetti B-Western) erano centrati su vicende in cui personaggi<br />

vestiti da <strong>cowboy</strong>, e dunque investiti <strong>del</strong>l’aura <strong>del</strong> Vecchio West, affrontavano i<br />

“cattivi” <strong>del</strong> mondo di allora, costituiti da gangster o persino da agenti nazisti. Si veniva<br />

così a creare una confusione tra realtà e mito tanto potente da suggerire che “l’etica<br />

eroica <strong>del</strong> West potesse essere eternamente valida come strumento per affrontare e<br />

risolvere i problemi di carattere politico o sociale di qualsiasi contesto” (Slotkin, 1998,<br />

p. 276, n.t.).<br />

Una volta instillato con forza questo presupposto, ai <strong>western</strong> classici degli anni<br />

cinquanta si chiese di rinforzare il mito americano <strong>del</strong>la frontiera e <strong>del</strong>la funzione<br />

14 Nello stesso periodo sono stati prodotti moltissimi film, che pur non qualificandosi come <strong>western</strong> per<br />

ambientazione o epoca storica, fanno ampio riferimento ai canoni <strong>del</strong> genere; George Lucas, per esempio,<br />

ha definito la saga fantascientifica di Guerre Stellari come “<strong>cinema</strong> di avventura <strong>nel</strong>la tradizione <strong>del</strong><br />

<strong>western</strong> americano”. Possono essere considerati come “<strong>western</strong> travestiti” anche molti film d’azione di<br />

ambientazione urbana degli anni Ottanta e Novanta, in cui il protagonista maschile (Clint Eastwood,<br />

Bruce Willis, Stallone) agisce (e spara) come una sorta di <strong>cowboy</strong> contemporaneo (Wright 2001).<br />

15 Anche se, il <strong>western</strong> come genere <strong>cinema</strong>tografico ha riscosso, negli stessi anni, un grandissimo<br />

successo, sia in termini di produzione sia in termini di pubblico, ben al di là dei confini nazionali: si pensi<br />

agli “spaghetti <strong>western</strong>” di matrice italiana (Frayling, 1998). Per molti di questi lavori, parlare di<br />

imitazione è comunque riduttivo, in quanto in alcuni casi il genere è stato utilizzato in termini ironici,<br />

oppure parodici, o ancora per produrre lavori di segno assai meno celebrativo di quello tipico dei classici<br />

americani. Oltre che per i contenuti, anche dal punto di vista stilistico, è preferibile parlare di<br />

transculturazione, e di successiva ibridazione, piuttosto che di replica pedissequa <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo originale:<br />

basti pensare all’influenza esercitata dai lavori di Sergio Leone su quelli di autori americani successivi<br />

quali Peckimpah o Eastwood.


purificatrice <strong>del</strong>l’esperienza <strong>del</strong>la wilderness; quelli degli anni sessanta vennero poi<br />

utilizzati per rileggere l’esperienza South-of-the-border dei militari americani (ossia le<br />

guerre in Vietnam e in Corea) come una missione necessaria al fine di aiutare popoli<br />

bisognosi, ma primitivi e incapaci di acquisire e gestire un buon governo con le loro<br />

stesse mani (come accade, per esempio, ne I magnifici sette, di Sturges, <strong>del</strong> 1960, o <strong>nel</strong><br />

Mucchio selvaggio, di Peckimpah, <strong>del</strong> 1969) (<strong>del</strong>l’Agnese, 2005). Negli anni settanta vi<br />

fu chi fece ricorso al <strong>western</strong> “revisionista” per indurre l’America a riflettere – in modo<br />

indiretto ma elegantemente giocato con l’uso di comparse vietnamite invece che indiane<br />

– sulla brutalità <strong>del</strong>l’esperienza (presente) <strong>del</strong> Vietnam, associandola alla brutalità<br />

<strong>del</strong>l’esperienza (passata) <strong>del</strong>la frontiera (vedi Soldato Blu, <strong>del</strong> 1970, e Il piccolo grande<br />

uomo, di Arthur Penn, <strong>del</strong>lo stesso anno). All’inizio degli anni novanta, il <strong>western</strong> venne<br />

ripresentato in veste New Age con pellicole come L’ultimo dei Mohicani o Balla con i<br />

lupi, dove il significato <strong>del</strong>la frontiera <strong>nel</strong>la storia americana veniva reinterpretato sotto<br />

il segno <strong>del</strong>la ibridazione culturale con gli indiani 16 . Invece, <strong>nel</strong> corso <strong>del</strong> decennio<br />

successivo, segnato dalla crisi <strong>del</strong>le guerre in Afghanistan e in Iraq, i valori <strong>del</strong> West,<br />

<strong>del</strong> suo modo di fare giustizia e imporre la libertà, vengono richiamati all’interno di<br />

produzioni destinate ad offrire al pubblico una riconferma <strong>del</strong> significato di un certo<br />

modo di “essere americani” (vedi, per esempio, Hidalgo. Oceano di fuoco, <strong>del</strong> 2004)<br />

(<strong>del</strong>l’Agnese 2004).<br />

Genere adattabile nei suoi significati geopolitici, ma pur sempre riconoscibile come l’<br />

“universo mitico” <strong>del</strong>la narrazione epica americana, il <strong>western</strong> ha utilizzato, <strong>nel</strong> corso<br />

<strong>del</strong> tempo, paesaggi simbolici di segno diverso; così, le pellicole <strong>del</strong> periodo classico<br />

rappresentavano l’Ovest come un luogo di terre vergini, oppure addirittura<br />

semidesertiche (come la Monument Valley), per sottolineare il ruolo <strong>del</strong>l’uomo bianco<br />

<strong>nel</strong> riscrivere il proprio destino <strong>nel</strong> confronto con una terra maestosa e ostile (Engel,<br />

1994); al contrario, i <strong>western</strong> alternativi o quelli New Age, che <strong>del</strong>la frontiera hanno<br />

privilegiato il significato di contatto culturale, hanno come sfondo foreste e verdeggianti<br />

praterie, punteggiate dagli insediamenti indiani e dai segni <strong>del</strong>la loro presenza.<br />

Elemento comune a tutto il genere rimane comunque il tratto anti-urbano <strong>del</strong>le<br />

ambientazioni, che tende a contrapporre a città piccole, spesso corrotte e comunque mal<br />

organizzate, i grandi spazi aperti <strong>del</strong> territorio americano, the big country per<br />

eccellenza.<br />

Un tratto anti-urbano caratterizza anche l’eroe <strong>del</strong>la frontiera: il protagonista epico <strong>del</strong>la<br />

conquista <strong>del</strong> West è infatti, secondo la letteratura prima e secondo il <strong>cinema</strong> poi, un<br />

individuo che sfugge la vita sedentaria e la civilizzazione, per privilegiare il viaggio, la<br />

vita nomade, il contatto con natura. Questo tratto anti-urbano caratterizza tanto i<br />

personaggi che ricoprivano il ruolo <strong>del</strong>l’eroe <strong>nel</strong>la prima fase <strong>del</strong>la mitizzazione<br />

culturale <strong>del</strong>la frontiera, come gli scout e i cacciatori di pelli protagonisti dei romanzi di<br />

James Fenimore Cooper, quanto quello che sarebbe divenuto, a partire dalla fine<br />

<strong>del</strong>l’Ottocento, il protagonista assoluto <strong>del</strong>l’epopea <strong>del</strong> West, ovvero il <strong>cowboy</strong>.<br />

Il <strong>cowboy</strong> <strong>nel</strong>lo spazio mitico americano<br />

Il giovane mandriano, dedito alla cura <strong>del</strong>le vacche e, più in generale, all’allevamento<br />

itinerante nei Grandi Piani cui si ispira la figura <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, era spesso un individuo<br />

povero, mal pagato, mal nutrito, talora disoccupato nei mesi invernali, che rivestiva<br />

<strong>nel</strong>la società <strong>del</strong>la frontiera uno status marginale in termini sia economici che sociali<br />

16 <strong>La</strong> rilettura <strong>del</strong>la frontiera americana come luogo specifico <strong>del</strong>l’incontro culturale è tipica non solo<br />

<strong>del</strong>la cultura popolare, ma anche <strong>del</strong>la storiografia di quegli anni. Si veda in proposito Nobles, 1997.


(Carlson, 2000) 17 . Essere un <strong>cowboy</strong> non era perciò a quei tempi aspirazione di molti:<br />

certo preferibile era essere un cattleman, o meglio ancora un rancher, vale a dire un<br />

proprietario, soprattutto dopo la crisi <strong>del</strong>l’allevamento bovino <strong>del</strong> 1887 e la chiusura dei<br />

grandi spazi aperti.<br />

Il prevalere <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> <strong>nel</strong>l’immaginario popolare rispetto agli altri protagonisti storici<br />

<strong>del</strong>la frontiera (cacciatori, militari, costruttori di ferrovie…) si spiega con il fatto che il<br />

mandriano nomade divenne una figura centrale <strong>nel</strong>le Grandi Pianure proprio quando le<br />

vicende ispirate alla conquista <strong>del</strong> West iniziavano ad entrare <strong>nel</strong>la cultura di massa<br />

degli americani, vale a dire <strong>nel</strong>l’ultimo quarto <strong>del</strong>l’Ottocento. Ultimo protagonista <strong>del</strong>la<br />

frontiera, il <strong>cowboy</strong> era destinato a diventarne l’eroe negli anni in cui il processo di<br />

conquista territoriale si andava chiudendo 18 e l’America urbana e industrializzata<br />

iniziava ad averne nostalgia.<br />

A fare <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> un personaggio da ribalta contribuì, più che la storia, la cultura<br />

popolare; innanzitutto il Wild West Show, che lo portò sulle scene sin dagli anni ottanta,<br />

poi i quadri di Remington e di Russell, poi, soprattutto, il romanzo di Owen Wister<br />

intitolato Il Virginiano, che promosse il <strong>cowboy</strong> al rango di protagonista assoluto <strong>del</strong><br />

West, elevandolo al ruolo <strong>del</strong>l’ultimo eroe americano. Con Il Virginiano, edito <strong>nel</strong> 1902<br />

e destinato da allora ad innumerevoli ristampe e messe in scena teatrali e<br />

<strong>cinema</strong>tografiche, il <strong>cowboy</strong> si qualificava per la prima volta di fronte al grande<br />

pubblico come un personaggio dotato di capacità e prestanza fisica eccezionali, cui le<br />

facoltà personali, piuttosto che il rango, attribuivano un fascino intrinsecamente<br />

superiore a quello <strong>del</strong>l’uomo <strong>del</strong>l’Est 19 . Era anche il protagonista di un mondo in via di<br />

scomparsa (il romanzo è ambientato <strong>nel</strong> “selvaggio” Wyoming), per questo dotato di un<br />

inesauribile alone romantico.<br />

Grazie alle vivaci descrizioni di Wister, il <strong>cowboy</strong>, che <strong>nel</strong>la realtà era spesso nero, o<br />

comunque ispanico o meticcio, acquisì anche i tratti fisici che avrebbe poi mantenuto<br />

<strong>nel</strong> tempo: di aspetto piacevole, era alto e sottile, bianco e di origine chiaramente<br />

anglosassone 20 . Riprodotto in innumerevoli varianti, l’eroe <strong>del</strong> West sarebbe rimasto, da<br />

allora in poi, il classico tall slim American (Leutrat e Liandrat-Guigues, 1990),<br />

possibilmente bello e soprattutto con gli occhi azzurri.<br />

In questo modo, Il Virginiano, capace di emergere per l’ “aristocrazia naturale” legata<br />

alle capacità personali, piuttosto che ai meriti <strong>del</strong>la sua nascita, avrebbe suggerito un<br />

mo<strong>del</strong>lo destinato ad essere replicato all’interno di una moltitudine di opere<br />

17 Come nota Paul H. Carlson (2000), sino a metà degli anni ottanta <strong>del</strong>l’Ottocento, il termine <strong>cowboy</strong> <strong>nel</strong><br />

West veniva talora utilizzato per indicare un ubriacone, oppure un ladro di bestiame o un piccolo<br />

fuorilegge.<br />

18 <strong>La</strong> frontiera venne dichiarata ufficialmente chiusa <strong>nel</strong> 1890, dal Bureau of Census degli Stati Uniti, in<br />

occasione <strong>del</strong> censimento <strong>del</strong>la popolazione di quell’anno.<br />

19 Come nei suoi altri lavori di ambientazione <strong>western</strong>, anche ne Il Virginiano Wister si preoccupa di<br />

narrare la vicenda con gli occhi di un tenderfoot giunto all’Ovest dalla costa orientale, al fine di mettere in<br />

rilievo, per contrasto, le caratteristiche eccezionali <strong>del</strong>l’eroe <strong>del</strong> West (White, 1968).<br />

20 Lungi dall’essere fuori dalla scena, la questione razziale era ben presente tanto <strong>nel</strong>la formulazione<br />

teorica <strong>del</strong> discorso sulla frontiera, quanto <strong>nel</strong>la rappresentazione offertane dalla geopolitica popolare <strong>del</strong><br />

tempo. Così, alle posizioni anglosassoniste di Theodore Roosevelt, fa eco Owen Wister, amico personale<br />

di Roosevelt e come lui convinto <strong>nel</strong>la superiorità <strong>del</strong>l’anglosassone, il quale non solo descrive il <strong>cowboy</strong><br />

come un perfetto esemplare di maschio anglosassone, ma ne sottolinea anche la “naturale propensione”<br />

verso la wilderness: in un articolo pubblicato <strong>nel</strong> 1895 su Harper's Monthly dal titolo "The Evolution of a<br />

Cowpuncher," Wister scrive: “Avventura, essere <strong>nel</strong>la natura, trovare posti lontani dal portalettere,<br />

godersi l’indipendenza <strong>del</strong>lo spirito e <strong>del</strong>la mente…questo è l’istinto cardinale di sopravvivenza che <strong>nel</strong><br />

corso dei secoli ha fatto <strong>del</strong> Sassone un conquistatore, un invasore, un navigatore, un bucaniere, un<br />

esploratore, un colonizzatore, un cacciatore di tigri…le sue gambe sono fatte per stringere la<br />

sella…sopravvivere <strong>nel</strong>la regione degli allevamenti richiede spirito di avventura, coraggio e<br />

autosufficienza; non troverete molti polacchi, ebrei o tedeschi in quei luoghi, ma l’Anglosassone è sempre<br />

malato di spirito di avventura” (n.t.).


<strong>cinema</strong>tografiche successive. Secondo la struttura tipica <strong>del</strong> <strong>western</strong>, <strong>del</strong>ineata in modo<br />

esemplare da pellicole come Il cavaliere <strong>del</strong>la valle solitaria di G. Stevens, <strong>del</strong> 1953, o<br />

Il cavaliere pallido di Clint Eastwood, <strong>del</strong> 1985, e poi moltiplicata in centinaia di<br />

varianti, l’eroe è infatti un <strong>cowboy</strong> che viene dalla “natura”, sa sparare meglio di tutti,<br />

aiuta i cittadini onesti ma pavidi a combattere i cattivi e, dopo aver insegnato alla<br />

comunità a reggersi da sola, ritorna dal nulla da dove è venuto (Wright, 1975). In questo<br />

schema ideale, la triangolazione fra l’eroe, la comunità e i cattivi (che spesso vengono<br />

dall’Est e comunque sono “cattivi” perché avidi e pretendono di imporre i propri diritti<br />

su quelli degli altri), diventa funzionale per ribadire i valori <strong>del</strong>l’individualismo e i<br />

principi di uguaglianza “naturale” di tutti gli individui nei confronti <strong>del</strong>la proprietà <strong>del</strong>la<br />

terra (Wright, 2001).<br />

Nella narrazione di una iconografia nazionale che <strong>del</strong>la frontiera andava facendo la<br />

propria etnostoria e <strong>del</strong> “selvaggio West” il proprio etnopaesaggio, il <strong>cowboy</strong> è così<br />

emerso come la figura meglio capace di personificare la nostalgia nei confronti di un<br />

passato mitico e di una “natura” potente e incontaminata, <strong>nel</strong> contempo incarnando i<br />

valori “tipicamente americani” <strong>del</strong> saper fare, che consentono “naturalmente” di<br />

emergere all’interno di una società di uguali (Wright, 2001). Mentre il significante<br />

razziale (denotato dal colore degli occhi, dai tratti somatici, dalla statura) serviva a<br />

ricordare, in un contesto fortemente demarcato da questo punto di vista come quello<br />

degli Stati Uniti, che i diritti di eguaglianza spettano pienamente solo agli anglosassoni,<br />

mentre si applicano in modo gerarchizzante, o esclusivo, a tutti quelli che sono un po’<br />

meno “uguali” di loro (ispanici, meticci, neri, indiani).<br />

<strong>La</strong> costruzione mitica <strong>del</strong>l’eroe <strong>del</strong> West come un avventuriero nomade e individualista,<br />

dotato di una capacità eccezionale <strong>nel</strong> maneggiare le armi, che sa porsi al servizio degli<br />

altri quando necessario e poi si ritira dopo aver riparato i torti, ha inoltre una chiara<br />

leggibilità in termini di politica estera. L’evidente praticità <strong>del</strong>la metafora ha perciò<br />

consentito al <strong>cowboy</strong> di divenire un vessillo ricorrente anche <strong>del</strong>la geopolitica formale<br />

americana: da Theodore Roosevelt a Ronald Reagan, passando per Lyndon Johnson e<br />

giungere poi sino a George W. Bush, i “presidenti <strong>cowboy</strong>”, o coloro che si definivano<br />

come tali, si sono susseguiti al comando degli Stati Uniti tutte le volte che la politica<br />

internazionale spingeva ad uscire dall’isolazionismo per intraprendere posizioni più<br />

interventiste e aggressive.<br />

Il <strong>cowboy</strong> come icona maschile<br />

Se la figura <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> <strong>nel</strong>l’ambito <strong>del</strong>la iconografia nazionale americana costituisce<br />

una categoria abbastanza facile da decostruire, più complesso è invece tentare di<br />

spiegare le ragioni <strong>del</strong> suo successo in quanto ideale di <strong>mascolinità</strong>. Il <strong>cowboy</strong> è<br />

un’icona che va ben oltre il linguaggio <strong>del</strong>la politica: anche il marketing, la pubblicità,<br />

la moda, persino il turismo paiono non poter fare a meno di ricorrere ad una immagine<br />

maschile che sembra forgiata per compiacere tutti gli ideali <strong>del</strong>la <strong>mascolinità</strong> egemone<br />

nazionale 21 .<br />

21 Nel 1954, al fine di lanciare presso un pubblico maschile le sigarette con filtro, sino ad allora<br />

considerate femminili, il pubblicitario americano Leo Burnett pare abbia chiesto al suo gruppo di<br />

collaboratori quale fosse l’immagine più mascolina degli Stati Uniti <strong>del</strong>l’epoca. <strong>La</strong> scelta cadde in modo<br />

unanime sul <strong>cowboy</strong>, e Burnett lanciò “The Malboro Man”, la campagna pubblicitaria forse più famosa, e<br />

certamente più duratura, di tutti i tempi. E’ da notare che l’immagine <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, associata al marchio di<br />

sigarette, ha avuto tanto successo da suggerire il lancio di una linea di abbigliamento sportiva con lo<br />

stesso nome e addirittura dei viaggi organizzati negli Stati Uniti (“the Malboro Country”).


<strong>La</strong> questione <strong>del</strong>la <strong>mascolinità</strong>, o meglio quella <strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong>la <strong>mascolinità</strong><br />

attraverso una serie di confronti o di riti di passaggio, è, secondo alcuni autori, uno dei<br />

temi centrali che accomunano gran parte dei testi riconducibili al genere “<strong>western</strong>”<br />

(Mitchell, 1996). Si tratta di un percorso formativo che prevede l’acquisizione di un<br />

determinato pacchetto di competenze (Peek, 2003): “farsi uomini”, in un mondo in cui<br />

contano solamente le capacità individuali, significa imparare a conoscere e, di<br />

conseguenza, imparare a dominare. Il processo prevede l’acquisizione <strong>del</strong> controllo e<br />

<strong>del</strong> dominio sopra la natura (che bisogna imparare a conoscere per poter sopravvivere in<br />

essa, per trarne sostentamento, e per difendersi dai nemici che vi allignano, serpenti a<br />

sonagli e indiani compresi), ma anche l’apprendimento <strong>del</strong>le tecniche per andare a<br />

cavallo (il piedidolci, ovviamente, va a piedi) e per controllare la mandria. Bisogna<br />

inoltre saper dominare l’Altro, cui si è superiori “naturalmente” (come l’indiano, o il<br />

messicano), o “culturalmente” (come l’inglese). Bisogna saper dominare se stessi, senza<br />

lasciarsi prendere dall’ira, dalla sete di vendetta, dall’avidità, e bisogna anche imparare<br />

a dominare il proprio corpo, che può talora subire orribili violenze. Soprattutto, bisogna<br />

imparare a porsi al di sopra dei pari (cioè degli altri americani): ciò significa saper<br />

cavalcare meglio, sparare più veloci, usare il lazo con facilità, imponendo così la<br />

propria superiorità sui <strong>cowboy</strong> meno capaci, su “quelli di città”, su quelli <strong>del</strong>l’Est, che<br />

non solo non sanno cavalcare, ma sono spesso rappresentati come deboli, effeminati,<br />

troppo curati, nevrotici e malaticci, o perversamente cattivi 22 .<br />

Poiché si tratta di un percorso di apprendimento che ha a che fare con abilità ritenute<br />

esclusivamente “maschili”, la sfida si gioca solo fra maschi, in un mondo che esclude le<br />

donne, ponendole non solo al di fuori dei diritti di eguaglianza (come i negri e gli<br />

indiani), ma addirittura al di fuori <strong>del</strong>l’agone competitivo (il processo di costruzione<br />

<strong>del</strong>la femminilità non è mai preso in considerazione: le donne devono solo saper stare in<br />

casa e aspettare, mentre per acquisire lo status di eroi gli uomini devono compiere <strong>del</strong>le<br />

imprese e avere successo).<br />

In questo processo di produzione <strong>del</strong>l’immaginario <strong>del</strong> West come di un agone fra soli<br />

uomini, la rappresentazione filmica ha giocato un ruolo fondamentale. Nel mo<strong>del</strong>lo<br />

letterario suggerito da Il Virginiano, infatti, la natura verbale <strong>del</strong> testo consente di<br />

introdurre un Io narrante: un “turista” <strong>del</strong>l’Est che visita il Wyoming, incontra il<br />

<strong>cowboy</strong> e ne racconta le vicende, costantemente contrapponendo la prestanza fisica e la<br />

pronta intelligenza di quello con le proprie inadeguatezze. Grazie a questo artificio<br />

narrativo, lo sguardo ammirato di un altro personaggio maschile attribuisce al<br />

Virginiano lo status di eroe anche davanti al lettore, senza imporre la necessità di una<br />

specifica prestazione di successo. In tal modo, il <strong>cowboy</strong>, la cui superiorità viene<br />

decantata senza bisogno di metterla alla prova, non ha bisogno di altri competitori<br />

maschili e può essere protagonista di una storia d’amore.<br />

Nella narrazione <strong>cinema</strong>tografica, invece, il ruolo <strong>del</strong>l’Io narrante è quasi sempre<br />

sostituito da quello dalla macchina da presa. Solo attraverso lo svolgersi <strong>del</strong>la trama, il<br />

<strong>cowboy</strong> può dimostrare le proprie capacità sociali (e, in forma traslata, anche quelle<br />

politiche); mentre le sue caratteristiche fisiche possono essere descritte allo spettatore<br />

solo attraverso l’indugiare <strong>del</strong>l’obiettivo. Poiché la sostanza eroica <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> non<br />

consiste <strong>nel</strong>la sua abilità di seduttore, ma piuttosto <strong>nel</strong>la sua capacità di insegnare alla<br />

società a seguire le regole <strong>del</strong>l’uguaglianza sociale e <strong>del</strong>la democrazia politica, le trame<br />

<strong>cinema</strong>tografiche vengono così ad essere imperniate su performance di competenza,<br />

riducendo le vicende amorose a ingredienti marginali. Il percorso di costruzione <strong>del</strong>la<br />

22 Le biografie di Theodore Roosevelt raccontano di come il futuro presidente, nato in una ricca famiglia<br />

<strong>del</strong>l’Est, ma innamorato sin da bambino dei miti <strong>del</strong>l’Ovest, si fosse guadagnato, non appena giunto<br />

<strong>nel</strong>l’Ovest, il poco lusinghiero soprannome di “quattrocchi”, riuscendo poi a liberarsene solo in seguito ad<br />

un vivace intervento in una rissa da saloon.


<strong>mascolinità</strong> non richiede di qualificarsi come “uomini” in una opposizione di genere,<br />

ma piuttosto come essere uomini e comportarsi da uomini, ottenendo il maggior<br />

successo possibile all’interno di un male melodrama (Lusted, 1996), ossia di una<br />

competizione esclusivamente maschile giocata fra il <strong>cowboy</strong>, che incarna i giusti valori<br />

<strong>del</strong>la frontiera e <strong>del</strong>la libertà, e i “cattivi”, che esprimono al contrario i mali <strong>del</strong>l’avidità<br />

e <strong>del</strong>la corruzione (spesso interpretati in senso antiurbano, come avviene, per esempio,<br />

<strong>nel</strong> già citato Il cavaliere <strong>del</strong>la valle solitaria). Oppure, in un percorso di crescita in cui<br />

l’eroe, un <strong>cowboy</strong> segnato dall’età e dalla nostalgia, insegna ad un giovane <strong>cowboy</strong><br />

come affrontare il mondo (l’esempio più significativo è in questo caso Fiume Rosso, di<br />

Howard Hawks, <strong>del</strong> 1948, il cui soggetto è integralmente giocato sulla contrapposizione<br />

fra il protagonista Tom Dunson, interpretato da un John Wayne non più giovanissimo, e<br />

suo figlio adottivo, interpretato da Montgomery Clift 23 ; ma la compresenza di un eroe<br />

più maturo e di un personaggio più giovane, che grazie a lui può apprendere i percorsi<br />

<strong>del</strong>la vita e avvicinarsi all’età adulta, è presente in molte altre pellicole, da Sentieri<br />

selvaggi, di John Ford, in cui l’eroe è ancora John Wayne, allo stesso Cavaliere <strong>del</strong>la<br />

valle solitaria, al molto più recente Terra di confine) 24 .<br />

All’interno di un corpus testuale sempre più centrato su vicende di uomini, e su amicizie<br />

o ostilità fra gruppi di uomini, le donne non hanno una collocazione significativa. Non<br />

sono mai vere donne, ma segni. Appaiono all’interno di pochi ruoli stereotipati, in cui la<br />

gerarchia di genere si interseca ad una specifica gerarchia di razza (se “buone” e<br />

anglosassoni sono maestre, infermiere e/o fidanzate e mogli, se invece sono “cattive”<br />

sono prostitute, e in tal caso possono essere messicane o meticce; quando vengono<br />

rapite, sono contaminate dagli indiani e dunque diventano vittime, come in Sentieri<br />

selvaggi, oppure plausibili mogli per eroi transculturali come quelli di Piccolo grande<br />

uomo o Balla con i lupi). Marginali nei ruoli, possono avere un significato centrale <strong>nel</strong>la<br />

trama, all’interno <strong>del</strong>la quale rappresentano un pretesto per l’esibizione <strong>del</strong>le<br />

competenze maschili (anche in questo caso, è esemplare la caccia alla nipote rapita di<br />

“zio Nathan”/John Wayne in Sentieri Selvaggi), oppure un elemento di disturbo. Spesso<br />

sono associate in modo simbolico allo spazio, che si configura come la contrapposizione<br />

fra un ambito maschile (lo spazio aperto, l’ambiente naturale, il movimento) e un<br />

ambito femminile (lo spazio urbanizzato, la casa, la sedentarietà), sino a diventare il<br />

perno <strong>del</strong>la tensione fra la vita nomade <strong>nel</strong>la “natura” e la necessità di diventare<br />

sedentari, all’interno di una comunità (Günsberg, 2005).<br />

Proprio all’interno di questa tensione si gioca, secondo Pumphrey (1981), il discorso<br />

sulla <strong>mascolinità</strong> <strong>nel</strong> <strong>western</strong>, vale a dire la contrapposizione di un mo<strong>del</strong>lo escapist di<br />

<strong>mascolinità</strong> e quello, più funzionale alla costruzione di una vita politica e sociale, <strong>del</strong><br />

family man, ovvero <strong>del</strong> sedentario che sta a casa ad occuparsi <strong>del</strong> benessere di moglie e<br />

prole e si impegna per la comunità. In entrambi i casi è possibile identificare un attore di<br />

riferimento, e se John Wayne (e poi Clint Eastwood) rappresentano l’icona classica <strong>del</strong><br />

23<br />

Su questo film sono stati versati fiumi di inchiostro. A titolo esemplificativo, si possono consultare<br />

Coyne, 1998, e Sanderson, 2004.<br />

24<br />

L’ opposizione fra un maschio adulto, <strong>nel</strong> ruolo <strong>del</strong> protagonista, e un giovane “apprendista” è presente<br />

anche in pellicole in cui ci si riferisce al mondo <strong>del</strong> <strong>western</strong>, e ai canoni <strong>del</strong> genere, pur calando la<br />

vicenda all’interno di una diversa ambientazione storica; è quanto avviene, per esempio, in Honkytonk<br />

Man, di Clint Eastwood, <strong>del</strong> 1982, in cui il protagonista, interpretato dallo stesso Eastwood, è un cantante<br />

country senza famiglia e senza legami, segnato dall’alcool e dalla vita, che attraversa l’America <strong>del</strong>la<br />

Grande Depressione accompagnato da un nipote adolescente (poiché il film è ambientato negli anni<br />

trenta, il viaggio si compie in automobile, e non a cavallo; ma Clint Eastwood indossa sempre un cappello<br />

Stetson, con il quale fa anche il bagno, e la gente gli si rivolge usando l’inevitabile appellativo di<br />

“<strong>cowboy</strong>”). In maniera meno palese, anche lo pseudo-<strong>western</strong> Guerre stellari si gioca sul contrasto fra<br />

una coppia di protagonisti maschili di età e esperienza diversa, il più anziano Han Solo, abilissimo pilota<br />

dalle mille avventure, ma totalmente privo di legami, e il giovane Luke Skywalker, che da lui deve<br />

apprendere i trucchi <strong>del</strong> mestiere (e poi sposa la principessa).


“solitario” senza famiglia e senza legge, James Steward è invece il sedentario che sa<br />

essere padre di famiglia ed anche rispettare le norme e le convenzioni sociali. <strong>La</strong><br />

contrapposizione è esemplificata in modo netto ne L’uomo che uccise Liberty Walance<br />

di Ford, <strong>del</strong> 1962, che vede il romantico <strong>cowboy</strong> Doniphon-Wayne insegnare al giovane<br />

avvocato Ramson (James Steward), che l’unica legge <strong>del</strong> West è quella <strong>del</strong>la pistola.<br />

Forse più di ogni altro, questo film di John Ford, aiuta però a meglio mettere a fuoco<br />

una contrapposizione che in realtà si costruisce, piuttosto che fra due mo<strong>del</strong>li di<br />

<strong>mascolinità</strong>, fra due momenti storici differenti. Tutto giocato sui toni <strong>del</strong>l’elegia, il film<br />

inizia infatti dal funerale di Doniphon, celebrato mestamente dall’ormai anziano<br />

Ramson, che <strong>nel</strong> frattempo si è sposato, è divenuto un uomo politico ed è tornato in città<br />

solo per l’occasione. Da quel momento, vengono ricordati i momenti più salienti <strong>del</strong>la<br />

sua vita, dall’arrivo in quella che era allora una comunità dove vigeva come unica legge<br />

la legge <strong>del</strong> più forte (imposta dal “cattivo” Liberty Valance), all’incontro con “il<br />

<strong>cowboy</strong>” Doniphon, all’uccisione di Liberty Valance da parte di Doniphon, l’unico<br />

capace di opporre la propria forza a quella dei fuorilegge. Ucciso Liberty Valance, il<br />

<strong>cowboy</strong> ha però esaurito il proprio ruolo <strong>nel</strong>la società e deve lasciare il posto alla legge<br />

(e cioè, al giovane Ramson, cui, simbolicamente, lascia anche il posto a fianco <strong>del</strong>la<br />

ragazza).<br />

<strong>La</strong> <strong>mascolinità</strong> escapist è dunque un mo<strong>del</strong>lo che non appartiene al presente; si riferisce<br />

ad un momento eroico e fondativo, che tuttavia è necessario saper superare. Dopo aver<br />

appreso la lezione <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> solitario, il suo giovane compagno si sposa: come si<br />

sposa Ramson, si sposano infatti anche il figlio adottivo di Dunson, in Fiume Rosso e il<br />

giovane meticcio che accompagna “zio Ethan” in Sentieri Selvaggi (mentre il solitario<br />

John Wayne non si sposa mai). Si sposa anche il personaggio interpretato da Richard<br />

Wydmark ne L’ultima notte a Warlock, di Edward Dmytriyk (<strong>del</strong> 1959). In questo caso,<br />

tuttavia, lo schema classico <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> che giunge in città, aiuta la comunità a liberarsi<br />

dai cattivi e poi se ne va, dopo averle insegnato a cavarsela da sola 25 , è complicato dal<br />

fatto che, oltre al “<strong>cowboy</strong>” (il pistolero Clay Blaise<strong>del</strong>l, che arriva in città circondato<br />

dalla fama <strong>del</strong>le sue Colt dall’impugnatura d’oro, interpretato da Henry Fonda) e al suo<br />

“apprendista” (il giovane bandito Johnny Gannon/ Richard Wydmark, che si trasforma<br />

in sceriffo, impara ad amministrare la giustizia e si sposa con la “bella”), vi è un terzo<br />

personaggio maschile, Morgan, interpretato da Anthony Quinn. Brutto e zoppo, mentre<br />

Clay è alto ed elegante, Morgan è l’inseparabile guardaspalle <strong>del</strong> pistolero. Quasi come<br />

l’Io narrante de Il Virginiano, il suo ruolo visuale sembra essere quello di esaltare, per<br />

contrasto, la bellezza <strong>del</strong>l’eroe. Mentre la devozione da lui espressa nei confronti <strong>del</strong><br />

<strong>cowboy</strong> pare rinforzare lo sguardo ammirato <strong>del</strong>la macchina da presa.<br />

Scopofilia e identificazione narcisistica<br />

Allo sguardo ammirato di Morgan si associa, secondo alcuni critici (Coyne, 1998), una<br />

latente omosessualità. Proprio per il sottile tentativo di mettere a fuoco le complesse<br />

relazioni fra i protagonisti maschili, L’ultima notte a Warlock, che all’epoca <strong>del</strong>la sua<br />

uscita non ebbe grande successo, viene oggi considerato come un originale esempio di<br />

<strong>western</strong> psicologico. Non è tuttavia il primo <strong>western</strong> in cui l’occhio <strong>del</strong>la macchina da<br />

presa, <strong>nel</strong>l’esaltare la bellezza maschile <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, introduce elementi di “omoerotismo”.<br />

Anzi, il <strong>cowboy</strong> rappresenta, in tutta la storia <strong>del</strong> <strong>western</strong> come genere<br />

25 Anche il <strong>cowboy</strong> si innamora; ma, invece di fermarsi, chiede alla ragazza di seguirlo <strong>nel</strong>la prossima<br />

città in cui saranno richieste le sue doti di pistolero. Alle proteste di lei, risponde “perché no? Questo è il<br />

modo in cui ho vissuto e in cui sempre vivrò. Il mondo sta cambiando, certo. Ma ci saranno abbastanza<br />

città [da sistemare], per bastare la mia intera vita” (vedi Coyne, 1998).


<strong>cinema</strong>tografico, un chiaro oggetto di piacere estetico. A questo proposito, scrive<br />

Mitchell (1996, pp. 156-159, n.t.), il <strong>western</strong> non si limita a mostrare uomini attraenti,<br />

ma si sofferma su determinate caratteristiche, considerate essenziali <strong>nel</strong> <strong>del</strong>ineare la loro<br />

<strong>mascolinità</strong>, quali gli occhi chiari e taglienti, la mascella forte, il corpo e la figura ben<br />

<strong>del</strong>ineati; cosicché “non solo rappresenta un genere <strong>cinema</strong>tografico che consente di<br />

guardare gli uomini, ma addirittura fa sì che quello sguardo diventi uno dei suoi aspetti<br />

essenziali…diventa cioè un genere che sembra focalizzato proprio su quello: guardare<br />

gli uomini”.<br />

Dunque, quello sguardo sugli uomini rappresenta uno dei canoni distintivi, anche se non<br />

apertamente dichiarati, <strong>del</strong> genere <strong>western</strong>. In questo modo, il genere soddisfa uno dei<br />

principali piaceri offerti dal <strong>cinema</strong>, ovvero quella che in termini freudiani viene<br />

definita come “scopofilia”. Tuttavia, ne rappresenta una forma abbastanza distintiva e<br />

specifica. Infatti, secondo la critica femminista tradizionale (Mulvey, 1975), lo sguardo<br />

<strong>cinema</strong>tografico si svolge usualmente fra un maschio che guarda/attivo e una femmina<br />

guardata/passiva, e presuppone una forma di investimento fra chi guarda e desidera<br />

possedere, e chi viene guardato, che invece rappresenta l’oggetto <strong>del</strong> desiderio. Anche<br />

<strong>nel</strong> caso <strong>del</strong> <strong>western</strong>, l’occhio <strong>del</strong>lo spettatore è implicitamente pensato come un occhio<br />

maschile (Neale, 1983). Però, lo sguardo <strong>cinema</strong>tografico intercorre fra un uomo che<br />

guarda (lo spettatore) e un altro uomo che viene guardato (il <strong>cowboy</strong>). In questo caso, il<br />

soggetto che guarda non desidera possedere l’oggetto guardato, ma di identificarsi in<br />

modo narcisistico con lui, cioè di diventare l’oggetto stesso.<br />

<strong>La</strong> bellezza fisica non è quella femminile, ma quella maschile. Tuttavia, è una bellezza<br />

che non viene esibita come oggetto erotico. Al contrario, il timore che possa insorgere<br />

un interesse sessuale <strong>nel</strong>lo sguardo di un maschio nei confronti di un altro maschio è<br />

stato costantemente fugato, <strong>nel</strong> <strong>cinema</strong> mainstream, da un lato non mostrando mai il<br />

corpo maschile all’interno di un qualsiasi contesto che possa suggerire un atteggiamento<br />

erotico (ed è per quello che i <strong>cowboy</strong> fanno sempre il bagno con il cappello!)<br />

(Pumphrey, …), dall’altro inserendo una ricorrente omofobia nei temi e negli accenti.<br />

In questo modo, il <strong>western</strong> riesce a soddisfare la scopofilia <strong>del</strong>lo spettatore, il cui<br />

meccanismo di identificazione narcisistica viene ad essere esaltato proprio dalla<br />

costruzione <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> come eroe semplice e fatto-da-sé, da un lato, e come icona<br />

nazionale dall’altro; e <strong>nel</strong> contempo mantiene rigorosamente la <strong>mascolinità</strong><br />

eterosessuale come termine strutturante, sia in relazione alla donna, sia in relazione a<br />

qualsiasi “deviazione” di carattere omosessuale (Neale, 1983). Tramite lo stesso<br />

meccanismo di identificazione narcisistica, si spiega la fascinazione verso il mo<strong>del</strong>lo di<br />

<strong>mascolinità</strong> randagia e solitaria rappresentata dalla persona di John Wayne, una<br />

<strong>mascolinità</strong> che si avverte in qualche modo costantemente minacciata dalla donna, dalla<br />

società e dalla legge, ossia da tutti i fattori che fanno sì che la frontiera si chiuda, per<br />

lasciare il posto alla comunità dei sedentari.<br />

Cowboy alternativi<br />

<strong>La</strong> figura <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> sembra essere scolpita in maniera tanto incisiva <strong>nel</strong>la cultura<br />

popolare americana da essere scarsamente ridisegnabile, sia per quello che riguarda i<br />

connotati estetici, sia in relazione alle caratteristiche di razza e di genere. Il <strong>cinema</strong><br />

hollywoodiano infatti si è raramente mostrato capace di offrire <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> una versione<br />

più vicina alla realtà storica di quella <strong>del</strong> tall, slim American codificata dall’immagine<br />

<strong>del</strong> mito. Cosicché, persino i <strong>western</strong> revisionisti degli anni settanta, come quelli<br />

“transculturali” degli anni novanta, pur essendo mirati ad offrire <strong>del</strong>la frontiera una<br />

lettura meno eroica di quella tradizionalmente proposta dalla cultura popolare, non


hanno mai saputo scegliere un protagonista che non fosse il solito maschio<br />

anglosassone, capace di torreggiare al di sopra di ogni situazione (fa eccezione Il<br />

piccolo grande uomo, in cui la dimensione critica nei confronti <strong>del</strong>la mitologia <strong>del</strong> West<br />

viene resa esplicita giocando, sin dal titolo, con le caratteristiche fisiche <strong>del</strong><br />

protagonista: il “piccolo” Dustin Hoffman). Se i canoni estetici sono difficilmente<br />

alterabili, più rigidi ancora risultano essere quelli razziali. Anche da questo punto di<br />

vista, i <strong>cowboy</strong> alternativi sono assai poco numerosi, e le produzioni raramente toccano<br />

la questione utilizzando interpreti di colore. Ovviamente ci sono <strong>del</strong>le eccezioni; per<br />

esempio, <strong>nel</strong> 1972, Sidney Poitier dirige e interpreta un <strong>western</strong> dichiaratamente<br />

antirazzista dal titolo Non predicare…spara; <strong>nel</strong> cast de Gli spietati, <strong>del</strong> 1992, di<br />

Eastwood appare Morgan Freeman <strong>nel</strong> ruolo di un …, e il protagonista di Wild Wild<br />

West, un <strong>western</strong> in parte comico in parte fantascientifico <strong>del</strong> 1999, è Will Smith. Il<br />

registro umoristico predomina anche in Mezzogiorno e mezzo di fuoco, <strong>del</strong> 1974, in cui<br />

l’intero genere <strong>western</strong> viene messo in satira dal regista Mel Brooks, e il <strong>cowboy</strong> nero è<br />

inserito come tocco farsesco. Ancora più rari sono stati poi i tentativi di rappresentare<br />

<strong>cowboy</strong> al femminile: come sporadico esempio si può ricordare Pronti a morire, <strong>del</strong><br />

1995, in cui Sharon Stone veste i panni di un pistolero.<br />

Un tentativo più articolato di rileggere l’immagine <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, presentandone una<br />

versione estrema, ai limiti <strong>del</strong>la caricatura, è stato compiuto, al di fuori <strong>del</strong> mondo<br />

<strong>cinema</strong>tografico americano, da Sergio Leone. Il protagonista <strong>del</strong>la sua “trilogia <strong>del</strong><br />

dollaro” è infatti tanto fulgido <strong>nel</strong> suo essere alto, bello, biondo, da rappresentare quasi<br />

“una maschera” (Günsberg, 2005). Alla rappresentazione di Clint Eastwood come “iper<strong>cowboy</strong>”,<br />

Leone aggiunge poi, <strong>nel</strong>la sua opera di rivisitazione degli stereotipi <strong>del</strong> genere<br />

<strong>western</strong>, anche quella, assolutamente inusitata, di Henry Fonda <strong>nel</strong> ruolo di “cattivo” e<br />

usa frequenti close-up dei suoi celebri occhi azzurri, proprio per dimostrarne la spietata<br />

cru<strong>del</strong>tà (C’era una volta il West, 1968). <strong>La</strong> sua forza eversiva non viene tuttavia capita,<br />

e tanto meno raccolta, dalla pletora degli imitatori. Al contrario, l’esibizione di super<strong>mascolinità</strong><br />

dei suoi film diventa un mo<strong>del</strong>lo da imitare. In Italia, dei circa 400 spaghetti<br />

<strong>western</strong> girati dopo l’uscita di Per un pugno di dollari, i protagonisti sono usualmente<br />

alti e belli, talora spietati, mai spiritosi. Negli Stati Uniti, dove l’opera di Leone ha tanto<br />

successo da segnare una svolta <strong>nel</strong>l’intero genere <strong>western</strong> (Mitchell, 1996), la maschera<br />

di Eastwood viene replicata in innumerevoli pellicole dirette da altri registi (come Don<br />

Siegel) o dallo stesso attore, sino a divenire una icona <strong>cinema</strong>tografica tanto forte 26 , da<br />

essere seconda solo a quella di John Wayne 27 . Ma perde la sua carica ironica.<br />

Di fronte a questa fissità dei tratti fisici e morali <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong>, non è strano che la<br />

questione <strong>del</strong>la eterosessualità maschile rimanga sostanzialmente indiscussa lungo tutto<br />

l’arco di vita <strong>del</strong> genere <strong>western</strong>. Al contrario, i margini di indeterminatezza aperti da<br />

un genere <strong>cinema</strong>tografico interamente centrato su vicende di uomini offrono il destro a<br />

pesanti tratti di omofobia, presenti anche quando, per una rara eccezione, la questione<br />

viene affrontata in modo esplicito (vedi L’uomo da marciapiede). Non deve perciò<br />

stupire che il meccanismo di identificazione narcisistica, se da un lato spiega il costante<br />

successo <strong>del</strong> <strong>cowboy</strong> come un mo<strong>del</strong>lo esemplare di <strong>mascolinità</strong>, dall’altro spinga a<br />

negare in maniera recisa la possibilità di esplorare le ambiguità <strong>del</strong>la vita nomade dei<br />

26 In Back to the Future III, il giovane Michael J. Fox, catapultato dall’America contemporanea all’epoca<br />

<strong>del</strong> West, si presenta agli attoniti cittadini <strong>del</strong> tempo con il nome che gli sembra più adatto al contesto:<br />

quello di Clint Eastwood.<br />

27 Nella lista <strong>del</strong>le star <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> più amate dagli americani, che la società di ricerche di mercato Harris<br />

compila annualmente, Wayne, pur morto da molti anni, è costantemente presente, anche se la sua<br />

posizione è scivolata dal primo posto <strong>del</strong> 1995 al sesto <strong>del</strong> 2005; Eastwood è presente a sua volta, anche<br />

se sempre alle spalle di Wayne.


veri mandriani, che passavano in compagnie esclusivamente maschili gran parte <strong>del</strong>la<br />

loro giovinezza.<br />

Conclusioni<br />

Irrinunciabile eroe nazionale, e mo<strong>del</strong>lo intramontabile di <strong>mascolinità</strong>, il mito <strong>del</strong><br />

<strong>cowboy</strong> trae la propria forza dalla combinazione di meccanismi di identificazione a<br />

livello individuale e di elaborazioni identitarie a livello politico. Su queste basi sembra<br />

essere una icona difficile da spodestare, tanto nei discorsi <strong>del</strong>la geopolitica popolare<br />

quanto <strong>nel</strong>l’immaginario <strong>del</strong> pubblico americano. Nessuno dei personaggi <strong>del</strong>la storia<br />

contemporanea sembra essere altrettanto evocativo. Nessuna icona di <strong>mascolinità</strong><br />

altrettanto potente, come lo stesso <strong>cinema</strong> americano tiene a sottolineare 28 . L’eroe<br />

nazionale americano non teme rivali, ma al contrario si pone come un costante mo<strong>del</strong>lo<br />

di riferimento. Impossibile evitare di fare i conti con lui (come ci insegna, <strong>nel</strong> film dei<br />

fratelli Coen, 1998, il personaggio <strong>del</strong> “grande Lebowski”, un hippie un po’ imbolsito<br />

<strong>del</strong>la Los Angeles contemporanea che, dopo aver affrontato e subito gli aspetti estremi<br />

<strong>del</strong>la realtà urbana, si siede ad un bar di fronte ad un <strong>cowboy</strong> e dichiara “ho sempre<br />

avuto un debole per il <strong>cowboy</strong>, come concetto”).<br />

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28 <strong>La</strong> trama di Toy Story, pellicola di animazione <strong>del</strong>la Pixar <strong>del</strong> 1995, è a questo proposito esemplare, in<br />

quanto è costruita proprio sulla competizione fra due pupazzi, un <strong>cowboy</strong> chiamato Woody e un<br />

astronauta di nome Buzz Lightyear, per la posizione di giocattolo preferito <strong>del</strong> bambino di casa. Sembra<br />

quasi inutile specificare che il “vecchio” Woody, dopo essere stato abbandonato per lasciar posto al<br />

“nuovo” Buzz, riesce a dimostrare di essere lui il vero eroe, e a riconquistare il proprio posto <strong>nel</strong> cuore <strong>del</strong><br />

bambino. <strong>La</strong> sovrapposizione <strong>cinema</strong>tografica <strong>cowboy</strong>-astronauta non si limita tuttavia alle pellicole per<br />

ragazzi. Nel fantascientifico Armageddon, <strong>del</strong> 1998, per esempio, l’eroico team che rientra sulla Terra<br />

dopo una missione volta a sventare la distruzione <strong>del</strong> pianeta, viene accolto con un “Bentornati,<br />

<strong>cowboy</strong>!”.


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