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Il Laboratorio Ott 2008 - Grande Oriente D'Italia - Lombardia

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N. 82<br />

<strong>Ott</strong>obre<br />

Novembre<br />

Dicembre<br />

<strong>2008</strong><br />

ISSN 1128-3599<br />

®


Periodico fondato nel 1992<br />

N. 82<br />

<strong>Ott</strong>obre, Novembre, Dicembre <strong>2008</strong><br />

Spedizione in abbonamento postale 50% periodico bimestrale<br />

SOMMARIO<br />

1<br />

ISSN 1128-3599<br />

Dato alle stampe il 5 novembre <strong>2008</strong>


Ma nel cuore nessuna croce manca.<br />

È il mio cuore il Paese più straziato.<br />

(Giuseppe Ungaretti).<br />

Sull’immane macello che unì l’Italia. La prima<br />

Guerra Mondiale fu per l’Italia anche la quarta guerra<br />

d’Indipendenza, quella che riportò Trento e Trieste<br />

dentro i confini italiani. La <strong>Grande</strong> Guerra fu il<br />

compimento dell’ideale di fratellanza nazionale, sotto<br />

il simbolo del Tricolore, che ebbe suo culmine<br />

nella presa di Roma da parte dei bersaglieri del generale<br />

Cadorna 48 anni prima, il 20 settembre 1870. <strong>Il</strong><br />

10 dicembre di quest’anno ricorrono i 90 anni della<br />

battaglia del Piave. Fu uno dei più elevati momenti di<br />

eroismo per il sacrificio di migliaia di uomini che seppero<br />

tenere le posizioni ed impedire agli austro-ungarici<br />

di sfondare e penetrare nella pianura padana. Strategie,<br />

rifornimenti, tattica, numero di uomini catapultati in prima<br />

linea non avrebbero potuto nulla se non fosse intervenuta<br />

la vera ragione che determinò il successo sul<br />

Piave: il senso del dovere.<br />

Decine di migliaia di soldati, provenienti da ogni<br />

angolo, paese, frazione d’Italia, rimasero al proprio<br />

posto, affondarono sacrifici immani. Uomini che<br />

spesso non si capivano, tanto erano diversi i dialetti<br />

parlavano, che spesso non comprendevano il perché<br />

di quella guerra decisa da altri a tavolino, riuscirono<br />

nell’impresa. Più che il Tricolore, a cementare<br />

le masse dei fantaccini, male armati e peggio equipaggiati,<br />

furono la fame, il freddo, i pidocchi, le malattie,<br />

gli interminabili bombardamenti, i cecchini, la<br />

Editoriale<br />

Stefano Bisi, Presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana<br />

2<br />

caducità della vita in trincea e la consapevolezza<br />

che da quell’inferno in qualche modo si sarebbe<br />

usciti: o vivi o morti. Si fa l’Italia o si muore. Ed<br />

ecco i valori dell’eroismo, quello dei D’Annunzio,<br />

dei Cesare Battisti e di tanti altri, nomi noti o illustri<br />

sconosciuti, che rimasero al proprio posto, consapevoli<br />

dei rischi spesso mortali. <strong>Il</strong> senso del dovere,<br />

proprio delle masse e dei grandi uomini. <strong>Il</strong> senso del<br />

dovere, che è caratteristica principale di ogni uomo libero<br />

e di buoni costumi, nonché carattere distintivo<br />

dell’uomo rispetto alle bestie, poiché rappresenta la<br />

scelta ragionata di compiere una determinata azione.<br />

L’etica subordinata all’ideale. Concetti elevati e profondi,<br />

quasi retorici, che però non devono portarci sulla<br />

strada dell’autocelebrazione di stampo nazionalistico;<br />

infatti, il senso patriottico e nazionalista che pervase<br />

l’Italia di fine <strong>Ott</strong>ocento e dei primi lustri del secolo<br />

scorso non deve essere visto in un’esclusiva ottica<br />

celebrativa, La <strong>Grande</strong> Guerra fu infatti uno dei maggiori<br />

massacri della storia del mondo occidentale, un<br />

immane macello al quale, purtroppo, avrebbe fatto eco,<br />

di lì a poco, la Seconda Guerra mondiale. Due catastrofi<br />

generate dai nazionalismi esasperati e dalle<br />

grandi ideologie dittatoriali (fascismo, nazismo, comunismo).<br />

Per questo occorre non dimenticare, e riflettere<br />

sulle soluzioni estreme che spesso gli uomini<br />

trovano per risolvere i problemi. E seguire la strada<br />

dell’amore, del dialogo e della fratellanza tra i<br />

popoli come antidoto alla barbarie e all’oblio delle<br />

menti che non evitarono tanto lutto nel<br />

perseguimento dell’ideale di Patria e di Unità nazionale.<br />

<strong>Il</strong> Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918. <strong>Il</strong> testo è fuso nel bronzo delle artiglierie catturate al nemico


“Tutti eroi o il Piave o tutti accoppati”<br />

Da qui a cent’anni, quanno / ritroveranno ner<br />

zappà la terra / li resti de li poveri sordati / morti<br />

ammazzati in guerra, / pensate un pò che mortarozzo<br />

d’ossa, / che fricandò de teschi / scapperà fora da la<br />

terra smossa! / Saranno eroi tedeschi, / francesi, russi,<br />

ingresi, / de tutti li paesi. / O gialla o rossa o nera,<br />

/ ognuno avrà difesa una bandiera; / qualunque sia<br />

la Patria, o brutta o bella, / sarà morto per quella.<br />

(“Fra cent’anni” di Trilussa)<br />

La corruzione bieca ed arrogante, il decadere ed il<br />

degenerare d’ogni concezione etica nella conduzione<br />

amministrativa e morale dello Stato italiano, c’induce<br />

oggi a riproporre e proporre modelli e miti di ricostruzione<br />

di un’individualità ormai distrutta e dissociata.<br />

Per riportare l’ordine nel caos ricordiamo intanto i novanta<br />

anni (1918-<strong>2008</strong>) della vittoria italiana nella Prima<br />

Guerra mondiale, la ricostituzione integrale dei confini<br />

della nostra Patria, il generoso contributo di sangue<br />

dei soldati e il patriottico segnale del popolo italiano<br />

che mai dubitò dei destini della Nazione. Nella coscienza,<br />

comunque, che l’ammirazione dell’ieri deve essere<br />

soltanto – ancora una volta – sfida e ribellione all’oggi<br />

per la nostalgia di un domani da progettare, costruire<br />

ed adornare. <strong>Il</strong> XX secolo è trascorso, e con esso le<br />

illusioni e le disillusioni di un’effettiva grandezza che<br />

ebbe inevitabilmente i suoi errori ed i suoi sbagli. Ciò<br />

dovrebbe insegnarci che non di solo pane e tecnica<br />

vive l’uomo, ma soprattutto di sogni da realizzare, di<br />

opere da compiere con il lavoro delle sue mani e della<br />

sua mente. La nostra parte, per quanto infinitesimale,<br />

deve essere comunque compiuta. Nella bilancia universale<br />

che pesa i sentimenti e le verità dell’uomo contro<br />

tutto ciò che gli si contrappone, anche la nostra eterea<br />

piuma può far pendere il piatto giusto verso ciò che è<br />

amore e bene.<br />

La Prima Guerra mondiale (per i contemporanei <strong>Grande</strong><br />

Guerra) fu il conflitto iniziato il 28 luglio 1914 a seguito<br />

dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando,<br />

erede al trono dell’Impero Austro-Ungarico, compiuto<br />

a Sarajevo (Bosnia) il 28 giugno 1914 da parte<br />

dello studente nazionalista serbo-bosniaco Gavrilo Princip,<br />

e conclusosi l’11 novembre 1918. Vide inizialmente<br />

lo scontro della Triplice Alleanza (Germania e Impero<br />

Austro-Ungarico), ma non l’Italia, contro le nazioni della<br />

Triplice Intesa (Francia, Regno Unito e Russia). <strong>Il</strong> conflitto<br />

si allargò successivamente a varie altre nazioni,<br />

tra cui l’Impero ottomano e la Bulgaria (alleati con gli<br />

Imperi centrali) ed Italia, Belgio, Canada, Australia, Stati<br />

Uniti, Serbia, Romania, Sudafrica e Nuova Zelanda. <strong>Il</strong><br />

numero dei continenti coinvolti fu tale da poter definire<br />

Blasco Mucci<br />

3<br />

la guerra come “mondiale”, la prima nella storia dell’umanità.<br />

L’Italia rimase neutrale durante il primo anno<br />

di guerra (si giustificò affermando che l’Austria e la<br />

Germania non erano state aggredite: le condizioni della<br />

Triplice Alleanza erano difensive e quindi non potevano<br />

essere applicate), ma all’interno del Paese si formarono<br />

vasti schieramenti favorevoli alla guerra e il governo<br />

si convinse che quella fosse l’occasione per ottenere<br />

importanti vantaggi territoriali. Prima di effettuare<br />

la scelta di campo, il capo del governo Antonio Salandra<br />

aprì trattative e cercò di acquisire elementi di<br />

valutazione sulla consistenza dei due schieramenti. Rifiutata<br />

l’offerta, austriaca, del Trentino in cambio della<br />

neutralità, l’Italia aprì trattative con Londra che si conclusero<br />

con la ratifica di un accordo segreto (25 aprile<br />

1915). L’Intesa avrebbe finanziato con prestiti ingenti<br />

lo sforzo militare dell’Italia, dichiarandosi disponibile<br />

riconoscerle, in caso di vittoria, il Trentino, la Venezia<br />

Giulia, ma anche l’Alto Adige e la Dalmazia, l’egemonia<br />

sull’Adriatico e dunque una specifica influenza sull’Albania<br />

e sul Montenegro, oltre a eventuali concessioni<br />

coloniali in Turchia e in Africa a spese dell’Impero ottomano<br />

e della Germania.<br />

<strong>Il</strong> 24 maggio 1915 ebbero inizio le operazioni militari.<br />

Al momento dell’entrata in guerra, era diffusa in Italia<br />

la convinzione che una rapida campagna militare sarebbe<br />

bastata per far volgere le sorti del conflitto a favore<br />

dell’Intesa, ma queste previsioni fallirono. Sul confine<br />

orientale le forze austro-ungariche si attestarono lungo<br />

il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso. Contro<br />

queste linee, le truppe comandate dal generale Luigi<br />

Cadorna sferrarono, dal 1915 al 1917, undici sanguinose<br />

offensive senza riuscire a cogliere alcun successo,<br />

ma che condussero l’armata imperiale austro-ungarica<br />

sull’orlo della catastrofe. Cadorna, comandante supremo<br />

dell’esercito italiano, non era riuscito a sfondare,<br />

ma aveva logorato l’esercito austro-ungarico infliggendogli<br />

enormi perdite; una nuova spallata poteva diventare<br />

quella fatale. Era quindi necessario per gli austroungarici<br />

reagire al più presto per liberarsi dall’abbraccio<br />

mortale delle armate italiane. A tal fine fu chiesta<br />

dagli austriaci, ed ottenuta, la collaborazione dei tedeschi<br />

che inviarono sul fronte dell’Isonzo alcune unità<br />

di eccellenza e degli ottimi comandanti, il generale <strong>Ott</strong>o<br />

von Below ed il suo capo di Stato Maggiore Konrad<br />

Krafft von Dollmensingen, a capo della XIV Armata di<br />

cui entrarono a far parte anche reparti austro-ungarici.<br />

Con la XII battaglia dell’Isonzo iniziata alle ore 2.00 del<br />

24 ottobre 1917, meglio nota come battaglia di<br />

Caporetto, poco mancò a che gli Imperi centrali conseguissero<br />

la distruzione completa delle forze armate ita-


liane. La battaglia di Caporetto venne combattuta durante<br />

la Prima Guerra mondiale fra il 23 e il 24 ottobre<br />

1917 e vide la rotta dell’esercito italiano contro quello<br />

austro-ungarico e tedesco.<br />

La sconfitta fu tanto pesante che il termine<br />

“Caporetto” è entrato nella lingua italiana come sinonimo<br />

di disfatta. Con la battaglia di Caporetto ci mancò<br />

poco che l’ultima battaglia dell’Isonzo non segnasse la<br />

vittoria completa sull’Italia. Per l’Austria quell’occasione<br />

irripetibile fu sprecata e resterà uno dei grandi enigmi<br />

della storia. Le ragioni tecniche dello sfondamento di<br />

Caporetto da parte delle truppe austro-ungariche e tedesche<br />

sono note. <strong>Il</strong> comandante supremo Luigi Cadorna si<br />

preparava ad un intervento in trincea nelle migliori condizioni<br />

possibili, Luigi Capello comandante della Seconda<br />

Armata, credeva invece, che in caso d’attacco occorresse<br />

lanciare subito un’energica controffensiva strategica.<br />

Capello aveva ragione, ma quando i due generali s’incontrarono<br />

alla vigilia dello sfondamento, ogni cambiamento<br />

era ormai impossibile. L’artiglieria pesante era in<br />

posizione avanzata, il comandante del XXVII Corpo d’Armata,<br />

generale Pietro Badoglio, ordinò di sparare solo su<br />

suo ordine, che non fu mai dato, sicché la potenza<br />

dell’artigliera posizionata non fu utilizzata, il grosso degli<br />

uomini erano collocati sulle prime linee, soggetti a loro<br />

volta al tiro dei cannoni nemici, e la seconda linea era<br />

sguarnita e malandata. Inoltre quando un ufficiale cecoslovacco<br />

si presentò, il 20 ottobre, alle linee italiane per<br />

riferire che gli austro-ungarici e i tedeschi si apprestavano<br />

ad attaccare nella conca di Tolmino, i comandanti italiani<br />

non gli credettero. A monte di tutto vi fu una vera e<br />

propria inazione dei vertici generali, i quali lasciando le<br />

truppe senza ordini e ritirando i propri Stati Maggiori in<br />

posti più tranquilli, assistettero al dramma della ritirata,<br />

salvo poi riversare sulle truppe le loro enormi responsabilità,<br />

tacciandole ed accusandole di vigliaccheria.<br />

In conseguenza dello sfascio del fronte dell’Isonzo gli<br />

italiani dovettero sgombrare anche l’intera linea d’alta quota<br />

dalle Alpi Giulie e Carniche alle Dolomiti ed ai Monti di<br />

Fiemme, fino alla Valsugana ma la pagina peggiore di Caporetto<br />

oltre al successo delle truppe austro-ungariche e<br />

tedesche, fu quello che seguì. <strong>Il</strong> caos sulle strade, l’assenza<br />

di coordinamento e di collegamento, le brigate<br />

accerchiate e lasciate al proprio destino, i soldati dispersi,<br />

i furti e le violenze. Quando le Armate in ritirata<br />

giunsero sulle rive del Tagliamento, della Livenza e del<br />

Piave, lì sui ponti la retrocessione delle truppe divenne<br />

un indescrivibile groviglio d’uomini, carri, cavalli uccisi,<br />

colonne ferme per decine di chilometri. Non sarebbe<br />

andata così se i comandanti fossero stati capaci<br />

di organizzare la circolazione stradale, il traffico delle<br />

notizie e i rifornimenti. La ritirata fu prima effettuata<br />

portando l’esercito lungo il Tagliamento, ed in<br />

seguito fino al Piave, l’11 novembre 1917, quando<br />

tutto il Veneto sembrava potesse andare perduto. In<br />

seguito Cadorna fu sostituito, l’8 novembre 1917, dopo<br />

4<br />

che la ritirata si stabilizzò definitivamente sulla linea del<br />

Monte Grappa e del Piave, dal generale Armando Diaz.<br />

L’allora tenente dei bersaglieri Ignazio Pisciotta – III Brigata<br />

generale Ceccherini, 18° Reggimento – fu l’autore di questo<br />

celebre motto che segnò una delle pagine più gloriose della<br />

<strong>Grande</strong> Guerra.<br />

Nella prima metà di novembre gli austriaci riuscirono<br />

a costituire delle pericolose teste di ponte sulla riva destra<br />

del Piave, a Zenzon, a Fagarè, Folina e Valdobbiadene<br />

nonché (a dicembre) ad Agenzia Zuliani e a Capo Sile.<br />

L’offensiva – dopo accaniti combattimenti – fu però contenuta<br />

e respinta, non potendo le avanguardie austriache,<br />

accerchiate e catturate, ricevere sufficienti rinforzi<br />

dalla riva sinistra per evidenti difficoltà logistiche e per<br />

l'azione dell'artiglieria italiana. Durante tutto l’inverno le<br />

truppe italiane poterono consolidare le loro posizioni lungo<br />

il fiume mentre la lotta ardeva sul monte Grappa. La<br />

battaglia riprese tra il 15 e il 23 giugno, quando gli austroungarici<br />

lanciarono una nuova grande offensiva su tutto<br />

il fronte dagli altopiani d’Asiago al Piave. Fu questa una<br />

delle più dure e sanguinose battaglie (battaglia del Solstizio)<br />

della Prima Guerra mondiale. Teste di ponte furono<br />

nuovamente occupate sulla riva destra, nelle stesse zone<br />

del novembre passato. L’offensiva ebbe particolare successo<br />

nella zona del Montello, che fu occupato per metà,<br />

fino alla sommità; anche Nervosa e la zona circostante<br />

furono conquistate. Ma da novembre a giugno, l’esercito<br />

italiano ebbe il tempo di rafforzarsi, di riempire gli spaventosi<br />

vuoti di armamenti, materiale d’artiglieria, aviazione,<br />

vettovagliamento, creati con la rotta di Caporetto, e<br />

producendo una rete di sistemi difensivi a compartimenti<br />

stagni. I soldati italiani, in particolare la nuova classe<br />

chiamata alle armi, i “Ragazzi del ‘99”, compiendo prodigi<br />

di valore riuscirono gradualmente a respingere il nemico.<br />

La situazione si ristabilì con gli italiani ben attestati<br />

sulla riva destra e gli austro-ungarici su quella sinistra.


Poco dopo (2-6 luglio) una controffensiva italiana portava<br />

alla conquista della zona tra il Piave vecchio e il<br />

Piave nuovo, da Intestatura alla foce. Era questo il preludio<br />

alla prossima travolgente offensiva, nota come<br />

“Battaglia di Vittorio Veneto”, che in pochi giorni sbaragliò<br />

il nemico che già a giugno, sconfitto sul Piave,<br />

aveva ricevuto un duro colpo che avrebbe portato alla<br />

vittoria. <strong>Il</strong> 4 novembre fu firmato l’armistizio, che mise<br />

fine alle ostilità su tutto il fronte. Quella data viene<br />

ricordata ancora oggi come il “Giorno della Vittoria”,<br />

Festa delle Forze Armate italiane.<br />

La cronaca storica della Prima <strong>Grande</strong> guerra è stato<br />

senza dubbio un lavoro poderoso. Ma i singoli fatti, gli<br />

episodi più meravigliosi, gli eroismi particolari e di gruppo<br />

– tutta quella parte che meglio parla al cuore dell’uomo<br />

e ne educa la coscienza di cittadino e di italiano, ne<br />

sveglia le energie e ne rinfranca i propositi, e soprattutto<br />

mantiene vivo il ricordo – nella grande storia si sminuiscono<br />

e confondono, assorbiti nel quadro immenso della<br />

lotta mondiale. Dopo pochi anni dalla fine di ogni guerra<br />

molta gente già se n’è dimenticata. I libri di storia della<br />

guerra non sono letti che da un ristretto numero di persone.<br />

La memoria dei morti per la Patria va col tempo<br />

annegando nell’oblio, i combattenti che sono ritornati a<br />

casa o sani o mutilati, giustamente offesi nel veder non<br />

adeguatamente valutata la grandezza del loro sacrificio,<br />

paghi del dovere compiuto, si tengono orgogliosamente<br />

nell’ombra, salvo ad uscirne quando, in occasione di cerimonie<br />

patriottiche, possono trovarsi cogli antichi<br />

commilitoni, perché solo con essi si sentono a loro agio.<br />

Gli esonerati insostituibili e gli imboscati della prima ora e<br />

di tutte quelle posteriori non sono tenuti dalla pubblica<br />

opinione per quello che realmente valgono. Onorificenze<br />

civili sono largamente distribuite a chi durante la guerra<br />

ha fatto ottimamente i propri affari ritenendosi patriottico<br />

filantropo per un’interessata qualche largizione ad opere<br />

benefiche o monumenti ai caduti. Non c’è da meravigliar-<br />

5<br />

sene. È un fenomeno psichico comune a tutte le nazioni<br />

che hanno fatto la guerra: si dimenticano volentieri i giorni<br />

del dolore.<br />

Nelle nostre scuole medie i programmi hanno continuato<br />

a prescrivere storia orientale, greca, romana, medioevale,<br />

moderna, con i relativi più o meno grandi uomini,<br />

in modo che l’insegnante può a mala pena svolgere il<br />

programma, sacrificando la Storia contemporanea. Perciò<br />

i giovani ignorano i particolari della storia di Oslavia, del<br />

Podgora, del San Michele e d’altre località o quote della<br />

linea dell’Isonzo; né sanno valutare l’imponenza politica<br />

e militare, perché la conoscono poco o non la conoscono<br />

affatto. Dell’invasione respinta nel 1916, dell’epica difesa<br />

degli Altipiani e del Grappa dopo<br />

Caporetto, della difensiva dall’Astico al<br />

mare nel giugno 1918, gli studenti delle<br />

scuole superiori – liceo e normali – continuano<br />

ad imparare solo i principii della<br />

morale teorica, ma raramente sentiranno<br />

leggere, o avranno letto, qualche<br />

pagina dei numerosi epistolari di caduti,<br />

nei quali la morale pratica della vita<br />

del cittadino, enunciata con poche,<br />

semplici ma chiare ed efficaci parole, è<br />

dimostrata sperimentalmente dalla magnanima<br />

realtà del martirio. Incapaci di<br />

misurare la statura morale degli uomini<br />

che furono attori della grande tragedia<br />

ed il meraviglioso sforzo industriale del<br />

Paese che diede i mezzi tecnici per vincere,<br />

quasi non riescono a concepire la<br />

importanza dei nuovi confini acquisiti,<br />

cioè l’annullamento di quel triste cuneo<br />

del Trentino e della malsicura ed infida linea dell’Isonzo,<br />

che davano allo straniero le chiavi delle porte d’Italia.<br />

Persino la Battaglia di Vittorio Veneto, la più popolare<br />

perché coronò militarmente gli sforzi di tutta la<br />

guerra, non è considerata per quello che fu, se non da<br />

una debole minoranza composta di tecnici specialisti o<br />

di studiosi di storia patria, ma ebbe addirittura i suoi<br />

denigratori, i suoi disfattisti. E pazienza se questi erano<br />

stranieri, ma molti, purtroppo, furono italiani. Se mai<br />

una battaglia poté dirsi italiana certo fu quella, come<br />

italiane furono le altre nostre vittorie e sconfitte. Italiana<br />

ne fu la genialissima concezione strategica, italiana<br />

l’esecuzione, tutte nostre furono le ansie del momento<br />

in cui le cose non andavano bene, italiana la fede che<br />

confortò i nostri combattenti sul Grappa e gli sperduti<br />

sulla riva sinistra del fiume in piena, che aveva travolti<br />

i ponti, italiano l’elegantissimo sfruttamento della vittoria<br />

strategica: italiano quindi il merito e italiana la gloria.<br />

Possa il cuore dei concittadini, che ricorderanno<br />

quest’epopea, palpitare di orgoglio e di ammirazione<br />

per i vivi e i morti, i grandi e gli umili della vittoria<br />

finale, che diede alla Patria i confini tracciati dalla natura,<br />

dalla lingua, dalla storia.


1918: Fine di una guerra che fece incontrare gli italiani<br />

Cade in questo anno il 90° anniversario della conclusione<br />

del primo conflitto mondiale. Un conflitto che ebbe<br />

dimensioni inaudite, che sterminò una intera generazione<br />

e segnò la fine della vecchia Europa. Fu questa, anche la<br />

prima grande esperienza collettiva degli italiani. Giovani<br />

provenienti da più regioni e che parlavano dialetti diversi,<br />

si trovarono fianco a fianco. L’evento creò una trasformazione<br />

dei ruoli sociali e le donne si dovettero far<br />

carico della responsabilità delle famiglie, svolgendo lavori<br />

tradizionalmente maschili ed assumendo inedita presenza<br />

pubblica. I quattro anni di guerra caratterizzarono<br />

vita e cultura di tutti, bambini compresi. Secondo l’ultimo<br />

censimento generale della popolazione, effettuato nel 1911,<br />

gli italiani erano 36 milioni (34 milioni e mezzo escludendo<br />

i residenti all’estero). <strong>Il</strong> Paese era avviato decisamente<br />

verso la industrializzazione, con una prevalenza all’agricoltura<br />

che occupava oltre il 58 per cento della forza lavoro.<br />

<strong>Il</strong> conflitto coinvolse i quattro quinti delle famiglie<br />

italiane e secondo le cifre ufficiali, gli uomini arruolati<br />

nell’esercito tra il 1915 ed il 1918, furono circa 6 milioni<br />

(per l’esattezza 5.900.000). Una esperienza di guerra dunque,<br />

vasta e capillare. Giovani intellettuali, operai, contadini,<br />

montanari, così come impiegati, insegnanti, commercianti,<br />

artigiani, professionisti, studenti, si trovarono fianco<br />

a fianco a combattere questa guerra. Per molti si trattò di<br />

una vera e propria scoperta socio-antropologica.<br />

Tra gli ufficiali di complemento ed i soldati, si crearono<br />

spontanei rapporti di fratellanza. La vita di trincea<br />

produsse forme di compenetrazione che tesero a ridurre<br />

antichi steccati tra ceti ed aree geografiche del Paese.<br />

“Combattere e morire in nome della Patria”, era questo lo<br />

slogan, ma quale idea e quale immagine dell’Italia esisteva?<br />

La costruzione dello Stato nazionale, era stata l’opera<br />

di una minoranza e la nozione di Patria per molti, era<br />

alquanto limitata. Si pensi che la maggioranza dei contadini<br />

meridionali, quando venivano chiamati alle armi, dicevano<br />

che “partivano per l’Italia”. Una identità nazionale<br />

debole, che trovava riscontro anche nei fenomeni linguistici.<br />

Per secoli l’italiano era stata la lingua dei dotti e<br />

vi si ricorreva solo negli scritti e nelle solenni occasioni.<br />

Lo stesso primo re d’Italia Vittorio Emanuele II, usava<br />

abitualmente il dialetto piemontese anche nelle riunioni<br />

con i suoi ministri. Un’inchiesta pubblicata nel 1910, accertò<br />

che nelle scuole elementari, circa la metà dei maestri<br />

era abituata a tenere lezioni in dialetto. Un’Italia che<br />

peraltro, al momento della unificazione, contava una percentuale<br />

di analfabeti del 75 per cento. Naturale dunque<br />

che l’idea di Patria e di Italia fossero alquanto labili. Non<br />

sono però le operazioni di “pedagogia politica” volte alla<br />

divulgazione del senso di patria che vogliamo qui analizzare,<br />

quanto quel senso di spontanea fratellanza che<br />

Paolo Pisani<br />

6<br />

l’evento bellico aveva innescato. Un mondo nuovo si<br />

schiudeva di fronte ai loro occhi, nel trasferimento verso<br />

il fronte e nella stessa vita di trincea. Si creò un contatto<br />

territoriale con il Paese, con le sue realtà geografiche,<br />

produttive, sociali, culturali, che in precedenza era mancato.<br />

Molti meridionali fecero conoscenza per la prima<br />

volta delle metropoli del Nord industrializzato.<br />

Per molti contadini rappresentò il primo impatto con<br />

la civiltà industriale. Anche nella vita civile si era creata<br />

una mobilitazione generale, con la nascita di comitati impegnati<br />

in vari modi a contribuire allo sforzo bellico comune.<br />

Si affermarono in quei tempi tecniche di pubblicità<br />

e di propaganda rivolte ad un pubblico indifferenziato.<br />

Tra queste i manifesti murali. <strong>Il</strong> dissenso, il malcontento,<br />

il disfattismo minuto, le chiacchiere da barbiere o bar vennero<br />

represse. Dobbiamo sottolineare come la causa nazionale,<br />

avesse fatto ricorso sin dall’inizio, anche alla esaltazione<br />

di miti a noi vicini. È il caso del generale Garibaldi.<br />

<strong>Il</strong> mito di eroe guerriero e navigatore, esempio di ardimento<br />

e di disinteressata dedizione alla causa nazionale,<br />

si era svincolato dalle posizioni democratiche, repubblicane,<br />

sovversive, tingendosi di una forte componente<br />

patriottica. Efficaci furono le celebrazioni che si tennero a<br />

Genova il 5 maggio 1915. La mobilitazione di massa che<br />

accompagnò la manifestazione e che vide attivi anche<br />

noti esponenti della Massoneria genovese, fu quanto mai<br />

meticolosa. In quel contesto la voce più moderna fu quella<br />

di Gabriele D’Annunzio. Memoria risorgimentale, ambizioni<br />

espansionistiche ed un richiamo “al bene ed al progresso”<br />

divennero le dinamiche di una auspicata “nazionalizzazione<br />

delle masse”.<br />

La partecipazione popolare alle celebrazioni di quel 5<br />

maggio 1915 vide partecipi le organizzazioni di mestieri, le<br />

Società di mutuo soccorso, circoli ricreativi, leghe cooperative,<br />

di produzione e consumo, nonché Logge<br />

massoniche. Al corteo prese parte lo stesso Cesare Battisti.<br />

Furono questi i segni di una presa di coscienza, di<br />

una volontà di perseguire “libertà, eguaglianza e fratellanza”,<br />

intesi come inscindibili valori universali. Al di là,<br />

infatti, dell’aspetto repressivo cui avevamo precedentemente<br />

accennato, frasi come “non ti intrigà, non ti impiccià,<br />

lascia il mondo come stà”, sintomatiche di latente<br />

antipatriottismo, erano ripudiate. Le nuove dinamiche<br />

vedevano invece il nascere di una solidarietà che non<br />

avrebbe dovuto tener conto né del ceto sociale, né della<br />

regione di appartenenza, né della fede religiosa. Gli eventi<br />

della guerra, portarono però a vanificare certe aspettative.<br />

Caporetto, fu un “crocevia” e divenne summa di tutte<br />

le emozioni e trasformazioni che la guerra suscitò. Senza<br />

considerare le inchieste parlamentari che furono attivate,


le dinamiche sulle responsabilità della disfatta, che si tese<br />

a riporre nell’oblio, Caporetto rappresentò un segno di<br />

popolare protesta per una guerra non capita e non voluta.<br />

Nel contempo, fu però un momento aggregante, che<br />

portò a creare una coesione anche psicologica tra i soldati,<br />

che facilitò l’offensiva italiana di cui poi Vittorio<br />

Veneto rappresentò l’esaltazione. Una esaltazione che,<br />

sebbene avulsa da una “politica di potenza”, portò comunque<br />

gli italiani a sentirsi da quel momento più uniti,<br />

più l’un l’altro compatibili.<br />

Le stesse ore tragiche delle trincee di linea, al di là<br />

dell’ansia e delle tensioni, produssero tra i militari una<br />

sorta di spontanea “catena di unione”. Un ritrovarsi tutti<br />

assieme a difesa di valori fondamentali come la famiglia e<br />

la patria. <strong>Il</strong> tutto però, non nello spirito di una restaurazione<br />

e di continuità col passato, ma nel segno della novità.<br />

Una sorte di “morte-resurrezione”, di civica “iniziazione”.<br />

Tralasciando il successo poi del Fascismo, la sua<br />

conquista del potere e la costruzione dello Stato totalitario,<br />

con tutte le vicissitudini che lo contraddistinsero,<br />

(aspetti questi che ci porterebbero ad altro genere<br />

di analisi e considerazioni), vogliamo sottolineare il na-<br />

Nota di Redazione<br />

7<br />

scere di un edificio simbolico assai più robusto di quello<br />

dell’epopea risorgimentale. L’inizio di una trasformazione<br />

che poteva tradursi anche in un “contratto sociale”<br />

tra cittadini e Stato. La guerra aveva insomma riplasmato<br />

le identità e le culture convincendo larga parte<br />

della popolazione di essere oramai sottoposta ad un<br />

vincolo comune. La macchina bellica aveva agito come<br />

un fattore di omologazione, come un grande riduttore<br />

delle diversità. Nel segno di quel “ai posteri l’ardua<br />

sentenza”, oggi possiamo affermare che il 1918 rappresentò,<br />

oltre alla data conclusiva della <strong>Grande</strong> Guerra, la<br />

data di “fondazione” di una coscienza civile, di una<br />

italianizzazione. Non mancarono naturalmente lacerazioni<br />

sociali, né l’insorgere di coscienze di classe, né la sparizione<br />

di classi subalterne. Tuttavia prevalse nel tempo<br />

la “consapevolezza di grandi cose fatte insieme o<br />

patite insieme”. Benedetto Croce parlò di una “più viva<br />

idea di Patria”, ma riteniamo che a questa si debba aggiungere<br />

il pensiero comune di poter e dover lavorare<br />

tutti insieme per il “bene comune … dell’umanità”. Quella<br />

umanità che l’evento bellico aveva fatto sì che, pur nel<br />

dolore e nella tragedia, potesse conoscersi, incontrarsi<br />

e solidarizzare.<br />

<strong>Il</strong> 5 maggio del 1915, dallo scoglio di Quarto, Gabriele D’Annunzio pronuncia “La sagra dei Mille” e rivendica l’intervento<br />

contro l’Austria in nome del Risorgimento incompiuto. Nella sua prosa estetizzante e battagliera sono presenti quelle componenti<br />

di vitalismo eroico inneggianti la “bella morte”, che accompagneranno il mito combattentistico ancora per un ventennio<br />

La preghiera di Doberdò: Gabriele D’Annunzio, Novena di San Francesco d’Assisi, settembre 1916. Gabriele<br />

D’Annunzio, con la sua “Preghiera di Doberdò” volle rendere testimonianza ai soldati italiani caduti nell’epica VI battaglia<br />

dell’Isonzo che terminò con la conquista di Gorizia. Suggestiva e commovente è la collocazione del “Poverello d’Assisi” tra<br />

i “grigioverdi”, che soffre e sanguina con essi nella trincea trasformando ogni loro ferita in stìgmate di amore.<br />

1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore.<br />

2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle<br />

sue stìmate di amore.<br />

3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.<br />

4. Non ha più tovaglia la tavola dell’altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale,<br />

né leggìo.<br />

5. A mucchio su la tavola dell’altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange.


6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso<br />

di sangue.<br />

7. Gli elmetti ch’eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.<br />

8. Le scarpe ch’eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i<br />

legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l’orlo della sepoltura.<br />

9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l’altare del sacrificio incruento.<br />

10. Solo v’è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un’imagine di purità e di patimento.<br />

11. <strong>Il</strong> medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi<br />

tabelle.<br />

12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso<br />

e di bruno, poggiano le bianche barelle.<br />

13. I feriti dell’assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono<br />

sopra la paglia.<br />

14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo,<br />

o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d’infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della<br />

battaglia.<br />

15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li<br />

trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un filo, ov’è scritta la piaga e la sorte.<br />

16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per<br />

lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l’angelo col dìttamo bianco o col papavero nero la morte.<br />

17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall’ascia latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio<br />

selvaggio, masticando la gialla festuca.<br />

18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano<br />

materna sotto la nuca.<br />

19. Biondi e foschi, pallidi come l’abete della gabbia che chiude la granata dall’ogiva d’acciaio, fuligginosi come se<br />

escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda.<br />

20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto<br />

il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d’ogni benda.<br />

21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono<br />

abbattute o distrutte, tranne una: la sesta.<br />

22. E, com’essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d’una santità vivente come quella che precede il Signore quando<br />

si manifesta.<br />

23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l’ardore intento della fede<br />

novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo<br />

dell’uomo non avea pur dove posare la guancia?<br />

24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo<br />

è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che<br />

sarà trafitto dal colpo di lancia?<br />

25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane,<br />

le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale.<br />

26. E qui sanguina l’Umbria, e sanguina qui <strong>Lombardia</strong>, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice,<br />

sanguina Sicilia l’aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta<br />

la Patria riscossa con Roma la donna immortale.<br />

27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte<br />

titanica, una si vasta cupola in gloria?<br />

28. È l’artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo<br />

e guata di là dalla vittoria?<br />

29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s’addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano<br />

i fratelli che non hanno tregua al penare.<br />

30. Entra una barella carica d’altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d’elmetti forati. Si ferma davanti all’altare.<br />

31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso<br />

di sangue.<br />

32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d’erba calcata, con qualche foglia di<br />

quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.<br />

33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e<br />

non s’ode. Tanto ama, e rompersi non s’ode il suo petto.<br />

34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è<br />

come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l’infermo della piscina, l’uomo di Betesda, sul letto.<br />

35. Forse non sa ch’egli è cieco. E dice anch’egli forse nel cuore: “Figliuolo dell’uomo, abbi misericordia di me”. Ed ecco<br />

appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov’è scritto il male e il destino.<br />

36. Ma d’improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l’ultima rondine; e nel silenzio getta<br />

un grido, due gridi. Sorvola l’altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l’ambascia, l’attesa. Getta un grido, due<br />

gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino.<br />

37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima<br />

del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d’una stagione sublime le facce del glorioso dolore.<br />

8


“Io sono Gabriele e mi presento davanti agli Dèi”<br />

Io penso che ogni uomo d’intelletto possa, oggi<br />

come sempre, nella vita creare la propria favola bella.<br />

Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita<br />

con quello stesso spirito fantastico con cui i discepoli<br />

del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare<br />

nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei<br />

nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi<br />

invenzioni mirabilissime e infinite cose.<br />

(Gabriele D’Annunzio)<br />

<strong>Il</strong> casato originale di Gabriele era quello dell’illustre<br />

famiglia pescarese dei Rapagnetta. Francesco Paolo<br />

Rapagnetta, padre di Gabriele – adottato dagli zii<br />

D’Annunzio – si firmò, nell’atto di matrimonio, Francesco<br />

Paolo Rapagnetta D’Annunzio. Naturalmente un<br />

nome così onorato, ma poco poetico, irritava il vate, e<br />

solo nell’anno della morte di D’Annunzio Amedeo<br />

Rapagnetta, rivendicò alla sua famiglia gli onori di<br />

Gabriele, in un opuscolo pubblicato a Lanciano, affermando<br />

che: nelle sue vene fluì il sangue sano e fervido<br />

dei Rapagnetta. Amedeo non poté farlo prima perché,<br />

come gli scriveva Camillo Antona Traversi il 2<br />

luglio 1934, il Poeta vigila, e non ama che si parli di<br />

Rapagnetta, badi a non tirarsi addosso i suoi fulmini<br />

(1). Questo piccolo aneddoto, di poca importanza in<br />

verità, è comunque caratteristico della cura con cui<br />

D’Annunzio creò il suo personaggio, e la particolare<br />

metodica, sia psicologica sia iniziatica dell’usare l’immaginazione<br />

creativa per influire sulla percezione personale<br />

e collettiva del Sé. Sia l’imperatore Augusto,<br />

sia Cosimo I de’ Medici, si costruirono addirittura un<br />

oroscopo diverso da quello di nascita, cambiando sia<br />

il segno zodiacale sia i transiti planetari per costruirsi<br />

una personalità e un destino diverso a misura di ciò<br />

che volevano essere. D’Annunzio andò oltre, e la sua<br />

entità umana si trasformò effettivamente, trasmutando<br />

il piano puramente immaginativo a quello della realtà.<br />

Basti pensare alle sue gesta belliche, che non furono<br />

una costruzione solo propagandistica, ma affrontarono<br />

effettivamente ed eroicamente i rischi del più umile<br />

dei soldati. Ma aveva anche una predisposizione innata,<br />

come un ritornello costante nella sua costruita<br />

armonia, Uno dei suoi istitutori, Romualdo Del Rosso,<br />

rivelava in suo rapporto come il liceale D’Annunzio<br />

era incredulo molto e suscettibilissimo alle nuove<br />

massime dell’Anarchia e che, riguardo alla religione,<br />

diceva grosse eresie, non ammetteva Dio e lo trattava<br />

da buffone, e che vedeva il fine della vita ella gloria<br />

purché sia gloria, nell’amore, nella voluttà (2).<br />

La sua prosa e la sua poesia, che definiva<br />

“immaginifica” è spesso ridondante, sussiegosa,<br />

Vittorio Vanni<br />

9<br />

straboccante di neologismi, comunque corretti, basati<br />

sulla lingua latina e su quella greca, arcaicizzanti a volte,<br />

con incursioni stilistiche in un medioevo e in un<br />

rinascimento più onirici che reali, con una ridda di<br />

citazioni classiche e di ripeschi eruditissimi (3). La<br />

propensione alla carnalità era vista, già dalla prima<br />

adolescenza, come un’affezione morbosa, come riporta<br />

il suo biografo Gatti, ma non si esaurì nella turpe<br />

vecchiezza come Gabriele definiva la sua sopravvenuta<br />

miseria fisica. Per evitare a se stesso e alle sue amanti<br />

la visione poco poetica della sua venustà, si era fatto<br />

confezionare delle camice da notte della seta più fine,<br />

con un foro in corrispondenza dell’asta virile, che<br />

evidentemente aveva sofferto meno di altre parti anatomiche<br />

meno nobili. Ma di là dalla notorietà e del<br />

successo letterario, che accendono i sensi delle donne,<br />

come poteva un ometto piccolo e prematuramente<br />

calvo produrre tanta attrazione? Isadora Duncan, la<br />

celebre danzatrice, scrisse nelle sue memorie che D’Annunzio<br />

poteva esser considerato L’amante più meraviglioso<br />

dell’epoca nonostante fosse un piccolo uomo<br />

calvo, perché quando parlava con le donne si trasfigurava<br />

al punto di sembrare un Apollo. D’Annunzio,<br />

secondo la celebre danzatrice, poteva dare a ogni<br />

donna l’impressione di essere al centro dell’universo<br />

(4). Le frotte di donne che gli si offrivano alimentavano<br />

costantemente i suoi desideri, in un’immersione<br />

carnale frenetica fino alla morbosità. Dicono che nel<br />

folto de le chiome voi abbiate una ciocca rossa come<br />

una fiamma, nel folto chiusa. È vero? Io la penso, e<br />

la veggo fiammeggiare. La veggo stranamente fiammeggiare<br />

come un segno fatale. O passione arsa a<br />

quel fuoco! Da La Passeggiata.<br />

La prima parte della sua vita, dispendiosa e dissoluta,<br />

braccata dai debitori e dai mariti gelosi, era in un<br />

coacervo di estetismi quasi tragici, tipici della sua epoca,<br />

sempre in bilico tra una raffinatezza estrema e una<br />

smaccata, esibita, arrogante mancanza di equilibrio del<br />

gusto, visto più come un’ipocrisia piccolo-borghese<br />

che come il rigore e la semplicità dell’eleganza. Dalle<br />

opere che per prime suscitarono il suo successo letterario,<br />

“<strong>Il</strong> Piacere”, ad esempio, trasuda un unto<br />

graveolente e dolciastro che affascinava e nauseava<br />

nel contempo. Le contesse, le marchesine, che frequentava<br />

nel suo periodo romano, con un trasporto da provinciale<br />

esaltato, si trasformavano, nella sua incredibile<br />

immaginazione, dalle donne dei ritratti di Soldini, elegantissime<br />

e caste nella loro sottile lussuria, in quelle<br />

tragiche ed esaltate delle donne di Klimt, in cui i broccati,<br />

la porpora e l’oro, non sublimano le carni quasi<br />

cadaveriche, in un continuum dove la morte e l’Eros si


corrispondono. Sono l’Impero alla fine della decadenza,<br />

che guarda passare i grandi Barbari bianchi<br />

componendo acrostici indolenti dove danza il languore<br />

del sole in uno stile d’oro. Da Languore di<br />

Paul Verlaine. È il manifesto poetico del decadentismo,<br />

affine all’Art Nouveau, al Liberty, che indicò un movimento<br />

letterario e artistico così chiamato perché rivelava<br />

la crisi della fine del XIX secolo, e che fu una<br />

reazione allo scientismo e al materialismo che, sia come<br />

paradigma sociale che come concezione filosofica, naufragava<br />

di fronte ai nuovi impulsi vitalistici, irrazionalisti<br />

e simbolisti che il XX secolo imponeva. Lo scopo di<br />

questo breve scritto non è tuttavia l’esame critico dell’opera<br />

letteraria di D’Annunzio, la cui genialità e grandezza<br />

sono comunque indiscutibili, ma l’analisi di una<br />

supposta componente metafisica e iniziatica nella vita<br />

del Vate. Del suo interesse per l’esoterismo da testimonianza<br />

uno dei suoi biografi, Tom Antongini in “Vita<br />

segreta di Gabriele D’Annunzio” (Mondadori, Milano<br />

1938, p. 406): <strong>Il</strong> sortilegio ebbe luogo a Roma la notte<br />

del 20 giugno 1915. Vi presero parte attiva D’Annunzio<br />

e la marchesa Luisa C. (Casati). La curiosa<br />

cerimonia si svolse alla tomba degli Orazi e dei<br />

Curiazi sulla Via Appia, allo scoccare della mezzanotte.<br />

A testimonianza dell’episodio rimase un curiosissimo<br />

e audacissimo poemetto in prosa che D’Annunzio<br />

scrisse in francese e intitolò “La figure de cire”.<br />

Di questa rarissima composizione non esistono che<br />

due copie, delle quali una è nelle mani della marchesa<br />

C. (Casati). L’originale fu distrutto dall’autore”.<br />

Traggo dalla rivista “Politica Romana” queste illuminanti<br />

notizie. Pochi anni prima della <strong>Grande</strong> Guerra,<br />

avvenimenti e personaggi si presentavano, provenienti<br />

dal mondo massonico, in un’opera rituale di risveglio<br />

dei Mani dell’Antica Roma e della dignità della<br />

nuova Italia. Nel 1929, infatti, la rivista Krur (ex Ur),<br />

diretta da Julius Evola e dopo la rottura con Reghini,<br />

pubblicò un singolare documento retrospettivo (Ekatlos:<br />

“La <strong>Grande</strong> Orma”: la scena e le quinte) nel quale<br />

in forma sfumata e allusiva, si faceva cenno al manifestarsi<br />

di “segni che qualcosa di nuovo richiamava le<br />

grandi forze della tradizione nostra” e a un rituale<br />

pagano celebrato nel 1913 e volto a propiziare, grazie<br />

all’apparizione preternaturale “degli Eroi della razza<br />

nostra romana”, l’intervento vittorioso dell’Italia in<br />

guerra. Del resto il titolo, La <strong>Grande</strong> Orma, era un trasparente<br />

anagramma per La <strong>Grande</strong> Roma. Inoltre si<br />

parlava di come fosse consegnato a Mussolini un fascio<br />

etrusco originale e di come si continuasse nella<br />

celebrazione di rituali – peraltro di sapore commemorativo<br />

e analogico – anche negli anni seguenti. Sull’argomento<br />

esprime con competenza ricostruttiva le sue<br />

interessanti considerazioni Gaetano Lo Monaco, nell’articolo<br />

della rivista Atrium (Anno VI, 1-2). Noi affronteremo<br />

solo la questione riguardante il Lapis Niger.<br />

Articoli pubblicati da diversi autori in più occasioni,<br />

ci permettono di avanzare il fondato sospetto<br />

10<br />

che il documento in questione fosse espressione di un<br />

gruppo abbastanza occulto, attivo già nella seconda<br />

metà dell’800 (ne avrebbe fatto parte l’archeologa Ersilia<br />

Caetani Lovatelli e l’artista R. Musmeci Ferrari-<br />

Bravo), che a cavallo del secolo seguente avrebbe<br />

avuto come suo membro autorevole l’archeologo Giacomo<br />

Boni, e sintetizzasse appunti suoi personali, che<br />

una discepola (Cesarina Ribulsi) dopo la sua morte,<br />

avvenuta nel 1925, passò ad Evola nel 1929. Carlo Gentile<br />

(5) nella sua opera L’altro D’Annunzio, rivela la<br />

sua iniziazione al 33° grado del RSAA, e la sua iniziazione<br />

all’Ordine martinista, dove fu S.αΙαΙα con il nome Iniziatico<br />

di Ariel. Un’altra testimonianza (6) è quella di Pier<br />

Pacchioni, personaggio singolare ed eccentrico:<br />

«Vi dirò che nel 1926 – quando ero soldato a<br />

Verona – conobbi Enrico Grassi Statella, e poi<br />

l’11 settembre 1926 – al Vittoriale – Gabriele<br />

D’Annunzio (il Filosofo Incognito), scavalcando<br />

il muro di cinta. <strong>Il</strong> colloquio, dalle ore 12,<br />

alle ore 13,30, fu idilliaco e sovrannaturale.<br />

Egli “sentiva” tutto di me telepaticamente, ed<br />

io “intendevo” i reconditi significati delle sue<br />

parole. Mi disse: “Ti dono povertà (e 200 lire<br />

di allora con il suo fazzoletto di seta cifrato,<br />

per asciugare le mie lacrime). Superare se stessi,<br />

io ho ciò che ho superato in me. Fai di te<br />

stesso un’isola, ma non un “guscio” le isole si<br />

riuniscono ai continenti sul fondo del mare.<br />

Sarai saggio quando avrai imparato a vivere<br />

al di fuori del tempo e dello spazio. E quando<br />

si fece quella famosa Marcia su Roma, il re<br />

avrebbe abdicato nelle mie mani; ma il potere<br />

umilia. Sempre facendomi guidare dall’Impossibile,<br />

andai a Venezia e conobbi Marco<br />

Egidio Allegri (Frate Focu) che completò la<br />

mia iniziazione, conferendomi anche il grado<br />

di Cavaliere Templare e della Rosa+Croce, ed<br />

istruendomi sulle dottrine esoteriche orientali.<br />

Era il fratello di quel Fra Ginepro che fece<br />

con il Comandante il famoso volo su Vienna.<br />

E (Marco Egidio Allegri) mi donò anche il<br />

suo pugnale di ufficiale degli Arditi, al quale<br />

ho fatto onore in AOI (Africa Orientale Italiana)<br />

e poi in Grecia e in Balcania – meritando<br />

due croci al valor militare e una proposta per<br />

una medaglia di bronzo, che andò al macero<br />

per l’errata impostazione della brillante motivazione».<br />

Al Vittoriale è conservato l’epistolario del Poeta,<br />

compreso quello firmato Ariel. Nell’attesa della sua<br />

catalogazione, repertorizzazione e scannerizzazione, a<br />

uso di studi futuri, si può ipotizzare che D’Annunzio<br />

non abbia mai frequentato una Loggia, né massonica<br />

né martinista. Un ieronimo è un’assunzione di identità,<br />

la maschera e il volto assieme di un’alienità confermata<br />

dalla propria vita e dal rito. Che significato poteva,


da parte di Gabriele, avere l’assunzione di questo particolare<br />

nome? Lo spirito familiare di Prospero, il<br />

mago rinascimentale che Shakespeare volle protagonista<br />

della Tempesta. Ma da dove derivava questa denominazione?<br />

Ariel, (Ari-El) è uno spirito dell’aria, evocato<br />

a volte nei grimoires magici medievali e rinascimentali.<br />

In uno di questi, Ari è così definito: Genio di<br />

prim’ordine. Duce di Spiriti luminosi. Si evoca per<br />

avere esaltazione del principio di luce che è in noi e<br />

nell’universo, per ottenere chiaroveggenza in tutte le<br />

cose che non si comprendono, percezione limpida<br />

della verità o della volontà del nostro Io interiore,<br />

cominciamento dell’estasi, lettura dell’astrale dei<br />

pensieri altrui, difesa dai pericoli che non vediamo e<br />

delle trame tenebrose dei malevoli. Ma Ariel è anche<br />

una luna del pianeta Saturno. Considerando i nomi iniziatici<br />

di alcuni autorevoli membri dell’Ordine martinista,<br />

Aldebaran, Altair, sempre indotti da stelle astronomiche<br />

si potrebbe pensare anche a una catena particolare,<br />

unita da un simbolismo stellare. Anche la bandiera<br />

di Fiume, durante l’occupazione dannunziana<br />

della città, raffigurava le “Vaghe stelle dell’Orsa” circondate<br />

da un ourobouros. Ma quali percorsi hanno<br />

portato D’Annunzio all’iniziazione massonica e martinista<br />

(7), che potrebbero essere anche puramente onorifiche,<br />

in mancanza di ulteriore documentazione?<br />

Durante la sua permanenza a Parigi, Gabriele, per la<br />

rappresentazione del dramma Le martyre de Saint-Sebastien<br />

aveva chiesto a Debussy di comporne la musica.<br />

Debussy era martinista, assieme al musicista Satie,<br />

vicini ambedue a Péladan, scrittore ed esteta, organizzatore<br />

del Salon des R+C, che raccolse le opere dei<br />

maggiori artisti dell’epoca. Inoltre richiese a Maurice<br />

Barrés, notevole letterato di visionare il testo dell’opera,<br />

scritto in francese. Maurice Barrés era intimo amico<br />

di Gerard Encausse (Papus) Gran Maestro dell’Ordine<br />

martinista ed è probabile che Gabriele possa averlo<br />

conosciuto. Ma l’occasione specifica della sua iniziazione<br />

era venuta dalla guerra mondiale e soprattutto<br />

dalla presa di Fiume, nel 1921. La guerra trasformò<br />

D’Annunzio. L’esteta, il dandy futile, il tombeur de<br />

11<br />

femmes, trova la Patria, l’intervento, il gusto acre ed<br />

esaltante dell’eroismo. Nel volo su Vienna, suo compagno<br />

d’ala fu Gino Allegri, massone e martinista, bella<br />

figura di aviatore e combattente (8). <strong>Il</strong> Fratello, Marco<br />

Egidio Allegri, 33° grado del RSAA, era anche Gran<br />

Maestro dell’Ordine martinista, e fu compagno di Gabriele<br />

nell’impresa di Fiume, assieme al giovanissimo<br />

conte Ulderigo Zasio, attendente, che a sua volta divenne<br />

Gran Maestro dell’Ordine martinista. Come afferma<br />

lo storico Gianni Vannoni, i sette granatieri congiurati<br />

di Ronchi che prepararono materialmente l’avventura<br />

di Fiume, erano massoni, compreso il loro capo,<br />

generale Sante Ceccherini, fiorentino. Anche se alcuni<br />

anni dopo, al confino, Domizio Torrigiani dovette pentirsi<br />

amaramente delle sue illusioni; non dimentichiamo<br />

che nella Rivista massonica del 1923 affermò che la<br />

rivoluzione fascista aveva un’anima massonica. In realtà<br />

la partecipazione dei massoni alla nascita del primo<br />

fascismo fu massiccia ed anche i quattro quadrumviri<br />

della Marcia su Roma erano tali.<br />

Ma vi sono già nel D’Annunzio pre-interventista<br />

quelle esaltazioni, quegli eroici furori che segnarono<br />

la sua vita prima della <strong>Grande</strong> Guerra. <strong>Il</strong> legame costante<br />

con la sua vita inimitabile è la sua concezione<br />

del superuomo, mediata da un mal compreso: D’Annunzio<br />

afferma che i principi egualitari che avevano<br />

guidato la borghesia, dalla Rivoluzione francese in poi<br />

minacciano di appiattire l’umanità in una pavida uniformità<br />

e rivendica il privilegio dei “migliori”. <strong>Il</strong> ruolo<br />

del superuomo consiste nel dominare gli altri, essendo<br />

dotato di virtù quali la sapienza, la bellezza e la forza di<br />

vivere con coraggio. A differenza dell’esteta, che vive<br />

soltanto il suo piacere, il superuomo vive integrato<br />

nella società, affermando ciò che fa paura al borghese,<br />

l’espansione industriale, la guerra, il conflitto sociale<br />

moderno e il dominio dei più forti che schiacciano i<br />

più deboli. Sono qui evidenti le affinità con il movimento<br />

futurista di Marinetti, ma anche le dicotomie fra<br />

i concetti di Nietzsche. Per il grande filosofo l’Oberman<br />

è alieno all’attuale umanità. L’uomo è qualcosa che<br />

deve essere superato e per superarlo bisogna completare<br />

la rivolta contro la morale. Esso sarà in primo luogo<br />

un essere libero che crede in se stesso; egli troverà<br />

le ragioni e le giustificazioni della propria condotta agendo<br />

per realizzare se stesso e per soddisfare la propria<br />

natura terrena. Nel superuomo vi è piena accettazione<br />

della propria essenza corporale, degli istinti. <strong>Il</strong><br />

superuomo chiede di essere o diventare fino in fondo<br />

ciò che è: una creatura del mondo che ama la vita, non<br />

si vergogna dei propri sensi e vuole acquisire gioia e<br />

felicità. È la felicità che ha il compito di giustificare<br />

l’esistenza. In un passo tratto dalla prefazione a “Così<br />

parlò Zarathustra” Nietzsche afferma: <strong>Il</strong> superuomo è<br />

il senso della terra (…) cioè l’uomo che va oltre l’uomo<br />

e porta a compimento la natura realizzandosi nel<br />

superuomo (…) l’uomo è un fiume immondo (…) ma<br />

il superuomo ha anche la capacità di purificare que-


sto fiume immondo (…) l’uomo è una fune tesa tra la<br />

bestia e il superuomo (…) cioè l’uomo è qualcosa di<br />

mezzo tra il tutto e il nulla.<br />

Dal 1919 al 1921 si compì un destino per l’Italia che<br />

avrebbe potuto essere diverso, se non migliore. La storiografia<br />

attuale ha iniziato ad analizzare da tempo i<br />

rapporti fra Massoneria e fascismo, in particolare dopo<br />

l’acquisizione del fondo Treves, che ha aperto nuove<br />

prospettive di studio. Non essendo noi storici, lasciamo<br />

a questi l’analisi di processi ancora, per logici motivi,<br />

molto delicati. Ciò che c’interessa, al di là e al di<br />

sopra del giudizio storico e politico che non ci compete,<br />

è di comprendere come, sul piano psicologico, sia<br />

stato possibile che dei Fratelli, educati nelle Logge all’amore<br />

per la libertà, abbiano potuto aderire al fascismo<br />

e a uno Stato totalitario. Quest’argomento, inconsciamente<br />

o volontariamente rimosso fino a pochi anni<br />

fa, è parte della nostra storia e ignorarlo può farci dimenticare<br />

la nostra vera e attuale identità storica e<br />

sociale. Al principio vi fu l’intervento. Le rivendicazioni<br />

territoriali dell’Italia, il cosiddetto “irredentismo”,<br />

erano viste come il naturale compimento del Risorgimento<br />

italiano, con l’Austria cattolica e reazionaria<br />

come nemico naturale. La partecipazione, prima carbonara<br />

e poi massonica dal 1859 in poi, alle vicende del<br />

Risorgimento non poteva che orientare l’Ordine verso<br />

l’intervento e quindi all’ultima guerra d’indipendenza.<br />

<strong>Il</strong> Leto, nel suo opuscolo su la Verità vera sul Fascismo<br />

e su la Massoneria in Italia esprime una tesi non<br />

più ripresa, se non marginalmente, sulle origini del<br />

movimento fascista, che contiene dei veri caratteri di<br />

verità. <strong>Il</strong> proto fascismo senza Mussolini fu un movimento<br />

volontaristico e apparentemente senza programmi.<br />

Un’associazione interventista antiasburgica e patriottica,<br />

con il nome di “Fasci di Combattimento”, si<br />

formò negli ultimi anni di guerra, con pochissimi membri,<br />

che tuttavia riuscirono a tenere un congresso nel<br />

1917 e un altro nel 1918. <strong>Il</strong> commento negativo su quest’ambiente<br />

da parte del Leto deriva certamente da<br />

posizioni ideologiche a posteriori, ma sarebbe interessante<br />

una maggiore e più equilibrata analisi su questo<br />

fenomeno, e soprattutto dei membri che lo produssero.<br />

<strong>Il</strong> manifesto fascista del 1919 era un programma di<br />

sinistra radicale. Per quanto si affermi che Corel fu uno<br />

degli ispiratori dell’ideologia prefascista, la stretta collaborazione<br />

che questa auspicava fra lavoro e capitale<br />

la differenzia totalmente dal suo anarco-sindacalismo<br />

rivoluzionario.<br />

Per quanto riguarda i rapporti spinosi ma effettivi,<br />

fra Mussolini e la Massoneria, è probabile che vi sia<br />

stato un finanziamento della Massoneria francese a<br />

Mussolini per l’acquisto del “Popolo d’Italia”, in quanto<br />

mancava in Italia un organo di stampa favorevole<br />

all’intervento contro gli Imperi centrali. Come dimostra<br />

il fondo Treves, l’impresa di Fiume fu organizzata e<br />

finanziata direttamente dalla Massoneria italiana, at-<br />

12<br />

traverso la cosiddetta “congiura di Vittorio Veneto”,<br />

in cui sette ufficiali dei granatieri, tutti massoni, giurarono,<br />

assieme a D’Annunzio, la liberazione di Fiume.<br />

Repubblicani e socialisti furono ammaliati da quell’atmosfera<br />

di rinnovato Risorgimento, di patriottismo rivoluzionario<br />

contro l’alleanza sabaudo-asburgica, che<br />

si produsse in quegli anni. <strong>Il</strong> dopoguerra, con i miti<br />

contrapposti della vittoria mutilata e della guerra voluta<br />

dalla classe borghese, divise drammaticamente la<br />

sinistra. <strong>Il</strong> fascismo, inizialmente rivoluzionario, si alleò<br />

con i nazionalisti. Paradigmatica è la vicenda d’Italo<br />

Balbo. Nel 1921 Balbo, contrario inizialmente all’azione<br />

violenta degli squadristi, e iscritto al partito repubblicano,<br />

era seduto a un tavolo di caffè nella natia Ferrara,<br />

quando vide passare marciante, nella sua truculenta e<br />

spavalda superbia, una squadra fascista con i suoi lugubri<br />

labari. Forse fu questo particolare simbolismo<br />

archetipico che lo spinse ad accodarsi al corteo. Adesione<br />

emotiva e quasi inconscia, estetica più che politica,<br />

come quella di tantissimi Fratelli mazziniani e socialisti,<br />

che furono interventisti prima e volontari di<br />

guerra poi. La simbologia fascista, nell’uso del fascio<br />

repubblicano, dei pugnali, dei teschi e del colore nero<br />

derivava da quella massonica e rivoluzionaria dei “Sublimi<br />

Maestri Perfetti” di Filippo Buonarroti.<br />

Questa fu ripresa poi da tanti gruppi carbonari e<br />

para-carbonari, fino a confluire nei simboli repubblicani,<br />

in particolar modo in Romagna, usata, fin dagli inizi,<br />

dai labari delle leghe dei braccianti. I principi del<br />

manifesto sansepolcrista, rapidamente elusi dopo la<br />

subita e nefasta alleanza del fascismo con l’esercito<br />

monarco-nazionalista e il cattolicesimo, erano quelli del<br />

sindacalismo rivoluzionario e della nazione-popolo in<br />

armi, della prima Repubblica francese fino alla Comune.<br />

Quegli anni del primo dopoguerra, in cui il caos<br />

ideologico poteva sembrare futuristicamente l’inizio di<br />

una nuova era, possono farci ben comprendere come<br />

tanti Fratelli aderirono al fascismo, fino a comporne la<br />

quasi totalità della gerarchia. D’Annunzio, che fu chiamato<br />

il “primo Duce” attirò a Fiume anarchici, repubblicani,<br />

socialisti, nazionalisti, spesso spiriti ribelli ed<br />

eccentrici, pronti all’azione spavalda e spudorata, tanto<br />

eroica quanto inutile. La Carta del Carnaro, che fu la<br />

costituzione dello “Stato Libero di Fiume”, è un documento<br />

di una splendida e inapplicabile utopia politica.<br />

Ciò che rimane di D’Annunzio non è, per i nostri tempi,<br />

la sua vita inimitabile, immaginata e immaginifica, lo<br />

splendore barocco dei suoi ori e argenti, la paccottiglia<br />

dei bibelots, con il cui simbolismo volle adornare<br />

i monumenti a se stesso. Rimangono le sue opere a cui<br />

dobbiamo comunque ricorrere quando siamo stanchi e<br />

nauseati dalla volgarità e dalla corruzione dei nostri<br />

tempi, in cui il demenziale e il brutto assumano valori<br />

politici, sociali, e soprattutto estetici. In esse, possiamo<br />

ritrovare il gusto del bel gesto, della bella parola,<br />

del bel fuoco che ieri “ci illuse, che oggi ci illude” per<br />

risorgere, come la Fenice, dalle nostre ceneri.


Nota di Redazione<br />

Nel gennaio del 1916 il poeta durante una missione aerea nei cieli veneti, è costretto ad un atterraggio di emergenza, e<br />

resta seriamente ferito, dopo aver sbattuto violentemente la fronte sulla mitragliatrice del suo aereo. Non si fa curare subito,<br />

e quando si decide a farlo, è tardi. Ha ormai perso l’occhio destro. Assistito unicamente dalla figlia Renata compone –<br />

adottando un geniale espediente – il “Notturno” opera di un cuore mis a nu, un taccuino esistenziale di dolore e sofferenza,<br />

con prospettiva sulla morte, come limite invalicabile dell’umana avventura. Nel “Notturno” preme a D’Annunzio un dialogo<br />

vero con la morte. La morte che sa aspettarlo, come chiunque altro, al termine della vita, per quanto la sua vita possa essere<br />

e possa essere stata pirotecnica, avventurosa, coraggiosa, sprezzante del rischio, della moderazione e del gusto temperato.<br />

La morte, comunque, aspetta. La morte personale, la stessa morte che il poeta vive differita nella morte dell’amico, in<br />

questo caso l’aviatore Giuseppe Miraglia uno dei compagni del poeta, gravemente ferito, che spira e al cospetto del quale<br />

il poeta si ritrova, subito dopo la composizione del feretro pronto per la sepoltura.<br />

M’è indicata una porta. Entro. Sopra un tettuccio a ruote è disteso il cadavere. La testa fasciata. La bocca serrata.<br />

L’occhio destro offeso, livido. La mascella destra spezzata: comincia il gonfiore. <strong>Il</strong> viso olivastro: una serenità insolita<br />

nell’espressione. Ha la giacca azzurra coi bottoni d’oro, quella di ieri. Vogliono trascinarmi via. Mi rifiuto. Resto in<br />

ginocchio. Prego di lasciarmi solo. Quando sono solo, mi chino sopra il morto, lo chiamo più volte. Le lacrime piovono sul<br />

viso. Non risponde, non si muove. Ricado in ginocchio. I rumori del giorno. <strong>Il</strong> pulsare dei motoscafi nel canale. <strong>Il</strong> tonfo dei<br />

passi sul tavolato. Un marinaio entra con un fascio di ceri: mette i quattro ceri agli angoli del lettuccio.<br />

<strong>Il</strong> cadavere è ormai separato da me, è chiuso, è solo, è già della tomba. Tra poco sarà della chiesa. Domani sarà<br />

portato al cimitero, deposto nel deposito, in una stanza estranea, incognita. Tre volte lontano. Un prossimo giorno sarà<br />

sprofondato nella terra, calato nella fossa, sepolto. Quattro volte remoto. Mi pareva ancor mio, dianzi, se bene disfatto, se<br />

bene difformato. Ora è prigione. Ha con sé le rose su i suoi piedi rotti. Non si potrebbe levare, neppure se il Cristo lo<br />

chiamasse. La piastra di piombo lo grava. La saldatura è compiuta, il suggello è perfetto. Ora è là, non più con la nostra<br />

aria, con l’aria che io respiro, ma con la sua aria, con l’aria della tomba, con l’aria dell’eternità, che con consumano i suoi<br />

polmoni i suoi polmoni entro le sue costole infrante.<br />

Note<br />

(1) Piero Chiara Vita di Gabriele D’Annunzio, Mondadori, Milano, 1981 pagina 9.<br />

(2) Piero Chiara, Op.cit. pagina 9.<br />

(3) Pier Chiara, Op.cit. pagina 19.<br />

(4) Piero Chiara, Op.cit. pagina 209.<br />

(5) Carlo Gentile (1920-1984), storico, filosofo ed insigne educatore, Gran Maestro Aggiunto e poi Onorario della<br />

Massoneria del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia. Svolte nel corso della sua vita un’intensa attività massonica ed è stato da tutti<br />

onorato e rimpianto per la nobiltà del suo animo e la profondità delle sue ricerche storiche ed esoteriche. Carlo Gentile fu<br />

Superiore Incognito Iniziatore dell’Ordine martinista, con il nome iniziatico di Antelius S::::I::::I::::. Dopo l’abdicazione e la<br />

morte di Umberto Gorel Porciatti (Zeteo S::::I::::I::::) l’Ordine martinista sorto dal Convento di Napoli (1948) la Gran<br />

Maestranza passò al suo sostituto Elia Jordan, e poi ad Antelius. Nel 1950 costituì a Napoli un “Centro martinista<br />

indipendente”, sotto l’egida dell’Ordine martinista o degli Eletti Cohen, il cui centro fu la Loggia martinista “Intelletto ed<br />

amore”, sotto i cui auspici, nel 1951 si costituì a Milano in Gran Consiglio Italico dell’Ordine martinista. Nell’attesa<br />

dell’elezione di un Gran Maestro si istituì un quadrato simbolico di delegati generali del martinismo per l’Italia. Alla seduta<br />

partecipò il Primate della Chiesa Gnostica d’Italia De Conca (Lycnus). <strong>Il</strong> Centro cessò la su attività nel 1954. Scrisse molti<br />

libri e moltissimi articoli. Le sue opere maggiori sono: Giuseppe Mazzini uomo universale; Saggi massonici di poesia;<br />

Giovanni Pascoli; Pietro Giannone; Edward Gibbon e il Triregno; Alla ricerca di Hiram; I tre gradi della Libera Muratoria;<br />

Dal Maestro Segreto all’Aquila Sovrana; Giordano Bruno ieri e oggi; L’altro D’Annunzio; <strong>Il</strong> Gran Maestro dell’Umanità:<br />

Giuseppe Garibaldi e <strong>Il</strong> mistero di Cagliostro e il sistema Egiziano. Curò inoltre, assieme a Elvio Sciubba la monumentale<br />

opera di Albert Pike: Morals and dogma.<br />

(6) Da una lettera di Pier Pacchioni alla rivista fiorentina Conoscenza. Archivio privato.<br />

(7) Interessante al riguardo, per il suo contenuto, la lettera del 21 agosto 1922 indirizzata ad Allegri dal S.I. Mokelé,<br />

filosofo della “Wronscki”. Su carta intestata all’Ordine e al Gruppo il Mokelé scriveva: Abbiamo ricevuto la tua carissima<br />

Tavola virgiliana: pugneremo sempre con “virtute et amore” per l’Alma Mater. A Padova, dunque, è avvenuta una<br />

defezione: ti prego dirmi se si può mettere in contatto col pot.mo fratello Sommer il carissimo fr. Realdon; se nulla vi è in<br />

contrario, ti prego di darmi l’indirizzo se dei tuoi piani: è veramente cosa dolorosa vedere queste defezioni stimolate da<br />

sciarpe o da monete ma io credo faranno poco male. Ieri abbiamo scritto al pot.mo Reghini e per mezzo suo abbiamo<br />

inviato i saluti al fr. Soro. Oggi stesso informerò il Gran Maestro dei nostri lavori. Col più fraterno affetto e devozione –<br />

Mokelé, Sup. Inc. La lettera porta una richiesta e una postilla. <strong>Il</strong> richiamo dice: Ho pensato esser meglio attendere ancora<br />

prima di scrivere a Roma. A chi debbo spedire la lettera perché venga recapitata al Gran Maestro? MKL. La postilla,<br />

riferentesi a Gabriele d’Annunzio dice: Hai sentito della disgrazia toccata al pot.mo fratello S.I. Ariel? Ora però sta meglio.<br />

Speriamo bene: speriamo che venga conservato a noi e alla Patria – MKL, (Archivio Ordine martinista, Fondo Esordio<br />

1898-1925).<br />

(8) <strong>Il</strong> volo su Vienna, compiuto il 9 agosto 1918, fu una trasvolata propagandistica, forse il primo esempio di guerra<br />

psicologica. Fui compiuta da 11 Ansaldo SVA dell’87 a squadriglia, detta La Serenissima. Dieci erano monoposto, pilotati da<br />

Locatelli, Allegri, Censi, Aldo Finzi – massone – , Granzarolo, Sarti, Ferrarin, Masprone e Contratti ed un biposto pilotato dal<br />

Capitano Natale Palli. <strong>Il</strong> maggiore Gabriele D’Annunzio, comandante della Squadra Aerea San Marco, era nell’abitacolo anteriore.<br />

13


La <strong>Grande</strong> Guerra e le donne<br />

Donne, donne, donne … Ma insomma, cosa volete? Vi<br />

abbiamo generati tutti, dal primo all’ultimo, vi abbiamo<br />

nutriti e fatti crescere, vi abbiamo consolati e<br />

supportati … Dall’inizio dei tempi.<br />

Con il primo conflitto, mondiale il soggetto si trova<br />

disarmato di fronte a uno “choc” cosmico. Si spezza cioè,<br />

traumaticamente, l’articolazione fra percezione, esperienza<br />

e memoria. L’entusiasmo, che allo scoppio della guerra<br />

aveva colto i più – intellettuali e non, in tutti i paesi<br />

belligeranti – si decompone nella “democrazia della morte”.<br />

La “guerra”, fino ad allora immaginata e vagheggiata<br />

come la massima espressione di esperienza autentica e di<br />

fuoruscita dalle soffocanti quotidianità materiali verso una<br />

dimensione di superiorità spirituale, si rivela il luogo in<br />

cui ogni destino individuale naufraga nella “terra di nessuno”,<br />

nell’indifferenza di un processo anonimo. Nel<br />

monumento al Milite Ignoto, che non può evocare né<br />

alcun ricordo né alcun volto in nessuna memoria e che<br />

quindi li evoca tutti, si esprime emblematicamente la maschera<br />

impersonale del carnaio bellico. Come Ernst Jünger<br />

avrebbe osservato nel 1930, l’esperienza reale della guerra<br />

si rivela non diversa dal lavoro in fabbrica, con il “preciso<br />

ritmo di lavoro di una turbina alimentata col sangue”,<br />

in cui gli uomini ridotti a “materiale umano” sono<br />

resi disponibili alla “mobilitazione totale”. Ciò rendeva<br />

radicalmente diversa la guerra del 1914-1918, la cosiddetta<br />

“<strong>Grande</strong> Guerra”, da tutte le altre guerre che la storia ci<br />

ha tramandato.<br />

In essa la “comunità di guerra” ruota attorno alla morte<br />

e al sacrificio, al sangue e alla terra, incorporandosi in un<br />

organismo contraddittoriamente unito dallo stesso “destino”,<br />

diventa il modello dell’intera società. Questa esperienza<br />

comunitaria porta con sé le premesse per la cancellazione<br />

della distinzione fra militari e civili, fra fronte interno<br />

e linea del fuoco. La comunità del popolo, grazie a<br />

questo suo carattere intrinsecamente guerresco, si identifica<br />

col cameratismo e con l’esperienza virile. L’esperienza<br />

emblematica della grande guerra è l’esperienza del<br />

fronte e della trincea. I “reduci” sono gli uomini – e le<br />

donne – che da esso hanno fatto ritorno.<br />

L’esercizio della memoria, personale e storica, può<br />

pertanto riattivarsi e il passato può essere riformulato<br />

non tanto negli eventi puntuali quanto nel loro senso.<br />

Alludo alla ormai consolidata storia delle donne, a quella<br />

“storiografia di genere” che, sull’onda di una consapevolezza<br />

acquisita attraverso i movimenti femministi, ha<br />

rivendicato un doppio diritto per le donne, quello di “essere<br />

nella storia” e quello di “avere una storia”. La storia<br />

ha mantenuto un lungo silenzio e una cecità ipocrita e<br />

Valeria Succi<br />

14<br />

colpevole sull’universo femminile, in questo caso con la<br />

scusa di esserle estranea e, in modo particolare, estranea<br />

alla guerra, ambito prettamente maschile. Col procedere<br />

dell’assimilazione, più necessaria che pensata, la storia<br />

non solo ha dovuto rendere visibile la partecipazione e il<br />

coinvolgimento delle donne nella guerra, ma ha anche e<br />

necessariamente dovuto fornire elementi indispensabili<br />

per la comprensione del suo ruolo sociale e dei suoi significati<br />

antropologico, psicologico, simbolico e mentale.<br />

Questa “ammissione” ridefinisce la loro presenza non più<br />

nei termini di un rapporto conflittuale o casuale, in un<br />

braccio di ferro eroico o in un eterno subire, ma bensì<br />

calandola in un contesto di relazioni e di mediazioni. In<br />

una concezione meno militante, forse, ma anche meno<br />

“militare” perché il mondo femminile, fattosi soggetto storico,<br />

attesta la presenza della donna e conferma la sua<br />

voce partendo dalle situazioni e dalle condizioni della<br />

quotidianità.<br />

La ricerca di testimonianze e di eventi al femminile<br />

nella storia della Prima Guerra mondiale è sconcertantemente<br />

faticosa ed i suoi risultati appaiono scarni e marginali.<br />

Non ci sono testimonianze, non ci sono storie ricche<br />

di particolari: nessuna donna ha lasciato una memoria<br />

della sua esperienza al fronte o nelle corsie affollate da<br />

mutilati e moribondi. Vivere in sordina è forse una necessità<br />

– e, mi si lasci dire, dovrebbe essere una lezione per<br />

tutti – ma è anche e spesso una scelta che le donne<br />

fanno per evitare conflitti. E fu per l’appunto proprio<br />

questo conflitto – il primo ad aver travolto il mondo in<br />

una guerra estenuante e sanguinosa, fatta di posizione,<br />

trincea, attacco frontale, scontro fisico – ad aver indotto<br />

le donne, per la prima volta, a farsi soggetto della storia,<br />

partecipando in modo attivo non in trincea ma nel quotidiano,<br />

nella sostituzione dei posti di lavoro che l’uomo in<br />

trincea aveva lasciato “vuoti”. Donne che lasciano il focolare<br />

– cui erano state da sempre relegate, ma che costituiva<br />

anche un riparo – e si gettano nella mischia, si<br />

rendono visibili, danno un contributo decisivo alla prosecuzione<br />

di un conflitto di sangue, ancorché aborrito<br />

perché non risponde alla visione femminile della vita sociale.<br />

Nelle fabbriche – nelle quali erano fino ad allora<br />

entrate solo per estrema necessità e nelle quali la loro<br />

prestazione veniva ritenuta di “qualità inferiore” e quindi<br />

sottopagata – si trovano improvvisamente a ricoprire ruoli<br />

“maschili”. Con quali reazioni? Non si arrendono, non si<br />

scoraggiano, affrontano il loro nuovo ruolo con semplicità,<br />

entusiasmo e senso di sacrificio; partecipano empaticamente<br />

alla sorte degli “uomini”, non solo del proprio<br />

uomo, del proprio padre o del proprio fratello, ma di tutti<br />

coloro che combattono. Anche se a loro non è stato<br />

chiesto se volevano la guerra – le donne non avevano


ancora diritto di voto – esse si adoperano ugualmente,<br />

con profondo senso civile e morale, perché la guerra possa<br />

essere sostenuta e vinta, nella speranza di giungere<br />

comunque presto alla pace e nella convinzione che la<br />

guerra porta sempre e comunque lutti per tutti.<br />

Come non ricordare a questo proposito il famoso quadro<br />

di Jacques Louis David “<strong>Il</strong> giuramento degli Orazi”?<br />

<strong>Il</strong> soggetto è tratto dalla leggenda romana degli Orazi e<br />

dei Curiazi, tre fratelli delle due parti in guerra – Roma e<br />

Alba Longa – cui vennero affidate, in uno scontro all’ultimo<br />

sangue, le sorti del conflitto (che, per inciso, terminò<br />

con la vittoria degli Orazi). Alla posizione eretta, decisa,<br />

costruita su un rigido incrocio di rette, dei tre uomini che<br />

giurano sotto la spada del padre fedeltà alla Patria e si<br />

dichiarano disposti al sacrificio per il loro ideali, si contrappone<br />

in una zona laterale, di ombra e di linee morbide,<br />

il gruppo delle donne: queste, sommessamente, piangono<br />

in una circolarità di emozioni del tutto intime e non<br />

esternate in gesti eclatanti; la donna che piange seduta è<br />

una delle sorelle degli Orazi che, destinata sposa a uno<br />

dei Curiazi, si rende conto che perderà qualcuno di caro<br />

in entrambi i casi. Non dissimile, sotto il profilo psicologi-<br />

15<br />

co, la posizione delle donne nella <strong>Grande</strong> Guerra, una<br />

sofferenza intima cui si contrappone la volontà di condividere,<br />

di combattere, di sostenere un ideale, pur se perseguito<br />

con armi alle donne non congeniali, partecipando<br />

attivamente alla guerra, sia nelle retrovie sia sul fronte.<br />

E fu un atto dirompente, che portò la “società<br />

al femminile” ad un ripensamento del proprio<br />

essere, del proprio ruolo e del modo di<br />

porsi all’interno del contesto civile, in linea con<br />

la sua attitudine a portare “aiuto”. Ma questo<br />

“aiuto”, fino ad allora riservato alla stretta cerchia<br />

dei familiari, diventa un aiuto in terre lontane<br />

dal focolare, riservato a chi ha necessità<br />

di soccorso, a chiunque della guerra subisca le<br />

ferite ed i traumi. Le donne non si tirarono indietro<br />

e il gruppo iniziale di circa 4.000 “crocerossine”<br />

crebbe a poco a poco: furono circa<br />

8.500 instancabili donne, di ogni classe sociale,<br />

quelle che si recarono a compiere questo<br />

“dovere”, profondamente e consapevolmente<br />

sentito, subendo loro stesse perdite di ogni<br />

tipo, tanto che alla fine del conflitto alcune<br />

furono decorate al Valor Militare, in vita e alla<br />

memoria. <strong>Il</strong> primo conferimento della medaglia ebbe luogo<br />

il 12 maggio 1920, centenario della nascita di Florence<br />

Nightingale, quando il Comitato Internazionale della Croce<br />

Rossa designò le infermiere che avevano meritato la<br />

più alta onorificenza nella <strong>Grande</strong> Guerra, fra cui sei italiane:<br />

Elena di Francia duchessa di Aosta, Ina Battistella,<br />

Maria Concetta Cludzinska, Maria Andina, Maria Antonietta<br />

Clerici e Maria Teresa Viotti. Troppo poche e furono<br />

solo dei fatti eccezionali a dare l’occasione per citarle<br />

alla stampa dell’epoca, come nel caso di Ina Battistella,<br />

ricordata sulla copertina de “La Domenica del Corriere”<br />

(51 del 22 dicembre 1918) per essersi unita ai soldati nella<br />

battaglia sul campo o come nel caso di Oliva Teso, ricordata<br />

su un’altra copertina (49 dell’8 dicembre 1918), che<br />

ad un capitano austriaco che voleva impedirle di esporre<br />

la bandiera della Patria rispose: “Io la espongo lo stesso!<br />

Se vuole sparare ecco il mio petto!”.


Luce ed Ombra: opposti o complementari ?<br />

Luce ed ombra, bianco e nero, cielo e terra, spirito<br />

e materia, bene e male: si potrebbe continuare ancora<br />

a lungo con altre coppie di enti che riconducono a due<br />

dimensioni opposte e, di per sé, inconciliabili, polarità<br />

contrarie nelle quali il primo termine indica, anche al<br />

più superficiale esame, un’idea positiva/giusta/bella/<br />

divina/armonica, mentre l’altro termine, invariabilmente,<br />

indica il suo opposto negativo/iniquo/doloroso/<br />

mortale. Questa sorta di sistema binario in perenne bilico<br />

è sempre presente, in un certo senso ci perseguita,<br />

in ogni ragionamento, in ogni speculazione specie<br />

se di ordine esoterico. Perché il pavimento a mosaico<br />

del nostro Tempio massonico è fatto di caselle bianche<br />

e nere? Perché l’aurora e le tenebre nei nostri rituali<br />

sono in eterna lotta, una segue l’altra senza che<br />

mai si raggiunga una situazione di stabile affermazione<br />

della prima sulla seconda? La domanda può essere forse<br />

banale o superficiale, ma come ogni quesito essa obbliga<br />

ad una riflessione, costringe a cercare una risposta<br />

e quindi ad iniziare un’indagine: perché il <strong>Grande</strong><br />

Architetto dell’Universo non fa sì che il nero, cioè le<br />

tenebre, scompaiano per sempre lasciando campo libero<br />

alla luce? Perché noi uomini in ogni nostra indagine<br />

filosofica, etica o esoterica abbiamo questo vincolo,<br />

inespresso ma ineluttabile e fortissimo, di dover sempre<br />

riferirci a coppie di opposti? La nostra cultura attuale<br />

è il frutto, da un lato, di secoli di speculazioni<br />

filosofiche, etiche, ed indagini scientifiche, e dall’altro,<br />

di una dottrina religiosa molto profonda che spesso,<br />

specie in passato, ha vincolato qualsiasi indagine della<br />

mente umana alla “propria” prospettiva ed alla propria<br />

“verità”; è a questo secondo elemento portante<br />

del nostro modo di pensare che dobbiamo l’individuazione<br />

del Trascendente, della Divinità, nella Luce, mentre,<br />

al contrario, tutto ciò che è malefico e latamente<br />

demoniaco, costituisce il regno delle Tenebre. Nella<br />

società contemporanea, seppure fortemente secolarizzata<br />

(e così desolatamente inadeguata a rapportarsi con<br />

ciò che è Sacro in ogni suo aspetto e non solo nell’ambito<br />

delle religioni), tale prospettiva è ancora fortissima<br />

ed assolutamente scontata, quasi istintiva: l’Ombra<br />

esaurisce la sua essenza in tale significato infernale<br />

e nient’altro.<br />

Tuttavia, sappiamo bene che non sempre tale distinzione<br />

è stata così semplice ed univoca: chiunque<br />

abbia avuto modo di affrontare il tema del significato<br />

esoterico del colore nero, avrà scoperto, con sorpresa,<br />

che esso nella simbologia tradizionale ha anche, in un<br />

ordine superiore, un significato metafisico positivo. In<br />

tale contesto il nero diviene addirittura il regno del<br />

non-manifestato, di tutto ciò che è in potenza e che<br />

Antonio Dini<br />

21<br />

solo successivamente (grazie ad un processo di divisione<br />

ed irraggiamento) prenderà corpo e si manifesterà<br />

nel mondo materiale. Dunque, a questo livello, il<br />

nero e le tenebre assurgono addirittura ad un ruolo di<br />

origine, di creazione. Gli antichi egizi chiamavano la<br />

propria terra “Kémi”, ovvero Terra Nera (da cui, pare,<br />

sia derivato l’arabo Al Chimia) proprio per simboleggiare<br />

la sua posizione centrale nell’universo ed il suo<br />

ruolo creatore.<br />

Adolfo Wildt: <strong>Il</strong> Caos<br />

Nelle cosmogonie classiche il Caos (cioè le Tenebre)<br />

precede la Luce, ed è quest’ultima che crea il<br />

Cosmo dando ordine al primo; solo così, con un<br />

processo di separazione e individuazione, si dà corpo<br />

a tutto l’Universo. È evidente, tuttavia, che l’indistinta<br />

tenebre iniziale non poteva avere in quel<br />

contesto un significato pienamente ed esclusivamente<br />

deteriore, dato che in essa, comunque, era già<br />

presente “in nuce” l’intero Universo, e quest’ultimo<br />

non può essere certo il frutto delle Tenebre, intese<br />

nel loro significato malefico, seppure emendate dalla<br />

Luce. Allo steso modo alcune indagini sulla mitologia<br />

comparata dell’area indo-europea hanno<br />

evidenziato l’esistenza dei così detti “Demoni meridiani”,<br />

entità sovra-umane il cui momento di apparizione,<br />

con la conseguente influenza più o meno nefasta,<br />

ma comunque perturbatrice, sulla vita degli<br />

uomini, viene posta nell’ora del meriggio, proprio<br />

quando il sole è allo zenit. Tali “presenze” sono, ad<br />

esempio, le Sirene, i Lotofagi (mangiatori del Fior di<br />

Loto), le Ninfe; peraltro, in un contesto ben diverso,<br />

anche il demonio che tenta Gesù nel deserto<br />

compare in pieno giorno, per nulla impensierito dallo<br />

splendore dell’Astro. In un ambito culturale completamente<br />

diverso, quello giapponese, il colore del<br />

lutto e del dolore non è il nero, bensì il bianco. Tali<br />

ultimi rilievi possono darci un’idea di quanto, in fon-


do, possano mutare nel tempo e nello spazio certe<br />

simbologie o significati che a noi oggi appaiono scontati<br />

ed univoci: purtroppo, però, tali considerazioni<br />

hanno ben poco da dire circa le domande che mi sono<br />

posto all’inizio di queste brevi riflessioni.<br />

Uno spunto diverso ce lo offre lo studio del simbolo<br />

orientale noto come “yin-yang”: anch’esso ad<br />

una prima analisi, e secondo l’opinione più diffusa,<br />

sembra non riprodurre altro che il solito dualismo<br />

fra enti contrari: luce ed ombra, maschile e femminile,<br />

attivo e passivo. Analizzandolo meglio, però, ci<br />

accorgiamo che le due metà (che insieme formano<br />

un cerchio, figura perfetta e simbolo del Tutto) si<br />

compenetrano talmente a fondo da essere inseparabili,<br />

e non solo ma all’interno della parte nera c’è un<br />

disco bianco, mentre, al contrario, nella metà bianca<br />

è compreso un disco nero. L’unione delle due parti<br />

crea una nuova entità, quella che gli orientali chiamano<br />

appunto il Tai-Ki, cioè il Principio.<br />

Adolfo Wildt: Fiat Lux<br />

Anzi, è vero, ovviamente, il contrario, e cioè che<br />

non sono le due metà (yin e yang) a creare il Tutto<br />

(Tai-Ki) ma è da quest’ultimo che traggono origine i<br />

due termini, i quali hanno una loro “individualità”<br />

solamente nell’ordine inferiore del manifestato. Anche<br />

nell’ambito della storia e della tradizione a noi<br />

più vicine, abbiamo netta le percezione che il “gioco”<br />

di luce ed ombra sia un qualcosa di più e di<br />

diverso rispetto al dualismo bene-male. Per esempio,<br />

appena varcata la soglia di un edificio di culto,<br />

luogo sacro per eccellenza, sia esso una chiesa, una<br />

sinagoga o una moschea, ci troviamo immersi nella<br />

penombra: questa semi-oscurità dominante è mitigata<br />

solo dalla poca luce che, con mirabile maestria,<br />

viene fatta filtrare da rosoni e vetrate, monofore o<br />

finestre o aperture di forma e dimensioni diverse,<br />

mai poste in modo casuale. Si crea così un alternarsi<br />

di buio e fasci di luce particolarmente adatto alla<br />

meditazione ed al raccoglimento spirituale: va da sé<br />

che, normalmente, i raggi di luce sono diretti verso i<br />

punti dell’edificio ritenuti più importanti e significa-<br />

22<br />

tivi, accompagnando il fedele in un percorso simbolico<br />

dalle tenebre, più intense nel punto di accesso,<br />

alla luce della rivelazione divina. E cosa pensare di<br />

cattedrali splendide e suggestive come quelle di<br />

Siena, Orvieto o Genova, nelle quali le stesse pietre<br />

con cui sono costruite creano un infinito susseguirsi<br />

di linee e spazi bianchi e neri? Nell’architettura e,<br />

soprattutto, nell’arte figurativa, questa specie di<br />

“simbiosi” fra luce ed ombra raggiunge livelli di raffinatezza,<br />

di forza espressiva, di perfezione estetica<br />

veramente immensi: pensiamo al colonnato del<br />

Bernini in San Pietro, oppure alle meravigliose statue<br />

di Michelangelo, o alle tele del Caravaggio, di<br />

Rembrandt o della Scuola fiamminga.<br />

Come potremmo relegare tali superbe “ombre” a<br />

mero supporto di qualcos’altro? Come si può svilirle<br />

alla semplice rappresentazione di un generico e sterile<br />

“male”? Quel nero, quelle ombre fanno parte dell’opera,<br />

ne costituiscono un elemento essenziale ed<br />

inscindibile: senza di esse la luce non avrebbe né<br />

forma né senso, sarebbe indistinguibile, ci abbaglierebbe.<br />

E poi, che cos’è quell’emozione intensa, quella<br />

meraviglia mista a timore e senso di inadeguatezza<br />

che ci pervade nell’ammirare quelle opere? L’impressione<br />

che se ne trae è quella di trovarsi di fronte a<br />

qualcosa di sovrumano, di sacro, anche quando il soggetto<br />

dell’opera sia assolutamente lontano dalla religione.<br />

Peraltro, non ci sfiora neppure la sensazione che<br />

possa esserci in quel capolavoro qualcosa di sinistro,<br />

di mortale: eppure l’ombra, l’oscurità, il nero vi<br />

appaiono in tutta la loro prepotente forza. Ecco che<br />

allora il “lato oscuro” assume un significato nuovo,<br />

qualitativamente diverso e più profondo della consueta<br />

rappresentazione di un ente negativo fine a<br />

se stesso; l’ombra non è più, o non è soltanto, una<br />

sorta di “spalla”, un’ancella il cui ruolo è quello di<br />

far rifulgere il più possibile il suo opposto, la Luce.<br />

In quest’ultimo, consueto, ruolo le Tenebre rivestono<br />

un compito piuttosto limitato, direi quasi banalmente<br />

educativo, ed assolutamente profano: esse<br />

sono la minaccia del male che incombe sul bene e<br />

sulle vite di chi, per ignoranza ed errore, ad esso si<br />

rivolge per trovarvi facile affrancamento dai bisogni<br />

materiali. Tale prospettiva, purtroppo, non è appagante,<br />

non spiega perché il “lato oscuro” sia comunque<br />

un elemento che, a pieno titolo e pari “dignità”,<br />

è parte integrante del Tutto, e dal quale, evidentemente,<br />

non si può prescindere. Si comincia ora<br />

a comprendere che la domanda circa il perché non<br />

possa esistere, almeno in questo mondo, un assoluto<br />

regno del Bianco, della Luce, semplicemente non<br />

ha senso, è un falso problema. Ed anche liquidare<br />

l’ombra semplicemente come il “Regno del male”, è<br />

una scelta che può essere soddisfacente se la prospettiva<br />

del nostro ragionamento si esaurisce nell’ambito<br />

della simbologia strettamente religiosa, ma<br />

appare inadeguata in un contesto più vasto.


Possiamo, infatti, considerare l’Universo come il<br />

frutto di un processo di divisione, o meglio del sacrificio<br />

(in senso rituale e simbolico) dell’Unità primigenia:<br />

è, come per gli antichi egizi, il risultato dello smembramento<br />

del corpo di Osiride da cui è nata ogni cosa ed<br />

ogni essere vivente. Identica è, nella sostanza, la simbologia<br />

della tradizione ebraica in cui troviamo la frammentazione<br />

dell’Adam Qadmon (l’Uomo Universale), o<br />

quella orientale che vede le membra del Purusha primordiale<br />

sparse per il Creato. Dunque tutto, ma proprio<br />

tutto, “ombra” compresa, fa parte a pieno titolo di<br />

questo immenso processo di derivazione, ogni elemento<br />

ha il suo ruolo, ogni cosa, ogni essere, ogni entità<br />

esiste e basta, non può esserci per questo alcuna spiegazione,<br />

almeno non a portata della ragione umana.<br />

Proviamo, allora, ad invertire la nostra prospettiva.<br />

Cerchiamo, cioè, di liberarci da una visione puramente<br />

dualistica, di opposizione, e cerchiamo di intraprendere<br />

un percorso che ci riporti dal mondo manifestato e<br />

profano ad una dimensione metafisica unitaria, simile<br />

a quella originaria: dalla disordinata molteplicità, dall’insolubile<br />

opposizione, all’armoniosa Unità del Tutto.<br />

Ricordate: “riunire ciò che è sparso”, o se vogliamo,<br />

ricercare la Parola perduta. A questo punto il cammino<br />

diventa veramente difficile, perché entriamo nella<br />

sfera del sovra-umano, vale a dire in quella particolarissima<br />

categoria del pensiero (anzi della “sensibilità<br />

intuitiva”) estranea ad ogni schema logico e discorsivo:<br />

il Sacro. Secondo la fulminante definizione datane<br />

da uno dei suoi più importanti studiosi, il teologo protestante<br />

Rudolf <strong>Ott</strong>o, il Sacro è uno “scandalo della<br />

ragione”, esso è molto di più di una categoria del pensiero,<br />

anzi, è il suo stesso radicale superamento in<br />

quanto totalmente estraneo alle consuete modalità con<br />

cui ci si rapporta al mondo e con le quali lo si comprende.<br />

<strong>Il</strong> Sacro è al contempo splendido e tremendo,<br />

in esso massimo e minimo coincidono, attrae ma terrifica<br />

allo stesso tempo. Darne un definizione è, ovviamente,<br />

impossibile, ma certo, ciò che lo caratterizza in<br />

modo del tutto speciale è questa ineffabile capacità di<br />

comporre in sè gli opposti, l’essere una “complexio<br />

oppositorum”, un “al di là” totale, assoluto. Sacro è ciò<br />

che compone i contrari in una superiore, suprema, irraggiungibile<br />

Unità e Totalità, il Sé. Questo è ciò che è stato<br />

considerato dai mistici (ed anche dagli alchimisti) come<br />

l’espressione più alta e profonda del Divino.<br />

Solamente nell’ambito del Sacro si riesce ad intuire<br />

l’essenza dell’Assoluto, del Sé, ed a penetrare<br />

in una dimensione che altrimenti rimarrebbe sconosciuta,<br />

estranea, irrimediabilmente misteriosa. Nella<br />

cultura occidentale questo equilibrio, questa forma<br />

di armonica composizione degli opposti si è realizzata<br />

nel modo più compiuto, forse mai più raggiunto,<br />

nella Sacra Cavalleria medioevale, la quale, lungi<br />

dall’essere quel coacervo di vanagloriosi e sciocchi<br />

combattenti sempre in cerca di un amore fugace o di<br />

una causa illusoria, ha rappresentato uno dei mo-<br />

23<br />

menti più alti di manifestazione simbolica del Sacro.<br />

È nella figura del Cavaliere che si esprime, al più<br />

alto livello, la sintesi degli opposti: da un lato le<br />

armi, la violenza brutale della lotta, il sangue, il dolore<br />

e la morte; dall’altro la devozione, la fede, la<br />

divisa etica dell’uomo giusto ed incorruttibile incessantemente<br />

impegnato nel proprio perfezionamento<br />

spirituale (“Dieu et mon droit” era il motto della<br />

Cavalleria francese). L’investitura alla dignità di Cavaliere<br />

giungeva al termine di un lungo e complesso<br />

rituale: il digiuno, la confessione dei peccati,<br />

il bagno purificatore in acqua di rose, la vestizione<br />

con la candida tunica, la veglia d’armi, la benedizione<br />

dell’uomo e della spada, ed infine il giuramento e<br />

l’investitura (o forse meglio la “consacrazione”) al<br />

rango di Cavaliere.<br />

Materialità e spiritualità, cielo e terra, luce ed ombra,<br />

vale a dire le coppie di opposti normalmente<br />

separati, sovrani ed inconciliabili nel loro ordine, trovano<br />

(o dovrebbero trovare) dunque una composizione<br />

armonica nello scopo sublime ed ineffabile di<br />

raggiungere la Luce, l’Assoluto. Riflettendo su tutto<br />

questo non può non venirci in mente il passo<br />

della Tavola Smeraldina nel quale leggiamo “si eleva<br />

dalla terra al cielo e ridiscende dal cielo alla terra,<br />

e riceve così la virtù e l’efficacia delle cose superiori<br />

ed inferiori”. È la “soluzione” e la “coagulazione”<br />

degli alchimisti: l’ascesa dell’uomo “grezzo” verso<br />

un ordine superiore dove assimilare influssi celesti<br />

e, quindi, il ritorno dell’Uomo completo nel mondo<br />

terreno ove trasfondere tale sapienza e verità in sé<br />

stessi (“diventa ciò che sei”) e negli altri. Ed una<br />

seconda riflessione viene in mente: anche la Massoneria<br />

“inizia” il profano ad una dimensione nuova,<br />

ed i rituali, grazie ai quali siamo iniziati e tramite<br />

i quali lavoriamo, a che cosa tendono se non a fare<br />

di noi degli “Uomini totali”, per consentirci di avvicinare<br />

sempre più quella Verità assoluta, quella Parola<br />

perduta che è il nostro scopo ultimo? Difficile<br />

pensare che questo parallelismo sia frutto di una<br />

casualità, anzi, impossibile se consideriamo che in<br />

Massoneria nulla è casuale e, al contrario, ogni simbolo<br />

ed ogni rito ha un suo perché ed un suo preciso<br />

ruolo nel percorso di innalzamento spirituale del<br />

massone. Del resto simboli e riti servono proprio a<br />

dare corpo e ad introdurci in una dimensione, quella<br />

del Sacro, che altrimenti resterebbe irrimediabilmente<br />

separata ed irraggiungibile rispetto alla sfera profana<br />

dalla quale inizia il nostro cammino. Dunque per<br />

noi massoni si profila un compito duro, quasi impossibile,<br />

simile a quello del Cavaliere: comporre in<br />

noi in modo armonico luce ed ombra, assimilare le<br />

virtù e l’efficacia della Terra e del Cielo. Allora, se<br />

“ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso<br />

perché si compiano i miracoli della cosa Una” saremo<br />

– come il Sacro Cavaliere – Uomini totali e splenderà<br />

in noi la scintilla del Divino.


L’efficiente, l’universo infinito e gli infiniti mondi finiti<br />

Io dico l’universo tutto infinito perché non ha margine,<br />

termino né superficie; dico l’universo non essere totalmente<br />

infinito, perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere<br />

è finita, e de mondi innumerabili che contiene, ciascuno<br />

è finito. Io dico Dio tutto infinito perché da sé esclude<br />

ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito.<br />

(De l’infinito universo e mondi, Dialogo I).<br />

Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il<br />

continente universale, l’eterea regione per la quale il tutto<br />

discorre e si muove. Ivi innumerevoli stelle, astri, globi,<br />

soli e terre sensibilmente si veggono e ragionevolmente si<br />

argumentano. L’universo immenso ed infinito è il composto<br />

che resulta da tal spacio e tanti compresi corpi.<br />

(De l’infinito universo e mondi, Dialogo III).<br />

Prima di intraprendere l’analisi dell’opera di Giordano<br />

Bruno relativa al tema è necessario, e opportuno, produrre<br />

una premessa. Bruno non può considerarsi un fisico<br />

di genio alla stregua di Galilei e la sua teoria è certamente<br />

lungi dal poter essere considerata una teoria scientifica;<br />

essa è piuttosto una congettura filosofica e, da un<br />

punto di vista puramente concettuale, si può passare da<br />

Copernico a Galileo, da Keplero a Newton senza doversi<br />

soffermare sulla teoria di Bruno, ciò che del resto fa la<br />

maggior parte degli storici del pensiero scientifico. Ciò<br />

che oggi rimane dei lunghi interrogatori a cui venne sottoposto<br />

Bruno davanti al tribunale dell’Inquisizione veneziano<br />

ci permette di ricostruire il meglio dei suoi lavori,<br />

spesso oscuri. Dalla loro lettura risulta chiaro che la magia<br />

o l’ermetismo, che hanno certamente occupato un<br />

posto importante nella sua attività intellettuale, non pesarono<br />

per nulla nella sua condanna e che il loro ruolo<br />

non era centrale nel suo sistema perché il fulcro della sua<br />

teoria, che doveva fatalmente condurlo al patibolo, risiedeva<br />

nella sua concezione di un universo infinito. <strong>Il</strong> tratto<br />

distintivo fondamentale del vasto corpo letterario e, in<br />

buona sostanza, dell’insegnamento che si può trarre della<br />

dottrina di Giordano Bruno, trova una delle più limpide<br />

esplicazioni proprio nella sua concezione dell’universo.<br />

Bruno proclama a gran voce il diritto alla libertas<br />

philosophandi che non può chinare il capo di fronte ad<br />

alcun principio di consuetudine e di autorità.<br />

«Nell’ambito della filosofia ... è infatti rischioso –<br />

scrive Bruno – avanzare definizioni prima di aver<br />

ponderato bene l’argomento, è iniquo accettare una<br />

opinione in ossequio ad altri, è degno di servi e di<br />

mercenari, nonché contrario al valore della libertà<br />

umana, sottostare e inchinarsi a qualche autorità, è<br />

stoltissimo credere per abitudine, è assurdo prendere<br />

per buona una tesi solo perché un gran numero<br />

di persone la giudica vera».<br />

Filippo Maria Bougleux<br />

24<br />

Bruno non respinge a priori le filosofie del passato,<br />

compresa quella aristotelica, ma le sottopone a<br />

un’analisi critica serrata, assumendo come pietra di<br />

paragone la loro operatività, i buoni o i cattivi effetti<br />

che esse sono in grado di produrre dal punto di vista<br />

della verità e della civiltà, e riconosce sempre esplicitamente<br />

la pluralità delle vie di accesso alla verità. È<br />

da questa radice critica che discende la stessa scoperta<br />

bruniana della “infinità” dell’universo e dei mondi<br />

innumerabili, messa a fuoco tramite una serrata discussione<br />

dei “caratteri” e della “natura” della divinità:<br />

«Perché – si chiede Bruno – vogliamo o possiamo<br />

noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? Perché<br />

vogliamo dire che la divina bontà la quale si<br />

può comunicare alle cose infinite e si può infinitamente<br />

diffondere, voglia essere scarsa ed astringersi<br />

in niente, atteso che ogni cosa finita al riguardo de<br />

l’infinito è niente?».<br />

Nel lungo processo che occupò gli uomini d’Occidente<br />

a passare da un mondo chiuso ad un universo<br />

infinito, Bruno occupa un posto importante. Per gli<br />

antichi il mondo non poteva essere infinito poiché l’infinito<br />

era l’incompiuto, l’imperfetto, il caos; l’universo<br />

aveva dei limiti, e dunque era perfetto. Per gli uomini<br />

del Medioevo, al contrario, l’infinito era la perfezione<br />

e dunque un attributo che poteva essere riservato soltanto<br />

a Dio. Con Bruno tutto cambia nuovamente:<br />

l’universo è la totalità che basta a se stessa e racchiude<br />

Dio nella sua immanenza. L’infinito di Bruno non è<br />

laico ma è, se non ateo, fermamente anticristiano in<br />

una prospettiva naturalista, se non animista. Bruno è<br />

il primo a proporre un sistema coerente contrapponibile<br />

a quello di Aristotele, secondo il quale la terra si<br />

trovava al centro di un universo chiuso, immobile, così<br />

come immobile era il mondo siderale, al di là del quale<br />

non c’era nulla, né luogo, né vuoto. <strong>Il</strong> sistema di Aristotele,<br />

ripreso e cristianizzato da Tommaso d’Aquino,<br />

era assurto al rango di dogma della Chiesa cattolica<br />

romana. Fin dai suoi anni giovanili, Bruno si era interessato<br />

ai predecessori di Aristotele e ai neoplatonici,<br />

ma soprattutto aveva letto due autori che erano passati<br />

quasi inosservati, ma che portavano in germe una<br />

critica radicale della fisica di Aristotele: Nicolò Cusano<br />

e Copernico. <strong>Il</strong> teologo tedesco Nicolò Cusano fu<br />

il primo a rimettere in discussione la concezione aristotelica<br />

del mondo; per lui, l’universo è uno sviluppo<br />

imperfetto di Dio poiché il suo frazionamento indefinito<br />

si oppone all’unità del divino. L’universo non è, a<br />

dire il vero, infinito, ma non è neanche finito: è piuttosto<br />

“senza termine”, nel senso, cioè, che non se ne<br />

possono conoscere i limiti. Ne discende che la terra


non è più al centro, e non ci sono centri fisici nell’universo.<br />

Rimettendo in discussione, per la prima volta in<br />

Occidente, il dogma dell’universo chiuso, questo pensiero<br />

doveva fortemente influenzare Bruno e, più in<br />

là, l’astronomia moderna. Nel 1543 fu pubblicato nell’indifferenza<br />

quasi totale il trattato di un canonico<br />

polacco, Nicola Copernico, Sulle Rivoluzioni dei mondi<br />

celesti; la grande invenzione concettuale di Bruno risiede<br />

nel fatto che egli capisce che il sistema di Copernico<br />

conduce logicamente all’universo infinito. Sotto<br />

l’influenza della dottrina di Nicolò Cusano, Bruno reinterpreta<br />

il sistema di Copernico. Manda in frantumi la<br />

sfera immobile di stelle fisse che Copernico non aveva<br />

osato toccare: le stelle non sono più immobili, ma<br />

sono dei soli in numero infinito, da cui dipende un<br />

numero infinito di astri che sono distribuiti in un universo<br />

infinito. <strong>Il</strong> sistema di Copernico dà così un ordine<br />

all’infinito che Cusano aveva lasciato nell’anarchia.<br />

La critica di Bruno nei confronti dello stesso Copernico<br />

consiste dunque nel fatto che questi, più matematico<br />

che filosofo, non è riuscito a pervenire all’affermazione<br />

della infinità, pur aprendo la strada alla “scoperta”<br />

che i soli sono infiniti come sono infinite le terre, e<br />

che sia gli uni che gli altri sono fatti della stessa materia,<br />

anche se i primi risplendono “per sé”, mentre le<br />

seconde risplendono “per altro”, cioè per l’azione dei<br />

soli. Una è la materia primera del tutto, conclude<br />

infatti Bruno, dissolvendo definitivamente le fondamenta<br />

ontologiche dell’universo aristotelico. Questo è il<br />

passo che sintetizza il suo pensiero al riguardo:<br />

«È dunque l’universo uno, infinito, immobile;<br />

una è la possibilità assoluta, uno l’atto,<br />

una la forma o anima, una la materia o corpo,<br />

una la cosa, uno lo ente, uno il massimo<br />

et ottimo; il quale non deve poter essere compreso;<br />

e perciò infinibile e interminabile, e<br />

per tanto infinito e interminato e per conseguenza<br />

immobile; questo non si muove localmente,<br />

perché non ha cosa fuor di sé ove<br />

si trasporte, atteso che sia il tutto; non si<br />

genera perché non è altro essere che lui possa<br />

derivare o aspettare, atteso che abbia tutto<br />

l’essere; non si corrompe perché non è altra<br />

cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni<br />

cosa; non può sminuire o crescere, atteso che<br />

è infinito, a cui non si può aggiungere, così è<br />

da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito<br />

non ha parti proporzionabili».<br />

Una volta postulata la natura infinita dell’universo,<br />

occorre esaminare le conseguenze che tale postulato<br />

comporta in relazione alla condizione umana. Partendo<br />

dalla concezione medievale che i corpi della stessa<br />

natura si cercano e si attraggono, Bruno assegnò all’innata<br />

tensione umana verso l’infinito non un carattere<br />

religioso, nel senso tradizionale del termine, quanto<br />

una motivazione di carattere metafisico, cioè il naturale<br />

desiderio dell’uomo – che è un essere finito ma<br />

25<br />

che ha in sé una parte di natura infinita – di<br />

ricongiungersi all’infinito globale che si esprime e si<br />

manifesta nella natura. Da qui la definizione che egli<br />

dà dell’uomo come di un essere “finitamente infinito”:<br />

l’essere umano infatti è “finito” per estensione fisica e<br />

per la durata dell’esistenza ma è anche “infinito” in<br />

quanto, pur nella sua finitezza, egli ha dentro di sé una<br />

natura infinita, responsabile della sua perenne tensione<br />

verso l’illimitato. Bruno, quindi, trasferisce l’innata<br />

tensione dell’uomo verso l’infinito dalla tradizionale<br />

concezione cristiana di naturale propensione dell’anima<br />

verso Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e<br />

somiglianza, a un piano naturalistico-immanente in<br />

quanto l’uomo non ricerca l’infinito perché attratto da<br />

Dio, ma perché egli vuole ricongiungere la parte di<br />

infinito che è dentro di sé con l’infinito totale, che non<br />

è trascendente ma immanente, cioè dentro il mondo<br />

sensibile, che per Bruno è comunque dotato di anima<br />

sensitiva e intellettiva. Pertanto, Dio, che si identifica<br />

con la natura, si manifesta nel finito, e il finito si manifesta<br />

nell’infinito, essendo parte integrante del tutto;<br />

l’uomo, cioè, si manifesta in Dio.<br />

<strong>Il</strong> filosofo campano fonda questa concezione sul<br />

presupposto che se la causa dell’origine dell’universo,<br />

quindi Dio, ha una natura infinita, deve essere infinito<br />

anche l’effetto, cioè il creato. Pur partendo da<br />

presupposti qualitativi tipici dell’era pre-scientifica e<br />

non quantitativi, Bruno fornirà con la “coincidenza<br />

degli opposti”, quindi con la coincidenza tra finito e<br />

infinito, un sostrato culturale su cui si innesterà il pensiero<br />

scientifico moderno. La coincidentia oppositorum,<br />

ripresa dalla filosofia di Nicolò Cusano, in Bruno<br />

acquista un valore diverso, perché questa coincidenza<br />

non ha luogo solo in Dio, ma nella stessa natura. Così,<br />

il filosofo campano finisce per teorizzare una uguale<br />

natura “sustanziale” tra terra e cielo, tra finito e infini-


to. Una concezione, dunque, che non riserva alcuna<br />

differenza “sustanziale” tra la materia dell’universo e<br />

quella del cosiddetto mondo sublunare. Una teoria che<br />

affonda le sue radici nella filosofia presocratica, in particolare<br />

in quella di Democrito, ma che presto sarà a<br />

fondamento del moderno pensiero scientifico e quantitativo.<br />

Bruno, se non arriva proprio ad identificare<br />

Dio e natura, di sicuro fa della natura l’approssimazione<br />

maggiore a Dio, una estrinsecazione infinita dell’infinito,<br />

un effetto infinito della causa infinita. Bruno<br />

reputa che da una causa infinita non si può che avere<br />

un effetto infinito, e dunque Dio e la natura sono entrambi<br />

infiniti. La natura è animata, vibrante, è vita, è<br />

forza in cui l’uomo si immerge vivendo egli stesso nell’insieme<br />

della forza naturale. E questa infinità tuttavia<br />

è l’Uno e l’Uno è infinito. Per concludere, possiamo<br />

dire che Bruno è il primo ad elaborare una teoria cosmologica<br />

moderna fondata sull’eliocentrismo copernicano<br />

e sostenuta dall’idea che l’universo è infinito e<br />

che è il primo a dare una nuova collocazione all’uomo,<br />

posto non più in mezzo ma ai margini di un universo<br />

senza centro e senza fine, all’interno del quale la sfera<br />

celeste e il mondo terrestre sono intimamente connessi<br />

da una natura simile. Se Bruno, comunque, con la<br />

filosofia degli “eroici furori” attribuisce all’uomo e alla<br />

sua facoltà razionale ancora un ruolo predominante<br />

all’interno del cosmo, il nuovo modello cosmologico<br />

da lui elaborato sarà destinato a creare nella sensibilità<br />

dei poeti e dei filosofi successivi un senso di smarrimento<br />

e di precarietà esistenziale all’interno di un<br />

universo troppo grande.<br />

E d’altra parte se l’universo non è più chiuso e<br />

finito, prodotto totalmente distinto e distante dalla divinità,<br />

ma infinito e senza confini, esso ha troppi attributi<br />

della divinità medesima: un terribile concorrente<br />

di Dio. L’infinità dell’universo comporta che il motore<br />

di esso non è estrinseco all’universo ma intrinseco ad<br />

esso, non sta cioè fuori ma dentro l’universo medesimo.<br />

L’infinito secondo Bruno pone d’altra parte un<br />

altro problema, altrettanto acuto. Essendo l’universo<br />

un’emanazione di Dio, esso è di conseguenza l’unico<br />

mediatore tra l’uomo e la divinità. Per Bruno, la vera<br />

eucaristia è la comunione con la divinità attraverso la<br />

contemplazione dell’universo. Se in ogni molecola di<br />

natura si trova un riflesso dell’anima di Dio, il passo<br />

successivo è pensare che il Cristo non serva più a<br />

nulla, che non sia più necessaria la redenzione. Ma il<br />

punto centrale della riflessione di Bruno, a nostro giudizio,<br />

non risiede tanto nel rapporto tra Dio e la natura,<br />

né nella distinzione tra teologia per il popolino e<br />

filosofia per gli uomini dotti e saggi. Egli è il primo<br />

pensatore, in anticipo su Leopardi e Nietzsche, che<br />

pone l’uomo in una condizione di disancoraggio assoluto<br />

nell’universo. Nel momento in cui l’universo è infinito,<br />

i mondi sono infiniti, le cause infinite creano<br />

effetti infiniti, l’uomo si trova disancorato da qualsiasi<br />

riferimento specifico, determinato e afferrabile.<br />

26<br />

L’uomo si trova nell’infinito: questo in buona sostanza<br />

è l’ardimento, ai limiti dell’inconcepibilità, che<br />

rende Bruno un pensatore devastante e insuperato.<br />

Per la prima volta la solitudine dell’uomo nell’universo,<br />

la centralità senza riferimenti dell’uomo, ha<br />

una definizione tragica. L’uomo deve orientare se<br />

stesso con la sua ragione, in un mondo però che lo<br />

scavalca incommensurabilmente e dal quale egli non<br />

può prendere alcun esempio né ricevere alcun ancoraggio.<br />

Tutto intorno all’uomo è infinito, l’uomo è<br />

finito. Ma l’uomo è finito con la coscienza dell’infinito<br />

in cui è collocato. Non c’è una bussola. E la<br />

ragione stessa non è che un modo per essere coscienti<br />

dell’infinito senza stelle del nord che possano<br />

orientare l’uomo. L’uomo deve orientarsi da sé e<br />

dunque, proprio per questo, non ha orientamenti.<br />

Questa, a mio avviso, è la grandiosa scoperta di<br />

Bruno: nel momento in cui vi erano le esplorazioni<br />

geografiche che dilatavano il mondo sulla terra e le<br />

scoperte scientifiche che dilatavano il mondo sopra<br />

la terra, l’uomo perdeva ogni riferimento canonico.<br />

Ma in questo non sapere chi essere, in questa dimensione<br />

incerta, in questo confrontarsi con l’infinito,<br />

in questa perdita di bussola e di stella polare,<br />

l’uomo entrava definitivamente nella modernità. Oggi<br />

che il potere dell’uomo sulla natura inquieta l’uomo<br />

stesso, perché il suo potere di fare è enormemente<br />

superiore al suo potere di prevedere e di governare<br />

la propria storia, forse è opportuno un ritorno al pensiero<br />

di Bruno, per scorgervi non l’anticipatore degli<br />

“infiniti mondi” contro il geocentrismo del suo tempo,<br />

ma colui che, proprio in forza degli “infiniti mondi”<br />

dubita che l’uomo possa essere pensato come il centro<br />

dell’universo e quindi in diritto di disporne.<br />

Quello del nolano è dunque un pensiero radicalmente<br />

rivoluzionario: utilizzando in modi geniali anche<br />

materiali arcaici egli riesce a presentare una concezione<br />

del tutta nuova dell’universo; dell’uomo al<br />

quale, nell’infinito, è tolta ogni “centralità” di ascendenza<br />

umanistica; del processo di accesso alla verità,<br />

rappresentato da Bruno attraverso l’esperienza<br />

“apocalittica” dell’eroico furore, in cui si intrecciano<br />

in un nodo solo “intelletto” e “volontà”, “ragione”<br />

e “passione”, “anima” e “corpo”, nel fuoco di<br />

un’esperienza dì amore che è l’unica in grado di<br />

aprire la strada alla visione del Dio, dell’unità. Se<br />

può parlarsi di Giordano Bruno come di un iniziato<br />

nella accezione che tutti noi condividiamo, e crediamo<br />

che lo si possa fare a buon diritto, è questo il<br />

messaggio fondamentale che ci ha lasciato questo<br />

pensatore della libertà, questo pensatore che non<br />

ritenne di dover sottostare alla convenienza del potere<br />

cessando di manifestare le proprie concezioni:<br />

lo spirito umano può evolversi, fino a raggiungere<br />

le più alte mete, solo con la tolleranza e non con<br />

l’imposizione del dogma.


Novità librarie e recensioni<br />

Notiziario<br />

Giornali di donne in Toscana. Un catalogo, molte storie. Silvia Franchini, Monica Pacini e Simonetta Soldani. Vol. I:<br />

1770-1897; Vol. II: 1900-1945. Casa Editrice Leo S. Olschki, Collana “Biblioteca di storia moderna e contemporanea”, volume 54,<br />

Firenze 2007, cm 15x21, 2 tomi di IV-672 pp. con 32 tavole f.t. di cui 16 a colori. Prezzo € 65,00.<br />

Opera frutto di un paziente lavoro collettivo di recupero e valorizzazione delle tracce lasciate dai giornali «per donne» e «di<br />

donne» stampati in Toscana dal 1770 al 1945, dai cataloghi delle biblioteche, dai registri della censura granducale e dagli avvisi della<br />

stampa coeva. I volumi presentano un corpus di 170 schede analitiche che, corredate da una ricca bibliografia finale e da vari indici<br />

tematici, disegnano possibili percorsi di lettura «tra testi e contesti», di cui i tre ampi saggi introduttivi forniscono le coordinate<br />

di fondo. È da considerare positivamente l’intelligente e originale stesura della composizione che rende immediatamente chiaro –<br />

per il ricercatore e lo studioso – il percorso di lettura dei vari testi. Muovendo da un osservatorio regionale la ricostruzione pone<br />

al centro della documentazione l’ingresso delle donne nel mondo dei periodici offrendo il binomio “donne e scrittura pubblica”<br />

come un nodo cruciale nella ridefinizione dei rapporti tra natura, storia e cultura con famiglia, nazione e società civile. È da valutare<br />

come anche nella comunità ebraica italiana del XIX e del XX secolo, la donna si trova al centro di un dibattito sull’avvenire della<br />

famiglia, dell’educazione dei bambini e sulla continuità della tradizione di fronte alle minacce legate all’emancipazione. La dimensione<br />

femminile è rappresentativa delle difficoltà della condizione ebraica in continua evoluzione, delle ambiguità di una minoranza che<br />

ha cercato di inserirsi e di elevarsi socialmente salvaguardando al contempo la propria specificità. <strong>Il</strong> pieno inserimento degli ebrei<br />

nella società italiana non si realizza solamente con la presenza degli uomini in campo economico, culturale e politico, ma anche<br />

attraverso quella delle donne al di fuori della famiglia e della comunità. <strong>Il</strong> percorso delle donne ebree e delle donne italiane fu in<br />

parte simile. Esse hanno condiviso lo stesso destino, le stesse aspirazioni. <strong>Il</strong> libro si articola in quattro specifiche (capitoli)<br />

principali che sono indirizzate – a sua volta con varie sottospecifiche – alla valorizzazione del patrimonio conservato, risultato<br />

indispensabile ed essenziale allo sviluppo e alla conclusione della ricerca.<br />

Ia specifica: Donne e stampa periodica: un nuovo repertorio regionale di Silvia Franchini.<br />

IIa specifica: Sulle tracce dei giornali di donne in Toscana: guida alla consultazione di Monica Pacini.<br />

IIIa specifica: Suggestioni di lettura fra testi e contesti di Simonetta Soldani.<br />

IVa specifica: I Giornali. Sono inserite 170 schede analitiche in ordine cronologico iniziando – scheda numero 1 – con la<br />

descrizione del periodico “La Toelette”, pubblicato nel mese di luglio 1770, fino al dicembre 1945 – scheda numero 170 – data<br />

di pubblicazione del primo numero – uscito come supplemento della “Gazzetta del Serchio” – del periodico “La Voce del CIF”<br />

(Centro Italiano Femminile), nato nel 1944 come Associazione di donne, impegnate nella<br />

costruzione di una democrazia solidale e di una convivenza rispettosa dei diritti umani e della<br />

dignità della persona, è oggi presente in modo capillare su tutto il territorio nazionale. <strong>Il</strong> giornale<br />

era espressione della volontà della sezione lucchese di dotarsi di una pubblicazione autonoma con<br />

lo scopo di trattare le questioni della vita femminile e di rendere l’attività dell’associazione.<br />

• Bibliografia: a cura di Monica Pacini.<br />

• Collaboratori e collaboratrici: Elenco 22 docenti, studiosi e storici che hanno collaborato<br />

con gli autori completo di una sintetica biografia e il ruolo dagli stessi ricoperto nell’ambito<br />

sociale e culturale regionale e nazionale.<br />

• Indice delle testate schedate: in ordine alfabetico con indicate le pagine che rimandano<br />

alle schede con il relativo numero inserito tra parentesi.<br />

• Indice generale delle testate: dal numero 1 del luglio 1770 al numero 170 del<br />

dicembre 1945.<br />

• Indice degli stampatori ed editori: in ordine alfabetico.<br />

• Indice dei nomi menzionati nel testo: in ordine alfabetico.<br />

La redazione de “<strong>Il</strong> <strong>Laboratorio</strong>” si è ritenuta particolarmente onorata di recensire questa notevole pubblicazione ed esprime<br />

alla Casa Editrice Leo S. Olschki – oltre il proprio apprezzamento – la gratitudine per l’invito alla presentazione ufficiale del libro<br />

avvenuta il 9 ottobre <strong>2008</strong> al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Un’ultima considerazione: un libro è bello, se possiede<br />

anche una bella copertina. “Giornali di donne in Toscana. Un catalogo, molte storie” è un bel libro, veste una bella sovracopertina<br />

ed è dotato di un frontespizio con un “design” artistico e di immediata lettura.<br />

Massoneria per principianti. Lino Sacchi, Edizioni L’Età dell’Acquario, Torino <strong>2008</strong>, pagine 192, prezzo € 18,00. Molto<br />

interessante e fluido il libro “Massoneria per principianti” pubblicato recentemente dal Fratello Lino Sacchi. Sulla data di nascita<br />

della prima Gran Loggia non esistono dubbi: è il 24 giugno 1717, quando quattro Logge londinesi decidono di “federarsi”. Ma sulla<br />

storia più antica della Massoneria, sulla sua “natura” e sulle sue stesse finalità il dibattito è aperto e non esiste in pratica massone<br />

che condivida esattamente le idee di un suo “confratello”. In particolare, nella Massoneria moderna o “speculativa” è possibile<br />

riconoscere un tessuto illuministico, sempre percorso da un “filo rosso” esoterico. Queste due anime coesistono, anche se spesso<br />

non trovano reciproca legittimazione. L’anima illuministica è quella che ha promosso l’impegno della Massoneria per la<br />

modernizzazione della società e la laicizzazione delle sue strutture. Ma per la Massoneria “esoterica” costituisce una degenerazione<br />

che ha comportato il taglio di radici risalenti ad antiche religioni misteriche.<br />

La problematica convivenza di queste due anime apparentemente opposte è in realtà un ulteriore motivo di fascino dell’istituzione<br />

massonica, e questo volume vuole spiegarla nel modo più semplice, a uso del massone “apprendista” e del non-massone che si<br />

propone di bussare alla porta del “Tempio”. Vuole ugualmente spiegare la necessità di quell’ampio bagaglio simbolico e rituale che<br />

sembra in contrasto con lo spirito dei tempi moderni. Una trattazione piuttosto estesa è infatti dedicata al rito, analizzato in<br />

dettaglio e con una speciale attenzione alla sua evoluzione nel corso dei secoli. Ben più di un semplice manuale per principianti<br />

27


il libro è ricchissimo di notazioni storiche ed interpretative non sempre conosciute Utile, per gli approfondimenti, la bibliografia.<br />

Lino Sacchi, già ordinario di Geologia all’Università di Torino, ha collaborato con le principali riviste massoniche italiane: Hiram,<br />

Rivista Massonica, L’Ipotenusa, <strong>Il</strong> <strong>Laboratorio</strong>, Gradus. Ha percorso un lungo itinerario sia nel <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia sia nel<br />

Rito Scozzese Antico ed Accettato. È convinto di avere evitato quella deriva “scientista” alla quale la sua estrazione culturale<br />

poteva esporlo. (Recensione a cura del Fratello Blasco Mucci).<br />

Manifestazioni<br />

RL “Francesco Baracca” (973) all’<strong>Oriente</strong> di Grosseto. La toponomastica cittadina si è arricchita del nuovo “Largo<br />

Francesco Baracca”, dietro il Cassero mediceo, nel punto d’incontro tra viale Fossombroni e viale Porciatti. La proposta, fatta<br />

al Comune nel 2004, dalla Loggia grossetana del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia che porta il nome dell’eroico personaggio, è stata<br />

accolta e dopo l’iter procedurale, il 19 giugno <strong>2008</strong>, giorno dell’anniversario della morte di Francesco Baracca (1918), il<br />

Sindaco Emilio Bonifazi ha presenziato all’inaugurazione. Oltre al Sindaco erano presenti, a questo evento, numerosi Fratelli<br />

delle Officine della Comunione giustinianea della Toscana, il Comandante del 4° Stormo dell’Aeronautica, ufficiali del Corpo<br />

forestale e rappresentanze di varie associazioni.<br />

<strong>Il</strong> Fratello Paolo Pisani – che ha fatto da portavoce e memoria storica alla cerimonia – nel 2004 in veste allora di Maestro<br />

Venerabile della RL “Francesco Baracca” (973) all’<strong>Oriente</strong> di Grosseto, aveva presentato istanza chiedendo anche la posa di<br />

una targa a ricordo del primo quarto di secolo di fondazione della “Officina”. La Giunta comunale ha saputo comprendere la<br />

richiesta accogliendola all’unanimità per manifestare – come ha affermato testualmente il Sindaco – «un modo per testimoniare<br />

la civile e corretta presenza nella città della Libera Muratoria». Per la prima volta in città (esclusa la lapide a Mazzini, voluta<br />

dai Liberi Muratori della Valle dell’Ombrone), viene evidenziata in maniera perenne, la presenza di una Loggia massonica del<br />

<strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia. (Comunicazione del Fratello Paolo Pisani).<br />

Atti del Convegno “Lo Stato laico nella società multiconfessionale”. <strong>Il</strong> 18 settembre <strong>2008</strong>, nel Palazzo della Regione<br />

Toscana, Sala degli Affreschi, Via Cavour 4, alla presenza di Riccardo Nencini, presidente del Consiglio Regionale della<br />

Toscana, di Maurizio Boldrini, direttore della Casa editrice Protagon, di Roberto Barzanti, già vicepresidente del Parlamento<br />

Europeo, e di Stefano Bisi, presidente del Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana sono stati presentati gli Atti del<br />

Convegno in oggetto svoltosi nell’ambito di una tavola rotonda dedicata al tema della laicità Nell’occasione sono stati<br />

consegnati alla Regione Toscana alcuni libri sulla storia della Massoneria della Toscana che arricchiranno la biblioteca dell’Ente.<br />

La pubblicazione prende origine da una giornata organizzata per il XV convegno della Massoneria toscana e svoltasi alla<br />

Sapienza di Pisa il 26 gennaio scorso, i cui atti sono stati pubblicati nei quaderni del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia. A portare il<br />

saluto dell’Assemblea toscana è stato il vicepresidente Angelo Pollina (Fi-Pdl) che sottolineato come «la bussola per orientarsi<br />

nel rapporto tra Stato, Chiesa e altre confessioni credo sia ancora una volta la Carta costituzionale, lungimirante pure in questo<br />

campo». All’iniziativa – intervenendo nello svolgimento della sessione – hanno preso parte, tra gli altri, Roberto Barzanti, già<br />

vicepresidente del Parlamento europeo, Stefano Bisi, presidente del Collegio Circoscrizionale MMVV della Toscana del<br />

<strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia e Maurizio Boldrini, direttore della casa editrice Protagon.<br />

Bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzoni. Con una serie di iniziative pubbliche promosse dalla RL “Giuseppe<br />

Meoni e Giuseppe Mazzoni” (62) all’<strong>Oriente</strong> di Prato, con il patrocinio del Comune di Prato, della Provincia di Prato e della<br />

Regione Toscana a Prato, il 4 ottobre <strong>2008</strong>, è stato ricordato il “Catone toscano” (16 dicembre 1808-11 maggio 1880), già<br />

Gran Maestro del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia e Triunviro della Toscana dopo la fuga del Granduca di Toscana Leopoldo II<br />

(Canapone), il 30 gennaio 1849. <strong>Il</strong> programma si è così, di seguito, svolto per tutta la giornata:<br />

Ore 10,15: deposizione di una corona di alloro al monumento in piazza Duomo con la partecipazione della fanfara dei<br />

bersaglieri e la presenza delle autorità cittadine e istituzionali.<br />

Ore 11,00: al teatro del Convitto nazionale Cicognini – ove Mazzoni intraprese i suoi studi prima di trasferirsi nel Collegio di<br />

Santa Caterina a Pisa dove, in seguito, si laureò in Giurisprudenza – presentazione del primo volume dell’opera di Guglielmo<br />

Adilardi “Giuseppe Mazzoni: l’uomo, il massone, il politico” con intervento del professore Aldo Alessandro Mola. Nella stessa<br />

sede è stato presentato il nuovo gioiello della RL “Giuseppe Meoni-Giuseppe Mazzoni” (62) all’<strong>Oriente</strong> di Prato dell’artrista<br />

Tosca Andreini.<br />

Ore 16,30: nelle Antiche Stanze dell’ex Monastero di Santa Caterina inaugurazione della mostra – organizzata dalla Loggia<br />

pratese in collaborazione con il Comune – su Giuseppe Mazzoni con documenti, oggetti e curiosità messe a disposizione dagli<br />

eredi e dalla Biblioteca Roncioniana.<br />

Ore 17,30: nel salone consiliare del Comune si terrà un Convegno sul “Catone toscano”, come Giuseppe Mazzoni fu definito<br />

per le sue riconosciute e apprezzate doti di “assennatezza” e “probità”. Dopo il saluto e l’apertura dei lavori da parte di Giancarlo<br />

Calamai, è intervenuto il sindaco Marco Romagnoli, seguito dal presidente della Provincia Massimo Logli e di Ambra Giorgi<br />

presidente della commissione cultura della Regione Toscana. <strong>Il</strong> professore Fulvio Conti, docente di storia contemporanea all’Università<br />

di Firenze, ha svolto una relazione sull’uomo, il politico e il massone Giuseppe Mazzoni che divenne Gran Maestro del <strong>Grande</strong><br />

<strong>Oriente</strong> d’Italia il 24 aprile 1879. Dopo una prolusione di Stefano Bisi, presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della<br />

Toscana, ha concluso Gustavo Raffi, Gran Maestro del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia-Palazzo Giustiniani. (Da “Erasmo Notizie”<br />

numero 16, ottobre <strong>2008</strong>).<br />

RL “Andrea Zarra” (1326) all’<strong>Oriente</strong> di Massa Marittima. Una serata intensa, quella vissuta dagli oltre cento Fratelli<br />

presenti all’innalzamento delle Colonne di questa nuova Officina toscana. Mercoledì 8 ottobre <strong>2008</strong>, nello splendido Tempio di<br />

Ghirlanda, con la rappresenza anche di Logge dell’Emilia e della <strong>Lombardia</strong> si sono radunati Fratelli di tutte le province della<br />

Toscana. Oltre al presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana quale autorità installante, erano presenti il<br />

Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, Garanti d’Amicizia, Consiglieri dell’Ordine, Ispettori di Loggia e ben 27 Logge<br />

rappresentate da tantissimi Maestri Venerabili o loro delegati. Presenti con la loro affettuosa testimonianza i decani della Massoneria<br />

28


degli Orienti vicini. Da tempo non si assisteva in questa parte di Toscana, all’innalzamento delle Colonne di una nuova Loggia.<br />

Questa appena costituita è intitolata ad un giovane Fratello prematuramente passato all’<strong>Oriente</strong> eterno, Andrea Zarra. Un fratello<br />

che, nel suo pur breve passaggio attraverso l’Istituzione, ha lasciato una traccia indelebile negli affetti di tutti, anche attraverso i<br />

suoi scritti. Diciassette Fratelli, tra i quali sei ex Maestri Venerabili, hanno voluto tributare una testimonianza ad Andrea ed un<br />

riconoscimento alla sua famiglia che ha consentito la realizzazione di questa splendida Casa massonica impreziosita dagli affreschi<br />

del Fratello Fabrizio Piccioli. <strong>Il</strong> padre, Fratello Alessandro, è tra i fondatori della Loggia. L’Officina porta il numero 1326, segno<br />

positivo della grande vitalità dell’Istituzione. Tra gli interventi, sono stati apprezzati da molti Fratelli presenti come preziose<br />

lezioni di Massoneria, quelli del Gran Maestro Aggiunto Massimo Bianchi, del Presidente del Collegio Stefano Bisi e del Maestro<br />

Venerabile eletto Mario Pieraccioli. Profondi e partecipati gli interventi dei molti Fratelli che hanno salutato la nuova Loggia.<br />

(Comunicazione del Fratello Claudio Biondi della RL “Andrea Zarra” all’<strong>Oriente</strong> di Massa Marittima).<br />

Circolo Culturale “Arnolfo di Cambio”. Continuando il programma culturale, elaborato al momento della sua fondazione,<br />

il Circolo – concepito e generato – dalla nostra RL “Arnolfo di Cambio” (673) all’<strong>Oriente</strong> di Colle Val d’Elsa ha svolto il 9 ottobre<br />

<strong>2008</strong> una Tavola rotonda, alle quale hanno partecipato Fratelli e graditi ospiti, sul tema “La storia del calendario”. La manifestazione<br />

si è svolta alla Casa massonica di Poggibonsi e il ruolo di referendario è stato assunto dal Fratello Paolo Nardi che ha illustrato il<br />

tema dalle origini del calendario degli egizi fino ai giorni nostri. L’uditorio ha manifestato particolare interesse su aneddoti, facezie<br />

e arguzie che il Fratello Nardi ha intercalato, con particolare abilità oratoria, durante la rassegna del saggio. Molte domande sono<br />

state poste dall’uditorio, quanto mai esaurienti, alle quali l’oratore ha fornito tutte le precisazioni richieste. La redazione de “<strong>Il</strong><br />

<strong>Laboratorio</strong>” è onorata di divulgare queste culturali iniziative dei Fratelli valdelsani e auspica che queste possano essere frequentate<br />

assiduamente dai componenti la Comunione giustinianea. (Comunicazione del Fratello Franco Salvetti).<br />

Ezio Marchi, il Fratello che studiò la Chianina. Ricorre il centenario della morte di Ezio Marchi (1869-1908), il veterinario<br />

di Bettolle che per primo studiò scientificamente la razza chianina. È a buon titolo il cittadino più illustre del comune di Sinalunga<br />

e la sua figura merita attenzione anche perché seppe coniugare la passione per lo studio e l’impegno sociale derivante da una<br />

formazione filantropica, ispirata ad ideali di giustizia e uguaglianza, che traeva origine dai movimenti socialisti e libertari della<br />

Massoneria operativa dell’Italia post-unitaria. Ezio Marchi fu infatti iniziato alla Massoneria nel 1893, a soli 24 anni, nella Loggia<br />

“Francesco Guardabassi” di Perugia, una delle più antiche d’Italia, nella quale ricoprì anche l’incarico di Oratore tra il 1899 ed il<br />

1907. Insegnante all’Istituto agrario “Vegni” delle Capezzine prima e professore ordinario all’Università di Perugia poi, il suo<br />

sogno era riuscire a produrre a prezzi più bassi per permettere a tutti di poter consumare carne e latte. <strong>Il</strong> suo impegno<br />

nell’ambiente scientifico gli valse anche la presidenza dell’Unione veterinaria italiana e l’incarico di caporedattore del giornale “<strong>Il</strong><br />

moderno zooiatro”. Attento osservatore ed amante della propria terra, Marchi fu il primo a studiare con rigore scientifico la razza<br />

bovina chinina. Fin dall’epoca etrusca i grandi bovini bianchi erano allevati in Toscana ed Umbria. I bettolini gli dedicarono un<br />

Comitato e un monumento che campeggia ancor oggi in piazza Vittorio Emanuele. Al fine di onorare degnamente questo nostro<br />

Fratello e lasciare una “memoria storica” sul suo operato i Collegi Circoscrizionali dei MMVV della Toscana e dell’Umbria hanno<br />

organizzato e svolto a Sinalunga il 25 ottobre <strong>2008</strong> al Teatro Ciro Pinsuti, in pieno centro storico, un Convegno dal titolo “La<br />

coccarda ritrovata” che si è svolto secondo le seguenti descrizioni analitiche:<br />

Saluti del Sindaco di Sinalunga Maurizio Bottarelli e di Stefano Bisi, presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della<br />

Toscana; Donatella Cherubini (In Val di Chiana tra ‘800 e 900. <strong>Il</strong> ruolo di Ezio Marchi massone e socialista); Pietro Bayeli<br />

(L’utopia di Marchi: per mangiare meglio per un avvenire migliore); Riccardo Terrosi, presidente del circolo “Ezio Marchi” di<br />

Bettolle (Marchi, Bettolle e la sua gente); Fulvio Bussani, presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV dell’Umbria<br />

(Marchi, massone della Loggia “Francesco Guardabassi” all’<strong>Oriente</strong> di Perugia); Massimo Bianchi, Gran Maestro Aggiunto del<br />

<strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia (Ideali e lavoro per tradurre i sogni in realtà). Ha coordinato il giornalista Roberto Rossi.<br />

Attività delle Officine della Toscana<br />

Giardini e boschi iniziatici: la Tornata nel Bosco Isabella. Domenica 31 agosto <strong>2008</strong> si è svolta nel Bosco Isabella di<br />

Radicofani una solenne Tornata, organizzata dalla RL “XX Settembre” (604) all’<strong>Oriente</strong> di Montepulciano. <strong>Il</strong> Maestro Venerabile<br />

Giorgio Bastreghi ha aperto i lavori in una cornice quanto mai suggestiva: una radura presso la grande piramide realizzata alla fine<br />

dell’800 dal Fratello Odoardo Luchini. Presenti Fratelli intervenuti dalla Toscana, dall’Umbria e dal Lazio, nella Tavola “Ritmo e<br />

rito massonico” il Fratello Carlo Daniele Del Secco ha sottolineato come il rito unisca ai ritmi della storia quelli della natura. <strong>Il</strong><br />

presidente del Collegio Stefano Bisi ed il Gran Maestro Aggiunto Massimo Bianchi hanno quindi espresso l’apprezzamento del<br />

<strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia per questa manifestazione, condiviso dal Sindaco di Radicofani, Ingegner Massimo Magrini, che ha<br />

partecipato all’Agape Bianca nel locale Ristorante “La Torre”. Nel pomeriggio, al Teatro di Radicofani, alcuni Fratelli poliziani<br />

(Giancarlo Bastreghi, Massimo Montori e Raffaello Biagiotti) hanno illustrato in un Seminario i significati simbolici del Bosco<br />

Isabella e dei Giardini massonici in generale.<br />

26 settembre <strong>2008</strong>: Apertura dell’Anno massonico <strong>2008</strong>-2009 a Livorno. Presso la Casa massonica di Piazza dei<br />

Domenicani in Livorno, storica e antica sede della Massoneria livornese, ospitate dalla Fratellanza Artigiana si sono riunite le<br />

Logge degli Orienti di Livorno, Pisa e Rosignano Marittimo. Presenti i presidenti dei due Orienti, i rispettivi MMVV, gli Ispettori<br />

di Loggia, oltre centoventi Fratelli, il Gran Maestro Aggiunto Massimo Bianchi, il Gran Maestro Onorario Mauro Lastraioli, il<br />

Vice Presidente del Collegio Circoscrizionale della Toscana Moreno Milighetti e i Garanti d’Amicizia Alessandro Antonelli e<br />

Giovanni De Muro. <strong>Il</strong> Maestro Venerabile Gianni Cuccuini assistito dal Primo Sorvegliante, dal Secondo Sorvegliante, dall’Oratore<br />

e dal Segretario, dopo aver salutato i convenuti concede la parola al Presidente dell’<strong>Oriente</strong> di Livorno Marino Bonifazio che<br />

evidenzia come negli ultimi anni si sono sempre più intensificati gli interscambi operativi tra gli Orienti di Pisa e Livorno e tra le<br />

singole Logge degli stessi, come dimostra la numerosa affluenza a questa assemblea e prima ancora la massiccia partecipazione al<br />

Convegno organizzato dall’<strong>Oriente</strong> di Pisa tenuto il 26 gennaio <strong>2008</strong> nell’Aula Magna della Sapienza all’Università di Pisa sul<br />

tema “Lo Stato laico in una Società multiconfessionale” presenti il Magnifico Rettore, il Gran Maestro Gustavo Raffi e qualificati<br />

esponenti del Senato accademico, delle Istituzioni e della politica. <strong>Il</strong> presidente dell’<strong>Oriente</strong> di Pisa, Marco Redini, auspica che<br />

questa attività congiunta dei due Orienti trovi continuità futura, sviluppando comuni iniziative culturali e su temi di attualità<br />

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capaci di un forte richiamo non solo verso i Fratelli, ma anche verso la pubblica opinione ed il mondo profano, onde sempre meglio<br />

far conoscere le finalità della nostra Istituzione con la totale trasparenza del proprio agire. Conclude – dopo l’intervento del Gran<br />

Maestro Onorario Mauro Lastraioli – il Gran Maestro Aggiunto Massimo Bianchi, che sintetizza le turbative che hanno tormentato<br />

l’<strong>Oriente</strong> di Livorno a datare dal 3 aprile <strong>2008</strong> che si suppone orchestrate da manovratori non tanto oscuri e che hanno trovato<br />

disponibile spazio nell’ultimo nato tra i quotidiani cittadini che ha rispolverato il binomio affari-Massoneria, abbinando falsamente<br />

l’intera Comunione massonica livornese ad indagini in corso da parte dell’Autorità giudiziaria. <strong>Il</strong> Gran Maestro Aggiunto ha voluto<br />

poi ribadire come la sempre più numerosa adesione ai valori ed ai principi della Libera Muratoria da parte dei giovani al di sotto<br />

dei quarant’anni dimostri come l’Istituzione sia considerata approdo sicuro per tutti coloro che desiderano trovare sbocco<br />

partecipativo al proprio anelito di potenziamento morale e spirituale, tanto che l’età media nell’intera Istituzione nell’ultimo<br />

decennio si è notevolmente abbassata, attestandosi attorno ai 52 anni. (Comunicazione del Fratello Michele Borghi).<br />

100 anni della RL “Gagliarda Maremma” (396) all’<strong>Oriente</strong> di Piombino. Domenica 5 ottobre, alle ore 9.30, a Piombino<br />

nella Galleria Mezzacapo in Via Leonardo da Vinci, si è tenuta la Tornata rituale per la celebrazione del centenario dalla fondazione<br />

della Loggia. Presenti alla manifestazione il Venerabilissimo Gran Maestro Gustavo Raffi, il Gran Maestro Aggiunto Massimo<br />

Bianchi, il Gran Maestro Onorario Mauro Lastraioli e il presidente del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana<br />

Stefano Bisi.<br />

Giornata garibaldina a Sansepolcro. Sabato 11 ottobre <strong>2008</strong>, a Sansepolcro, si è svolta una manifestazione massonica<br />

senza precedenti per la comunità cittadina. Un pomeriggio tutto garibaldino che ha visto l’inaugurazione di un monumento al mito<br />

del nostro Risorgimento seguita da un convegno – il tredicesimo dal 1996 – dedicato a Giuseppe Garibaldi “tra memoria storica,<br />

pensiero e attualità”. La Loggia “Alberto Mario” lo scorso anno, in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi,<br />

celebrò la ricorrenza con un incontro pubblico dedicato alla presenza garibaldina nel territorio altotiberino, agli eventi occorsi e ad<br />

alle molte ricadute socio-politiche che ne sono conseguite. Nell’occasione si prese l’impegno di porre una memoria stabile con un<br />

monumento da donare alla cittadinanza biturgense; più che celebrativa, l’iniziativa voleva essere una testimonianza simbolica dei<br />

valori etici e sociali che si sono prima delineati e poi imposti nel Risorgimento grazie anche a quella entusiastica e capillare azione<br />

sociale messa in atto dai garibaldini. L’opera è stata realizzata da Franco Alessandrini, pittore e scultore di fama internazionale<br />

nonché Fratello attivo della Loggia, con il contributo “operativo” di Paolo Mercati, Vittorio Alessandrini e Gianfranco Giorni.<br />

L’esecuzione dell’opera ha richiesto una lunga fase di progettazione e messa a punto; oltre agli aspetti tecnici, si è dovuto infatti<br />

tener conto dei vincoli architettonici derivanti dalla collocazione del busto sulla facciata di un edificio storico quale il Palazzo<br />

Pretorio biturgense. Per tale motivo si sono dovute adottare speciali cure, di natura sia estetica sia funzionale, nella definizione di<br />

ogni elemento del monumento.<br />

L’inaugurazione si è svolta alla presenza del sindaco di Sansepolcro Franco Polcri, del Sindaco di Lendinara Alessandro Ferlin,<br />

del Presidente del Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana Stefano Bisi, del Maestro Venerabile della Loggia Alberto Mario<br />

Francesco Simonetti e dal Presidente della sezione aretina dell’Associazione Reduci Garibaldini Gastone Mengozzi. La locale<br />

“Filarmonica dei Perseveranti”, diretta dal maestro Roberto Tofi, ha sottolineato con toccanti interventi musicali tutte le fasi<br />

salienti della cerimonia. Notevole anche la partecipazione di pubblico, tra cui una folta rappresentanza di cittadini di Lendinara –<br />

città natale di Alberto Mario – che si è unita al proprio Sindaco per l’occasione. La “giornata garibaldina” è poi proseguita nella<br />

sala Consiliare del Comune di Sansepolcro dove ha avuto luogo il Convegno. In apertura, il Sindaco di Sansepolcro ha conferito alla<br />

Loggia la Medaglia del Comune, massimo riconoscimento che l’Amministrazione concede a persone e ad associazioni per alti<br />

meriti istituzionali o per particolare distinzione in attività svolte a beneficio della comunità locale. Dopo l’introduzione del<br />

Maestro Venerabile, si sono susseguiti gli interventi dei relatori che hanno affrontato le tematiche specifiche in programma. Ivo<br />

Biagianti, docente di storia contemporanea presso l’Università di Siena, ha trattato con puntualità e brillantezza il vasto tema delle<br />

presenze garibaldine e della associazioni democratiche in Valtiberina; Olinto Dini, con la consueta passione che traina ogni suo<br />

intervento, ha presentato la figura di Garibaldi nella prospettiva del patriota, del massone e del socialista umanitario; Luigi<br />

Armandi, sociologo con particolari interessi al periodo risorgimentale, ha infine presentato una sintesi della sua vasta ed approfondita<br />

ricerca sulle ricadute sociali che si sono determinate nel nome e per l’azione di Garibaldi.<br />

Gli interventi hanno messo in luce la figura dell’uomo evitando ogni mitizzazione; l’azione concreta, la trasformazione di valori<br />

condivisi in azioni sociali, le iniziative sorte in suo nome e l’aspetto, a nostro avviso, forse più rilevante: Garibaldi era “uomo di<br />

guerra ma non guerrafondaio”, come ha ricordato il professore Ivo Biagianti. <strong>Ott</strong>enuta la vittoria militare, si doveva subito lavorare<br />

per costruire la pace e per organizzare una comunità sociale ideologicamente giusta nel nome della libertà, dell’uguaglianza e della<br />

fraternità, ma anche affrancata dalla miseria materiale, che a noi piace riassumere nel trinomio, meno noto ma ugualmente potente:<br />

tolleranza, unione, prosperità. (Comunicazione del Fratello Francesco Simonetti)<br />

Comunicazioni da parte del Collegio Circoscrizionale dei MMVV della Toscana<br />

Le notizie relative agli avvenimenti in Toscana, agli avvenimenti nazionali e quanto non è pertinente a una “memoria<br />

storica” – che è opportuno inserire in un archivio perenne – sono introdotte nel sito: collegiotoscano@ucom.it alle varie<br />

rubriche. I Fratelli possono accedere alla struttura richiedendo “password” e “username” all'indirizzo sovraspecificato.<br />

Opus Minimum – Mikpa Mikpa Mikpothe Mikpothe: Mikpothe Mikpothe una piccola, bella rivista massonica. È nata questa nuova rivista massonica,<br />

piccola nel formato ma assai interessante nel contenuto, edita dal Fratello Paolo Marino della RL “Figli del Vesuvio” (237)<br />

all’<strong>Oriente</strong> di Torre Annunziata. L’iniziativa editoriale non si propone scopi di lucro, la rivista non possiede infatti alcuna<br />

disponibilità di fondi, né palesi né occulti, all’infuori di quelli realizzati con gli abbonamenti, che costano 15 Euro per un anno<br />

solare che comprende i 4 fascicoli di Marzo, Giugno, Settembre e Dicembre. Ha bensì lo scopo di diffondere, in Italia e<br />

all’estero, messaggi rigenerativi delle energie umane. Per informazioni o abbonamenti scrivere a Paolo Marino a<br />

lab.ermetico.filosofico@gmail.com.<br />

Antonio Cocchi, primo massone italiano. Ricorrono quest’anno i 250 anni dalla morte di Antonio Cocchi (1685-1758),<br />

medico, naturalista, filosofo, antiquario granducale, personalità straordinaria della storia della medicina e della cultura<br />

settecentesca, grande scienziato e prolifico autore. Per celebrare questo avvenimento, si è svolto nei giorni 10 e 11 ottobre a<br />

Borgo San Lorenzo (Firenze) un Convegno dedicato alla sua poliedrica attività: sotto l’egida della Società Italiana di Storia<br />

della Medicina e del Comune di Borgo San Lorenzo, con il patrocinio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Firenze e della<br />

Presidenza del Consiglio Regionale della Toscana. <strong>Il</strong> Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana, in accordo con il <strong>Grande</strong><br />

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<strong>Oriente</strong> d’Italia, si è fatto carico di trasferire su supporto digitale i manoscritti di Antonio Cocchi. in possesso della Facoltà<br />

di Medicina dell’Università di Firenze, al fine di salvaguardare questo patrimonio dell’umanità, soggetto a continui rischi di<br />

deterioramento per le frequenti consultazioni da parte di studiosi di tutto il mondo. Questo eccezionale lavoro, evento<br />

portante del Convegno, è stato presentato da Riccardo Viligiardi, Oratore del Collegio Circoscrizionale MMVV della Toscana<br />

e promotore dell’iniziativa. (Comunicazione del Fratello Carlo Luigi Ciapetti).<br />

Ordine delle Stelle d’<strong>Oriente</strong> (OAS).<br />

Capitolo Fiorenza 13 di Fiesole. <strong>Il</strong> 27 settembre <strong>2008</strong> alle ore 16, alla Casa massonica, Borgo Albizi 18, organizzata dal<br />

Capitolo di Fiesole, si è svolta la conferenza della professoressa Anna Maria Isastia, docente di Storia contemporanea<br />

all’Università La Sapienza di Roma, su “La difficile conquista del voto alle donne in Italia”. Aperta a Sorelle, Fratelli e amici<br />

i presenti hanno vissuto una indimenticabile serata avvinti dalla inimitabile eloquenza di Anna Maria e dall’interessante<br />

argomento svolto, che ha rievocato tutto il lungo cammino storico che le donne hanno percorso nei secoli per la loro<br />

emancipazione. Adeguati interventi sono stati svolti da molti ospiti.<br />

Commemorazioni<br />

Franco Cuomo, a un anno dalla sua scomparsa. <strong>Il</strong> 23 luglio dello scorso anno passò all’<strong>Oriente</strong> Eterno il Fratello<br />

Franco Cuomo che ricordiamo per la sua mitezza d’animo, per il suo amore per la cultura, per la sua schiva umiltà a fronte di<br />

un’imponente produzione letteraria e teatrale. <strong>Il</strong> 2 agosto <strong>2008</strong>, a Sabaudia, Cosimo Cinieri ha letto alcuni stralci dell’ultimo<br />

suo dramma “Tempo Scaduto” e alcune sue poesie inedite. Scrittore di molti saggi e libri due volte finalista al premio Strega,<br />

fu anche autore di un vasto repertorio teatrale e traduttore di numerosi classici; come giornalista collaborò a quotidiani e<br />

periodici, fu inviato speciale, critico e caporedattore dei servizi culturali; condirettore delle riviste “Fiera” e “Achab”, scrisse<br />

anche testi monografici per le riviste “Medioevo” e “Ulisse 2000”; ospite di telegiornali e di altre trasmissioni, prese parte a<br />

programmi quali “Stargate”, “Voyager”, “uno mattina”, “Maurizio Costanzo show”, “Top secret” e “Speciale storia TG1”.<br />

L’ultimo romanzo fu “Anime perdute. Notturno veneziano con messa nera e fantasmi d’amore” e l’ultimo saggio fu “I dieci”,<br />

uno studio sugli scienziati italiani che firmarono nel 1938 il “Manifesto della razza”. A settembre è uscito “<strong>Il</strong> tradimento del<br />

templare”, anche questo edito da Baldini e Castaldi.<br />

Ricordando Enrico Fermi. <strong>Il</strong> 29 settembre 1901 nasce a Roma Enrico Fermi. Laureatosi nel 1922 alla Scuola Normale di<br />

Pisa, in possesso di una conoscenza linguistica non comune (oltre al latino e il greco, conosce infatti l’inglese, il francese ed<br />

il tedesco), dopo poco parte alla volta di Göttingen, alla scuola di Max Born, per migliorare le conoscenze di fisica quantistica.<br />

Nel 1923 viene iniziato massone nella Loggia Lemmi di Roma, allora all’Obbedienza di Piazza del Gesù. Nel 1925 si sposta<br />

a Leida, in Olanda, ove ha modo di incontrare Albert Einstein, anche lui massone e Premio Nobel per la Fisica nel 1921. A<br />

Roma ottiene per primo la cattedra di Fisica teorica, entrando a far parte del gruppo di studio ribattezzato in seguito “i ragazzi<br />

di Via Panisperna”. Tra il 1935 e il 1937 il gruppo si separa di nuovo per diverse assegnazioni di cattedre, a Roma rimangono<br />

solo Fermi e Amaldi. Nel 1938 ad Enrico Fermi viene conferito il premio Nobel, ma questa è l’unica nota felice dell’anno.<br />

Majorana scompare infatti in circostanze più o meno misteriose e a causa delle leggi razziali emanate dal regime fascista, è<br />

costretto ad emigrare visto che sua moglie Laura è ebrea ed accetta la cattedra alla Columbia University, iniziando a concentrarsi<br />

sulla fissione nucleare. Dopo la guerra si dedica allo studio delle particelle elementari e degli acceleratori di particelle. Un male<br />

incurabile lo portò alla morte il 29 novembre dello stesso anno a Chicago, negli Stati Uniti. (Memoria su Fermi di Nicola<br />

Cultrera della RL De Molay 1605 di Roma).<br />

In memoria di Lino Salvini. Ricordiamo a venti anni dalla sua scomparsa il carissimo e indimenticabile Fratello. Era il<br />

2 ottobre del 1982 quando l’ex Gran Maestro del <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia Palazzo-Giustiniani transitava all’<strong>Oriente</strong> Eterno.<br />

Medico, fiorentino di fede repubblicana, Lino Salvini fu iniziato nel 1952 nella RL “Concordia” (110) all’<strong>Oriente</strong> di Firenze.<br />

Durante la sua Gran Maestranza, sviluppatasi dal 1970 per otto anni, il <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia ottenne il riconoscimento<br />

della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (1972). Oggi opera all’<strong>Oriente</strong> di Firenze un’Officina che porta il suo nome, la RL “Lino<br />

Salvini” (1125), che vide la sua costituzione quale gemmazione di gran parte di Fratelli della RL “Giordano Bruno (679)<br />

all’<strong>Oriente</strong> di Firenze.<br />

Pensieri e riflessioni<br />

Pensieri di Albert Einstein (Ulma 1879 – Princeton 1955). • Tutto è determinato da forze sulle quali non abbiamo<br />

alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di<br />

una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile. • Lo scienziato è permeato dal senso della causalità<br />

universale. La sua religiosità consiste in un estasiato stupore davanti all’armonia delle leggi della natura, armonia che gli<br />

rivela un’intelligenza così superiore che, al suo confronto, il pensiero sistematico e le imprese umane non sono che miseri<br />

riflessi. Non c’è dubbio che sia un sentimento molto vicino a quello provato dagli spiriti religiosi di ogni tempo. • Fra gli<br />

scienziati dalla mente più profonda, difficilmente ne troverete uno che sia privo di una sua religiosità, diversa però da quella<br />

dell’uomo semplice: per quest’ultimo, Dio è un essere da cui spera protezione e di cui teme il castigo e per il quale prova<br />

un sentimento simile a quello che il figlio prova per il padre. • La mia religione consiste in una umile ammirazione dello<br />

spirito superiore e infinito il quale si rivela nei dettagli minuti che riusciamo a percepire con le nostre menti fragili e deboli.<br />

Ecco la mia idea di Dio, la convinzione profondamente emotiva della presenza di una razionalità suprema che si rivela<br />

nell’universo incomprensibile. • Io credo nel Dio di Spinoza che rivela la sua esistenza nell’armonia ordinata dell’esistente.<br />

• Ogni persona seriamente risoluta nella ricerca della scienza diventa convinta che nelle leggi dell’Universo si manifesta uno<br />

spirito, uno spirito di gran lunga superiore a quello dell’uomo, e uno di fronte al quale noi, con i nostri modesti poteri,<br />

dobbiamo sentirci umili. • Quando la soluzione è semplice, Dio sta rispondendo. • Dio non gioca a dadi con l’universo. Dio<br />

è acuto ma non malizioso. • L’autentica religione è il vero vivente; vivente tutt’uno con l’anima, tutt’uno con la bontà e la<br />

rettitudine. • Due cose mi ispirano soggezione: i cieli stellati sopra e l’universo morale dentro. • L’autentica religione è il<br />

vero vivente; vivente tutt’uno con l’anima, tutt’uno con la bontà e la rettitudine. • Due cose mi ispirano soggezione: i cieli<br />

stellati sopra e l’universo morale dentro. • Più l’uomo avanza nella sua evoluzione spirituale, più mi appare certo che il<br />

sentiero verso una religiosità genuina non passa per la paura della vita e la paura della morte, o per una fede cieca, ma<br />

attraverso gli sforzi compiuti in direzione di una conoscenza razionale. Ogni persona seriamente risoluta nella ricerca della<br />

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scienza diventa convinta che nelle leggi dell’Universo si manifesta uno spirito, uno spirito di gran lunga superiore a quello<br />

dell’uomo, e uno di fronte al quale noi, con i nostri modesti poteri, dobbiamo sentirci umili. • Quando la soluzione è<br />

semplice, Dio sta rispondendo. • Dio non gioca a dadi con l’universo. Dio è acuto ma non malizioso. • L’autentica religione<br />

è il vero vivente; vivente tutt’uno con l’anima, tutt’uno con la bontà e la rettitudine.<br />

Necrologi<br />

Luigi Castellani: 4 aprile 1935-4 settembre <strong>2008</strong>. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino<br />

al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso<br />

e agli altri come in un giudizio finale.<br />

Queste le profonde riflessioni di Salvatore Satta ne “<strong>Il</strong> giorno del giudizio”. Luigi Castellani nel suo passaggio su questa<br />

terra ha lasciato un’orma indelebile per la molteplicità degli interessi che lo hanno appassionato fin da giovane. Dai suoi occhi<br />

attenti eppur sognanti traspariva quell’ardente fuoco interiore che doveva in età emancipata condurlo ad abbracciare gli ideali<br />

della Luce massonica nella Rispettabile Loggia “Fidelitas” (891) all’<strong>Oriente</strong> di Firenze. La sua vivida intelligenza, la memoria<br />

prodigiosa, la curiosità tipica dell’intellettuale di razza si rivelarono ben presto in Luigi, brillante e pugnace imprenditore, vero<br />

pioniere della ricostruzione, da lui avvertita soprattutto come complesso di norme poste a presidio della dignità e della libertà<br />

dell’uomo. La sua operosità e stata costellata da una serie crescente di affermazioni e riconoscimenti. Ma l’eclettismo della sua<br />

personalità doveva portarlo ad integrare la sfera delle conoscenze nel campo dapprima della storia. poi della sociologia, quindi<br />

della politica. Fondatore della RL “Fidelitas” dopo avervi ricoperto tutte le dignità previste dalla nostra Costituzione –<br />

compiuto il 40esimo anno di appartenenza al <strong>Grande</strong> <strong>Oriente</strong> d’Italia – Luigi muore, secondo i nostri rituali, alla vita profana<br />

per rinascere nella Luce massonica. Ammirato ricordo serbano, ancor oggi, i numerosi Fratelli e profani partecipanti alla<br />

Tornata commemorativa, col rito funebre tradizionale, di sabato 18 ottobre <strong>2008</strong>.<br />

A se stesso impose non avvilirsi mai, non avvilire alcuno. Alla Patria, che già sentì duplice, quella italiana, sopraffatta dagli<br />

egoismi, quella europea o euro-atlantica, in quel tempo disegnantesi a fatica, ma da lui ardentemente vagheggiata come convinto<br />

cittadino europeo e del mondo, dedicò l’impegno alla conoscenza. Verso l’umanità, oggetto del suo spirito universalistico, egli<br />

intese spingere il proprio pensiero fin dove sa e può, riconoscendo l’umanità nella irripetibilità dei volti e dei sentimenti<br />

d’uomini e donne singoli, servendola sul terreno dei valori. Fu uomo sensibile alle esperienze universali e intramontabili<br />

dell’uguaglianza nella diversità e della fratellanza nella molteplicità di storie. tradizioni, civiltà, ma soprattutto della libertà nel<br />

rispetto dei doveri prima che nell’affermazione dei diritti. Nonostante i molteplici assillanti impegni della vita profana, Luigi,<br />

coerente col proprio profondo senso del dovere, ogni qualvolta lo abbia potuto, ha rispettato quello della frequenza ai lavori<br />

di Loggia ai quali giunse, non di rado, trafelato ed esausto, ma sempre in tempo per deliziare i Fratelli con dotte disquisizioni<br />

esoteriche o con la narrazione delle infinite iniziative da lui proposte o attuate a difesa dei diritti umani.<br />

Uomo giusto, schivo delle pompe terrene, è adesso e per sempre nella Luce dell’<strong>Oriente</strong> Eterno insieme al fratello Mauro<br />

ed a tutti gli scomparsi Fratelli di Loggia e del mondo che ora conoscono, come lui, la verità. Siamone degni, continuiamone con<br />

pari fede ed abnegazione la sua crociata contro l’intolleranza l’oppressione, la violenza, la discriminazione e l’odio, perché<br />

trionfino la fratellanza, l’uguaglianza, la giustizia e la libertà, in un mondo finalmente pacificato dall’amore. (Testimonianza<br />

dela RL “Quatuor Coronati-Emulation” (931) all’<strong>Oriente</strong> di Firenze).<br />

Renzo Lebrun. È con profonda tristezza che i Fratelli della RL “Fiorenza” (1141) all’<strong>Oriente</strong> di Firenze partecipano il<br />

passaggio all’<strong>Oriente</strong> Eterno del carissimo Fratello Renzo Lebrun. Nato a Firenze il 14 aprile 1933, laureato in Ingegneria con<br />

specializzazione in Scienze Industriali all’Università tedesca di Friburgo ed in Bioingegneria all’Università inglese “Alder<br />

Maston”, pioniere dell’elettrocardiografia, per oltre vent’anni ha operato presso l’Ufficio Ricerche delle Officine Galileo,<br />

dell’Ote Montedel e dell’Ote Biomedica per poi passare alla Direzione Tecnica e Commerciale di società del settore Biomedico<br />

e Cardiomedico Elettronico. È stato fondatore della Società Italiana di Stimolazione Cardiaca, Membro Associato<br />

dell’Associazione Italiana di Cardiostimolazione, nonché Membro del GIA (Gruppo Italiano Aritmie) e del GIEC (Gruppo<br />

Italiano Emergenze Cardiologiche). Nel 1980 ha operato come ricercatore del CNR con un gruppo di lavoro per la terapia del<br />

dolore. Renzo Lebrun fu iniziato nella RL “Avvenire” (666) all’<strong>Oriente</strong> di Firenze il 15 dicembre 1971 e nell’Istituzione ha<br />

ricoperto le cariche di Dignitario e di Ufficiale dal 1973 al 1980. Eletto Maestro Venerabile dal 1980 al 1983, è stato<br />

Presidente del Consiglio dei MMVV dell’<strong>Oriente</strong> di Firenze. Dal 1992 Membro Onorario della RL “Ormus” (1090) all’<strong>Oriente</strong><br />

di Siena. Insignito dell’Ordine di Giordano Bruno nel marzo del 1996. Rappresentante della Gran Loggia dello Stato di Amapà<br />

(Brasile) presso il GOI dal 2003 al 2004. Architetto Revisore dal 2004 e consulente del “Comitato del Malato”. Fratello<br />

fondatore della RL “Fiorenza” (1141) che innalzò le Colonne il 25 Febbraio 1995. Fondatore nel 1992 con il Fratello Rolando<br />

Senatori di “Gradus”, rivista delle Valli Toscane del Rito Scozzese, e membro del Comitato di Redazione<br />

Iscritto al RSAA (Rito Scozzese Antico e Accettato) dal 1975 ed elevato al 33° grado nel 1986, ha ricoperto le cariche di<br />

Dignitario e di Ufficiale nelle Camere di 4°, 9°, 18° e 30° nonché nelle sezioni Regionali del 31° e del 33°. Presidente della<br />

Loggia di Perfezione dei Cavalieri Eletti del 9° dal 1987 al 1989, ritrovò nell’Archivio di Stato di Firenze la Bolla di<br />

Fondazione della Camera datata 1897 e firmata dalla Sovrano Gran Commendatore Adriano Lemmi, unica Bolla del Rito nello<br />

Zenith di Firenze. Presidente della Sezione Toscana del Sovrano Tribunale Nazionale dal 1990 al 1992. Ispettore Provinciale<br />

per Arezzo nel 1992 e 1993. Membro Aggiunto del Supremo Consiglio dal 1992, sempre riconfermato fino al 2003. Secondo<br />

<strong>Grande</strong> Ispettore del Sovrano Tribunale Nazionale del 31° dal 1995 al 1998, riconfermato fino al 2001. <strong>Grande</strong> Dignitario della<br />

Commissione Centrale del Sovrano Tribunale Nazionale dal 1992 al 2001. Primo <strong>Grande</strong> Ispettore del Sovrano Tribunale<br />

Nazionale del 31° dal 1995 al 1998, riconfermato fino al 2001. Ispettore Provinciale di Firenze dal 1996 al 2002. La redazione<br />

de “<strong>Il</strong> <strong>Laboratorio</strong>” che ebbe nel Fratello Renzo un valido collaboratore, serba memoria del suo lungo cammino sui sentieri<br />

della vita che si è concluso con quelle abituali, profonde ed intelligenti osservazioni che lo distinguevano. Anche se il suo<br />

spirito rimarrà sempre in mezzo a noi, ci mancheranno, senza dubbio, i suoi interventi, le sue osservazioni sempre pregne di<br />

saggezza, cultura e sapienza massonica oltre l’impegno, la dedizione alla causa della democrazia e della libertà, la rettitudine<br />

del pensiero, dell’agire e la capacità di essere, davvero, amico.<br />

Mezzanotte in punto<br />

Musica: Voglio sentir musica / non so che cosa ho voglia / di sentire / non so che cosa fare / non so che cosa non fare / aspetto<br />

e resto immobile / e brucio la mia vita. Ode di Tersicore Polimnia (Isabella Bonati), inserita a pagina 51 nella raccolta “Nugae”<br />

della poetessa, pubblicata da “Gattogrigioeditore”, Collezione “I Sampietrini”, Parma <strong>2008</strong>.<br />

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