14.06.2013 Views

I Classici che hanno fatto l Italia.pdf - Libreria Antiquaria Alberto Govi

I Classici che hanno fatto l Italia.pdf - Libreria Antiquaria Alberto Govi

I Classici che hanno fatto l Italia.pdf - Libreria Antiquaria Alberto Govi

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

In questo intervento, pur prendendo le mosse da una mia opera di recente pubblicazione intitolata I<br />

classici <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong>. Per un nuovo canone bio-bibliografico degli autori italiani<br />

(Modena, Regnani, 2010), prima di entrare nel merito specifico delle scelte bibliografi<strong>che</strong> da me<br />

operate, vorrei partire dalla genesi del libro per mettere in evidenza alcuni aspetti della professione<br />

del libraio antiquario, ponendoli poi in relazione con il tema, di maggior respiro, del canone (o<br />

anticanone) bibliografico.<br />

Il canone bibliografico e il mercato librario<br />

Innanzitutto due premesse fondamentali. In primo luogo, occorre specificare <strong>che</strong> I <strong>Classici</strong> <strong>che</strong><br />

<strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong> sono nati dal confronto con un testo curato da J. Carter e P.H. Muir, il celebre<br />

Printing and the Mind of Man (London, 1967), in cui sono descritte più di quattrocento opere a<br />

stampa <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> segnato la storia dell’uomo in tutti i principali campi del sapere. In quanto tali, i<br />

<strong>Classici</strong> si propongono, a prima vista, come una sorta di biblioteca ideale di soli autori italiani (per<br />

nascita o di adozione), <strong>che</strong> ambisce ad illustrare la storia della nostra cultura, dal Duecento ad oggi,<br />

attraverso una selezione di opere e di edizioni.<br />

Il libro scaturisce quindi, per la formazione del suo autore e per la sua genesi (istruire un<br />

collezionista neofita), dal mondo del commercio librario (può essere infatti “usato” an<strong>che</strong> come una<br />

sorta di vademecum per il bibliofilo o di introduzione al collezionismo del libro italiano a stampa) e<br />

da esso, in un certo senso, deriva l’aspirazione all’universalità dei saperi e l’attenzione agli aspetti<br />

materiali del libro e alle spesso intricate vicende editoriali <strong>che</strong> si celano dietro la pubblicazione di<br />

molti classici.<br />

Seconda premessa. Rispetto al milieu intellettuale <strong>che</strong> ha prodotto il Printing and the Mind<br />

of Man negli anni Sessanta, l’idea di canone universale ha subito un mutamento radicale. I<br />

movimenti studenteschi, lo sviluppo della cultura di massa, il progressivo abbassamento del livello<br />

di istruzione e la crisi della cultura umanistica fondata sul culto dello studio degli autori del passato<br />

(il tutto amplificato dall’anarchia dei nuovi strumenti mediatici) <strong>hanno</strong> portato ad un vero e proprio<br />

sgretolamento dell’idea di canone, inducendo a credere <strong>che</strong> l’insegnamento dei grandi modelli del<br />

passato sia ormai superato e <strong>che</strong> ciascuno abbia il diritto di dire la propria opinione su qualsiasi<br />

argomento, indipendentemente dalla propria formazione e, per di più, senza neppure documentarsi.<br />

Certo negli ultimi anni il mondo ha subito una vera e propria seconda rivoluzione<br />

copernicana, nuove “Ameri<strong>che</strong>” sono state scoperte nell’ambito delle comunicazioni e dei media. Il<br />

mondo chiuso degli ultimi secoli, con il suo concetto di autorità ed imitazione, è definitivamente


tramontato, rendendo obsoleto, se non vanaglorioso, ogni tentativo di ripristinare un canone, seppur<br />

notevolmente allargato.<br />

Qualsiasi canone sia oggi proposto viene dunque interpretato come un anticanone, ossia<br />

solamente come una proposta di canone, suscettibile di allargamenti, modifi<strong>che</strong> e nuove aggiunte; o,<br />

meglio ancora, come un catalogo cumulativo, aperto alle proposte della grande rete globale.<br />

A questa impostazione non sfuggono neppure i <strong>Classici</strong> <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong> con la loro<br />

proposta di 400 opere selezionate con criteri rigorosi e coerenti, le quali tuttavia avrebbero potuto<br />

an<strong>che</strong> essere 389 o 551 senza <strong>che</strong> lo spirito dell’opera ne uscisse inficiato. Che anticanone sia,<br />

allora! Ma un punto di partenza si rende pur sempre necessario; una delimitazione del cammino <strong>che</strong><br />

permetta di orientarsi nel mare magnum della rete e <strong>che</strong> supplisca alla sparizione di quella <strong>che</strong> fino<br />

a tempi relativamente recenti si soleva chiamare “cultura generale”.<br />

Chiunque si avvicini al mercato del libro antico, ancorché abbia alle spalle una solida formazione<br />

universitaria, si trova subito di fronte a due grandi ostacoli. In primo luogo, stenta a capire il valore<br />

commerciale dei libri e a cogliere quali siano gli elementi <strong>che</strong>, sommati, contribuiscono a definirlo.<br />

Non è qui ovviamente la sede per tracciare una storia del commercio del libro manoscritto e del<br />

libro a stampa (su cui recentemente si è diretta l’attenzione di molti studiosi) né per soffermarsi sui<br />

grandi bibliofili del passato (per i quali si rimanda alla sempre fondamentale opera in tre volumi di<br />

G.A.E. Bogeng, Die grossen Bibliophilen, Leizig, 1922). Basti osservare <strong>che</strong> il libro a stampa<br />

(lasciamo da parte in questa sede ogni riferimento al mercato del libro nel mondo antico e in età<br />

medievale) è ed è sempre stato un bene commerciale. Già a partire dal Quattrocento le neonate<br />

officine tipografi<strong>che</strong> costituiscono delle vere e proprie imprese commerciali, i cui direttori, i<br />

tipografi, cercano di interpretare le esigenze del mercato e decidono di conseguenza i testi da<br />

stampare e le tirature. Il collezionismo librario, più limitato socialmente prima dell’invenzione della<br />

stampa a causa dell’alto costo dei codici manoscritti, si allarga velocemente a larghi strati della<br />

popolazione man mano <strong>che</strong> i costi di produzione del libro si vanno sempre più abbassando.<br />

Rinnovate esigenze di scrupolo filologico spingono i tipografi più colti a servirsi di collaboratori<br />

editoriali altamente qualificati, in questo furbescamente imitati da colleghi più intraprendenti <strong>che</strong> si<br />

contendono i lettori a colpi di millantate novità. Parallelamente si sviluppa an<strong>che</strong> la bibliofilia e,<br />

con essa, la ricerca delle edizioni più rare del passato. Già nel Seicento sono attestate aste pubbli<strong>che</strong><br />

di incunaboli.<br />

In secondo luogo, il nostro neofita rimane spiazzato e sorpreso dalla vastità dei libri <strong>che</strong><br />

sono stati prodotti: migliaia di titoli e di autori, talvolta di estremo interesse, <strong>che</strong> egli non ha mai<br />

neppur sentito nominare e fatica a trovare nei consueti repertori. Egli stenta dunque ad orientarsi,


persino nell’ambito di opere molto celebri <strong>che</strong> conosce dai tempi della scuola, ma delle quali ignora<br />

le vicende editoriali. Quell’Ariosto del 1556 <strong>che</strong> millanta di basarsi sul manoscritto originale<br />

dell’autore, è veramente un’edizione autorevole? Inoltre trattasi di un’edizione rara o piuttosto<br />

comune?<br />

Tutto questo nelle scuole e nelle facoltà umanisti<strong>che</strong> trova scarsa risonanza, se non ovviamente<br />

nelle sedi appositamente dedicate alla storia del libro. Tutti leggono sui banchi di scuola il<br />

Canzoniere o i Promessi Sposi, ma pochi si curano di insegnare le vicende editoriali <strong>che</strong> stanno<br />

dietro alla loro pubblicazione. Nel primo caso an<strong>che</strong> gli studiosi <strong>che</strong> si occupano di Petrarca,<br />

tenderanno a trascurarne la tradizione a stampa perché poco significativa ai fini della ricostruzione<br />

filologica del testo, senza tener conto, in questo modo, di come lo studio di detta tradizione faccia<br />

luce sulla fortuna e sulla ricezione dell’opera nel corso dei secoli. Nel secondo caso la narrazione<br />

della stretta correlazione <strong>che</strong> lega la famosa “sciacquatura in Arno” alla seconda pubblicazione del<br />

romanzo manzoniano nel 1840, pur così accattivante, viene completamente tralasciata.<br />

Le vicende editoriali di un testo (sia esso un capolavoro assoluto, un’opera pioneristica in un<br />

certo campo del sapere o il successo di un’epoca) <strong>hanno</strong> infatti una duplice valenza: da un lato<br />

informano sulla ricezione e sulla diffusione di una certa opera dopo la sua uscita (tirature, ristampe,<br />

contraffazioni, privilegi, accordi commerciali, ecc.); dall’altra aiutano a capire i mutui rapporti fra<br />

stampa e lettori, mettendo in evidenza come il libro stampato abbia influenzato la maniera stessa di<br />

scrivere e leggere degli uomini. Ogni opera si offre al lettore an<strong>che</strong> nella materialità del libro,<br />

sollecitandone contemporaneamente l’occhio e la mente attraverso precise strategie editoriali<br />

(formato, tipo di carattere, presenza o meno di illustrazioni, dedi<strong>che</strong>, ecc.). Per questo sarebbe<br />

importante <strong>che</strong> il rapporto diretto con le edizioni originali o anti<strong>che</strong> (vederle, maneggiarle,<br />

collazionarle) divenisse pratica diffusa non solo in ambito specialistico.<br />

Il paradosso è <strong>che</strong> la stampa, il primo grande medium della storia, quello <strong>che</strong> ha permesso la<br />

nascita di tutti i media <strong>che</strong> si sono sviluppati nei secoli successivi (editoria, giornalismo e, per certi<br />

versi, persino internet: come si scriverebbe al computer senza l’invenzione e il perfezionamento dei<br />

caratteri a stampa?), viene spesso malauguratamente trascurato.<br />

D’altra parte sarebbe altresì auspicabile <strong>che</strong> attraverso la scuola diventassero patrimonio<br />

comune delle persone istruite an<strong>che</strong> le varie “storie” specialisti<strong>che</strong>, ossia la storia della medicina,<br />

del diritto, dell’economia, della musica, della tecnica, della gastronomia, dello sport, ecc., tutte<br />

profondamente correlate fra loro, specialmente nei primi secoli della stampa, quando la<br />

specializzazione dei saperi era ancora ben lungi dal realizzarsi nella misura odierna.


I <strong>Classici</strong> <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong> aspirano pertanto a colmare, seppur in modo molto<br />

imperfetto, questa lacuna e, nello stesso tempo, a fornire una parziale testimonianza del lavoro<br />

quotidiano del libraio antiquario.<br />

La storia d’<strong>Italia</strong> attraverso i libri a stampa<br />

Seguendo lo sviluppo de I <strong>Classici</strong> <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong> dall’inizio alla fine, dietro i percorsi<br />

culturali ed editoriali di quanto il genio italiano ha prodotto nel corso dei secoli, emergono come in<br />

trasparenza, ma con estrema chiarezza, le trame della storia <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> attraversato il nostro paese,<br />

dall’epoca aurea del Rinascimento alla progressiva occupazione straniera della penisola, dal<br />

Concilio di Trento alla rivoluzione scientifica del Seicento, dai Lumi apparsi quasi miracolosamente<br />

in alcune zone del paese alla grande stagione risorgimentale, dall’Unità d’<strong>Italia</strong> alle avanguardie<br />

artisti<strong>che</strong> del Novecento.<br />

Intorno al 1465, coll’arrivo dei maestri dell’arte, quasi tutti tedeschi, inizia per l’<strong>Italia</strong> la<br />

straordinaria avventura della stampa. Nei giro di pochi anni vedono la luce tutti i maggiori testi<br />

volgari della letteratura italiana e l’<strong>Italia</strong>, grazie alla sua fitta rete commerciale e alla presenza di<br />

numerose e prestigiose università, diviene un grande centro di irradiazione della stampa, finendo<br />

per superare la stessa Germania: 4157 sono le edizione italiane stampate nel Quattrocento (con<br />

tirature <strong>che</strong> variano dalle trecento copie degli esordi alle oltre mille di fine secolo) contro le 3232<br />

della Germania, le 998 della Francia e le 395 del Regno Unito.<br />

Ma è solo con il Cinquecento <strong>che</strong> il libro a stampa diviene veramente popolare. Nel corso<br />

del secolo vedono la luce milioni di libri (Venezia da sola ne produce quasi la metà), i prezzi di<br />

produzione crollano, le tirature aumentano, nascono i primi tascabili, le prime collane editoriali e<br />

nuovi generi letterari, indissolubilmente legati alla stampa. Se l’Orlando innamorato del Boiardo<br />

(composto fra il 1476 e il 1482), solo per fare un esempio, risente ancora dell’oralità dell’ambiente<br />

di corte, dove veniva declamato e copiato a mano per la biblioteca del duca e solo secondariamente<br />

impresso, il Furioso dell’Ariosto tradisce invece una genesi libraria e viene subito dato alle stampe<br />

(1516).<br />

Dopo la riscoperta dei classici e degli autori medievali <strong>che</strong> caratterizza la prima produzione<br />

quattrocentesca, con il Cinquecento conquistano la supremazia i testi di autori contemporanei e<br />

fanno la loro prima apparizione opere <strong>che</strong> segnano la rifondazione del sapere scientifico e la riforma<br />

dei generi letterari. Inoltre la larga diffusione delle opere delle Tre Corone fiorentine (Dante,


Petrarca e Boccaccio) e il dibattito sulla lingua, dominato dalla figura di Pietro Bembo, impongono<br />

in modo perentorio quel codice linguistico basato sul fiorentino letterario trecentesco <strong>che</strong> è alla base<br />

dell’italiano moderno.<br />

L’<strong>Italia</strong> continua a mantenere il primato della produzione libraria in Europa almeno fino alla<br />

metà del secolo, quando le riforme restrittive del Concilio di Trento si diffondono su tutto il<br />

territorio nazionale, acuendo quel lento ed inesorabile processo di declino, <strong>che</strong> i più acuti<br />

osservatori contemporanei avevano già cominciato a percepire e denunciare a partire dalla discesa<br />

di Carlo VIII nel 1494. Questa dà infatti avvio a rovinose guerre di conquista e all’occupazione<br />

straniera di gran parte della penisola, <strong>che</strong> durerà ininterrotta fino al 1861.<br />

Il Cinquecento è an<strong>che</strong> il secolo nel quale l’anatomia trova, nelle prestigiose sedi<br />

universitarie di Padova e Bologna, una schiera di geniali innovatori, le cui scoperte segnano la<br />

nascita della medicina moderna.<br />

Durante il Seicento, nonostante la perdita di potere economico e culturale, l’<strong>Italia</strong> gioca senza<br />

dubbio un ruolo fondamentale nello sviluppo delle scienze sperimentali, come testimonia il gran<br />

numero di scienziati italiani <strong>che</strong> nel corso del secolo pubblicano opere di altissimo rilievo in ogni<br />

campo del sapere.<br />

Con il Settecento il provincialismo italiano si approfondisce ulteriormente e, pur<br />

mantenendo una certa varietà ed originalità, soprattutto in campo economico e sociale, la nostra<br />

cultura subisce l’influenza di idee e scuole di pensiero <strong>che</strong> vengono da fuori, in particolare<br />

dall’Illuminismo francese. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, il paese vive una straordinaria<br />

stagione di riformismo. La Lombardia austriaca di Maria Teresa e poi di Giuseppe II, il Regno di<br />

Napoli e la Toscana granducale di Pietro Leopoldo sono i principali scenari in cui si dispiega<br />

l’azione dei maggiori economisti italiani, i quali, attraverso i loro scritti e il loro impegno nelle<br />

amministrazioni locali, gettano le basi dello stato moderno.<br />

Se fino alla fine del Settecento la produzione del libro era rimasta praticamente invariata,<br />

nell’Ottocento si assiste alla nascita dell’editoria industriale. Con l’introduzione nelle cartiere<br />

francesi di Essonnes della produzione a macchina (1798) e con l’invenzione tedesca del primo<br />

torchio da stampa a cilindri mossi dal vapore, si entra in una nuova era della tipografia, <strong>che</strong><br />

permette tirature di decine di migliaia di copie. In <strong>Italia</strong> il primo ad utilizzare la nuova tecnologia è<br />

Giuseppe Pomba a Torino nel 1834, ma la mancanza di un mercato nazionale e la scarsa<br />

alfabetizzazione degli <strong>Italia</strong>ni impediscono la nascita di una moderna editoria. È solo dopo il 1861<br />

<strong>che</strong> si va lentamente formando un vero mercato in lingua italiana e cominciano a fiorire le prime


case editrici industriali, in particolare Treves e Sonzogno a Milano, indiscussa capitale italiana della<br />

carta stampata. Parallelamente allo sviluppo del libro di massa (manuali, romanzi d’appendice,<br />

resoconti di viaggio, ecc.), si verifica l’esplosione dei giornali e delle riviste, <strong>che</strong> spesso del libro<br />

sono un indispensabile supporto promozionale.<br />

Il processo perdura nel Novecento grazie all’aumento progressivo dell’alfabetizzazione e alla lenta<br />

formazione di un sentimento nazionale. Tre libri in particolare, pubblicati allo scadere del secolo e<br />

considerati come veri e propri capisaldi della cultura italiana postunitaria, esercitano un ruolo<br />

decisivo nello sviluppo della coesione nazionale almeno fino alla seconda guerra mondiale:<br />

Pinocchio di Collodi, Cuore di De Amicis e La scienza in cucina di Pellegrino Artusi.<br />

Nel primo Novecento si assiste poi alla nascita del libro come oggetto d’arte, promosso<br />

soprattutto dal Futurismo, unico vero movimento d’avanguardia italiano. Nel secondo dopoguerra<br />

l’editoria italiana acquista quella fisionomia <strong>che</strong> mantiene all’incirca ancora ai nostri giorni.<br />

Nonostante i continui dati allarmanti sulla scarsità di lettori, essa sta conoscendo una prosperità ed<br />

una diffusione mai conosciute in precedenza.<br />

Due percorsi tematici attraverso I <strong>Classici</strong> <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong>, a mo’ di esempio<br />

Ora, se prendiamo in considerazione trasversalmente un tema specifico e lo guardiamo in<br />

prospettiva storica, noteremo lo stesso andamento generale <strong>che</strong> abbiamo delineato in precedenza. In<br />

particolare vorrei affrontare, a titolo esemplificativo, due topi<strong>che</strong>: una per così di dire ‘bassa’, più<br />

popolare, ed una ‘alta’, più colta, scendendo maggiormente nel dettaglio.<br />

Partiamo da un tema un po’ frivolo, ma sicuramente di grande rilevanza culturale: la gastronomia.<br />

Tutto comincia con il Platina, ossia con l’umanista cremonese Bartolomeo Sacchi <strong>che</strong>, dalla<br />

latinizzazione del suo paese di origine Piadena, derivò il nome colto con cui fu universalmente<br />

conosciuto. Questi, intorno al 1474, pubblicò a Roma per i torchi di Ulrich Han quello <strong>che</strong> viene<br />

considerato come il primo libro a stampa di pratica culinaria. L’opera ebbe da subito un grande<br />

successo e fu ristampata a Venezia nel giugno del 1475 da Laurentius de Aquila e Sybillinus<br />

Umber. Seguirono numerose altre stampe fino agli inizi del Cinquecento, sia dell’originale versione<br />

latina, sia della traduzione volgare, <strong>che</strong> apparve per la prima volta a Venezia presso Girolamo de<br />

Sanctis nel 1487.<br />

Il De honesta voluptate et valetudine, manuale sul come affrontare serenamente,<br />

saggiamente e igienicamente la vita, è il frutto della collaborazione del Platina con Maestro Martino


de’ Rossi, cuoco a Roma del camerlengo e patriarca d’Aquileia Ludovico Trevisan e autore, a sua<br />

volta, di un Libro de arte coquinaria.<br />

Il De honesta voluptate et valetudine, suddiviso in dieci capitoli secondo la tradizione<br />

classica, costituisce quindi una preziosissima fonte di notizie sulla vita quotidiana e la cucina<br />

italiana del Quattrocento: dai suggerimenti per fare sport all’importanza della scelta del cuoco, dal<br />

come preparare la tavola all’ora ideale per mangiare, dai metodi migliori di cottura di ciascun<br />

alimento alla coltivazione e classificazione delle piante.<br />

Con Platina vengono buttate le fondamenta della grande tradizione gastronomica italiana del<br />

Rinascimento, <strong>che</strong> eserciterà un’enorme influenza in tutta Europa. Cent’anni più tardi questa<br />

tradizione raggiungerà il suo apice grazie a Bartolomeo Scappi, la cui Opera (Venezia, Mi<strong>che</strong>le<br />

Tramezzino, 1570), corredata da quasi trenta illustrazioni calcografi<strong>che</strong>, rappresenta a giusto titolo<br />

la summa gastronomica del Cinquecento.<br />

Il successo registrato dal De honesta voluptate aveva prodotto una fioritura di testi <strong>che</strong>, più o<br />

meno direttamente, si richiamavano ad esso e al suo ispiratore Maestro Martino. E proprio al Libro<br />

de re coquinaria di quest’ultimo si rifà, quasi integralmente, il primo ricettario in lingua italiana,<br />

ossia l’Opera nova chiamata Epulario di Giovanni Rosselli, <strong>che</strong> dopo la prima edizione veneziana<br />

del 1516 fu varie volte ristampato.<br />

Nei decenni successivi, con Eustachio Celebrino da Udine (1526), Cristoforo di Messisbugo<br />

(1549) e Domenico Romoli (1560), fecero la loro apparizione i primi trattati di scal<strong>che</strong>ria,<br />

principalmente dedicati al servizio delle pietanze e alla preparazione dei conviti. È in questo<br />

contesto <strong>che</strong> si inserisce l’Opera dello Scappi, la quale si distingue per la completezza, il rigore e<br />

l’originalità delle tecni<strong>che</strong> gastronomi<strong>che</strong> ideate e proposte dall’autore.<br />

Parallelamente ai ricettari, si sviluppa un altro filone, estremamente vitale fino alla metà del<br />

Seicento, <strong>che</strong> è quello dell’arte di trinciare e servire le pietanze secondo delle tecni<strong>che</strong> molto<br />

scenografi<strong>che</strong> di ascendenza spagnola. Se trascurabile, sia per dimensioni <strong>che</strong> per valore, può essere<br />

considerato l’antesignano di questo genere di opere, ossia il Refugio de povero gentiluomo di<br />

Giovanni Francesco Colle, <strong>che</strong> fu stampato a Ferrara nel 1520, Il Trinciante di Vincenzo Cervio e<br />

Reale Fusoritto, la cui edizione più corretta e completa apparve a Roma presso la tipografia Gabiana<br />

a spese di Giulio Burchioni nel 1593, costituisce senza dubbio il primo grande trattato italiano<br />

sull’arte del trinciare.<br />

Nell’ambito del ban<strong>che</strong>tto principesco italiano del Cinque-Seicento, figura di spicco della<br />

tavola, a fianco dello scalco e del bottigliere (o coppiere), era infatti il trinciante. A differenza di


questi ultimi, costretti a seguire i tempi del loro servizio e ad allontanarsi per questo dalla tavola, il<br />

trinciante, per la prossimità con i convitati e la teatralità dei suoi gesti, <strong>che</strong> prevedevano il taglio in<br />

aria delle pietanze, la loro messa nei piatti e l’assaggio dei sughi, rivestiva un ruolo particolare e<br />

godeva di alcuni privilegi, tra cui quello di poter mangiare le vivande avanzate dopo il servizio dei<br />

signori. Egli era in sostanza l’epicentro del rito conviviale e, come tale, attraverso ogni suo gesto<br />

doveva saper esprimere competenza e teatralità, ma senza mai eccedere in acrobatismi gratuiti o<br />

caricaturali.<br />

Nel Seicento la gastronomia italiana subisce delle trasformazioni molto profonde, <strong>che</strong> sono an<strong>che</strong> il<br />

riflesso della mutata condizione socio-politica, religiosa ed economica della penisola. Quando, tra il<br />

1692 e il 1694, esce a Napoli dai torchi di Domenico Antonio Parrino e Mi<strong>che</strong>le Luigi Muzio Lo<br />

scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre li conviti, con le regole più scelte di scal<strong>che</strong>ria di<br />

Antonio Latini, cuoco fabrianese vissuto prevalentemente nella città partenopea alle dipendenze del<br />

primo ministro del regno, Stefano Carrillo y Salcedo, assistiamo nello stesso tempo sia al punto<br />

culminante <strong>che</strong> alla fine della secolare tradizione gastronomica rinascimentale, <strong>che</strong> aveva imposto<br />

la nostra cucina e le sue consuetudini sulle tavole patrizie di tutta Europa. Il Settecento e gran parte<br />

dell’Ottocento vedono infatti il predominio della civiltà gastronomica francese e dei suoi autori, <strong>che</strong><br />

furono sistematicamente tradotti e divennero molto popolari an<strong>che</strong> in <strong>Italia</strong>.<br />

La rinascita non vi fu se non dopo l’Unità d’<strong>Italia</strong>, nel 1891, anno in cui Pellegrino Artusi pubblicò<br />

a Firenze presso Salvadore Landi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, destinato a<br />

diventare il manuale di riferimento della cucina italiana fino al secondo Novecento. Artusi ebbe il<br />

merito di raccogliere ed organizzare per primo i ricettari di casa delle famiglie italiane, dando<br />

prestigio a quella cucina casalinga, per lo più tramandata oralmente di madre in figlia, <strong>che</strong> fino ad<br />

allora non aveva mai avuto dignità di stampa.<br />

Elogiata dal celebre antropologo e medico Paolo Mantegazza, l’opera ebbe straordinario<br />

successo, andando incontro ad oltre un centinaio di edizioni. Essa raccoglie per lo più ricette di<br />

tradizione romagnola e toscana, accompagnate da aneddoti, consigli igienici e commenti ai piatti, le<br />

quali furono progressivamente corrette ed aumentate nel corso delle quattordici edizioni curate<br />

dall’autore. Nato come manuale pratico, La scienza in cucina si rivolge all’emergente ceto borghese<br />

dell’<strong>Italia</strong> unita, all’interno del quale il benessere sociale e l’aumento graduale<br />

dell’alfabetizzazione, an<strong>che</strong> in ambito femminile, permettono il fiorire di una nuova editoria<br />

specializzata.


Segno dello sviluppo civile del paese dopo l’unificazione, ma allo stesso tempo testimonianza della<br />

sua arretratezza rispetto agli altri paesi occidentali, è poi il primo ricettario scritto da una donna<br />

italiana, Come posso mangiar bene? Libro di cucina, con oltre 1000 ricette di vivande comuni,<br />

facili ed economi<strong>che</strong> per gli stomachi sani e per quelli delicati (Milano, Ulrico Hoepli, 1900) di<br />

Giulia Ferraris Tamburini.<br />

Nella seconda metà dell’Ottocento la nuova società borghese cambiò le regole della tavola,<br />

promuovendo il rapido sviluppo della cucina familiare affidata alle donne. Il progressivo aumento<br />

del tasso di alfabetismo, non solo maschile, ma an<strong>che</strong> femminile, permise quindi il fiorire di una<br />

letteratura manualistica destinata appunto alle famiglie. Nell’<strong>Italia</strong> di fine Ottocento si assisté ad<br />

una vera e propria esplosione dell’editoria gastronomica, per la prima volta indirizzata non più ai<br />

cuochi professionisti, ma alle donne di casa e alla servitù delle classi medie.<br />

La femminilizzazione del personale di cucina è tuttavia un processo lento, <strong>che</strong> si sviluppa<br />

pian piano dopo l’Unità d’<strong>Italia</strong>. Dopo Artusi nasce finalmente an<strong>che</strong> in <strong>Italia</strong>, con un ritardo di<br />

alcuni secoli su altri paesi, la letteratura gastronomica al femminile.<br />

Come posso mangiar bene? uscì nella collana “Biblioteca delle Famiglie” per fare da<br />

pendent a Come devo governare la mia casa? della stessa autrice (1898), inaugurando così un<br />

nuovo genere, destinato ad avere un lungo e duraturo successo.<br />

Passiamo ora al secondo tema, quello più ‘colto’, scelto per illustrare i percorsi storico-culturali<br />

della nostra penisola visti attraverso lo specchio delle opere a stampa e, al contempo, per mettere in<br />

evidenza alcuni snodi emblematici intorno ai quali si articolano I classici <strong>che</strong> <strong>hanno</strong> <strong>fatto</strong> l’<strong>Italia</strong>: la<br />

questione della lingua.<br />

Se, come si diceva, le Tre Corone appaiono a stampa già all’inizio degli anni Settanta del<br />

Quattrocento (Petrarca e Boccaccio nel 1470, Dante nel 1472), è solo con l’edizione aldina del<br />

Canzoniere <strong>che</strong> ha inizio la filologia volgare e, per certi versi, la storia della letteratura italiana.<br />

Il testo de Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha, stampato a Venezia da Aldo<br />

Manuzio nel luglio del 1501, fu curato dal giovane Pietro Bembo sulla base di un presunto<br />

autografo del poeta. Così è scritto nella sottoscrizione finale e così è ribadito nell’avviso ai lettori.<br />

In realtà Manuzio si servì del codice Vaticano lat. 3197 di mano dello stesso Bembo, fondato per il<br />

Canzoniere su due codici antichi ed autorevoli, prima di essere completato con la trascrizione degli<br />

ultimi componimenti direttamente dall’autografo del Petrarca (l’attuale Vaticano lat. 3195) e poi<br />

collazionato integralmente su di esso.


Pietro Bembo conobbe Aldo Manuzio tramite il protettore di quest’ultimo, <strong>Alberto</strong> Pio da<br />

Carpi, e aderì immediatamente al suo programma editoriale, apportandovi idee innovative. Nel giro<br />

di due anni, tra il 1501 e il 1502, Manuzio cominciò a lanciare le stampe in carattere corsivo e<br />

formato tascabile di testi essenziali per ogni persona colta: prima Virgilio e Orazio, quindi Petrarca<br />

e Dante.<br />

La grande novità di questa operazione risiede nel <strong>fatto</strong> <strong>che</strong> i due autori volgari furono messi<br />

sullo stesso piano dei due classici e i loro testi sottoposti allo stesso scrupolo editoriale. Partendo<br />

dall’assunto, poi teorizzato nelle Prose della volgar lingua (1525), <strong>che</strong> il volgare trecentesco fosse<br />

più puro e nobile di quello in uso nel mondo accademico-umanistico e cortigiano del tempo, Bembo<br />

operò sistematicamente per ripulire i testi di Petrarca e di Dante dai ritocchi quattrocenteschi. Così<br />

facendo, pose le basi della filologia volgare e codificò le edizioni standard delle due celebri<br />

“Corone” per i secoli a venire.<br />

Il Canzoniere di Aldo è inoltre il primo libro in italiano impresso nel carattere corsivo aldino<br />

intagliato da Francesco Griffo, utilizzato per la prima volta solo tre mesi prima nell’edizione di<br />

Virgilio. Ideato e fortemente voluto da Manuzio, <strong>che</strong> per esso ottenne an<strong>che</strong> un privilegio, l’italico<br />

rivoluzionò l’arte tipografica, favorendo la stampa dei piccoli formati. Questi erano parte essenziale<br />

del programma editoriale aldino, <strong>che</strong> intendeva mettere a disposizioni di studenti e studiosi i<br />

migliori testi dei classici greco-latini e volgari.<br />

Poco tempo dopo la pubblicazione del volume, Aldo stampò quattro carte di avviso ai lettori<br />

e di errata, per rispondere alle criti<strong>che</strong> <strong>che</strong> avevano accolto l’uscita del volume. Ai suoi detrattori,<br />

<strong>che</strong> negavano l’attendibilità del testo, egli ribadiva l’autografia della propria fonte e quindi<br />

l’assoluta correttezza dell’edizione ed annunciava l’uscita a breve di un’edizione dantesca<br />

altrettanto scrupolosa. Questa postilla costituisce un documento molto importante, perché in essa,<br />

per la prima volta, la letteratura volgare assume ufficialmente quell’attenzione filologica <strong>che</strong> gli<br />

umanisti avevano riservato fino ad allora esclusivamente al latino.<br />

Sia dal punto di vista tipografico, <strong>che</strong> dal punto di vista culturale, il Petrarca di Aldo, <strong>che</strong> fu<br />

ristampato nel 1514, nel ’21, nel ‘33 e nel ’46, segnò una profonda rottura con la tradizione<br />

quattrocentesca e con le edizioni <strong>che</strong> l’avevano preceduto.<br />

Pochi anni dopo, Bembo consolidò ulteriormente la sua posizione dominante nell’ambito della così<br />

detta questione della lingua, pubblicando le celebri Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua<br />

(Venezia, Giovanni Tacuino, settembre 1525). Partendo dall’assioma <strong>che</strong> «non si può dire <strong>che</strong> sia<br />

veramente lingua alcuna favella <strong>che</strong> non ha scrittore», egli si pose l’obiettivo non solo di fornire una<br />

grammatica dell’italiano, ma an<strong>che</strong>, grazie ad un’ampia esemplificazione di modi e parole tratte per


lo più dalle Tre Corone del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio), di creare una lingua letteraria<br />

comune, <strong>che</strong> avesse la stessa dignità ed eleganza del latino. Le Prose possono quindi essere<br />

considerate come il testo fondativo della coscienza critica della tradizione letteraria italiana. Grazie<br />

all’enorme successo (dalla scadenza del privilegio fino alla fine del secolo apparvero oltre venti<br />

edizioni), si imposero nel Cinquecento come manuale di scrittura in volgare e posero la letteratura<br />

italiana all’attenzione della cultura umanistica, fino ad allora intrisa quasi esclusivamente di latino.<br />

Grazie an<strong>che</strong> al successivo sostegno del Vocabolario della Crusca, le Prose contribuirono<br />

all’unificazione linguistica dell’<strong>Italia</strong>, la quale all’epoca, vale la pena ricordarlo, era un mero<br />

concetto geografico, nel segno di quell’aulicità arcaizzante <strong>che</strong> nei secoli seguenti avrebbe toccato<br />

punte di parossismo. Ma non era certo questo l’intento originario del Bembo.<br />

La successiva pietra miliare nella storia linguistica italiana è il sopramenzionato Vocabolario della<br />

Crusca (Venezia, Giovanni Alberti, 1612), unanimemente considerato come il primo dizionario<br />

scientifico di una lingua europea moderna. Esso ebbe infatti un ruolo fondamentale nello sviluppo<br />

dell’italiano nei secoli successivi fino all’unità d’<strong>Italia</strong>.<br />

I primordi dell’Accademia della Crusca risalgono al decennio 1570, quando cominciarono le<br />

prime riunioni di un gruppo di amici <strong>che</strong> si dettero il nome giocoso di “crusconi”, prendendo così le<br />

distanze dalle pedanterie dell’Accademia fiorentina. La prima adunanza, in cui si cominciò a parlare<br />

di leggi e statuti, si svolse il 25 gennaio del 1583, ma la cerimonia inaugurale dell’Accademia risale<br />

al 25 marzo del 1585.<br />

Vengono tradizionalmente indicati come fondatori della Crusca Giovan Battista Deti (il<br />

Sollo), Anton Francesco Grazzini (il Lasca), Bernardo Canigiani (il Gramolato), Bernardo Zanchini<br />

(il Macerato), Bastiano de’ Rossi (l’Inferigno) e, soprattutto, Leonardo Salviati (l’Infarinato), il<br />

quale, pur essendo entrato per ultimo, dette la spinta decisiva verso l’istituzionalizzazione<br />

dell’Accademia e la codificazione della terminologia legata alla farina. L’Accademia aveva infatti il<br />

compito di separare il fior di farina (la buona lingua) dalla crusca, secondo quel modello linguistico<br />

già promosso dal Bembo, <strong>che</strong> prevedeva il primato del volgare fiorentino modellato sugli autori del<br />

Trecento (Dante, Petrarca, Boccaccio).<br />

Intorno al 1590 l’attività dell’Accademia iniziò a focalizzarsi sulla preparazione del<br />

Vocabolario. I primi testi ad essere spogliati furono quelli volgari delle Tre Corone, seguiti da altri<br />

testi fiorentini, per lo più letterari, del Trecento e da autori più recenti come Francesco Berni,<br />

Niccolò Machiavelli, Pietro Bembo, Giovanni della Casa, Ludovico Ariosto e lo stesso Salviati.<br />

L’aperto fiorentinismo arcaizzante proposto dal Vocabolario <strong>che</strong>, quando apparve nel 1612, suscitò<br />

immediatamente grandi dispute destinate a durare fino alla fine dell’Ottocento, ebbe tuttavia il


merito di codificare per secoli, in un’<strong>Italia</strong> politicamente e linguisticamente divisa, un idioma<br />

comune, realizzando uno strumento indispensabile per tutti coloro <strong>che</strong> volevano scrivere in buon<br />

italiano.<br />

Il Vocabolario ebbe grande fortuna in tutta Europa e fu preso a modello dalle altre<br />

accademie europee nella redazione dei vocabolari delle rispettive lingue nazionali: Dictionnaire de<br />

la langue françoise (1694), Diccionario de la lengua castellana (1726-1739), Dictionary of the<br />

English Language di Samuel Johnson (1755), Deuts<strong>che</strong>s Wörterbuch dei fratelli Grimm (1854).<br />

L’ultima tappa di questo breve excursus non può <strong>che</strong> essere Alessandro Manzoni, i cui Promessi<br />

sposi ebbero, a livello culturale e linguistico, un impatto difficilmente sottovalutabile nella<br />

formazione di generazioni di <strong>Italia</strong>ni.<br />

Terminata la composizione dell’Adelchi e del Cinque maggio, Manzoni nel 1821 cominciò<br />

quella di Fermo e Lucia. La prima stesura del romanzo fu condotta a compimento nel settembre del<br />

1823. L’anno seguente Manzoni stipulò un contratto con l’editore Vincenzo Ferrario, uno dei primi<br />

a divulgare in <strong>Italia</strong> i romanzi di Walter Scott, ed ottenne l’imprimatur per la sua opera, <strong>che</strong> nel<br />

frattempo era stata rivista e aveva cambiato nome in Gli sposi promessi.<br />

La prima edizione de I Promessi sposi, benché rechi le date 1825-1826, fu in realtà finita nel<br />

giugno del 1827 (da qui il nome di “ventisettana” con cui è universalmente conosciuta), a causa<br />

delle continue correzioni dell’autore, <strong>che</strong> pressoché ogni giorno si recava in tipografia a controllare<br />

e modificare le bozze di stampa. Il successo fu folgorante: le duemila copie della tiratura comune e<br />

le po<strong>che</strong> altre in carta velina andarono esaurite in meno di due mesi e, già a partire dal dicembre del<br />

’27, con grande disperazione dell’autore, apparvero sul mercato ben otto edizioni, più o meno<br />

“pirata”.<br />

Nel luglio del 1827, insoddis<strong>fatto</strong> della lingua del romanzo, Manzoni si trasferì con l’intera<br />

famiglia a Firenze, dove presso il Gabinetto Vieusseux trovò l’aiuto <strong>che</strong> cercava per ripulire I<br />

promessi sposi dai troppi termini dialettali lombardi. La cosidetta “sciacquatura in Arno” continuò<br />

an<strong>che</strong> a Milano, dove Manzoni lavorò al suo romanzo per altri dieci anni alla ricerca di quella<br />

lingua nazionale, cui tanto agognava. Nel 1840 si accordò finalmente con i tipografi Guglielmini e<br />

Radaelli per la stampa della seconda edizione. Per evitare l’eccezionale fioritura di contraffazioni<br />

<strong>che</strong> si era avuta in passato, Manzoni decise di pubblicare l’opera in una sontuosa veste grafica,<br />

corredata da un ricco apparato iconografico, <strong>che</strong> ne rendesse più difficile la riproduzione. Le<br />

illustrazioni furono affidate al pittore torinese Francesco Gonin, <strong>che</strong> ne realizzò la maggior parte.<br />

L’edizione “quarantana” (Milano, Tipografia Guglielmini e Radaelli, 1840), contenente per<br />

la prima volta la Storia della colonna infame, uscì in sottoscrizione a spese dell’autore, ma,


nonostante le ottime aspettative di quest’ultimo, l’operazione si rivelò un fiasco: delle diecimila<br />

copie tirate solo la metà fu venduta attraverso le sottoscrizioni e Manzoni ci rimise quasi la metà del<br />

capitale investito. Per di più, nonostante le precauzioni prese, ricominciò ben presto la giostra delle<br />

contraffazioni.<br />

Le scelte editoriali operate dal Manzoni influenzarono il mercato non solo allora, ma<br />

continuano ad avere ripercussioni an<strong>che</strong> su quello attuale. Se infatti per comperare un buon<br />

esemplare in legatura d’epoca della “ventisettana”, abbastanza rara, an<strong>che</strong> se tutt’altro <strong>che</strong><br />

introvabile, ci vogliano all’incirca 8000 euro, per acquistare una copia equiparabile della<br />

“quarantana”, benché questa sia tipograficamente più sontuosa e soprattutto riporti il testo definitivo<br />

<strong>che</strong> tutti leggiamo, ne bastano solo 1500.<br />

Bibliografia essenziale.<br />

John Carter, Percy H. Muir, Printing and the Mind of Men, 2 a edizione, Monaco, 1983;<br />

Gustav Adolf Erich Bogeng, Die grossen Bibliophilen, Leizig, 1922;<br />

Angela Nuovo, Il commercio librario nell’<strong>Italia</strong> del Rinascimento, Milano, 1998;<br />

Luisa Secchi Tarugi, Franco Cesati, L’Europa del libro nell’età dell’umanesimo, Atti del XI Convegno internazionale,<br />

Chianciano, Firenze, Pienza, 16-19 luglio 2002, Firenze, 2004;<br />

Claudio Benporat, Cucina e convivialità italiana del Cinquecento, Firenze, 2007;<br />

Claudio Benporat, Storia della gastronomia italiana, Milano, 1990;<br />

Emilio Faccioli, a cura di, Arte della cucina, Milano, 1966;<br />

Marco Santoro, Mi<strong>che</strong>le Carlo Marino, Marco Pacioni, Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto. Le edizioni<br />

rinascimentali delle ‘Tre Corone’, Roma, 2006;<br />

Nadia Cannata, Il Canzoniere a stampa (1470-1530), Roma, 2000;<br />

Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio umanista ed editore, Milano, 1995;<br />

Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210,<br />

edizione critica a cura di C. Vela, Bologna, 2001;<br />

Carol Kidwell, Pietro Bembo. Lover, linguist, cardinal, Montréal, 2004;<br />

Accademia della Crusca, Vocabolario degli Accademici della Crusca, Firenze, 2008;<br />

Marino Parenti, Manzoni editore. Storia di una celebre impresa manzoniana illustrata su documenti inediti e poco noti,<br />

Bergamo, 1946;<br />

Luca Toschi, La sala rossa. Biografia dei «Promessi Sposi», Torino, 1989;

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!