2/12 gagarin n. 2 musica arte gusto teatro libri shopping bimbi cinema 14 vite a regola d’arte Quando la creatività è l’esistenza stessa: Monica Cuoghi e Claudio Corsello - gli inventori di Pea Brain, l’ochetta dalle zampe lunghe che dalla metà degli anni ’80 «tagga» i muri di Bologna - sono stati tra i primi graffitisti italiani. amano sigle e icone. e abitano una casa-bunker… di Sara Foschini INCONTrO ravvICINaTO Foto di Gaia Bernardi
Una specie di gondola, tutta bianca, con una strana maschera sulla prua, se ne sta adagiata con disinvoltura davanti ad un garage condominiale. Si tratta di La barca di Schifio (un tempo a Villa Ghigi) e vedendola capiamo di essere arrivati a destinazione. Monica Cuoghi e Claudio Corsello sono due artisti le cui opere sono strettamente legate alla città di Bologna, dove ancora vivono e lavorano. Pea Brain, la simpatica ochetta con le zampette lunghe, è diventata il loro marchio di fabbrica. È possibile ammirarla ancora sotto il cavalcavia della stazione di Bologna e su alcune pareti della città. A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 entrano a far parte della famiglia dei graffitisti e sviluppano insieme il loro originale modo di coniugare arte e vita. Da sempre la loro poetica è quella di tradurre in arte i ritmi della natura e della città in cui sono immersi e di cui fanno esperienza diretta. Sono stati tra i primi ad usare i light box nelle installazioni, hanno sperimentato con la videoarte, composto sculture coi neon e, soprattutto, diffuso la filosofia street art nel capoluogo emiliano. Varcata la soglia cigolante della loro casa/bunker/magazzino, come amano definirla, Monica Cuoghi ci accoglie con té e dolcetti fatti in casa. «Noi siamo vegetariani e mangiamo solo cose biologiche. Se non ti piacciono, non mi offendo» dice. Belli i vostri mobili, sono molto particolari... «Grazie, il lavandino lo ha costruito Claudio con del legno ed un materiale molto resistente che viene dall’Egitto, mentre la vasca da bagno ha le ruote così posso spostarla per farmi i bagni di Luna» spiega Monica. «La porta invece l’abbiamo costruita con i pezzi rimanenti della Donna Elefante, una nostra creatura. Le spese per una casa tutta nostra sono tante e abbiamo cercato di utilizzare i materiali che avevamo. Si può dire che nel corso degli anni siano state le sculture ad insegnarci a vivere». Avete abitato per anni dentro a fabbriche abbandonate, vero? Monica: «Sì, tre in totale. Il Giardino dei Bucintori, Cime tempestose e per ultima la Fiat, dal 2001 al 2005. Ci passavo sempre davanti in bicicletta ed un giorno abbiamo scoperto che il retro era completamente vuoto, tenevano le luci accese solo per far sembrare che fosse aperta, così ci siamo insediati noi». Claudio: «Era molto bello perché potevamo godere dell’elettricità gratuita e attorno c’era molto verde». Ma negli altri posti, dove i disagi erano maggiori, come facevate? «Vivere in fabbriche dismesse era come fare del nostro quotidiano un’opera d’arte. Alla Fiat tenevano le luci accese per far sembrare che fosse aperta e invece non c’era nessuno» Monica: «Ci piaceva talmente tanto stare lì che non ci accorgevamo di nulla. Era come se ogni giorno fosse una performance. La nostra vita era diventata un’opera d’arte e questo ci appagava». Claudio: «Quando era freddo, per scaldarci costruivamo dei ripari fatti di grandi teli di plastica, come delle serre, e ci mettevamo dentro tutto il nostro mondo». Gli spazi venivano anche sfruttati in modo artistico, giusto? Monica: «Le fabbriche diventavano la nostra abitazione, ma anche il nostro luogo di lavoro. Cercavamo ogni volta di riqualificare gli spazi in modo da renderli più confortevoli e per dargli nuova energia». Claudio: «Diventavano dei punti di incontro, organizzavamo laboratori artistici ed i writer venivano lì a fare graffiti o ad andare sullo skateboard». Monica: «Utilizzavamo anche gli oggetti trovati sul posto. L’anno scorso abbiamo impiegato per una nostra installazione la F dell’insegna al neon del logo FIAT, quella blu e bianca. Ci piaceva il design, in un certo senso familiare e rassicurante, di quel marchio». Com’è iniziata la vostra collaborazione? Monica: «Ah, ma qui si fa del gossip! Ci siamo incontrati all’Accademia di Bologna. Lui era un’istituzione, tutti lo conoscevano ed era anche lo studente più amato dai professori perché era quello che aveva più coscienza della propria arte. Io volevo parlargli ma non sapevo bene come fare, allora un giorno gli ho chiesto in prestito la sparachiodi e così abbiamo iniziato a frequentarci e a creare insieme». La vostra opera più conosciuta è Pea Brain, com’è nata? Claudio: «Pea Brain si è impossessata di noi! Scherzo, ma in parte è vero perché la gente ci associa a quel disegno e non conosce nient’altro della nostra produzione. Ci fa piacere, ma è un po’ riduttivo». Monica: «Pea Brain è nata nel 1986, l’anno in cui ci siamo conosciuti. Claudio, che disegnava sui muri dalle medie, mi portava a scrivere con lui ed io facevo diversi disegni, ma alla fine Pea Brain prese il sopravvento e disegnai solo lei». Infatti avete creato anche tanti altri personaggi che hanno avuto successo... Monica: «Certo. Ad esempio c’è Bello, la faccina sorridente. Veramente non l’abbiamo neanche disegnata noi, ma ce ne siamo appropriati artisticamente. Il Macro di Roma l’ha utilizzato come logo per i suoi inviti e poi l’ha stampato «Forse oggi le gallerie non accetterebbero più certe opere che facevamo negli anni ’90, come ad esempio inserire spezzoni porno nei nostri video» anche su delle magliette e delle borsette di tela. Poi c’è SUF, ovvero Sufficiente. È un personaggio che ho inventato perché all’inizio come writer non ero molto brava a disegnare le lettere». Claudio: «C’è anche Quadrupede, è un animale composto da quattro zampe e un’enorme proboscide. È nato come disegno ma poi è diventato anche una scultura, anzi molte sculture, con tanti materiali diversi, perché è una figura facile da riprodurre». Ho visto che adesso avete una produzione di donnine nude da calendario, molto pop. Monica: «Si, quelle le faccio io al computer, da quando ho scoperto la grafica digitale. Mi è sempre piaciuto disegnare donne nude, ma adesso ne faccio quasi una al giorno. Ultimamente ho trovato un laboratorio che me le stampa su ceramica. Le utilizziamo anche per creare delle spille, sono di dimensioni più piccole, ma servono a diffonderle e a farle conoscere». Sono molti anni che frequentate il mondo dell’arte e delle gallerie, le vostre opere sono cambiate nel corso del tempo? Monica: «Decisamente sì. Abbiamo sempre fatto delle installazioni con vari oggetti, ma era come se non fossero mai completi. Cercavamo sempre di animarli, di metterci un meccanismo all’interno o della musica. Verso la fine degli anni ’90 abbiamo creato dei congegni che si chiamavano I Selettori composti da oggetti di ogni sorta che muovendosi emettevano rumori o inviavano segnali elettrici ad altri meccanismi. Adesso invece ci siamo resi conto che gli oggetti non devono fare niente, sono perfetti così, da soli, nella loro immobilità». Claudio: «Secondo me, oggi le gallerie non accetterebbero più certe opere che facevamo negli anni ’90, come ad esempio inserire spezzoni di scene porno nei nostri video». Vi è mai capitato di incontrare qualche gallerista che non fosse soddisfatto? Claudio: «Sì, a volte è capitato. Soprattutto durante il montaggio delle installazioni possono succedere degli imprevisti, come ad esempio che il suono o il video non funzionino. In quei casi noi accettiamo la casualità come parte dell’opera e non ne facciamo un problema, al contrario dei curatori. A volte, però, succede che le cose si invertano. Una volta abbiamo allestito un’intera galleria inscenando un incidente aereo. Ricordo che ci massacrarono di critiche, non piaceva a nessuno! Invece un gallerista che rimase molto tempo a contatto con i nostri oggetti, dopo qualche giorno cambiò idea, disse che grazie a noi aveva capito l’arte contemporanea». Monica: «Non sappiamo cosa sia successo, ma da quel giorno siamo i suoi artisti preferiti!». 2/12 gagarin n. 2 musica arte gusto teatro libri shopping bimbi cinema 15