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LA CITTADINANZA COME FORMA DI TOLLERANZA - Exclusion.net

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<strong>LA</strong> <strong>CITTA<strong>DI</strong>NANZA</strong> <strong>COME</strong> <strong>FORMA</strong> <strong>DI</strong> <strong>TOLLERANZA</strong><br />

1. Una nazione trasversale<br />

BENEDETTO SARACENO<br />

Organizzazione Mondiale della Sanità<br />

La questione della tolleranza nei confronti della diversità implica molteplici<br />

approcci che considerino le possibili definizioni della diversità, così come il<br />

significato stesso del termine «tolleranza».<br />

Per il momento, per iniziare la nostra riflessione, tenterò di assumere un<br />

approccio più specifico, tra i tanti possibili, che ci aiuti a disegnare un paradigma da<br />

cui forse sarà possibile trarre indicazioni più generali.<br />

Poiché appartengo a una agenzia specializzata delle Nazioni Unite la cui<br />

missione è la salute e, più specificatamente lavorando per i programmi che lottano<br />

per la salute mentale dei popoli nel mondo, utilizzerò il paradigma salute<br />

mentale/malattia mentale.<br />

Tutti i paesi del mondo affrontano problemi psicosociali e psichiatrici la cui<br />

soluzione richiede azioni di diversa indole e nell’esecuzione delle quali devono<br />

impegnarsi tanto i settori sanitari e sociali quanto quelli economici e politici.<br />

In generale si stima che nel mondo ci siano più di 300 milioni di casi di disturbo<br />

affettivo, 32 milioni di casi di ritardo mentale, più di 40 milioni di casi di schizofrenia<br />

e 29 milioni di casi di demenza. Relativamente alla dipendenza da sostanze<br />

psicoattive, si stima che vi siano circa 467 milioni di casi di dipendenza dall’alcol e<br />

15 milioni di utilizzatori di altre droghe.<br />

Se poniamo in graduatoria l’insieme delle disabilità derivanti da tutte le<br />

malattie croniche (psichiatriche e non), i disturbi affettivi rappresentano la causa più<br />

importante di disabilità; il ritardo mentale occupa il quarto posto, l’epilessia il sesto,<br />

la demenza il settimo e la schizofrenia il nono. Pertanto delle 10 cause principali di<br />

disabilità, la metà si deve a condizioni neuropsichiatriche.<br />

La Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno calcolato<br />

il carico di morbilità di tutte le malattie in termini di anni di vita sana perduti: i<br />

disturbi mentali rappresentano il 12% , mentre tutti i tipi di cancro rappresentano il<br />

5,8% di tale carico di morbilità. Il carico rappresentato dai disturbi psichiatrici e del<br />

comportamento è impressionante quando misurato in termini di disabilità, ma le<br />

statistiche tradizionali non lo rispecchiano perché hanno sempre posto l’accento sulla<br />

mortalità e non sulla morbilità o sulla disabilità.<br />

Se l’impegno di tutti coloro che lottano per migliorare la salute è quello di<br />

aggiungere anni alla vita (diminuendo la mortalità) ciò non significa che l’impegno<br />

1


non debba essere anche quello di aggiungere vita agli anni, ossia diminuire la<br />

morbilità ed il tremendo carico rappresentato dalla disabilità.<br />

Queste cifre impressionanti si riferiscono esclusivamente ai disturbi mentali<br />

classificati. Tuttavia bisogna considerare anche altre condizioni che<br />

indipendentemente dal fatto di non essere «malattie mentali» incluse nella<br />

classificazione internazionale delle malattie, sono comunque caratterizzate da una<br />

grave sofferenza psicosociale: la deprivazione affettiva ed educativa nell’infanzia, la<br />

violenza domestica o sociale, l’estrema povertà, lo sradicamento degli emigranti, dei<br />

profughi e dei rifugiati, l’isolamento delle popolazioni indigene, sono tutte condizioni<br />

che aggrediscono la salute mentale degli individui, delle famiglie e dei gruppi sociali.<br />

Tra coloro che soffrono di malattia mentale e coloro che soffrono per ognuna<br />

di queste condizioni vi è molto in comune: entrambi i gruppi sono esposti a violazioni<br />

dei diritti umani e di cittadinanza, entrambi i gruppi vivono all’interno di istituzioni<br />

ad alta densità (manicomi, carceri, campi profughi) o ad alta dispersione come nel<br />

caso delle bidonvilles o delle stazioni della metropolitana, entrambi i gruppi devono<br />

acquisire una maggiore capacità nel formulare domande coerenti ai loro bisogni reali,<br />

entrambi i gruppi hanno bisogno di risposte concrete che si articolino in un quadro<br />

comunitario e di sviluppo umano globale.<br />

In questo modo si forma una nazione mista in cui malattie e condizioni<br />

sfavorevoli si incrociano.<br />

Tra le molte Nazioni ufficiali di questo mondo vi è questa nazione con la «n»<br />

minuscola, trasversale, senza potere né voce. Dare voce e potere a questa nazione<br />

tanto enorme quanto spodestata. è un’utopia per il secolo futuro.<br />

Tuttavia abbiamo bisogno di comprendere meglio le differenti categorie di<br />

ostacoli che fan sì che questa utopia continui ad essere senza speranza.<br />

Vi sono ostacoli che dipendono da variabili «macro» come quelle politiche,<br />

militari, economiche e sociali e che paiono talmente al di fuori del controllo dei<br />

cittadini comuni da indurre la pericolosa tentazione di rinunciare alla realizzazione<br />

dell’utopia.<br />

Tuttavia, altri ostacoli possono essere superati attraverso un progetto<br />

individuale e collettivo che sappia porre l’urgenza etica della questione, così come la<br />

possibilità di confrontarsi concretamente con essa.<br />

Ad esempio, ci sono ostacoli che richiedono cambiamenti dello sguardo<br />

personale e collettivo che tutti abbiamo sulla diversità, sulla malattia mentale, sulle<br />

sue conseguenze, sulle risposte possibili.<br />

Vi sono ostacoli, inoltre, che richiedono una maggiore conoscenza da parte dei<br />

cittadini in merito a quali servizi sanitari vale la pena esigere dai nostri governanti.<br />

Ed infine vi sono ostacoli che richiedono azioni puntuali realizzate da attori<br />

chiaramente definiti (per esempio i servizi sanitari) e che richiedono anche una chiara<br />

responsabilità da parte degli operatori del servizio pubblico, degli amministratori, dei<br />

politici (per esempio il grado di accesso ai servizi o il loro finanziamento).<br />

Si tratta di un’alleanza tra attori diversi, tra discipline, servizi, risorse: quanto<br />

più diffusa ed indefinibile sia la condizione di sofferenza verso cui si agisce, tanto più<br />

diffusa ed indefinibile è la «tecnologia» che sarà necessario utilizzare.<br />

2


Una tecnologia diffusa, si’, ma con obiettivi definiti; diffusa in quanto si<br />

riferisce a problemi complessi ed incrociati, indefinibile in quanto non formalizzata<br />

ma composta da saperi diversi.<br />

Come ho detto prima, utilizzerò il paradigma del malato mentale per disegnare<br />

una mappa dei problemi e per suscitare una riflessione sulle risposte.<br />

2. L’eccesso di identità<br />

L’adozione del modello biomedico nel campo della sofferenza mentale ha via<br />

via rafforzato un paradigma lineare tanto positivista quanto obsoleto. Vi è un<br />

determinismo chiaro e distinto: una causa per ciascuna malattia mentale e di<br />

conseguenza una cura specifica. Non importa se la causa può essere psicologica o<br />

biologica (questo conflitto dovrebbe già ritenersi una questione d’antiquariato): ciò<br />

che continua ad essere egemonico è il pensiero lineare che pretende semplificare la<br />

sofferenza e pretende dar risposte semplici a domande la cui formulazione semplice è<br />

stata artificialmente indotta. La logica che caratterizza il paradigma medico<br />

(biomedico, psicomedico, sociomedico, ossia indipendentemente dalle sue maggiori o<br />

minori concessioni agli apporti della psicologia o della sociologia) è:<br />

- lineare (un determinato danno provoca una condizione di malattia e la cure<br />

saranno riparatorie di questo danno)<br />

- individualista (la salute e la malattia sono determinate dalla assenza/presenza di<br />

risorse nell’individuo e le cure costituiscono interventi diretti esclusivamente<br />

all’individuo)<br />

- astorico (vuole ignorare l’interazione dell’individuo con il suo ambiente, la sua<br />

cultura, la sua storia, la sua condizione sociale).<br />

In realtà il problema della sofferenza mentale è molto più complesso e tale<br />

complessità è ben sintetizzata nella domanda formulata dal geniale nordamericano<br />

Leon Eisenberg a proposito della malattia mentale; « Mental disorders or problems in<br />

living?», ossia quando ci riferiamo alla malattia mentale ci riferiamo a disturbi del<br />

sistema nervoso centrale o a problemi del vivere?<br />

L’apparente ingenuità della domanda in realtà supera la questione mente-corpo<br />

(e il noiosissimo dibattito tra psichiatri biologisti e psicodinamici) proponendo una<br />

terza variabile: l’ambiente, il contesto, ossia l’interazione tra soggetto biopsichico da<br />

un lato ed il contesto dall’altro. I fattori macrosociali, le differenze culturali, gli<br />

eventi esterni ed estremi, le condizioni socio-economiche, la mancanza di un<br />

supporto sociale adeguato, l’ambiente relazionale avverso, sono tutti fattori<br />

totalmente o relativamente indipendenti dalle caratteristiche biologiche o<br />

psicologiche di un individuo. I contesti micro e macrosociali congiuntamente giocano<br />

un ruolo cruciale nell’insorgenza e nell’evoluzione delle malattie mentali.<br />

Tuttavia, sarebbe un errore limitarsi a sommare la condizione sociale alle<br />

dimensioni psicologica e biologica per compilare semplicemente una lista di fattori<br />

causali o di rischio. L’operazione concettuale e pratica necessaria è molto più<br />

complessa: si tratta di generare un approccio globale alla malattia e alla salute, in cui<br />

3


anche i modelli teorici (e le pratiche di intervento) siano più articolate,<br />

interdisciplinari e innovative e non si limitino a sommare prescrizioni (rimedi,<br />

medicine) come in una ricetta di un medico troppo confuso.<br />

A questo punto è importante chiarire una volta per tutte che il conflitto tra<br />

approcci (biologico, psicologico e sociale) è in sé un conflitto falso: alla luce delle<br />

attuali conoscenze in neurobiologia, neuropsicologia, psicodinamica, sociologia<br />

sarebbe insensato proporre un modello di salute-malattia che non fosse interattivo e<br />

complesso.<br />

Un conflitto reale esiste, si’, ma è quello tra paradigma medico e paradigma<br />

dello sviluppo umano.<br />

Il ruolo egemonico del paradigma medico sorpassa i limiti della medicina e<br />

pe<strong>net</strong>ra altri settori, colonizza altri problemi, si appropria della sofferenza, la<br />

definisce, la classifica, la frammenta in tipologie e amministra risposte, una risposta<br />

per ciascuna domanda e, se la domanda non trova risposta sarà necessario<br />

riformularla in modo tale che non si formino gruppi di domande insoddisfatte. Questa<br />

logica frammenta le domande così come le risposte, crea gruppi o gruppetti di<br />

postulanti.<br />

Scrive Jurandir Freire Costa, professore dell’Istituto di Medicina Sociale della<br />

Università Statale di Rio de Janeiro: «…stiamo creando, sempre di più, popolazioni e<br />

tipologie specifiche, ogni volta siamo più specialisti in malati di AIDS, in anziani, in<br />

omosessuali, neri, donne, infanzia ecc. Sempre più stiamo costruendo un mondo di<br />

tribù…»<br />

Nasce così una mappa sempre più completa di risposte, di domande, di saperi e<br />

di poteri e di istituzioni per contenere tutte queste identità separate tra di loro.<br />

Sappiamo bene come ciascuna identità sia il risultato di un processo di<br />

differenziazione relativamente ad un flusso magmatico e indifferenziato all’interno<br />

del quale esistono connessioni multiple; il processo di costruzione dell’identità<br />

seleziona e riduce le connessioni, semplifica le molteplici possibilità esistenti, fissa i<br />

termini di riferimento, traccia limiti e frontiere. Si tratta di un processo che<br />

continuamente e contemporaneamente si determina in luoghi diversi, così che<br />

processi analoghi di identificazione possono essere in fasi differenti a causa delle<br />

condizioni storiche e geografiche.<br />

Certamente l’identità di un determinato gruppo umano si costituisce a partire<br />

da una urgenza di riconoscimento, dalla necessità di affermare una differenza e<br />

questo processo, storicamente e geograficamente determinato, trae con sé esperienze<br />

individuali e di gruppo che permettono la creazione di nuove conoscenze, la<br />

formazione di nuovi soggetti storici, di nuove idee politiche, la costruzione di nuovi<br />

linguaggi artistici: così ci insegna la storia di tutti i movimenti in cui una minoranza è<br />

stata riconosciuta come tale ed ha costruito la sua identità (bisogna ricordare che una<br />

minoranza può essere tale per scarsità numerica relativa – com’è il caso di molte<br />

popolazioni indigene – o per mancanza di rappresentatività effettiva in una<br />

determinata comunità, come è stato il caso della maggioranza nera in Sud Africa).<br />

Possiamo affermare che qualsiasi processo di autoidentificazione di una<br />

minoranza è un processo che arricchisce.<br />

4


Tuttavia vi è una tappa, nei processi di costruzione dell’identità, in cui<br />

l’identità stessa si costituisce in maniera così forte e guadagna talmente il suo spazio<br />

che si converte in istituzione, ossia termina la fase in cui la differenziazione<br />

arricchisce ed inizia la fase in cui l’identità si trova prigioniera delle sue proprie<br />

caratteristiche; l’identità non serve più a formare nuovi nessi bensì serve solamente<br />

alla sua autoriproduzione.<br />

L’identità, così istituzionalizzata, non interroga più né se stessa né il mondo ma<br />

si limita a sovrapporsi alle altre istituzioni esistenti come elemento in più del<br />

panorama generale.<br />

I soggetti che inizialmente avevano riconosciuto in sé l’esistenza di un’identità<br />

(una, però non esclusiva) assumono integralmente questa identità come l’unica<br />

esistente e diventano integralisti.<br />

L’integralismo è una forma di istituzione totale.<br />

Se l’identità è un’esigenza irrinunciabile, nondimeno «di una sola identità si<br />

muore» (F.Remotti, 1996), o si uccide. Siamo tutti coscienti che alcune identità<br />

(quelle etniche o religiose) trovano momenti storici o situazioni geopolitiche in cui<br />

sono artificialmente alimentate e molta della nostra storia contemporanea lo mostra<br />

tragicamente.<br />

Molte altre identità, che si riferiscono a gruppi umani più limitati, e le cui<br />

rivendicazioni non provocano conseguenze geopolitiche importanti, non interessano i<br />

governi ma possono anche essere alimentate da interessi economici, sociali o di<br />

politica nazionale e locale.<br />

3. Identità con confini e permeabilità dei confini<br />

Diamo ora un assetto ai concetti fino qui menzionati ritornando al paradigma<br />

della salute mentale e della malattia mentale.<br />

I concetti che ci serviranno sono i seguenti:<br />

- il modello biomedico è un paradigma semplificatore<br />

- la colonizzazione di tutte le sofferenze umane da parte del modello biomedico<br />

è un rischio reale<br />

- la moltiplicazione artificiale delle identità legate alle sofferenze è una<br />

conseguenza dei concetti precedentemente citati<br />

- le risposte che ciascuna identità riceve sono sempre più frammentate<br />

- si moltiplicano e rafforzano i confini tra le identità<br />

- il soggetto scompare di fronte all’identità nella quale sta rinchiuso e dalla quale<br />

è definito.<br />

Possiamo esprimere questa sequenza logica in maniera più articolata.<br />

5


Il modello biomedico della malattia mentale reperisce paradigmi lineari di<br />

causa-effetto e non tollera la complessità che l’obbligherebbe a fornire risposte<br />

complesse.<br />

L’estensione del modello biomedico a tutte le forme di sofferenza psicosociale<br />

determina una classificazione artificiale delle sofferenze in categorie semplificate (la<br />

donna maltrattata si trasforma in paziente depressa, il rifugiato di guerra si trasforma<br />

in paziente che soffre di stress post traumatico, ecc.).<br />

Si vengono così costruendo nuove identità fittizie (e un esempio molto<br />

interessante sono le associazioni di pazienti psichiatrici organizzati secondo diagnosi)<br />

che formulano domande iperselettive in attesa di risposte altrettanto iperselettive: a<br />

domanda semplice e selezionata corrisponde una risposta semplice e selezionata.<br />

Di conseguenza, i gruppi umani tendono ad organizzarsi ed a pensare a partire<br />

dall’affermazione di una ‘monoidentità’ che nega l’esistenza e la ricchezza delle<br />

molte identità che esistono in uno stesso soggetto: le persone non si rappresentano più<br />

come persone ma come depressi, come ossessivo-compulsivi, come psichiatri,<br />

psicologi, psicologhe, ecc. ed i Serbi come Serbi, gli Hutu come Hutu.<br />

Come si rappresenterà uno psichiatra serbo che è depresso?<br />

In altre parole: come non perdere la ricchezza, a volte contraddittoria, delle<br />

identità di un soggetto?<br />

Come rimanere in relazione e scambio con le molte appartenenze di ciascun<br />

soggetto? Le sue multiple comunità, culture, condizioni, ecc.?<br />

Il filosofo italiano Giorgio Agamben nella sua opera «La comunità a venire»<br />

suggerisce la possibilità che gli esseri umani al posto di continuare a cercare<br />

un’identità propria, possano trasformare il proprio essere in una «singolarità senza<br />

identità», di modo che le relazioni umane possano affermarsi senza la mediazione<br />

dell’appartenenza e delle identità.<br />

Sì, perché la forza di un’identità è inversamente proporzionale alla forza ed alla<br />

libertà del soggetto che è costretto ed imprigionato in essa.<br />

Quando l’identità integra il soggetto in se stessa, questa si trasforma in<br />

istituzione.<br />

Il processo di critica alle istituzioni totali non è stato solamente un processo di<br />

distruzione dello scandalo manicomiale (questo è stato l’aspetto più immediatamente<br />

evidente) ma un processo di ricostruzione del soggetto che stava dentro<br />

all’istituzione.<br />

L’istituzione totale teme la diversità, non tollera la differenza, teme l’estraneo e<br />

lo straniero, teme la corporeità, la sessualità, la produzione di senso perché<br />

semplicemente l’istituzione deve impiegare le sue energie per autoriprodursi.<br />

La nazione trasversale dei malati mentali e di tutti coloro che soffrono per<br />

essere privati del diritto alla salute mentale, la nazione che è senza voce né potere,<br />

corre il rischio di essere costretta, obbligata da confini impermeabili, in riserve,<br />

campi, manicomi, diagnosi, associazioni, clubs, circoli: tutto ciò che ostruisce il<br />

transito di persone, di merci, di culture, di argomenti, di follie, di veemenze.<br />

6


4. Utopie per la tolleranza<br />

Negli ultimi dieci anni in Francia si è diffusa un’espressione nuova che già è<br />

parte integrante della lingua di Voltaire: «sans papiers».<br />

Si usa per definire coloro che non hanno documenti, che emigrano dai paesi<br />

africani o dai Balcani o dall’Europa dell’Est e arrivano clandestinamente e lavorano<br />

in nero, sino a quando si scopre che sono «sans papiers». Il fenomeno è simile in<br />

Italia e più generalmente nei Paesi dell’Unione Europea.<br />

La storia conosce molto bene i «sans papiers»: semplicemente cambia il<br />

gruppo umano che viene considerato «indocumentato» ossia, incapace di dimostrare<br />

la sua appartenenza agli umani con diritti.<br />

Sono «indocumentati» gli emigranti clandestini così come i pazienti<br />

psichiatrici.<br />

Vi sono modi diversi di essere «sans papiers».<br />

Ci sono persone che i documenti, il ruolo, sì, li hanno, però non stanno qui<br />

perché stanno là. Laggiù sono umani: poveri, senza lavoro, però là hanno un ruolo e<br />

un documento, che dice che appartengono all’umanità. Qui no, non hanno ruolo né<br />

documento: sono alieni, stranieri, diversi e quindi senza ruolo e «sans papiers».<br />

La discriminazione passa per frontiere geografiche, economiche ed etniche.<br />

Però esistono anche persone che hanno sempre vissuto qui e tuttavia sono<br />

«indocumentati», non hanno documenti (ruolo) e non vi è nessun là dove li hanno.<br />

La discriminazione passa per altre frontiere: ragione versus sragione,<br />

comportamenti socialmente accettati versus comportamenti strani.<br />

Anche questi sono degli esclusi anche se i confini che li separano dagli altri si<br />

riferiscono alla loro esclusione dalla storia egemonica e non dalla geografia<br />

egemonica.<br />

Quelli di noi che hanno lavorato negli ospedali psichiatrici per chiuderli, sanno<br />

molto bene che il processo chiave è quello della ricostruzione «storica» degli<br />

internati, la riappropriazione del loro passato e presente, la riappropriazione del<br />

«senso» che ciascuno di loro ha prodotto nella propria vita, nonostante il notevole<br />

sforzo che l’istituzione fa nell’uccidere ogni «senso» individuale, annichilendo ogni<br />

differenza, costruendo una falsa identità collettiva: quella dei malati mentali cronici.<br />

Ancora una volta un’identità al servizio della negazione del soggetto.<br />

Una prima tappa dell’utopia deve essere il riconoscimento, senza indecisioni né<br />

eccezioni, del fatto che ogni uomo e donna è «produttore di senso».<br />

Tappa più ambiziosa sarà quella che comporta il riconoscere, e agire di<br />

conseguenza, che i milioni di uomini e donne la cui produzione di senso è limitata,<br />

bloccata, annichilita, negata, non si trovano in questa situazione perché malati<br />

mentali o perché in terribile situazione di sofferenza psicosociale, bensì<br />

7


essenzialmente a causa della mancanza di risposte adeguate alla loro malattia o alla<br />

loro sofferenza psicosociale.<br />

In altre parole, non è il deficit, derivante da condizioni di malattia o di<br />

sofferenza psicosociale, che sottrae senso agli esseri umani bensì una decisione<br />

discriminatoria presa da altri. Una decisione che definisce la produzione di senso<br />

estraneo alla ragione dominante come «assenza di senso».<br />

E da qui inizia il processo di perdita di potere materiale e psicologico,<br />

l’istituzionalizzazione all’interno di categorie definite una volta per sempre, la<br />

semplificazione delle risposte fino alla risposta più semplice ed annichilente<br />

dell’internamento.<br />

Bisogna fare il percorso all’inverso: riacquisizione di potere,<br />

deistituzionalizzazione delle identità fittizie, ricostruzione della storia del soggetto,<br />

ricostruzione di spazi e tempi per l’espressione del senso.<br />

Dobbiamo chiederci se questo processo di ristoricizzazione non ha qualcosa in<br />

comune con il necessario processo di ricostruzione del senso umano e culturale che si<br />

nasconde dietro le differenze geografiche, etniche e culturali degli «altri sans<br />

papiers» del nostro tempo.<br />

In entrambe i casi si tratta di un processo di «empowerment» , di<br />

riappropriazione della soggettività a fronte della violenza delle identità attribuite ed a<br />

volte autoattribuite.<br />

Tutti sappiamo che il problema della diversità non si risolve creando spazi<br />

concreti e metaforici in cui isolare, separare, annientare. Non vogliamo isolare la<br />

diversità e su questo punto è possibile creare consenso.<br />

Tuttavia è molto più difficile creare consenso per smascherare l’illusione della<br />

normalizzazione della diversità.<br />

Bisogna diffidare delle illusorie soluzioni positiviste per la normalizzazione<br />

della diversità.<br />

Quando si proibisce ad una minoranza di parlare la propria lingua, quando si<br />

discrimina l’omosessualità, quando si tenta di ridurre la sofferenza della donna<br />

causata dalla violenza domestica ad una semplice diagnosi medica, si sta negando<br />

l’esistenza della diversità o meglio, si sta obbligando la diversità alla non esistenza, al<br />

suo non affermarsi come parte ineludibile della complessità.<br />

È molto più semplice normalizzare la diversità che diversificare la norma.<br />

Si parla molto di riabilitazione (dei malati mentali, dei disabili fisici, dei<br />

bambini di strada, dei carcerati). Si parla molto di integrazione degli emigranti o dei<br />

rifugiati. Si parla molto della lotta contro l’esclusione. Nondimeno questi processi di<br />

riabilitazione, integrazione o inclusione non possono essere visti come processi di<br />

normalizzazione in cui sono gli anelli deboli della catena che devono modificarsi<br />

mentre quelli forti non cambiano.<br />

Coloro che non hanno gambe potranno camminare grazie alle protesi, certo,<br />

però anche grazie a meno barriere architettoniche nella città.<br />

Detto altrimenti: se la disabilità appartiene al soggetto, l’handicap di cui soffre<br />

appartiene alla comunità che lo circonda. La diversità quindi deve indurre un<br />

cambiamento delle regole del vivere e non solamente cercare un cambiamento per sé<br />

8


stessa. L’inclusione, contrapposta all’esclusione, non è l’apprendimento da parte dei<br />

poveri delle regole dei ricchi, bensì è il cambiamento delle regole del gioco.<br />

Non vogliamo città senza i diversi bensì i diversi nelle città.<br />

L’utopia che vogliamo è quella delle comunità umane dove le diversità hanno<br />

diritti di cittadinanza ma non come identità separate.<br />

Lo psichiatra italiano Franco Rotelli scrive che non esiste un centro di salute<br />

mentale più bello del bazar arabo. Mi pare un’immagine molto bella e molto<br />

intelligente. La piazza del mercato di Firenze del Rinascimento, il mercato di<br />

Chichicastenago in Guatemala, il porto di Marsiglia, la spiaggia di Rio de Janeiro<br />

sono centri di salute mentale in quanto luoghi di incontro, di scambio, di «negozio»<br />

in cui le identità non esistono però sì esistono le diversità, cioè i soggetti ed il senso<br />

che essi producono.<br />

Voi sapete che la parola «negozio» viene dal latino e significa negazione<br />

dell’ozio. Ozio come solitudine, come isolamento, come esclusione all’interno di<br />

identità piccole, povere, ridotte. Negozio come processo di scambio tra persone,<br />

affettivo e materiale.<br />

Molti anni fa visitai un laboratorio riabilitativo per pazienti in un ospedale<br />

psichiatrico. I pazienti producevano oggetti di terracotta e li mandavano in un<br />

negozio della città. La città in cui si trovava questo ospedale psichiatrico era<br />

costantemente visitata da turisti che compravano gli oggetti di terracotta, artigianato<br />

tipico locale molto conosciuto.<br />

Domandai ad uno dei pazienti come andavano gli affari : «Si vendono molti dei<br />

suoi oggetti di terracotta?» La risposta fu semplice e chiara: «Nemmeno uno».<br />

«E perché?», chiesi «perché i turisti non sono scemi e comprano artigianato di<br />

buona qualità ed i nostri oggetti sono di cattiva qualità».<br />

Due anni dopo sono ritornato e mi spiegarono che ora i pazienti non<br />

lavoravano più all’interno dell’ospedale perché avevano un negozio nel centro della<br />

città. Andai a visitarlo con molto entusiasmo. E nuovamente feci la stessa domanda:<br />

se vendessero molto o poco. Lo stesso signore di due anni prima mi rispose «Non<br />

vendiamo niente. I turisti guardano e proseguono verso altri negozi che vendono<br />

artigianato di qualità migliore della nostra». Mi mostrai dispiaciuto, il signore se ne<br />

rese conto e mi disse: «Adesso sì che siamo contenti, ora è molto diverso di prima».<br />

Non notavo molta differenza. Il signore mi disse con voce chiara ed allegra: «Guarda,<br />

due anni fa ero uno psicotico che faceva brutta terracotta. Oggi sono il padrone di un<br />

negozio di artigianato di questa città, ancora psicotico ed il business (così disse) va<br />

molto male, come per molti altri in questo paese. Siamo commercianti in difficoltà.»<br />

Questo signore aveva molto chiara la differenza tra l’essere uno psicotico escluso<br />

o l’essere incluso, cioè godere del diritto di essere un cittadino. Ciò che aveva<br />

guadagnato era la possibilità di star seduto nel «bazar arabo», psicotico, povero però<br />

cittadino. Aveva guadagnato identità addizionali e non era più padrone-schiavo di<br />

una sola identità.<br />

9


5. Cittadinanza come contesto delle identità<br />

La cittadinanza è il contesto ineludibile di qualsiasi discorso sulla diversità. La<br />

cittadinanza è la precondizione di qualsiasi cura della malattia. La cittadinanza è un<br />

diritto in sé: somma di diritti negativi (a non essere escluso, a non essere<br />

abbandonato, a non essere violentato) e di diritti positivi ( a essere preso in carico dai<br />

servizi sanitari, ad essere trattato bene, ad esser riconosciuto per i bisogni personali).<br />

È molto probabile che il bisogno di appartenenza ad una sola identità, prioritaria<br />

ed integrale, sia inversamente proporzionale al godimento della cittadinanza: quanto<br />

più godiamo dei diritti di cittadinanza tanto meno abbiamo bisogno di riconoscerci in<br />

una identità unica perché la nostra soggettività è sufficientemente riconosciuta e<br />

produttiva.<br />

L’utopia della salute per tutti può trasformarsi in programma reale, in obiettivo<br />

concreto quando salute e cittadinanza sono viste come inscindibili.<br />

La tolleranza è stato il paradigma illuminista che ci ha accompagnato (nei saggi<br />

filosofici più che nella realtà storica) fino dalla rivoluzione francese. Tolleranza come<br />

forma di accettazione della diversità, come sforzo morale ed intellettuale di coloro i<br />

quali appartengono alla ragione, alla norma, alla maggioranza. Questo nobile sforzo<br />

morale ha disegnato una minoranza nella maggioranza: gli uomini di buona volontà<br />

che, tuttavia, non sempre sono quelli che controllano i confini e che definiscono le<br />

norme per quelli che devono attraversarli.<br />

Nella nostra epoca e nel futuro la tolleranza dovrà esercitarsi con meno enfasi<br />

rispetto alla buona volontà degli individui e molta più enfasi rispetto all’affermazione<br />

dei diritti sostanziali protetti dalla collettività e dalle sue organizzazioni pubbliche.<br />

La cittadinanza è una forma di tolleranza che non è basata sulla volontà nobile di<br />

una minoranza illuminata bensì sulla capacità di organizzazione delle risorse e delle<br />

istituzioni che esistono nella comunità.<br />

La tolleranza come etica del rispetto dell’uguaglianza degli esseri umani si<br />

trasforma in etica dell’accesso alle opportunità materiali ed affettive di cui una<br />

comunità dispone.<br />

Ormai non può più esistere il tempo in cui l’etica è qualcosa per i filosofi o i<br />

sacerdoti o i teologi; è l’etica dell’accesso quella che cambia la vita dei diversi e di<br />

tutti i normali, che in un momento dato della loro vita normale saranno anche loro<br />

diversi; accesso alle cure, ad essere ascoltati, al sostegno, alle risorse, alle<br />

opportunità, agli scambi, alle piazze di mercato.<br />

L’etica dell’accesso si basa su di una concezione dei servizi ed in particolar modo<br />

dei servizi sanitari, totalmente diversa da quella che nella realtà generalmente<br />

caratterizza i servizi sanitari.<br />

Ancora una volta utilizziamo l’esempio della salute mentale.<br />

Si tratta di immaginare il servizio di salute mentale come uno spazio concreto e<br />

metaforico che è caratterizzato per essere accessibile, flessibile, permeabile a saperi<br />

diversi, attento a generare scambi, relazioni, opportunità per i suoi clienti.<br />

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Un servizio di salute mentale di alta qualità è un sistema di spazi fisici e di risorse<br />

umane capace di interagire con il livello di base della assistenza sanitaria, con altri<br />

settori del sistema sanitario, con altre agenzie sociali e con la comunità circostante. Il<br />

servizio deve essere costantemente attraversato e abitato dagli utenti e dai<br />

professionisti di salute mentale. Il servizio non deve essere erogatore di un’offerta<br />

chiusa, cioè definita una volta per tutte. Non si tratta di un ristorante che ha i suoi<br />

piatti fissi ed i clienti devono adattarsi all’offerta, questa logica funziona nei ristoranti<br />

perché i clienti possono scegliere tra vari ristoranti, fino a quando non trovano il cibo<br />

che più li soddisfa. Il servizio di salute mentale serve una popolazione che vive in un<br />

area definita del territorio e gli utenti hanno il diritto a trovare ciò di cui loro hanno<br />

bisogno e non ciò che il padrone del ristorante ha deciso. Vi sono servizi di salute<br />

mentale che offrono terapia farmacologica e nient’altro, altri che offrono psicoterapia<br />

familiare perché ciò piace al padrone, ecc. ma così non può essere.<br />

Gli utenti hanno il diritto di trovare chi li ascolta, sostegno psicologico,<br />

programmi riabilitativi, terapie farmacologiche adeguate, opportunità di<br />

socializzazione, possibilità di essere ricoverati per periodi brevi in ambienti adeguati<br />

(ed i manicomi non sono ambienti adeguati a nulla), ecc. perché questi sono gli<br />

strumenti che hanno mostrato di essere efficaci per aiutare quelli che soffrono di<br />

malattia mentale. Punto.<br />

Non c’è molto da discutere.<br />

Gli utenti hanno diritto ad utilizzare il servizio quando ne hanno bisogno e non<br />

quando il servizio sta funzionando (forse un’ora al giorno). Il servizio di salute<br />

mentale è comunitario non perché situato (cioè ha un indirizzo postale) in un certo<br />

posto di una città o di una zona rurale, l’essere comunitario implica una strategia di<br />

azioni ed interazioni con la comunità. Tutto ciò che noi qui stiamo sostenendo non è<br />

qualcosa di strano, rivoluzionario, impossibile. Non è strano perché è descritto nella<br />

letteratura scientifica internazionale; non è rivoluzionario perché è stato realizzato in<br />

molti paesi, o regioni o province del mondo in cui non vi è nessun tipo di rivoluzione,<br />

ma più semplicemente una politica di salute mentale ed un’organizzazione dei servizi<br />

di buona qualità; non è impossibile perché esiste tanto nei paesi industrializzati<br />

quanto nei paesi con risorse molto minori. Non è qualcosa che appartiene al Nord del<br />

mondo né al Sud perché esiste tanto al Nord come al Sud.<br />

Ci sono esempi straordinari in Europa (Italia, Spagna, Inghilterra) così come nei<br />

paesi asiatici (in India per esempio) e anche in America.<br />

Una critica a questo modello di servizio si basa talvolta sull’argomento della<br />

mancanza di risorse.<br />

È sicuramente un’argomentazione seria che deve essere tenuta in considerazione,<br />

ma allo stesso tempo dissimula la mancanza di capacità di cambiamento ed<br />

innovazione degli operatori sanitari.<br />

È necessario riflettere attentamente sulla nozione di «risorsa» in salute mentale.<br />

Voi tutti ricorderete il racconto di Robinson Crusoe che, dopo il naufragio, si ritrova<br />

solo in un’isola deserta. Robinson è disperato perché non vede via d’uscita alla sua<br />

situazione: non c’è da mangiare, né acqua da bere. Non vi è nulla di nulla.<br />

11


La sua unica possibilità di sopravvivenza si trova nel relitto della sua<br />

imbarcazione semisommersa: con molto lavoro può trarre in salvo alcune gallette,<br />

vino, alimenti vari e molte altre cose che potranno servirgli nella sua vita solitaria di<br />

naufrago. Con il trascorrere del tempo tuttavia, queste risorse si esauriscono e<br />

Robinson inizia a vedere con altri occhi l’ambiente che lo circonda. Inizia ad<br />

esplorare sistematicamente l’isola e trova un fiume, alcune piante, legumi, animali<br />

…. E poco a poco l’isola deserta si trasforma in un luogo di vita possibile, piena di<br />

risorse … c’è di tutto …. Persino un altro essere umano.<br />

Il fiume, le piante, gli animali e l’uomo che risiedono in quest’isola sono lì da<br />

sempre. Semplicemente Robinson non li aveva visti, ciò che si modifica non è l’isola<br />

ma lo sguardo di Robinson.<br />

Non ci sono risorse nelle nostre isole deserte dei servizi pubblici. È vero, è però<br />

vero anche che il nostro sguardo è molto stereotipato, limitato cosicché consideriamo<br />

risorsa solo ciò che ci vien dato. Tuttavia è una risorsa anche ciò che esiste e che non<br />

sappiamo vedere.<br />

La comunità in sé è una risorsa, gli organismi pubblici (gli altri servizi sanitari, le<br />

scuole, gli enti assistenziali) e quelli privati (le parrocchie, i partiti politici, i<br />

sindacati, le associazioni sportive, ecc.) sono tutte risorse. Gli utenti e le loro famiglie<br />

sono anch’essi risorse.<br />

Bisogna finirla con l’idea che gli utenti di un servizio siano semplicemente un<br />

costo: sono nello stesso tempo un costo ed un investimento. In realtà la miseria dei<br />

servizi dipende soprattutto dalla loro stessa miseria concettuale e organizzativa; è<br />

l’isolamento della psichiatria che isola gli utenti della psichiatria così come è la sua<br />

miseria intrinseca che fa miserabili i suoi luoghi d’azione.<br />

Per provare ciò che sto affermando è sufficiente comparare i servizi di cardiologia<br />

o di qualsiasi altra specializzazione medica nei paesi ricchi con gli equivalenti servizi<br />

in paesi poveri: la differenza è evidente e dipende dalle maggiori o minori risorse<br />

disponibili.<br />

Se si paragonano i manicomi dei paesi con notevoli differenze di sviluppo<br />

economico si conferma il fatto che la miseria è trasversale, è cioè una variabile molto<br />

poco dipendente dalla ricchezza del paese e molto più dipendente dall’approccio alla<br />

malattia mentale.<br />

Vi sono servizi psichiatrici miserabili in paesi ricchi e servizi eccellenti in paesi<br />

poveri. Ai professionisti di salute mentale che vivono nel Sud del mondo e che<br />

chiedono «dove» potrebbero, con una borsa di studio, andare ad imparare la «buona<br />

psichiatria» non è necessario rispondere proponendo una lista di città nordamericane,<br />

inglesi, tedesche, ecc. Si può invece risponder loro: «Visitate i servizi di salute<br />

mentale della Provincia di Rio Negro in Patagonia, imparate la riabilitazione<br />

psicosociale nei centri di salute mentale di Santos o in alcuni CAPS di San Paolo,<br />

oppure a Madras, in India, o nei centri di salute di base dell’Iran. In questi luoghi<br />

potrete trovare una ricchezza dei servizi di salute mentale realmente straordinaria che<br />

mostra come la psichiatria povera del Sud può a volte insegnare molto alla povera<br />

psichiatria del Nord.»<br />

Ho iniziato parlando di utopie e concludo parlando di organizzazione di servizi.<br />

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In realtà credo che l’utopia della tolleranza e la cittadinanza come forma moderna<br />

di tolleranza saranno più reali solamente nella misura in cui la riorganizzazione della<br />

banalità della vita quotidiana (che include i servizi sanitari) e la riaffermazione della<br />

soggettività torneranno ad essere parte integrante di qualsiasi discorso generale sul<br />

nostro futuro.<br />

Forse l’esplorazione degli arcani psichici o dei segreti biochimici è meno feconda,<br />

per gli uomini e le donne che soffrono e che non hanno potere, di quanto potrebbe<br />

esserlo l’esplorazione degli arcani dei bilanci dei servizi pubblici e privati che<br />

accompagnano la nostra vita reale.<br />

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