Carità che si fa servizio nei primi cinquant'anni di storia dell'Istituto

spiaceri, in ciò attuando gli esempi del Cuor di Gesù” (Proc II, 308). Insultata ingiustamente – racconta
un testimone – “io la vidi volgersi a braccia aperte al Crocifisso dicendo: Sia lodato Gesù Cristo
che ho patito qualche cosa per voi” (Proc II, 350).
La compassione, come capacità tutta femminile di farsi carico dei pesi delle persone per portarli insieme,
è di fatto la caratteristica più evidente della sua carità. L’esame grafologico, che non fa rilievi
spirituali, la traduce con ‘comprensione’. Per ben sette volte l’esperto sottolinea che “le tendenze
forti” della Gerosa erano “raddolcite da una massima comprensione” e per due volte da “notevole
tenerezza di tipo mistico”. Essa si proponeva infatti:
“Compassionerò di cuore le afflizioni e le miserie dei poveri tribolati; dirò sovente a me
stessa: io potevo essere in luogo loro. I più cenciosi e derelitti saranno in modo speciale
l’oggetto delle mie cure ed attenzioni. Soprattutto, mio adorabile Salvatore, io riconoscerò
voi stesso in ciascuno dei tribolati e poverelli” (Scandella, VG, 65).
E alle suore in “Santa Chiara” a Bergamo scriveva:
“Quanto volentieri correrei a dividere con voi le fatiche se avessi sanità e forze bastanti.
Vi so però molto compatire e, non potendo far altro, vi raccomando sempre al Signore e
vi ricordo una per una” (VG, 125).
Insegnava anche alle suore a compatirsi vicendevolmente e a compatire i prossimi.
“Amatevi scambievolmente, compatitevi l’una l’altra ché avrete la benedizione di Dio”
(VG, 425).
“Abbia compassione di loro (novizie), non si diventa sante in un colpo” (Proc II, 337-
338).
“Sappiatevi vicendevolmente compatire e se qualcuna cadesse in qualche imperfezione
copritela col manto della carità” (VG, 124).
“Se non fanno bene – scriveva agli amministratori di un’opera – correggetele… Bisogna
però anche compatire perché noi non sappiamo fare nulla” (VG, 387).
Sapeva entrare con tatto e partecipazione nelle situazioni, addossarsi i bisogni delle persone, mettersi
nei loro panni: “si può dire che ella sentisse in cuor suo tutte le miserie dell’umanità” (Proc II,
316). Accostava e ascoltava la persona prima di darsi da fare per risolvere i suoi problemi. Per questo
la sentivano anzitutto ‘madre’.
Leggeva sui volti le sofferenze. Da un’inferriata della sua casa – raccontavano i testimoni – soleva
chiamare con cenni le donne povere per soccorrerle e al Conventino si sporgeva dal portone per riconoscere
tra quelli che passavano sulla strada le persone bisognose. Capiva se quella ragazza povera
arrivava a scuola digiuna, intuiva se una mamma non aveva nulla da mettere nel piatto dei figli,
preveniva quell’altra che non osava chiedere, si prendeva cura dei bambini per far riposare un po’ di
più una lavandaia che aveva incontrato per strada sfinita (cf VG, 34, 333 ss). Episodi come questi
abbondano.
“So che spesso indovinava i bisogni speciali delle famiglie, tanto da far meraviglia alle
persone che mandava a portar soccorsi che poi provavano la realtà” (Proc II, 311).
“Preveniva il bisogno dei poveri per togliere loro l’umiliazione del cercar soccorso”
(Proc II, 337).
“Di notte portava doni nel grembiale ai poveri, ai malati; conosceva bene chi ne avesse
bisogno e quelli che avevano vergogna di essere aiutati, perciò portava loro di nascosto
le offerte” (Proc II, 311, 345).
“A povera gente che metteva su botteghino ella diventava cliente generosa” (Proc II,
309).
“Quando abbisognava di far lavorare cercava quegli operai che avevano più bisogno,
piuttosto che quelli che lavoravano meglio” (Proc II, 365).
La sua passione per il Crocifisso si rendeva visibile in questa partecipazione di fatto alle sofferenze
delle persone che considerava “vive immagini del Redentore”, “membra preziose di Gesù Cristo”.
Aveva – si è scritto – “la compassione del buon Samaritano”, “era veramente la misericordia”.
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