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EDITORIALE<br />

4<br />

ritti dell’uomo, dove non mancano esempi di spiritualità; inoltre la laicità<br />

praticata è spesso un dato non omologab<strong>il</strong>e all’ateismo: è stata pensata, dopo<br />

aspri conflitti, per creare ambiti di libertà per ogni religione o visione<br />

del mondo. Infine c’è anche un dovere ecumenico: far conoscere la tradizione<br />

del cristianesimo occidentale a quello orientale e ortodosso, spingendoli<br />

ad essere più attenti a questi mondi, alle loro ricchezze di riflessione<br />

teologica, di vita liturgica, di esperienza contemplativa.<br />

Nel conflitto israelo-palestinese c’è <strong>il</strong> compito per i cristiani di aiutare a<br />

non islamizzare <strong>il</strong> problema e a non ebraicizzarlo, cercando di disinnescare<br />

soprattutto la questione di Gerusalemme che, a parere degli osservatori, è<br />

per ora l’ostacolo su cui si va ad infrangere ogni trattativa di pace: «le distanze<br />

fra le parti sono cresciute su tutto, meno che sulla città santa. Non<br />

perché si siano accorciate – è l’opinione molto pessimista di Lucio Caracciolo,<br />

direttore della rivista Limes – ma perché erano e restano incommensurab<strong>il</strong>i,<br />

come quelle che dividono una verità assoluta da una verità assoluta:<br />

perché lì, nel bacino sacro, si confrontano le incomponib<strong>il</strong>i verità delle<br />

grandi religioni monoteistiche. Ogni terra è negoziab<strong>il</strong>e, meno quella santa.<br />

Gerusalemme simboleggia la dimensione profonda del conflitto religioso.<br />

Sempre meno nazionale e sempre più religiosa. La partita vera è fra islamismo<br />

ed ebraismo e fra i vari islamismi ed ebraismi spesso in contrasto tra<br />

loro». Lo stesso conflitto, con gli stessi protagonisti, in altra parte del pianeta,<br />

sarebbe già stato probab<strong>il</strong>mente risolto. «Ma dove ogni sasso racconta<br />

la mia verità e nega quella degli altri, la pace resta un miraggio».<br />

Per i dirigenti israeliani è ind<strong>il</strong>azionab<strong>il</strong>e rendere impraticab<strong>il</strong>e la divisione<br />

della città, così com’era stata prefigurata dalla formula del presidente<br />

degli Stati Uniti B<strong>il</strong>l Clinton: «Ciò che è arabo ai palestinesi, ciò che è<br />

ebraico agli israeliani». Diventa così decisivo togliere spazi ai quartieri arabi,<br />

insediandovi comunità ebraiche, da connettere fra loro e, nello stesso<br />

tempo, confermare e rafforzare <strong>il</strong> peso dei coloni nella società e nel ceto politico<br />

d’Israele. L’attuale dirigenza ha più volte ripetuto l’indisponib<strong>il</strong>ità a<br />

porre limiti all’espandersi degli insediamenti israeliani nell’area di Gerusalemme,<br />

«capitale unica, eterna e indivisib<strong>il</strong>e dello Stato ebraico». È questa<br />

la ragione che rende parziale e insufficiente l’appello lanciato da intellettuali<br />

e scrittori (e tra questi David Grossmann) perché sia abbandonata l’ideologia<br />

degli insediamenti in Cisgiordania, «che non fa progredire Israele<br />

verso <strong>il</strong> futuro che merita».<br />

Se la vera questione è Gerusalemme, la cui soluzione da un lato non è<br />

più soltanto in mano a palestinesi, ma è stata assunta dall’insieme della comunità<br />

islamica, dagli esponenti politici e religiosi più dinamici e interventisti<br />

– cui si è aggiunto ultimamente Erdogan, presidente di una «Turchia<br />

neo-ottomana» –, una politica bloccata sullo status di Gerusalemme,<br />

all’insegna di una radicale intransigenza, può essere motivo di nuove guer-<br />

dialoghi n. 4 dicembre 2010

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