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D ialoghi<br />
ANNO VII<br />
SETTEMBRE 2007<br />
Numero 3<br />
Euro 8,00<br />
“<strong>Dialoghi</strong>” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - CNS/AC ROMA - ISSN 1593-5760<br />
Quale uomo per le virtù?<br />
Luciano<br />
Caimi<br />
Pina<br />
De Simone<br />
Nunzio<br />
Galantino<br />
Franco<br />
Miano<br />
Alberto<br />
Monticone<br />
Paolo<br />
Pagani<br />
Lilia<br />
Sebastiani<br />
Sergio<br />
Zaninelli<br />
Silvano<br />
Zucal
<strong>Dialoghi</strong><br />
per un progetto culturale cristianamente ispirato<br />
Direttore<br />
Luciano CAIMI<br />
Direttore responsabile<br />
Paola BIGNARDI<br />
Anno VII, n. 3<br />
Rivista trimestrale promossa dall’<strong>Azione</strong> <strong>Cattolica</strong> <strong>Italiana</strong><br />
in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”<br />
Comitato di direzione<br />
Luigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN,<br />
Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, mons. Francesco LAMBIASI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO,<br />
Marco OLIVETTI, Matteo TRUFFELLI.<br />
Redazione<br />
Giovanni GRANDI (coordinatore), Antonio MARTINO.<br />
Promozione<br />
Rosella GRANDE<br />
Comitato scientifico<br />
Pasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI,<br />
Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA,<br />
Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI,<br />
Claudio GIULIODORI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI, Orazio Francesco PIAZZA,<br />
Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA, Ignazio SANNA, Pierangelo<br />
SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, Stefano ZAMAGNI, Sergio ZANINELLI.<br />
Editrice<br />
Fondazione Apostolicam Actuositatem<br />
Sede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 Roma<br />
Uffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 Roma<br />
Tel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207<br />
E-mail: dialoghi@azionecattolica.it<br />
area.editoriale@azionecattolica.it<br />
Progetto grafico e impaginazione<br />
Giuliano D’Orsi<br />
In copertina<br />
Mantegna, Trionfo della Virtù (Minerva scaccia i Vizi dal giardino della Virtù), 1499-1502 (ca.)<br />
Parigi, Musée du Louvre<br />
Illustrazioni interne<br />
Tratte dal volume C. Ripa Baroque and Rococo. Pictorial imagery.<br />
Dover publications, Inc., 1971<br />
Stampa<br />
So.gra.ro. – Roma<br />
Tiratura: 2.000 copie – Finito di stampare nel mese di settembre 2007
Editoriale<br />
Se vince l’anti-politica 2<br />
Luciano Caimi<br />
Primo Piano<br />
Le “Settimane sociali”: storia, significato, attualità 6<br />
Sergio Zaninelli<br />
Dossier: Quale uomo per le virtù?<br />
L’oblio delle virtù a favore del desiderio 16<br />
Nunzio Galantino<br />
L’eredità di Trasimaco 26<br />
Paolo Pagani<br />
Dialogo, ergo sum<br />
Silvano Zucal<br />
36<br />
Ciò che appare e ciò che è<br />
Alberto Monticone<br />
46<br />
Quando il cammino si fa vita<br />
Lilia Sebastiani<br />
52<br />
Le tappe di un cammino virtuoso<br />
Pina De Simone e Franco Miano<br />
60<br />
SOMMARIO<br />
Eventi e Idee<br />
Politica sul fronte orientale<br />
Stefano Leszczynski<br />
64<br />
Attualità della pedagogia montessoriana<br />
Paola Trabalzini<br />
69<br />
Il Mali, l’Africa “cinesizzata”<br />
Matteo Colombo<br />
76<br />
America Latina: Una nuova stagione per l’evangelizzazione<br />
Fabio Zavattaro<br />
84<br />
Il Libro e i Libri<br />
Le donne nella “rivoluzione più lunga”<br />
Giuseppe Tognon<br />
90<br />
Ritratto di periferia<br />
Antonio Mastantuono<br />
94<br />
Il dirsi e il farsi del laico cristiano<br />
Giacomo Canobbio e Luigi F. Pizzolato<br />
99<br />
Profili<br />
Robert Baden-Powell.<br />
Le virtù antiche e moderne dell’uomo di frontiera 108<br />
Vincenzo Schirripa<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
1
EDITORIALE<br />
Se vince<br />
l’anti-politica<br />
EDITORIALE<br />
Luciano Caimi<br />
Lo confesso: a volte mi prende lo scoramento, guardando da vicino<br />
questo nostro – pur amato – Paese. Non sono certo il solo. Da qualsiasi<br />
parte ci giriamo si scorgono motivi di forte preoccupazione. Sembra di<br />
non riuscire a trovare la bussola per orientare in modo chiaro e sicuro il<br />
cammino del sistema nel suo insieme. È una lotta di tutti contro tutti. I<br />
toni dello scontro sono asperrimi, le parole sempre sopra le righe e sovente<br />
sguaiate sino alla volgarità. L’obiettivo sembra soltanto uno: difendere il<br />
proprio particulare, le proprie posizioni di rendita. Il bene comune, le esigenze<br />
dell’insieme? Restano sempre un problema... degli altri.<br />
Intendiamoci, nessuno è così ingenuo da dimenticare che il conflitto<br />
costituisce elemento insopprimibile di una società complessa come la<br />
nostra, dove poteri e interessi di parte entrano in forte dialettica. Però ci<br />
sono limiti non valicabili: la tutela dei bisogni collettivi, con al centro la<br />
cura per le fasce meno protette della popolazione; il rispetto delle persone;<br />
il senso delle istituzioni e della legge.<br />
Sembra, quella italiana, una transizione infinita. Il più volte invocato<br />
“Paese normale” pare una chimera. Eppure la normalità in questione resta<br />
obiettivo indispensabile per procedere con dignità ed efficacia, fronteggiando<br />
le sfide della disuguaglianza, dell’integrazione europea e della globalizzazione.<br />
Ruota intorno ad alcune regole vincolanti per tutti. Ad<br />
esempio: la salvaguardia della distinzione, costituzionalmente sancita, dei<br />
poteri; la delimitazione degli spazi della politica, contro il perenne rischio<br />
di occupazione invasiva delle istituzioni; l’approntamento di leggi elettorali<br />
a tutela di un’effettiva governabilità; la semplificazione del quadro<br />
delle rappresentanze partitiche; la definizione di normative certe per i set-<br />
2<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
tori “sensibili” delle società avanzate (mass-media, telecomunicazioni,<br />
informatica), di grande impatto sulla stessa democrazia; la flessibilità<br />
(disciplinata, non selvaggia) del mondo del lavoro; la de-burocratizzazione<br />
delle attività imprenditoriali.<br />
Si fa presto a dire, ma quando si tenta di toccare anche un piccolo tassello<br />
dell’ossificato sistema-Paese è la rivolta. Pensiamo, in campo politico,<br />
alla tenace difesa a opera dei piccoli partiti delle loro modeste e però, in<br />
un sistema come il nostro, decisive quote di rappresentanza. In simile<br />
stato di cose la debolezza diventa forza e viene brandita quale arma di<br />
ricatto continuo. Vale senz’altro per il governo nazionale e, in buona<br />
misura, anche per quelli locali. Si sperava che il sistema maggioritario,<br />
dopo le stagioni del proporzionalismo consociativo, rendesse più agevole<br />
la governabilità del Paese. Ma siamo daccapo. L’attuale maggioranza<br />
governativa si trova, quasi ogni giorno, con il fiato sospeso. Ciascun provvedimento,<br />
prima che il fuoco incrociato dell’opposizione, deve superare<br />
gli sbarramenti interni. Gli esiti, pertanto, sono sempre incerti, affogati in<br />
discussioni e mediazioni infinite, che rallentano ogni decisione. E si sa<br />
quanto la rapidità delle scelte, in un tempo come il nostro, sia importante.<br />
I risicatissimi numeri di vantaggio al Senato fanno, poi, il resto. Molti<br />
disegni di legge, giunti lì, arrancano. Il troppo frequente ricorso al voto di<br />
fiducia, benché giustificato, in più di un caso, dalle manovre ostruzionistiche<br />
dell’opposizione, ha sempre il sapore acre del “giorno del giudizio”,<br />
instilla una psicologia da “resa dei conti finale”.<br />
Non parliamo poi delle ferocissime difese del proprio particulare da<br />
parte delle innumerevoli categorie professionali. Basta un intervento legislativo<br />
per smuovere un po’ le acque, nel senso di rendere più concorrenziale<br />
il mercato, ed è la rivolta. Taxisti, benzinai, artigiani, commercianti,<br />
ma anche farmacisti, avvocati, notai sono tutti in piazza. Naturalmente,<br />
nelle prime file dei cortei fanno bella mostra di sé volti noti della politica,<br />
pronti a cogliere al volo l’occasione d’oro offerta per un bell’esercizio di<br />
demagogia... che dà sempre i suoi frutti. Altro caso è quello del pubblico<br />
impiego, settore bisognoso di un robusto ammodernamento complessivo,<br />
con la necessità, fra l’altro, d’incrementare la produttività, favorire la<br />
mobilità del personale, per rendere servizi migliori ai cittadini. Ma anche<br />
qui: che fatica e che resistenze al cambiamento, in una strenua difesa di<br />
consolidate posizioni di rendita!<br />
Vi sono, inoltre, questioni locali, con rilievo nazionale, che, seppure<br />
molto diverse per tipologia e relativi significati socio-culturali, concorrono<br />
a incrementare nell’opinione pubblica un senso di disagio e sfiducia<br />
circa l’effettiva capacità delle autorità politiche competenti a trovare per<br />
esse soluzioni serie e in tempi ragionevoli. Mi riferisco, esemplificativamente,<br />
ai problemi della TAV in Val di Susa e dei rifiuti urbani a Napoli e<br />
LUCIANO CAIMI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
3
EDITORIALE<br />
dintorni. Se il primo, pur con i noti, estenuanti bracci di ferro fra le forze<br />
in campo e le inevitabili “mediazioni” un po’ all’italiana, sembra avere<br />
fatto registrare, ultimamente, qualche timido passo in avanti, anche perché<br />
l’Europa non consente dilazioni per i finanziamenti, il secondo rimane<br />
sempre in uno stato emergenziale. Il pattume napoletano ha il sentore<br />
tragico di una sorta di moderna piaga d’Egitto. Solo che qui non c’è in<br />
ballo Dio e la resistenza del Faraone verso il popolo ebreo. Qui si tratta di<br />
una questione interna a quella collettività. Riguarda: la capacità delle<br />
autorità istituzionali di governare problemi connessi alla società dei consumi<br />
(risolti - sia detto per inciso - senza particolari drammi in altre regioni<br />
del Paese); i costumi, gli stili di vita dei cittadini, per altro non adeguatamente<br />
incoraggiati “dall’alto” a evolvere in senso positivo; la malavita<br />
organizzata, che prospera sul controllo del business dell’immondizia e sullo<br />
sfascio sociale. Non è facile venirne fuori, però bisogna provarci con determinazione.<br />
Anche se passi significativi sono stati compiuti nell’ultimo anno per<br />
quanto concerne i “fondamentali” dell’economia (rapporto deficit-Pil,<br />
avanzo primario, riduzione debito pubblico), che danno maggiore stabilità<br />
al sistema-Paese, con ricadute positive, sebbene di non elevata percezione,<br />
sull’intera compagine nazionale, quote sempre più larghe di cittadini<br />
sembrano accentuare il proprio disincanto verso la politica. Certo,<br />
quando pensiamo al consistente numero di anziani e di famiglie in difficoltà<br />
a raggiungere la quarta settimana del mese, se ne possono ben comprendere<br />
lamentele e disaffezione. Ma, detto questo, bisogna guardarsi da<br />
un pericolo molto insidioso per la vita democratica: l’anti-politica. È un<br />
sentimento e un modo di pensare che si camuffano sotto varie spoglie. Ne<br />
indico quattro.<br />
Primo: l’idea qualunquistica per la quale i politici “sono tutti uguali”,<br />
nel senso che baderebbero principalmente agli interessi personali o dello<br />
stretto gruppo di riferimento. Sappiamo che non è (per tutti) così. Ci<br />
sono politici e politici. In ogni caso, una siffatta opinione negativa merita<br />
attente riflessioni nei diretti interessati. Ovviamente, anche le recenti rivelazioni<br />
sugli intrecci bipartisan con i poteri economico-finanziari non<br />
sono un bel biglietto da visita per guadagnare credibilità.<br />
Secondo: l’anti-politica si alimenta di demagogia e populismo. L’Italia,<br />
purtroppo, straborda di simili vizi, che pagano in termini di visibilità e di<br />
consenso immediato, ma non portano da nessuna parte. Non favoriscono la<br />
crescita di coscienza civica, indispensabile per la maturità democraticocostituzionale<br />
del Paese. Servono solo a rafforzare circoli, più o meno vasti,<br />
di clientes. Una storia vecchia, eppure sempre attuale. Per parecchi politici<br />
resta un punto fermo e redditizio della loro strategia. Va da sé che l’idea<br />
della politica come servizio alla “città dell’uomo” è un’altra cosa. Ma tant’è...<br />
4<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Terzo: la pericolosa insidia della soluzione messianica dei problemi. Di<br />
fronte alle oggettive difficoltà, si tende a imboccare il sentiero breve del<br />
“salvatore della patria” o “uomo della Provvidenza” che dir si voglia.<br />
L’Italia si è messa più d’una volta su questa strada. Gli esiti, antichi e<br />
recenti, sono sotto gli occhi di tutti (o, perlomeno, di chi li voglia considerare<br />
con obiettività). Non siamo mai a sufficienza vaccinati contro<br />
“scorciatoie” del genere, nefaste per una democrazia realmente partecipativa.<br />
Purtroppo, il clima di questi mesi non è, al riguardo, dei più rassicuranti.<br />
Quarto: l’anti-politica si sostiene sulla cattiva politica. C’è bisogno da<br />
parte delle forze in campo di un serio esame di coscienza. Mi guardo bene<br />
dal fare d’ogni erba un fascio o del banale moralismo. Però tutti devono<br />
sentirsi interpellati da una serie di questioni problematiche (privilegi,<br />
sprechi, dilettantismo, litigiosità, incontinenza verbale, smania di apparire,<br />
arrivismo), che, pur con diverso grado d’incidenza, toccano da vicino il<br />
ceto politico d’ogni livello. Di sicuro non basta un semplice maquillage.<br />
Occorre un’operazione profonda, di ripensamento del significato stesso<br />
della politica e del suo ruolo in ordine a un modello di società veramente<br />
“a misura d’uomo”. Qualche processo di recente avviato, nel senso della<br />
semplificazione e ricomposizione dei troppi tasselli del mosaico partitico,<br />
sembra di buon auspicio. Così come va considerato con interesse l’irrompere<br />
sulla scena nazionale di leaders autorevoli, portatori di una – presumibile<br />
– ventata di aria nuova. Staremo a vedere.<br />
In tempi di politica deludente è necessaria non la sdegnosa ritirata<br />
aventiniana, ma un supplemento d’iniziativa e di responsabilità a vari<br />
livelli. Come s’è detto, i politici facciano la loro parte. Però i settori più<br />
rappresentativi della società non possono stare alla finestra. Mi limito a<br />
una battuta relativa al mondo cattolico. Negli itinerari formativi in esso<br />
predisposti, a vari livelli e in diversi contesti, è necessario maturare<br />
coscienze consapevoli dei propri, indeclinabili compiti storici, fra i quali<br />
quelli civico-sociali. Dopo la preziosa esperienza delle Scuole di formazione<br />
socio-politica, disseminate un po’ in tutto il Paese, anche a seguito<br />
della vicenda di “Tangentopoli”, siamo entrati in una fase di stanca su<br />
questo versante. Mi sembra sia giunto il tempo di rilanciare nuove proposte.<br />
Avremo modo di parlarne in altre occasioni.<br />
LUCIANO CAIMI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
5
PRIMO PIANO<br />
PRIMO PIANO<br />
Le “Settimane sociali” sono state un insieme di iniziative<br />
isolate o le lega un filo non solo di formale intenzionalità? È<br />
forse fuori luogo, in un contesto in cui tutto è immagine, è<br />
apparenza, realizzare finalmente una iniziativa culturale che<br />
sistematicamente formi a un metodo rigoroso, al “vedere,<br />
giudicare, agire” dell’insegnamento di Giovanni XXIII nella<br />
Mater et Magistra? A queste e ad altre domande dovrà<br />
rispondere il prossimo appuntamento di Pistoia.<br />
Le “Settimane sociali”:<br />
storia, significato, attualità<br />
Sergio Zaninelli<br />
Nel prossimo ottobre si terrà a Pistoia la 45ª “Settimana sociale<br />
dei cattolici italiani”: la prima si tenne nel 1907 nella stessa<br />
città. L’evento, mentre non si sottrae a un dichiarato intento<br />
celebrativo, nello stesso tempo consente qualche valutazione su<br />
“un impegno che viene da lontano” e sul significato che hanno<br />
avuto e potrebbero avere le “Settimane sociali” in generale e<br />
questa in particolare. In realtà, l’impegno per conseguire il<br />
“bene comune” si è manifestato in circostanze storiche molto<br />
diverse tra loro e ha assunto significati differenti in altrettante<br />
fasi della presenza cattolica nel nostro Paese.<br />
La prima di tali fasi – dal 1907 alla grande guerra – è stata<br />
quella del faticoso rafforzamento organizzativo e operativo delle<br />
molteplici iniziative che, a partire dalla beneficenza, dal mutualismo,<br />
dalla cooperazione di credito sino al sindacato, erano<br />
state realizzate nella prospettiva di un completamento naturale<br />
anzi, meglio, di uno sbocco, che era andato maturando, non<br />
senza forti contrasti interni, della presenza nel sociale in una<br />
presenza nella vita politica del Paese. La ricerca storica ha ben<br />
chiarito i caratteri, la vitalità, l’efficacia, ma pur anche i limiti di<br />
questo “movimento” di base. Genuinamente associativo, concretamente<br />
indirizzato a “dar voce” ai bisogni popolari che l’incipiente<br />
industrializzazione stava generando tra fine Ottocento<br />
e Novecento, decisamente minoritario di fronte all’altro movimento<br />
di base, quello socialista, però fortemente portato a inserirsi<br />
nella vita nazionale per contribuire alla crescita civile, ma di<br />
Sergio Zaninelli<br />
già ordinario di Storia<br />
economica<br />
nell’Università <strong>Cattolica</strong><br />
di Milano, è stato rettore<br />
del medesimo ateneo.<br />
6<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
fatto rilevante su scala locale e soltanto in alcune aree del Paese.<br />
Necessitava di alimentazione culturale e di formazione e le prime<br />
“Settimane sociali”, dedicate ai problemi della condizione rurale e industriale,<br />
del lavoro e della sua organizzazione a scopi di tutela, della famiglia,<br />
intendevano fornire appunto conoscenze, valutazioni e indicazioni di<br />
fronte a tali problemi che costituivano quella che era detta la “questione<br />
sociale”, in una prospettiva che oggi diremmo di sussidiarietà rivendicata<br />
(e non certo riconosciuta dall’ordinamento pubblico del tempo).<br />
Esemplare la “Settimana sociale” di Assisi del 1911, dedicata alle “organizzazioni<br />
professionali”, termine in realtà che indicava già un ritardo culturale<br />
di fronte alla grande questione del conflitto di interessi tra “capitale<br />
e lavoro”; dedicata quindi a cercare una legittimazione all’azione sindacale,<br />
a indicarne gli obiettivi, le formule organizzative e i mezzi di azione,<br />
cioè la contrattazione e lo sciopero.<br />
Seguì la prima interruzione a causa della guerra, dopo di che si aprì la<br />
seconda fase della storia delle “Settimane sociali”, a partire dal 1920 sino<br />
al 1935. Il movimento cattolico organizzato, dopo il significativo ma<br />
troppo breve sviluppo degli anni dal 1918 al ’21, non esisteva più né sul<br />
piano dell’azione sociale né di quella politica, restava solo “disponibile”<br />
proprio con le “Settimane” a un confronto libero delle idee (come si addice<br />
alle iniziative culturali); restava comunque luogo di approfondimenti<br />
dottrinali. E, implicitamente, della formazione: le “Settimane sociali” non<br />
furono certo, in questa fase, luoghi di opposizione al regime e alla sua sia<br />
pur confusa ideologia, ma, come si è scritto, di “preparazione al post-fascismo”.<br />
Tale può essere stata la trattazione di temi, tra il 1920 e il 1925,<br />
sulla produzione nel regime di proprietà, sullo Stato secondo la concezione<br />
cristiana, sull’autorità sociale nella dottrina cattolica, principi e direttive<br />
in ordine ai problemi e all’attività politica: “preparazione” sarebbe<br />
potuto essere nel senso di differenziazione dalle posizioni del regime o<br />
almeno nel senso del confronto e della constatazione della inconciliabilità<br />
delle posizioni. In realtà le “Settimane sociali” operano in direzione di un<br />
compromesso sul piano culturale e quindi, negli anni sino al ’35 di un<br />
oscuramento tacitamente accettato di quella dimensione “sociale” della<br />
presenza cattolica che era nella stessa denominazione delle “Settimane”: i<br />
temi trattati furono la famiglia, l’educazione cristiana, l’unità religiosa,<br />
l’opera di Pio XI. La fase, non si dimentichi, era attraversata e segnata dal<br />
Concordato del 1929 e tutto doveva essere funzionale all’evento, anche se<br />
non mancò l’occasione per una riaffermazione, almeno sul piano culturale,<br />
di un orientamento cattolico nel campo delicatissimo e fondamentale<br />
quale quello dell’educazione dei giovani; l’occasione era il conflitto scoppiato<br />
nel ’31 sull’<strong>Azione</strong> <strong>Cattolica</strong>. E invece i temi delle “Settimane sociali”<br />
saranno la carità e la moralità professionale: temi in sé importanti, ma<br />
SERGIO ZANINELLI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
7
LE “SETTIMANE SOCIALI”: STORIA, SIGNIFICATO...<br />
che segnavano un distacco voluto dalle vicende politiche. Nel complesso,<br />
all’attivo le “Settimane sociali” si confermarono, attraverso “il collegamento<br />
tra AC e Unione <strong>Cattolica</strong>”, non solo come luogo di riflessione e di<br />
elaborazione culturale, ma anche come momento privilegiato di una formazione<br />
dei laici all’apostolato, che iniziava ad un loro perfezionamento<br />
morale e religioso per una testimonianza nell’ordine sociale, capace di<br />
imprimervi valori cristiani. La pretesa, poi, del fascismo di relegare il laicato<br />
cattolico in un ambito culturale-religioso, staccato da ogni finalità<br />
sociale, acuì il senso sociale della fede e della missione ecclesiale e fece<br />
prendere coscienza della necessità di una resistenza morale al totalitarismo.<br />
Grazie anche alle “Settimane sociali”, si preparò – come ha scritto<br />
Pietro Borzomati – il terreno dal quale germoglieranno, alla caduta del<br />
fascismo, il partito e il sindacalismo cattolico, oltre a tutte le altre opere di<br />
impegno civile dei cattolici. Le grandi responsabilità cui andranno incontro<br />
i cattolici italiani al ritorno della democrazia metteranno alla prova il<br />
valore di questa formazione.<br />
La terza fase di questa complessa e non certo lineare storia delle<br />
“Settimane” è stata quella che va dal 1945 al 1970: corrispondeva alla<br />
ricostruzione economica, al ritorno a un sistema di democrazia pluralista,<br />
alla rapida industrializzazione, ma anche e soprattutto era caratterizzata<br />
dai problemi fondamentali che la modernizzazione del Paese portava inevitabilmente<br />
con sé. Fu la fase nella quale, su ventidue “Settimane”, alcune<br />
rappresentarono certamente la maggiore rispondenza alle questioni<br />
nazionali che vedevano i cattolici impegnati, come risulta chiaramente<br />
dallo schema del 60° corso di aggiornamento dell’Università <strong>Cattolica</strong> dal<br />
titolo significativo: Le Settimane sociali nell’esperienza della Chiesa italiana<br />
(1945-1970). Non nell’ordine cronologico, le “Settimane” in questa fase<br />
trattarono: “La costruzione di un nuovo ordinamento politico” (a. la concezione<br />
dello Stato e il problema della rappresentanza politica; b. la comunità<br />
internazionale; c. potere centrale e autonomie locali); “Lo sviluppo<br />
dei popoli e le relazioni economiche internazionali”; “L’economia tra pubblico<br />
e privato”; “Lavoro e sindacato”; “Le trasformazioni sociali legate al<br />
processo di sviluppo”; “La nuova dimensione del problema sociale”;<br />
“Trasformazioni socio-culturali, prospettive educative e scuola”; “La famiglia”.<br />
Fu quello veramente un “ciclo” di approfondimenti e di indicazioni<br />
in direzioni che obiettivamente costituirono un contributo di arricchimento<br />
(talvolta implicito talaltra esplicito) del pensiero e del magistero<br />
della Chiesa a servizio dell’impegno civile dei cattolici, su cui non mancarono<br />
prese di posizioni fortemente innovative e quindi tali da suscitare<br />
contrasti. Per tutte, vanno ricordate le “Settimane” dirette a rinnovare<br />
radicalmente la cultura dei cattolici in fatto di tutela del lavoro (che ebbero<br />
un seguito operativo e una traduzione pratica nel costituirsi di un sin-<br />
8<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
SERGIO ZANINELLI<br />
dacalismo moderno contrapposto a quello conservatore di matrice comunista).<br />
La vitalità delle “Settimane” di questa fase, e certamente nella<br />
prima parte, si spiega con un complesso di situazioni nuove in cui si<br />
manifestava la presenza dei cattolici: in campo sociale, in campo economico,<br />
in campo politico-partitico. Si spiega con una situazione ecclesiale<br />
nella quale alla organizzazione delle “Settimane” era preposto un<br />
“Comitato permanente” che avrebbe dovuto dare continuità e soprattutto<br />
coerenza e quindi autonomia – punto fondamentale questo mai veramente<br />
risolto – alla istituzione e al suo programma al “servizio” delle organizzazioni<br />
cattoliche. Dall’elenco dei temi affrontati in questa lunga fase si<br />
coglie un ritorno alla problematica sociale e economica e un ricorso, per le<br />
relazioni, a personalità del mondo scientifico (e non a quello politico).<br />
Questa impostazione ebbe due conseguenze: da una parte elevò il tono<br />
culturale, dall’altro restrinse sempre più i margini – in realtà mai adeguati<br />
– lasciati al dibattito e alle diverse posizioni nella redazione del documento<br />
finale. Si arrivò così alla terza, polemica interruzione, che non può essere<br />
spiegata sbrigativamente come fa il “Documento preparatorio” della<br />
prossima “Settimana sociale”: «...poi, per una serie di fattori interni e<br />
esterni al mondo cattolico, l’esperienza delle Settimane sociali si inter-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
9
LE “SETTIMANE SOCIALI”: STORIA, SIGNIFICATO...<br />
rompe, mentre continua a svilupparsi l’impegno politico e sociale dei cattolici<br />
italiani». Giudizio che oltre a non spiegare nulla, legittima il dubbio<br />
che allo “sviluppo dell’impegno” le “Settimane” risultassero ormai superflue.<br />
Oppure che lo “sviluppo” stava venendo meno nella sua faticosa e<br />
non sempre riuscita connessione con la dottrina sociale della Chiesa, a cui<br />
le “Settimane” avevano inteso dare un contributo di approfondimento,<br />
teorico e pratico. Il “Documento preparatorio” anzi accentua questa perplessità<br />
aggiungendo che «l’impegno sociale della Chiesa trova nuova linfa<br />
vitale nei documenti del Concilio Vaticano II» e cita le grandi encicliche<br />
che seguirono e che non è qui il caso di elencare: ma è evidente che rispetto<br />
al ruolo delle “Settimane sociali” nel fornire “linfa vitale” si era avuto<br />
un radicale spostamento dei piani a scapito delle responsabilità del laicato.<br />
Lo sviluppo dottrinale e l’impegno magisteriale si è fatto indubbiamente<br />
più autorevole, più profetico, più pertinente e quindi a maggior ragione<br />
non confrontabile con quello – comunque lo si valuti – delle “Settimane<br />
sociali”.<br />
Questo riferimento alla prima parte del “Documento preparatorio”,<br />
che sviluppa una ricostruzione della «memoria del contributo dei cattolici»<br />
(cioè «dell’apporto fondamentale alla società italiana e alla sua crescita,<br />
nella prospettiva del bene comune») introduce a un discorso più ampio su<br />
tutto il “Documento”. Nella sua seconda parte, dedicata alle «nuove<br />
responsabilità che il futuro comporta», vengono proposte tre linee di<br />
riflessione per “aggiornare” il concetto di bene comune, per tradurlo in<br />
pratica nella presente congiuntura storica, per intendere correttamente la<br />
laicità. Come si coglie senza incertezze, la prossima “Settimana” si propone<br />
di intervenire nel dibattito pubblico per ridare al concetto di “bene<br />
comune” una rinnovata efficacia operativa: bisognerà quindi attendere lo<br />
svolgimento dei lavori e le conclusioni cui si perverrà per valutare il risultato<br />
di questo proposito culturale e politico. Ma questa seconda parte è<br />
esplicitamente “costruita” sul collegamento con la prima parte, quella<br />
dedicata alla ricostruzione della memoria. E su questo è possibile e legittimo<br />
formulare qualche considerazione.<br />
Va detto subito – senza intento polemico e non senza una nota di<br />
sconforto – che si tratta di una ricostruzione che ignora mezzo secolo di<br />
lavoro storiografico, in cui quell’«apporto fondamentale alla società italiana<br />
e alla sua crescita, nella prospettiva del bene comune» è stato analizzato<br />
e documentato come si conviene alla ricerca scientifica, cioè sottraendosi<br />
a intenti autocelebrativi. A questo intento il “Documento preparatorio”<br />
(non la “Settimana”, che deve ancora svolgersi) non sembra volersi<br />
sottrarre, con una ricostruzione d’ufficio da cui è assente ogni spunto critico:<br />
ma in tal modo svelando contraddizioni che ci si augura verranno<br />
sciolte dai lavori della “Settimana” stessa.<br />
10<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
In sostanza, la contraddizione fondamentale è tra una ricostruzione<br />
storica che dà per certa una presenza storicamente rilevante dei cattolici<br />
italiani nel corso di un secolo (per altro non chiarendo di quale rilevanza)<br />
e la denuncia di un «contesto di isolamento per molti aspetti inedito ma<br />
per altri altrettanti sensi assai simile a quello di un secolo fa»: che, se così<br />
fosse, verrebbe smentita quella ricostruzione (ma sarebbe storicamente<br />
errato) e aprirebbe un quesito inquietante: è stato dunque vano quanto i<br />
cattolici italiani hanno realizzato in nome della solidarietà (e in vista del<br />
bene comune) nelle mille opere in campo sociale, economico, culturale,<br />
politico che testimoniano la “presenza”? E, ancora, se così sono andate le<br />
cose, perché? Lo schema dell’isolamento, dell’accerchiamento, dello straniamento<br />
non può essere solo denunciato, va spiegato: e nella spiegazione<br />
bisogna lasciarsi coinvolgere con le proprie specifiche responsabilità. Non<br />
solo quelle ad extra, ma anche se non soprattutto quelle ad intra. Le interruzioni<br />
sulla storia delle “Settimane sociali” – soprattutto quelle dopo il<br />
’70 – richiedono uno di questi rigorosi chiarimenti. Le “Settimane sociali”<br />
sono state un insieme di iniziative isolate o le lega un filo non solo di<br />
formale intenzionalità? Sono stati fatti anche altamente rilevanti in sé, ma<br />
con quale ricaduta sulla qualità e efficacia della “presenza”? Quale dibattito<br />
hanno aperto, a quali verifiche hanno dato occasione sulla coerenza<br />
specifica, su temi precisi, tra l’approfondimento culturale e l’azione, e la<br />
pratica? È forse fuori luogo, in un contesto in cui tutto è immagine, è<br />
apparenza, realizzare finalmente una iniziativa culturale che sistematicamente<br />
formi a un metodo rigoroso, al “vedere, giudicare, agire” dell’insegnamento<br />
di Giovanni XXIII nella Mater et Magistra?<br />
Cautela e rispetto del lavoro altrui impongono di attendere lo svolgimento<br />
della “Settimana” per trarne un giudizio fondato. Ma non si può<br />
non chiudere queste provvisorie considerazioni che manifestano un atteggiamento<br />
costruttivo attraverso la valutazione che non ignora la criticità,<br />
esprimendo la speranza che non aumentino le contrapposizioni ad intra e<br />
ad extra. Un terreno comune lo si deve trovare nella natura della testimonianza<br />
cui siamo chiamati e nei suoi “profili connessi ma distinti”: secondo<br />
il “Documento preparatorio”, quello «della diretta proposta e testimonianza<br />
del Vangelo» e quello della «animazione cristiana delle realtà sociali».<br />
In questo ordine e non in quello, rovesciato, del “Documento” stesso:<br />
l’impegno socio-politico è certamente parte indispensabile della vocazione<br />
cristiana, ma come frutto misterioso della incessante conversione personale.<br />
Per essere ancora più chiari, se si vuole valorizzare la connessione<br />
dei distinti profili, come compito qualificante delle “Settimane” (a cominciare<br />
dalla prossima), la ricerca e la verifica della coerenza diventa il dovere<br />
fondamentale, il solo che dà significato alla testimonianza dei credenti<br />
come dei non credenti.<br />
SERGIO ZANINELLI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
11
DOSSIER<br />
Quale uomo<br />
per le virtù?
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
on tutte le azioni dell’uomo sono azioni tipicamente umane”, osservavano<br />
gli antichi. Col che non facevano altro che ribadire un’apparente<br />
ovvietà: tanta parte della vita dell’uomo è, con le debite proporzioni, simi-<br />
“ N<br />
le a quella degli altri esseri viventi; tuttavia esiste una sorta di riserva, una<br />
regione a statuto speciale dell’agire tipicamente umana, una regione sconosciuta<br />
e impraticabile per le altre specie animali. Dire «persona» significa<br />
prendere atto di questa diversità qualitativa ben presentita, cercando<br />
naturalmente di illustrarne i tratti.<br />
L’ovvietà in questione oggi si direbbe però solo apparente, perché sempre<br />
più diffusamente ci si chiede se la diversità dell’uomo non sia in tutto<br />
solo una questione di proporzioni: l’organizzazione del lavoro di un’azienda<br />
di successo non appare in fondo diversa dalle raffinate tecniche di caccia<br />
di gruppo delle manguste; per la fedeltà di un cane al proprio padrone<br />
– e la cronaca ci propone spesso storie indubbiamente commuoventi –<br />
non è forse spendibile, fatte le debite proporzioni, l’idea di amicizia? E perché<br />
non quella di amore?<br />
Anche le virtù possono essere lette in quest’ottica; si è detto della dinamica<br />
della virtù, dell’habitus e quindi dell’allenamento e della ricorrenza<br />
nell’agire che rende perciò abituali certi atteggiamenti, certe reazioni. Ma<br />
dov’è la differenza tra l’allenamento e l’addestramento? È innegabile che<br />
anche per molti animali valgano le medesime dinamiche: certe capacità si<br />
sviluppano e confermano con il tempo, con un lavoro attento e assiduo e<br />
certo anche con fatica, come sanno tutti gli allevatori seri.<br />
Una prima prospettiva rispetto a questi interrogativi è stata offerta dagli<br />
approfondimenti dei precedenti Dossier, in cui l’idea di virtù è stata lunga-<br />
14<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
INTRODUZIONE<br />
mente esplorata, criticata anche, sicuramente attualizzata, fino quasi a concludere<br />
che il nocciolo della questione è ad un tempo morale ed antropologico.<br />
Al di là della dinamica della virtù si pone il problema del perché incoraggiare<br />
certe scelte e certi atteggiamenti e viceversa scoraggiarne altri, e questo interrogativo<br />
sul contenuto della virtù non può che rinviare al problema del soggetto<br />
della virtù: perché gli uomini, seppur in modi diversi, si chiedono reciprocamente<br />
di essere virtuosi – cioè di camminare con passo sicuro, di far tesoro<br />
dell’esperienza, di guardare oltre al domani, di scorgere il valore della fatica<br />
come il senso della sofferenza... – mentre agli animali chiediamo al limite di<br />
essere abili? Dall’altro uomo – e ancor prima da noi stessi – ci attendiamo<br />
qualcosa di più, non qualcosa che solo in proporzione sia diverso da quello che<br />
ci aspettiamo dagli altri viventi, con cui pure è piacevole e bello trattenersi.<br />
Per gli antichi – che appunto ci lasciano in eredità quell’apparente<br />
ovvietà, secondo cui solo alcune azioni sono tipicamente umane, e quindi<br />
c’è qualcosa nella struttura stessa dell’umano che lo rende qualitativamente<br />
diverso dagli altri viventi – la specificità dell’umano andava cercata in<br />
ciò che solo l’uomo sa fare, muovendosi quantomeno su tre grandi assi: la<br />
ricerca del vero, la progettazione e la realizzazione del bene, la contemplazione<br />
del bello. Oggi cosa significa tutto questo? Come dire la tipicità dell’uomo?<br />
L’idea di «persona» è ancora capace di esprimere il salto di qualità<br />
dell’umano? Verità, bene e bellezza: ricerca e autenticità, amicizia e cooperazione,<br />
contemplazione e vita interiore sono i luoghi delle virtù esclusive<br />
dell’uomo? Gli approfondimenti proposti dal Dossier si dispongono<br />
lungo questi ed altri interrogativi, esplorando in definitiva il di più che fa<br />
la statura dell’uomo.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
15
Maturare secondo virtù o crescere assecondando i desideri<br />
individuali? Il dilemma si pone quando persona e individuo<br />
rappresentano idee di uomo tra loro alternative. Ma se invece<br />
l’uomo è ad un tempo individuo e persona, allora deve esistere<br />
una via per armonizzare virtù e desiderio. Ed è una via che<br />
passa per la comunità e per la cura delle relazioni.<br />
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
L’oblio delle virtù<br />
a favore del desiderio<br />
CNunzio Galantino<br />
oncepito sotto la forma di “un’insolita intervista”, è stato<br />
pubblicato, nei mesi scorsi, un agile volumetto 1 che vede il cardinale<br />
Angelo Scola e il filosofo Giovanni Reale dialogare su<br />
temi di grande impatto nella cultura e per la vita contemporanee.<br />
Tra questi, m’è parso di scorgere un interesse non troppo<br />
trasversale per il tema affidatomi; mi riferisco all’evidente ritorno<br />
del concetto di persona accompagnato, però, da una altrettanto<br />
evidente mutazione del modo di pensarla che, talvolta,<br />
presenta i caratteri di un vero e proprio travisamento del concetto<br />
di persona, che porta con sé l’“oblio delle virtù a favore del<br />
desiderio”.<br />
L’individuo non personalizzato: “uno di una serie”<br />
Non c’è intervento, oggi, sia in ambito socio-politico sia in<br />
quello ecclesiale, in cui non si avverta il bisogno di dichiarare,<br />
in maniera più o meno convinta e convincente, l’importanza<br />
della persona, di invocarne il recupero e la centralità e di indicare<br />
gli elementi che concorrono a renderla degna di considerazione.<br />
Ultimo, in ordine di tempo, è il riferimento presente nella<br />
Prolusione di mons. Angelo Bagnasco alla 57 a Assemblea generale<br />
dei vescovi italiani. Dopo aver ricordato che «l’uomo non è<br />
riducibile ad un agglomerato di pulsioni e desideri, ma è un<br />
soggetto ricco e unitario; non è né una macchina corporea né<br />
un pensare disincarnato», il Presidente dei vescovi italiani ha<br />
Nunzio Galantino<br />
è professore ordinario di<br />
Antropologia presso la<br />
Pontificia Facoltà<br />
Teologica dell’Italia<br />
Meridionale (Napoli).<br />
Tra le sue pubblicazioni<br />
ricordiamo: (con G.<br />
Lorizio, edd.),<br />
Metodologia teologica.<br />
Avviamento allo studio e<br />
alla ricerca<br />
interdisciplinari, San<br />
Paolo, Cinisello Balsamo,<br />
Roma 2004; Sulla via<br />
della persona. La<br />
riflessione sull’uomo:<br />
storia, epistemologia,<br />
figure e percorsi, San<br />
Paolo, Cinisello Balsamo<br />
2006.<br />
16<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
sottolineato che: «La storia umana è attraversata, come da un sigillo bruciante,<br />
a testimonianza della capacità dell’uomo a trascendersi, della radicale<br />
apertura della sua anima sull’infinito, del richiamo ontologico della<br />
persona verso la Trascendenza, cioè verso Dio. Il suo costitutivo essere in<br />
relazione con il mondo e con gli altri, inoltre, getta una decisiva luce sul<br />
pensarsi dell’individuo, ed è denso di conseguenze e di stimoli per le<br />
società, nonché per la costruzione di un mondo più giusto e quindi più<br />
umano. La libertà stessa ne beneficia, libertà che è premessa e condizione<br />
dell’amore senza il quale vi è solitudine e morte. Essa non è un valore<br />
individualistico e assoluto, ma ha sempre a che fare con altro da noi,<br />
uomini e cose. Soprattutto è in relazione con dei contenuti veritativi che<br />
sono oggetto della scelta personale e la specificano nella sua eticità» 2 .<br />
Parole che, prima di riconoscere la persona come essere di e in relazione,<br />
nega che essa possa ridursi «a un agglomerato di pulsioni e desideri».<br />
Questo però non basta a neutralizzare i tanti equivoci che si consumano, a<br />
tutti i livelli, intorno alla persona. A fronte infatti di un dato facilmente<br />
constatabile – e cioè il frequente richiamo alla centralità della persona – ve<br />
n’è un altro altrettanto evidente: ed è l’ambiguità che da sempre accompagna<br />
questo richiamo 3 : «Il termine “persona” è percorso dall’ambiguità sotto<br />
qualunque aspetto esso venga considerato: nella sua genesi, nella gamma<br />
dei suoi possibili significati, nella sua storia, nella portata speculativa che a<br />
esso di volta in volta è stata assegnata» 4 . Oggi, però, l’ambiguità ed i travisamenti<br />
vanno oltre l’ambito etimologico e di storia del termine, tanto da<br />
far sentire i loro effetti sulla prassi e sulle scelte della persona stessa.<br />
Per tornare al volumetto evocato in apertura, Giovanni Reale constata<br />
che «nel mondo di oggi [...] la “persona” diventa singolo individuo, scisso<br />
dai legami con l’altro e con Dio, con forme di individualismo ed egoismo,<br />
nelle loro differenti espressioni, che rendono sempre più precari e fragili i<br />
rapporti umani» 5 . Sul piano sociale, cioè, le ragioni della persona vengono<br />
sempre più spesso sostituite da quelle dell’individuo che, sul piano dei<br />
rapporti, si esprime in termini di “precarietà” e di “fragilità”, rendendo<br />
sempre più problematici se non impossibili i solidi vincoli tra gli uomini e<br />
rendendo sempre meno impegnative le stesse progettualità umane. E questo<br />
perché, «la riduzione del concetto di persona a individuo – aggiunge il<br />
cardinale Scola – espone l’Io alla serialità: l’individuo non personalizzato<br />
diventa uno di una serie» 6 .<br />
NUNZIO GALANTINO<br />
Persona e individuo: distinti non opposti<br />
Sullo sfondo di queste prime ed immediate considerazioni vorrei fermarmi<br />
a riflettere su ciò che di più specifico si può dire sul rapporto tra<br />
persona, virtù e desiderio; evitando innanzitutto di dare per scontato che<br />
la sostituzione in atto nella cultura contemporanea della persona con l’in-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
17
L’OBLIO DELLE VIRTù A FAVORE DEL DESIDERIO<br />
dividuo abbia segnato o stia segnando la fine della “vita virtuosa” a favore<br />
di un’esistenza ritmata unicamente dal desiderio, connotando il desiderio<br />
subito e comunque in maniera negativa.<br />
In altri termini, è vero che non ho motivo di rifiutare – sulla scia degli<br />
insegnamenti di Maritain, di Mounier e dello stesso Von Balthasar – la<br />
distinzione tra persona e individuo, soprattutto quando quest’ultimo<br />
ricorda che il concetto di persona è strettamente congiunto alla nozione di<br />
compito e di missione; ma è anche vero che, ricordando proprio la lezione<br />
di Mounier, non è prudente accogliere in maniera acritica la separazione<br />
netta, fino a diventare opposizione, tra persona e individuo. Sono<br />
18<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
numerosi infatti, negli scritti del filosofo francese, i passaggi nei quali –<br />
pur insistendo con lucidità sulla distinzione tra ciò che caratterizza la persona<br />
e ciò che invece è caratteristico dell’individuo – mette in guardia dal<br />
trarre conseguenze affrettate sia sul piano teoretico sia su quello della prassi.<br />
Con buona pace di Deleuze e Guattari, non giova a nessuno sposare in<br />
maniera acritica l’equazione che vede la persona capace di virtù e l’individuo,<br />
invece, ridotto a semplice “macchina desiderante”. È vero quello che<br />
scrive Mounier della persona, che «è padronanza, scelta e generosità. […].<br />
La vita della persona non è una separazione, un’evasione, un’alienazione,<br />
essa è presenza e impegno (présence et engagement). La persona non è solitudine<br />
interiore, o un dominio circoscritto» 7 . Ed è vero anche che è lo stesso<br />
Mounier ad avvertirci che questo concetto di persona è continuamente<br />
minacciato dall’individualismo che «ha sostituito la persona con un’astrazione<br />
giuridica senza vincoli, senza stoffa, senza contorno, senza poesia,<br />
interscambiabile, abbandonata alle prime forze che capitano» 8 . Si commetterebbe<br />
però un grave errore, come già dicevo, a pensare che il problema<br />
sia tutto e solo nella opposizione tra persona e individuo, sicché basterebbe<br />
ristabilire il primato della persona sull’individuo per neutralizzare<br />
l’invadenza del desiderio a vantaggio di una vita virtuosa. «A volte»,<br />
ammonisce Mounier, «per distinguerli, si contrappongono fra loro persona<br />
e individuo. Si rischia così di defraudare la persona dei suoi legami<br />
concreti. Questo processo di ripiegamento che costituisce “l’individuo”<br />
contribuisce a dare consistenza alla nostra forma. Ciò<br />
nonostante», aggiunge il filosofo francese, «la persona si<br />
sviluppa solo purificandosi continuamente dall’individuo<br />
che è in lei. E vi perviene non tanto con l’attenzione continua<br />
a se stessa, ma piuttosto rendendosi disponibile (G.<br />
Marcel), quindi più trasparente a se stessa. E allora avviene<br />
come se, non essendo più “occupata di sé”, “piena di sé”,<br />
essa diventasse, e soltanto in quel momento, capace degli<br />
altri, raggiungesse lo stato di grazia» 9 .<br />
Possiamo concludere allora questo nucleo di considerazioni<br />
avvertendo che, pur trovandoci di fronte a due concetti<br />
distinti – il concetto di persona e quello di individuo<br />
– ognuno di noi è insieme l’uno e l’altro. Ed è questo lo<br />
spazio concreto all’interno del quale l’uomo è chiamato a<br />
vivere una “vita virtuosa” che, prima di identificarsi con questo o quell’elenco<br />
di virtù riconosciute, deve essere una vita spesa nella direzione della<br />
personalizzazione di ciò che è “individuale” in ognuno di noi, con uno<br />
stile che il già citato Mounier sintetizza efficacemente così: «una virtù<br />
troppo caricata allontana dalla virtù, l’intenzione di sedurre priva del suo<br />
incanto l’amore, quella di convertire irrita l’uomo senza fede» 10 .<br />
Si commetterebbe<br />
un grave errore a<br />
pensare che il problema<br />
sia tutto e solo nella<br />
opposizione tra persona<br />
e individuo, sicché<br />
basterebbe ristabilire il<br />
primato della persona<br />
sull’individuo per<br />
neutralizzare l’invadenza<br />
del desiderio a vantaggio<br />
di una vita virtuosa.<br />
NUNZIO GALANTINO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
19
L’OBLIO DELLE VIRTù A FAVORE DEL DESIDERIO<br />
La prima virtù, o<br />
comunque la premessa<br />
per una vita virtuosa non<br />
può che essere insieme<br />
desiderio e impegno,<br />
che sono insieme<br />
premessa e frutto per lo<br />
sviluppo di azioni<br />
concrete capaci di<br />
lasciarsi alle spalle il<br />
mondo del “si dice”.<br />
Virtù, cultura radicale e processo di personalizzazione<br />
L’antropologia contemporanea, pur non registrando una teorizzazione<br />
definita della sostituzione della persona con l’individuo e della conseguente<br />
sostituzione della virtù con il desiderio, conosce mentalità ed atteggiamenti<br />
riconducibili a una cultura – più che a una vera e propria filosofia –<br />
radicale. Essa, partendo dall’affermazione estrema della singolarità<br />
umana, tende a escluderlo da qualsiasi riferimento stabile e lo spinge a<br />
prendere le distanze da qualsiasi radice; in questo modo l’individuo, con<br />
la sua corporeità e con la sua spontaneità vengono elevati a valori assoluti.<br />
Una cultura ed una mentalità molto vicine, come si vede, alle caratteristiche<br />
di fondo dello Strutturalismo francese che, con G. Deleuze e con F.<br />
Guattari, finisce col negare la dimensione personale dell’uomo, ritenendo<br />
quest’ultimo e le sue opzioni frutto ed effetto di una sorta di pre-individuale,<br />
di una struttura previa appunto. Nella sua Logica del senso, G.<br />
Deleuze descrive così il grido di trionfo di colui che riesce ad affrancarsi<br />
da qualsiasi fondamento razionale trascendente, premessa indispensabile<br />
per l’esercizio della virtù: «È dunque piacevole che oggi risuoni la buona<br />
novella: il senso non è mai principio e origine; esso è prodotto […]. Come<br />
non sentire che la nostra libertà e la nostra effettività trovano il loro luogo,<br />
non nell’universale divino né nella personalità umana, bensì in quelle singolarità<br />
che sono più nostre di noi stessi, più divine degli dei?» 11 . Un individuo<br />
quindi che non è altro che se stesso, «la propria sensazione, il proprio<br />
bisogno e desiderio, il proprio piacere, la propria reazione […]. Il singolo<br />
non è che il suo corpo, così che il suo dolore e piacere valgono più di<br />
ogni altra cosa, perché ciò che vale è solo ciò di cui il singolo, in modo<br />
unico, irripetibile, incomunicabile, fa esperienza; dolore e piacere sono le<br />
esperienze assolute (nel senso di sciolte dalle esperienze dell’altro)<br />
[…]. Ma se l’individuo è l’esperienza, senza universalità,<br />
del suo corpo (in senso fisico, psichico, sociale), allora<br />
questa singolarità necessariamente si risolve e si dissolve<br />
nelle sue esperienze» 12 .<br />
In questo quadro, l’uomo non è più soggetto di, ma soggetto<br />
a, con la conseguenza di considerare la vicenda storica<br />
– sia quella personale sia quella sociale – un gioco di strutture<br />
e di infrastrutture nelle quali non ha alcun senso parlare<br />
di virtù.<br />
A ben vedere, quello che viene negato, sul piano antropologico<br />
e con evidenti conseguenze sul piano etico, è una<br />
corretta concezione storica dell’uomo sostituita da uno<br />
spontaneismo che mal sopporta la concezione di un uomo che, nella relazione<br />
con l’a/Altro, progetta e cresce. Alla base di questa concezione e in<br />
riferimento al tema specifico del rapporto tra virtù e desiderio, vi è pro-<br />
20<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
prio la teoria del desiderio elaborata dai già citati psicanalisti francesi<br />
Gilles Deleuze e Felix Guattari, in aperta rottura con la comprensione del<br />
desiderio elaborata dalla cultura occidentale, a cominciare da Platone. Più<br />
che effetto di una mancanza, il desiderio, qui, è visto come una potenza<br />
attiva e produttiva, assolutamente sganciata da qualsiasi criterio di valore;<br />
cosicché la desiderabilità di un comportamento, soprattutto in un’esperienza<br />
immediata, fisica, sessuale, è viene proposta come criterio di comportamento<br />
13 . In questo contesto e in nome del superamento di una<br />
«morale dell’obbedienza» e di una «morale d’armento» 14 , si tende a trovare<br />
nel “piacevole” il motivo delle decisioni umane, piuttosto che in una<br />
scelta (per quanto condizionata da molti eventi) pur sempre libera dell’essere<br />
umano finalizzata a un progetto di vita, sulla base di una rivelazione<br />
religiosa o di un consenso etico.<br />
I valori come “orientamenti del desiderabile” e le virtù nella<br />
ricerca dell’autenticamente umano<br />
Sul piano antropologico, può esserci esercizio della virtù solo dove vi è<br />
certezza dell’esistenza di valori e desiderio di raggiungerli; in questo senso,<br />
condivido la definizione che dei valori ha dato Prandstraller, che li considera<br />
“orientamenti del desiderabile” 15 .<br />
Sulla base di questa affermazione, da una parte, va rifiutata qualsiasi<br />
concezione che veda in alternativa tra loro il desiderio e la virtù; dall’altra,<br />
va sottolineato che una corretta educazione del desiderio può spingere all’esercizio<br />
della virtù. L’opposizione quindi non è tra virtù e desiderio,<br />
vedendo nella prima un appannaggio della persona e nel desiderio, invece,<br />
il motore dell’esistenza individuale.<br />
«L’uomo comune», ha scritto Chesterton, «è sempre stato sano di<br />
mente perché è sempre stato un mistico. Ha ammesso la mezza luce. Ha<br />
sempre tenuto un piede sulla terra e l’altro nel paese delle fate» 16 .<br />
Trasferendo all’interno del nostro tema la considerazione di Chesterton e<br />
valorizzandone la portata sul piano antropologico, mi sembra di poter<br />
dire che l’uomo virtuoso non è quello che, dopo aver neutralizzato o anestetizzato<br />
il desiderio, si avvia sull’improbabile strada della virtù a tutti i<br />
costi. L’uomo – anche l’uomo postmoderno – diventa uomo virtuoso sia<br />
quando lavora a creare dentro di sé e intorno a sé spazi intermedi che permettono<br />
l’incontro tra idealità e realtà sia quando orienta le sue energie<br />
per uscire dalla serialità. La prima virtù, o comunque la premessa per una<br />
vita virtuosa non può che essere insieme desiderio e impegno, che sono<br />
insieme premessa e frutto per lo sviluppo di azioni concrete capaci di<br />
lasciarsi alle spalle il mondo del “si dice”, il mondo cioè dell’impersonale<br />
che è, poi, il mondo dell’irresponsabilità e dell’assenza di qualsiasi progettualità<br />
illuminata ma concreta.<br />
NUNZIO GALANTINO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
21
L’OBLIO DELLE VIRTù A FAVORE DEL DESIDERIO<br />
Il problema, allora, oltre che di natura teoretica è anche di carattere<br />
fortemente etico ed esistenziale. È infatti la continuità tra la dimensione<br />
teoretica e quella etico-esistenziale a permetterci di fare un ulteriore passo<br />
avanti ed a farci affermare che, in un discorso sul rapporto tra desiderio e<br />
virtù, se una inconciliabilità esiste, non è certamente quella che passa tra<br />
desiderio e virtù; inconciliabili sono piuttosto le etiche derivanti da differenti<br />
impostazioni antropologiche e quindi i valori e le virtù proposti ed i<br />
comportamenti e le scelte da essi richiesti. In particolare e in riferimento a<br />
quanto affermato fin qui, inconciliabili sono l’etica derivante da una concezione<br />
unitaria della persona con quella che si presenta invece come frutto<br />
di un’antropologia vicina o derivata da una cultura di tipo radicale e<br />
che sembra la cultura vincente nel postmoderno: le virtù ed i valori che<br />
l’una e l’altra propongono non sono componibili. A fronte infatti di una<br />
vita concepita come sequenza di avvenimenti in progressione verso un<br />
fine teleologico e trascendente e quindi di un’esistenza concepita come<br />
impegno responsabile e continuo per realizzare questo fine, vi è una concezione<br />
della vita vista come insieme di avvenimenti a servizio della mia<br />
esistenza presente e dai quali sono chiamato a ricavare il massimo di soddisfazione.<br />
Se, nel caso di un’antropologia unitaria e di ispirazione personalista,<br />
ciò che conta è il fine per il quale vivere ed il progresso è avanzamento<br />
verso questo fine; nel secondo, ciò che vale è ricavare dagli eventi e<br />
dai rapporti ciò che serve al gioco del momento ed il progresso, in questo<br />
caso, si misura in termini di accumulazione. L’interpretazione dello stesso<br />
benessere sembra collocarsi su piani del tutto inconciliabili: nel primo<br />
caso al benessere della persona contribuisce la retta coscienza di aver risposto<br />
responsabilmente agli appelli della storia; nel contesto della cultura<br />
radicale la situazione di benessere deriva dalla certezza di avercela fatta e<br />
comunque di essere riusciti nel proprio intento. In altri termini, se nel<br />
primo caso, il benessere e la felicità sono gli effetti di una vita vissuta nell’orizzonte<br />
di una personale e piena responsabilità, nel secondo caso, il<br />
benessere e la felicità sono degli scopi, e quelli che chiamiamo valori e<br />
virtù sono soltanto opportunità e comportamenti che “funzionano” in<br />
quella circostanza, utili per raggiungere, semmai cinicamente, gli obiettivi<br />
del momento.<br />
A colpire all’interno della diffusa cultura radicale – che è anche ciò che<br />
la differenzia da una cultura personalista – non è la negazione di un orizzonte<br />
valoriale né il rifiuto di qualsiasi discorso sulle virtù. La differenza<br />
sta piuttosto in un modo tutto particolare di concepire i valori e di intendere<br />
le virtù che, col pretesto di non far venire meno il carattere storico,<br />
finisce per privare gli uni e le altre di un riferimento oggettivo e della loro<br />
funzione, per così dire, sociale. Non possiamo dimenticare infatti che, a<br />
prescindere dai paradigmi di riferimento, «gli studi sulla cultura dicono<br />
22<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
NUNZIO GALANTINO<br />
che la virtù è un fenomeno decisamente sociale, in quanto i gruppi di<br />
ogni tipo si distinguono in base ai caratteri ed agli atteggiamenti che<br />
inculcano nei loro membri [...]. Indipendentemente dal fatto che gli individui<br />
incarnino o meno i tratti apprezzati dal gruppo, essi generalmente<br />
interiorizzano i valori presenti in importanti miti culturali e giudicano se<br />
stessi alla luce di queste norme comuni» 17 .<br />
Pur prendendo in considerazione quanto contenuto nelle righe prece-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
23
L’OBLIO DELLE VIRTù A FAVORE DEL DESIDERIO<br />
denti – e dopo aver sottolineato il non condivisibile silenzio di esse sul<br />
ruolo determinante che nella definizione e ancora di più nell’esercizio<br />
della virtù ha la libera volontà del soggetto – possiamo concludere che la<br />
radicale sostituzione dei caratteri della persona con quelli dell’individuo fa<br />
sentire i suoi effetti sia sul modo di concepirsi dell’uomo rispetto alla<br />
società sia sul modo di concepire gli standard necessari per la sua realizzazione.<br />
Ed è proprio a proposito di questi ultimi che emerge il differente<br />
modo di concepire il rapporto tra desiderio e virtù. Se in queste pagine si<br />
è fatta la scelta, non so quanto condivisa, di abbandonare la facile strada<br />
di considerare tra loro alternativi il desiderio e la virtù, è perché in fondo<br />
condividiamo con J. Maritain che «niente è più umano del fatto che l’uomo<br />
desideri naturalmente cose impossibili alla natura» 18 . Il desiderio nato<br />
e coltivato in un contesto di relazione, nel senso più ampio e pieno della<br />
parola, può costituire l’inizio della virtù e può esso stesso trasformarsi in<br />
volano per i momenti in cui più difficile appare percorrere strade altrimenti<br />
ritenute non percorribili, se non proprio impossibili.<br />
24<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Note<br />
1<br />
A. Scola, G. Reale, Il valore dell’uomo (con un intervento di A. Torno),<br />
Bompiani, Milano 2007.<br />
2<br />
A. Bagnasco, Prolusione alla 57 a Assemblea generale dei Vescovi italiani (21 maggio<br />
2007).<br />
3<br />
N. Galantino, Sulla via della persona. Storia, epistemologia, figure e percorsi, San<br />
Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 201-203.<br />
4<br />
F. Chiereghin, “Le ambiguità nel concetto di persona”, in Dall’antropologia all’etica.<br />
All’origine della domanda sull’uomo, Guerini e Associati, Milano 1997, p. 55.<br />
5<br />
Ivi, p. 56.<br />
6<br />
Ivi, p. 58.<br />
7<br />
E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitario (Introduzione e<br />
traduzione di Ada Lamacchia), Ecumenica, Bari 1975, pp. 68.70.<br />
8<br />
E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica, Bari 1981, p. 78.<br />
9<br />
E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 2004 12 , p. 59.<br />
10<br />
Ivi, p. 58.<br />
11<br />
G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 70.<br />
12<br />
F. Botturi, Desiderio e verità. Per una antropologia cristiana nell’età secolarizzata,<br />
Massimo, Milano 1985, pp. 55s.<br />
13<br />
Cfr. W. Reich, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano 1984; H. Marcuse , Eros e<br />
civiltà, Einaudi, Torino 1968; G. Bataille, L’esperienza interiore, Dedalolibri, Bari 1970.<br />
14<br />
Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1986, pp. 21-25.<br />
15<br />
G. P. Prandstraller, L’uomo senza certezze e le sue qualità, Laterza, Roma-Bari<br />
1991, p. 53.<br />
16<br />
G. K. Chesterton, Ortodossia, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 29.<br />
17<br />
A. Patrick, “Narrativa e dinamiche sociali della virtù”, in Concilium, 1987, 3, p. 101.<br />
18<br />
J. Maritain, Alla ricerca di Dio, Paoline, Roma 1968, p. 102.<br />
NUNZIO GALANTINO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
25
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
L’uomo virtuoso sa fare i conti con le proprie inclinazioni e<br />
passioni ma sa anche essere solido dinanzi alle sofferenze,<br />
avendo la capacità di decifrarne il messaggio; la virtù allora<br />
allude ad una identità armonica, capace di raccordare i diversi<br />
registri del vivere. Tutto questo si traduce anche nella<br />
capacità di favorire realmente il bene comune della società in<br />
cui si è inseriti.<br />
L’eredità<br />
di Trasimaco<br />
Paolo Pagani<br />
Nell’antichità greca prevaleva un’accezione pre-morale della<br />
parola “virtù”, secondo la quale il bene indicato con tale parola<br />
consisterebbe per lo più in abilità di tipo tecnico, fisico, prestazionale:<br />
riguardanti, insomma, l’uomo in quanto artista, atleta,<br />
amministratore, o altro ancora; ma non l’uomo in quanto<br />
uomo. Con Aristotele e gli Stoici prima, e con la letteratura<br />
Patristica e Scolastica poi, iniziò a prevalere invece l’accezione<br />
morale di “virtù”, che è quella tutt’ora corrente.<br />
La virtù come unità dell’uomo<br />
In particolare, secondo la concezione aristotelico-tomista, la<br />
virtù è ultimamente l’unità dell’uomo con se stesso, cioè il suo<br />
saper essere completamente presente in quello che fa. Al contrario,<br />
secondo la concezione kantiana, la virtù si realizza nel<br />
distacco della persona (“uomo noumenico”) dalla propria animalità<br />
(“uomo fenomenico”): in tal senso, un’azione sarebbe<br />
tanto più virtuosa, quanto più riuscisse a liberarsi dalla passione.<br />
Nella prima prospettiva, la virtù ha a che fare col bisogno e<br />
ha in vista la felicità; nella seconda prospettiva, la virtù entra in<br />
contrasto col bisogno e con il desiderio di felicità.<br />
Nella prospettiva aristotelico-tomista, comunque, la parola<br />
“virtù” aggiunge qualcosa al semplice “bene morale”: si tratta<br />
della consapevolezza che il bene – dell’azione libera e della vita<br />
umana in generale – va inevitabilmente a lavorare una “materia”<br />
passionale, e con le turbolenze della passionalità deve fare i<br />
Paolo Pagani<br />
è professore associato di<br />
Antropologia Filosofica<br />
all’Università “Ca’<br />
Foscari” di Venezia.<br />
Tra le sue pubblicazioni<br />
recenti: “Logica e libertà.<br />
In riferimento ad alcune<br />
pagine di Maurice<br />
Blondel”, in: Aa.Vv.,<br />
Logica della morale, a<br />
cura di S. D’Agostino,<br />
Biblioteca della<br />
Enciclopedia Treccani,<br />
Roma 2006; “Appunti<br />
sulla contingenza”, in:<br />
Aa.Vv., Verità e<br />
responsabilità. Studi in<br />
onore di Aniceto<br />
Molinaro, a cura di L.<br />
Messinese e Ch. Göbel,<br />
Centro Studi<br />
Sant’Anselmo, Roma<br />
2006.<br />
26<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
conti. Quindi, agire e vivere bene, implica un lavoro e una fatica. Non<br />
basta sapere come comportarsi; bisogna anche saperlo fare realmente e<br />
stabilmente. Parlare dunque di “virtù”, significa indicare gli stili di vita –<br />
storicamente già sperimentati e consolidati – che traducono la legge<br />
morale in vita vissuta, e che sono tradizionalmente riconosciuti come<br />
aspetti autentici della vita buona.<br />
Osservava Aristotele, che la razionalità umana non può sensatamente<br />
esercitare, su quelle che chiamiamo “passioni”, un “governo dispotico” –<br />
come se esse fossero dei meri strumenti da usare indifferentemente per la<br />
realizzazione di uno scopo –; dovrà invece esercitare su di esse un «governo<br />
politico o monarchico» 1 , cioè un governo che cerchi di ascoltare le loro<br />
implicite ragioni e di farle il più possibile partecipi dei suoi criteri, senza<br />
però cedere loro il comando. Il frutto di questo lavoro di persuasione e di<br />
educazione delle passioni, è la virtù morale, che Tommaso avrebbe poi<br />
definito come «la forma che è impressa dalla ragione nelle tendenze dell’uomo<br />
come un sigillo» 2 . Una metafora, questa, che indica nella virtù il<br />
“sinolo” (ovvero la sintesi) di quella “materia” che è il mondo emotivo<br />
(passionale), e di quella “forma” che è il giudizio di coscienza.<br />
Si può dire, allora, che la virtù è, fondamentalmente, il frutto del processo<br />
attraverso cui l’uomo ricompagina continuamente se stesso, riconducendo<br />
tutti gli aspetti della sua persona a convivere tra loro in modo il<br />
più possibile armonico, in funzione del cammino alla meta adeguata. Un<br />
uomo unito in se stesso è un uomo forte, che cammina con passo sicuro<br />
(virtù – areté in greco e virtus in latino – vuol dire forza); un uomo diviso<br />
in sé dal disordine delle dinamiche pulsionali lasciate a se stesse, sarà invece<br />
incerto e paralizzato dall’esitazione – come è indicato nella parola<br />
“vizio” (derivante probabilmente dalla radice indoeuropea “Viet” o “Vit”,<br />
che dice piuttosto deviazione e impaccio).<br />
PAOLO PAGANI<br />
La virtù secondo Aristotele<br />
La vita dell’uomo è mossa da certe passioni e strutturata secondo certe<br />
abitudini (secondo un certo ethos): non si potrà dunque intraprendere un<br />
cammino morale che non tenga conto di questo, cioè che non tenda a utilizzare<br />
il più possibile gli elementi passionali, e a darsi la solidità di un<br />
ethos (di una vita concreta). Questa è la grande intuizione espressa da<br />
Aristotele nel Secondo Libro dell’Etica Nicomachea.<br />
Aristotele concorda con Socrate nel ritenere che la virtù morale (areté<br />
ethiké) non si possa insegnare teoricamente 3 ; ed è anche convinto che essa<br />
possa essere conquistata soltanto a partire da singoli atti buoni 4 ; tuttavia è<br />
molto sensibile all’importanza che tre fattori rivestono per la acquisizione<br />
della virtù: (1) l’impronta che sull’agire ha l’educazione – specie nei primi<br />
anni di vita 5 ; (2) l’importanza che ha l’esercizio nella acquisizione delle<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
27
L’EREDITà DI TRASIMACO<br />
abitudini (buone o cattive che siano) 6 ; (3) l’importanza che, nell’acquisizione<br />
di un’abitudine e di una mentalità, rivestono le leggi dello Stato 7 .<br />
In fondo, si può dire che in tutt’e tre le circostanze ora richiamate, giochi<br />
un ruolo di primo piano la gratificazione. Infatti, se «è a causa del piacere<br />
che compiamo le cose cattive ed è a causa del dolore che ci asteniamo<br />
dalle cose moralmente belle», il lavoro educativo (da compiere su di sé, sui<br />
figli, sulla società) consisterà nel guidare e nell’essere guidati subito da giovani<br />
– come dice Aristotele citando Platone 8 –, «a rallegrarsi e a dolersi<br />
delle cose appropriate» 9 . E l’assegnazione (a sé e agli altri) di rinforzi positivi<br />
o negativi, avrà proprio la funzione di aiutare a scoprire il bene morale<br />
come qualcosa di gustoso, e il male come qualcosa di disgustoso.<br />
Dunque, occorre educarsi ed educare alle attrattive del bene, all’amore<br />
per la vita buona; non, presentarla, a sé e agli altri, come un peso da portare.<br />
Queste sono le indicazioni centrali della trattazione aristotelica intorno<br />
alla virtù: «…non è infatti cosa da poco per le azioni, che si gioisca e si<br />
provi dolore in modo buono o cattivo» 10 . Si tratta nientemeno che dell’accordo<br />
dell’uomo con se stesso.<br />
Per realizzare questo risultato, bisogna però abituarsi ad orientare il<br />
mondo emotivo in modo che rinforzi il giudizio della ragione, e non si<br />
28<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
opponga invece ad esso. Virtù sarà appunto il realizzarsi in noi della<br />
“disposizione stabile” (héxis in greco, habitus in latino) a guidare opportunamente<br />
la passionalità 11 . Aristotele indica poi, sinteticamente, la forma<br />
della virtù morale nella “medietà” (mesótes), ma meglio sarebbe forse dire<br />
“centralità”. Il “medio” che Aristotele ha in mente, non è infatti una<br />
disposizione alla mediocrità (un evitare di sbilanciarsi troppo), bensì una<br />
disposizione a trovare il “meglio” (áriston) in ogni circostanza 12 .<br />
Come scrive Aristotele, «la virtù è dunque una disposizione che orienta<br />
la scelta, consistente in una medietà relativa a noi, determinata dalla<br />
ragione (logos), vale a dire nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio<br />
(phrónimos)» 13 . La scelta buona è dunque favorita, resa più agile, dal<br />
fatto di collocarsi nel contesto di una vita virtuosa, cioè di una vita educata.<br />
L’uomo educato (il phrónimos), è l’uomo che sceglie secondo coscienza,<br />
e non reagisce semplicemente all’accaduto. L’uomo virtuoso (spoudáios),<br />
in cui questo atteggiamento è divenuto abituale, diviene familiare o connaturale<br />
col bene; tanto da «vedere» – quasi a colpo d’occhio, come capita<br />
a chi è esperto di una certa materia – «la verità in ogni cosa» 14 : ad esempio,<br />
quale sia il bene più urgente da promuovere o da salvare in una certa<br />
situazione.<br />
Aristotele esemplifica che cosa intenda per “medietà”, parlando del<br />
“coraggio”. Infatti, in relazione al pericolo, il coraggio è la medietà tra gli<br />
eccessi opposti della “temerarietà” e della “viltà” 15 . In tal modo, lo<br />
Stagirita rivela di avere in mente una medietà che non è di tipo aritmetico<br />
16 (una sorta di “medio” tra il più e il meno), bensì di tipo qualitativo.<br />
La medietà – aristotelicamente intesa – è l’agire ponderato e scelto, visto<br />
in contrapposizione all’agire sconsiderato e reattivo, in cui è l’inerzia passionale<br />
a prevalere. L’eccesso infatti è la mancanza di criterio razionale, le<br />
cui conseguenze emotive e operative varieranno in relazione ai diversi<br />
temperamenti 17 , ma saranno moralmente tra loro equivalenti.<br />
Quando poi l’agire sconsiderato diviene, a sua volta,<br />
una disposizione abituale, si può parlare di “vizio” 18 .<br />
A ben vedere, quella che Aristotele chiama “medietà<br />
secondo ragione”, è ciò che la tradizione successiva avrebbe<br />
chiamato “giudizio di coscienza”. La “coscienza morale”<br />
– come vedremo meglio – è la ragione, in quanto impegnata<br />
a capire quale sia il bene nell’agire: che cosa sia<br />
moralmente bene qui e ora. Che cosa dice allora in più il<br />
discorso intorno alla virtù, rispetto a quello intorno alla coscienza?<br />
Semplicemente questo: che l’azione buona – pur traendo il suo senso dal<br />
giudizio di coscienza –, deve trarre la sua energia dalle fonti emotive: deve,<br />
cioè, non dominarle in modo violento, ma piuttosto controllarle coinvolgendole.<br />
In una parola, deve educarle.<br />
Il “medio” che Aristotele<br />
ha in mente non è<br />
una disposizione alla<br />
mediocrità, bensì una<br />
disposizione a trovare<br />
il “meglio” in ogni<br />
circostanza.<br />
PAOLO PAGANI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
29
L’EREDITà DI TRASIMACO<br />
Virtù ed educazione<br />
L’alleanza tra ragione e passione trova il proprio mediatore in quell’elemento<br />
che Platone chiama thymoeidés 19 : cioè, nella capacità propriamente<br />
“emozionale” dell’uomo, che fa da interfaccia tra le due dimensioni ora<br />
citate. Si tratta, più precisamente, della capacità del mondo passionale di<br />
provare emozione, cioè di essere sensibilizzato e attivato dal mondo simbolico,<br />
che è il luogo proprio della comunicazione tra ragione e passione.<br />
L’immagine, come simbolo – e quindi come apertura al mondo dei significati<br />
–, è un fattore educativo imprescindibile 20 .<br />
L’uomo virtuoso, che tende costantemente a riconciliarsi, senza compromessi,<br />
con il proprio mondo emotivo, e che deve esercitarsi – cioè<br />
combattere – per giungere a questa effettiva disposizione, ha dunque tra le<br />
sue armi, in questa battaglia contro la violenza e l’astuzia delle passioni 21 ,<br />
oltre la lucidità del giudizio, anche il potere suggestivo dell’immaginazione.<br />
L’immaginario, orientato dal giudizio, può captare le energie emotive,<br />
se è prodotto in modo tale da interagire con le dinamiche di quest’ultime.<br />
Si tratterà di volgere a vantaggio della verità il fenomeno della “seduzione”.<br />
Ordinariamente, la seduzione è una reazione indotta – attraverso un<br />
lavoro sull’immaginario – nelle passioni altrui, in modo da eccitarle e captarle<br />
in un progetto rispetto al quale l’altrui volontà risulti impotente. Nel<br />
nostro caso si tratta di una autoseduzione 22 , guidata dalla volontà stessa,<br />
nel tentativo di allargare le proprie fonti energetiche.<br />
Ma l’immaginario, ben prima che in questo lavoro su di sé (ascesi),<br />
opera nell’incontro educativo. La ricerca della virtù risulta per un uomo<br />
una prospettiva interessante, solo dopo che questi abbia incontrato persone<br />
autorevoli, cioè capaci di suscitare in lui una disposizione all’ascolto.<br />
La persona autorevole non solo dice cose vere, ma nel dirle le comunica,<br />
cioè le rende attuali per chi le ascolta con attenzione. Ora, questa capacità<br />
comunicativa lavora nell’immaginario di chi ascolta e di chi osserva, e, di<br />
lì, orienta le energie emotive in senso favorevole alla proposta di vita contenuta<br />
nelle cose dette. Insomma, è vedendo e frequentando una persona<br />
che sia davvero “una”, cioè che abbia un volto armonico, che inizierò a<br />
sentire l’urgenza di realizzare in me qualcosa di analogo a ciò che in lei<br />
vedo accadere.<br />
Le virtù<br />
Una lunghissima tradizione – che inizia con la Repubblica di Platone e,<br />
in parte attraverso Aristotele, in parte attraverso lo Stoicismo e la<br />
Patristica, giunge a Tommaso d’Aquino –, usa distinguere quattro fondamentali<br />
(o “cardinali”) declinazioni della virtù, denominandole “prudenza,<br />
fortezza, temperanza e giustizia”.<br />
30<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Una articolazione tradizionale<br />
a) “Prudenza” (phrónesis, nel greco di Aristotele) è la capacità di stabilire<br />
con sicurezza «che cosa si deve fare oppure no» 23 . Essa, come diceva<br />
Tommaso, è «recta ratio agibilium» (retto criterio riguardo a come vivere).<br />
Coincide con la genialità interpretativa che una coscienza ben formata sa<br />
esercitare sulle situazioni in cui vive.<br />
b) Ma, parlare di “prudenza” non significa affatto alludere alla paura o<br />
alla meschinità. Infatti, il prudente è sempre “forte”, cioè disposto ad<br />
impiegare le proprie energie emotive per affrontare gli ostacoli e le inerzie<br />
che si oppongono alla scelta buona. La fortezza è chiamata a regolare le<br />
passioni che la tradizione classica chiama “irascibili”: tipicamente, il timore,<br />
la temerarietà, l’aggressività.<br />
c) La “temperanza” poi, cioè la capacità di tenere sotto controllo la passionalità<br />
sensuale (cioè le passioni della sfera classicamente detta “concupiscibile”),<br />
è sì, frutto della prudenza; ma ne è anche “custode” 24 . Infatti<br />
l’intemperante non è più capace di cogliere il bene in modo limpido e<br />
disinteressato; il temperante, invece, trova gioia nel bene, perché ha modo<br />
di verificarlo come adeguato a sé.<br />
d) La prudenza acquista poi il nome di “giustizia”, quando investe<br />
direttamente il rapporto interpersonale. La più generale forma di giustizia,<br />
quella “distributiva” – espressa dalla formula “dare a ciascuno il suo”<br />
–, non consiste in una regola meccanica, ma indica piuttosto l’attenzione<br />
a riconoscere e a rispettare il significato delle diverse presenze in rapporto<br />
alle quali si svolge la nostra vita 25 . Applicazioni più specifiche della giustizia<br />
distributiva sono: la “giustizia commutativa” (che vige nei rapporti tra<br />
pari, e che richiede equità nello scambio) 26 e quella “sociale” (che richiede<br />
la rimozione, da parte dell’autorità civile, degli impedimenti all’esercizio<br />
dei diritti dell’uomo).<br />
PAOLO PAGANI<br />
Uno sviluppo possibile<br />
Intorno a ciascuna di queste virtù si raduna una costellazione di altre<br />
virtù. Accenniamo ad un caso, per ciascuna virtù cardinale.<br />
a) Insieme alla prudenza è opportuno considerare l’“abilità” o “arte”:<br />
quella virtù che in greco è detta techne e in latino ars. Tommaso la definisce<br />
come «il retto criterio riguardo a come fare le cose» (recta ratio factibilium)<br />
27 . “Arte” è la maniera adeguata di realizzare le cose: fare qualcosa a<br />
regola d’arte, significa realizzarla secondo quel che di meglio la tradizione<br />
ci ha suggerito ed esemplificato in proposito. Naturalmente chi possiede<br />
realmente un’arte, saprà innovarla, facendo rivivere la tradizione (in modo<br />
creativo, o anche polemico). Quel che ci interessa sottolineare è che l’uomo<br />
virtuoso o prudente, non potrà non tendere anche ad essere artista di<br />
quel che fa, cioè ad essere competente e appassionato, al punto da risulta-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
31
L’EREDITà DI TRASIMACO<br />
re creativo. Questo vale per il mestiere (anche il meno appariscente), per<br />
la professione, per la funzione sociale e politica, ma anche per i rapporti<br />
umani ed educativi. Senza arte – cioè, senza competenza operativa negli<br />
ambiti in cui agisce –, l’agente finisce per risultare negligente o per operare<br />
male, sia pur con buone intenzioni 28 .<br />
b) Accanto alla fortezza occorre considerare quelle sue fioriture che sono<br />
la “pazienza” e la “sofferenza”. In proposito, si consideri come sofferenza e<br />
dolore non siano affatto la stessa cosa: il dolore è passività (subire la privazione),<br />
mentre la sofferenza è attività virtuosa, cioè capacità di non lasciarsi<br />
vincere dal dolore, ma piuttosto di inserirlo in un possibile disegno di senso,<br />
“sop-portandolo”, cioè portandolo su di sé lungo il proprio cammino.<br />
Sofferenza è allora la specifica virtù che ha come propria materia il dolore.<br />
c) Accanto alla temperanza è opportuno considerare il “pudore”. Il<br />
pudore, visto come reazione spontanea, è una passione; ma, se adeguatamente<br />
coltivato, esso diventa una vera e propria virtù. Come virtù, esso<br />
consiste nella costante disposizione a custodire l’irriducibilità dell’io, nell’ambito<br />
della sua inevitabile esposizione corporea al mondo. Nella prospettiva<br />
aristotelico-tomista, il corpo non è infatti uno strumento dell’anima<br />
(cioè dell’io), ma è piuttosto ciò che si vede dell’anima. Il pudore<br />
come virtù nasce proprio da questa consapevolezza, divenuta esplicita.<br />
Quel che si guarda o che si sfiora della persona, non è qualcosa d’altro o di<br />
meno intimo e rilevante del suo stesso io (classicamente, della sua stessa<br />
anima); il che suggerisce una attenzione e una discrezione adeguate.<br />
d) Insieme alla giustizia non si può non considerare l’“amicizia”.<br />
Aristotele le dedica addirittura due Libri dell’Etica Nicomachea, distinguendo<br />
tra amicizia autentica (philía) e amicizia inautentica (phílesis). La<br />
prima è una compagnia che cerca la verità, ad ogni livello del vivere<br />
comune: c’è una amicizia familiare, un’amicizia verso il singolo, un’amicizia<br />
comunitaria e una sociale. La seconda è invece una complicità che<br />
aiuta a fuggire dalle responsabilità quotidiane. L’amicizia autentica, in<br />
fondo, è ciò cui tende ultimamente la stessa giustizia, come a proprio<br />
ideale regolativo: infatti, il rapporto con le altre persone è completamente<br />
adeguato (giusto), quando è inteso come una compagnia che attraversa<br />
l’intero viaggio della vita, senza limiti preventivati – come accade appunto<br />
nell’autentica amicizia.<br />
Virtù e convivenza<br />
Abbiamo parlato della virtù come di qualcosa cui ci si educa e si viene<br />
educati, in riferimento a modelli. Ma, se è vero che il paradigma del lavoro<br />
da cui fiorisce la virtù è il saggio – cioè l’uomo per il quale la virtù è già<br />
un modo di essere –, viene allora da pensare che siamo sempre preceduti,<br />
nella vita buona, da qualcuno; e da qualcuno che ci invita a seguirlo.<br />
32<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
PAOLO PAGANI<br />
Virtù e comunità<br />
La spinta verso il bene è in noi naturale; ma la nostra capacità di tradurre<br />
la vocazione destinale in un concreto progetto di vita, questa è<br />
dovuta alle immagini di vita che ci formiamo all’interno della vita morale<br />
già in atto in chi ci precede o ci circonda, e rispetto alla quale anche la<br />
nostra vita morale si struttura. Una vita morale che si attua secondo una<br />
certa forma è un ethos; e un ethos (una forma di vita) è sempre partecipato<br />
da una comunità.<br />
Questa classica evidenza è stata riproposta, in epoca a noi contemporanea,<br />
dal filosofo americano Alasdair MacIntyre, con il volume Dopo la<br />
virtù (1981). MacIntyre ci ricorda che non ci sono virtù, senza comunità<br />
e tradizioni al cui interno esse possano essere trasmesse, coltivate e innovate.<br />
Tali comunità sono: le famiglie, le comunità di lavoro, quelle sociali<br />
e quelle religiose. Ora, una insostituibile virtù è proprio quella di saper<br />
coltivare i luoghi al cui interno le virtù di cui parlavamo possano maturare<br />
ed essere testimoniate. Anzi, nell’attuale momento storico, quella ora<br />
richiamata appare proprio come la virtù più urgente. Senza questi luoghi,<br />
infatti, l’uomo tendenzialmente diviene un semplice prodotto del potere<br />
politico, e si riduce ad un insieme di funzioni socialmente controllabili.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
33
L’EREDITà DI TRASIMACO<br />
Virtù e convivenza civile<br />
Come opportunamente osserva il Socrate platonico nel Primo Libro<br />
della Repubblica, persino una banda di delinquenti – se vuole riuscire<br />
nelle proprie imprese – deve conservare, nei propri membri, una qualche<br />
forma di virtù, e più precisamente, di quella virtù architettonica che è la<br />
giustizia. Se nella banda non vi fosse lealtà reciproca, le imprese progettate<br />
non potrebbero riuscire per mancanza di accordo operativo; se l’ingiustizia<br />
nei rapporti reciproci fosse totale, la convivenza – anche quella ordinata<br />
al male – sarebbe impossibile, e con essa l’agire comune: prevarrebbe<br />
invece la discorde affermazione degli appetiti di ciascuno, e tendenzialmente<br />
il gruppo si disgregherebbe 29 .<br />
Naturalmente, ciò che vale per un gruppo particolare e deviante, vale a<br />
maggior ragione per la convivenza nella società civile, cui l’uomo è portato<br />
per natura. La celebre pagina in cui Socrate conduce Trasimaco a riconoscere<br />
che senza virtù ogni convivenza si rovescia in conflitto, ci suggerisce<br />
che, solo limitando liberamente la propria spontaneità in funzione di<br />
una più ampia architettura del bene, detta “bene comune”, l’uomo può<br />
realizzare la dimensione sociale della propria natura, e in tal modo fiorire<br />
egli stesso.<br />
Note<br />
1<br />
Cfr. Aristotele, Politica, 1254 b. 6.<br />
2<br />
Cfr. Tommaso d’Aquino, De virtutibus in communi, a. 9.<br />
3<br />
Cfr. Platone, Protagora, 361 a.<br />
4<br />
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1.<br />
5<br />
Cfr. ivi, II, 1103 b. 24-25.<br />
6<br />
Cfr. ivi, II, 1103 a. 31-35.<br />
7<br />
Cfr. ivi, II, 1103 b. 1-5.<br />
8<br />
Cfr. Platone, Leggi, 653 a.<br />
9<br />
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1104 b. 8-13.<br />
10<br />
Cfr. ivi, II, 2.<br />
11<br />
Cfr. ivi, II, 4.<br />
12<br />
Infatti, «provare determinate passioni quando si deve e nelle circostanze in cui si<br />
deve e verso le persone che si deve e in vista del fine che si deve e come si deve, è<br />
realizzare il medio e al tempo stesso il meglio: il che è proprio della virtù» (Cfr.<br />
ivi, II, 1106 b. 21-23).<br />
13<br />
Cfr. ivi, II, 6.<br />
14<br />
Cfr. ivi, III, 6.<br />
34<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
15<br />
Cfr. ivi, II, 7.<br />
16<br />
Cfr. ivi, II, 5.<br />
17<br />
Stando all’esempio fatto, ci sarà chi – per sua propensione individuale – sarà<br />
orientato a fuggire davanti al pericolo, e chi, senza pensarci, gli correrà incontro:<br />
viltà e temerarietà, appunto.<br />
18<br />
Cfr. ivi, II, 8.<br />
19<br />
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 441 a. Platone esprime plasticamente la relazione<br />
fra le tre dimensioni dell’uomo (razionale, passionale, emozionale) nel celebre<br />
“mito dell’auriga”: l’intero dell’uomo è simile ad una biga alata, trainata da due<br />
cavalli (uno bianco e uno nero) e guidata da un auriga. L’auriga è la razionalità, il<br />
cavallo nero (riottoso e sordo ai richiami dell’auriga) è la passionalità, mentre il<br />
cavallo bianco è la capacità emozionale (thymoeidés). Il cavallo bianco sa ascoltare<br />
i richiami dell’auriga, ed è in grado di persuadere il suo compagno nero a seguire<br />
la strada che l’auriga indica a entrambi. (Cfr. Platone, Fedro, 253 d-254 e).<br />
20<br />
Pena il crearsi di quelle situazioni di pura contrapposizione tra ragione e passione,<br />
ritenute inevitabili da parte di quegli autori che presentano la ragione come<br />
impotente rispetto alla passione (emblematica, al riguardo, la posizione di David<br />
Hume: cfr. Ricerche intorno ai principi della morale [1752], Appendice I); e semmai<br />
impegnata a giustificare le mosse di quest’ultima, nel disperato tentativo di<br />
dare di esse una qualche razionalizzazione a posteriori (emblematica al riguardo la<br />
posizione dell’ultimo Freud: cfr. Il disagio della civiltà, 1929).<br />
21<br />
Che spesso mutano aspetto per essere più facilmente assecondate.<br />
22<br />
L’“incantesimo del fanciullino”, di cui parlava Socrate nel Fedone (cfr. Platone,<br />
Fedone, 77 d-78 b).<br />
23<br />
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 11.<br />
24<br />
Cfr. ivi, VI, 5.<br />
25<br />
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I IIae, q. 60, a. 3.<br />
26<br />
È quella giustizia che tipicamente presiede ai contratti.<br />
27<br />
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 22, a. 2. L’ars è l’esatto risvolto,<br />
sul piano del fare esteriore (facere), di quel che è la prudenza sul piano dell’agire<br />
interiore (agere). E non a caso lo stesso Tommaso (cfr. Summa Theologiae, I<br />
IIae, q. 57, aa. 3-4) metteva in relazione, pur nella necessaria distinzione, queste<br />
due dimensioni operative.<br />
28<br />
Esemplificando, possiamo dire che un insegnante che sia animato dalle migliori<br />
intenzioni educative, non potrà vivere coerentemente il suo lavoro come gesto, se<br />
non si abituerà ad approfondire costantemente la sua materia, a preparare<br />
coscienziosamente lezioni e interrogazioni e a trattare i suoi studenti come amici<br />
potenziali. Analogamente, il pubblico amministratore che non si occupi di tecniche<br />
legislative o non si preoccupi di conoscere come si struttura un bilancio,<br />
potrà essere portatore di un brillante programma politico, ma non interpreterà di<br />
sicuro in modo virtuoso la funzione cui ha voluto accedere.<br />
29<br />
Cfr. Platone, Repubblica, I, 351 c-352 d.<br />
PAOLO PAGANI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
35
L’idea di «persona» gioca un ruolo fondamentale nella<br />
riflessione antropologica: è il modo per dire la diversità tra<br />
l’uomo e tutte le altre forme viventi. Una diversità che diventa<br />
tangibile nel mondo delle relazioni interpersonali ed in<br />
special modo nel dialogo io-tu, il luogo in cui le identità si<br />
formano e si arricchiscono.<br />
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
Dialogo,<br />
ergo sum<br />
Silvano Zucal<br />
Persona, soggetto, individuo: spesso nella riflessone abituale<br />
c’è una sovrapposizione indebita di questi tre termini. E se l’età<br />
moderna sembrava aver assorbito il concetto di persona in quello<br />
di soggetto, l’età contemporanea sembra aver assorbito il<br />
concetto di persona in quello di individuo. In realtà la persona<br />
e il suo concetto vanno a travalicare sia la dimensione del soggetto<br />
che quella dell’individuo. La persona è soggetto ed è individuo<br />
ma insieme è più che soggetto e più che individuo.<br />
Cercheremo di chiarire questo nodo che non è solo concettuale<br />
ma è anche esistenziale, vitale e culturale, a partire dal prezioso<br />
contributo chiarificatore di Romano Guardini (1885-1968)<br />
definito dalla sua biografa Hanna Barbara Gerl-Falkovitz il<br />
«padre della Chiesa» del Novecento oltre che – possiamo dire<br />
noi – un’eredità preziosa ineludibile anche di fronte alle sfide<br />
del nuovo millennio.<br />
La filosofia della persona attraversa tutta l’opera di Guardini<br />
che appare uno dei più importanti teorici del personalismo dialogico<br />
del Novecento. Certo in Mondo e persona (1939) egli<br />
condensa e porta a sintesi la sua visione antropologico-personalistica<br />
che aveva in larga parte abbozzato anche nel manoscritto<br />
inedito Der Mensch, che contiene le lezioni antropologiche berlinesi<br />
degli anni ’30 (e che verrà pubblicato a breve nell’Opera<br />
Omnia edita da Morcelliana). Sono questi i due testi fondamentali<br />
di riferimento per cogliere il personalismo guardiniano<br />
e per aiutarci nel nostro percorso chiarificatore. Due le premes-<br />
Silvano Zucal<br />
è professore ordiario di<br />
Filosofia teoretica presso<br />
l’Università degli Studi di<br />
Trento; è membro del<br />
Comitato scientifico che<br />
presso l’Editrice<br />
Morcelliana cura l’Opera<br />
Omnia di Romano<br />
Guardini. Tra le sue<br />
pubblicazioni più recenti:<br />
Per una filosofia della<br />
liturgia, in Giocare<br />
davanti a Dio: l'universo<br />
liturgico tra storia, culto<br />
e simbolo, a cura di<br />
P. Giustiniani e<br />
C. Matarazzo, Campania<br />
Notizie-Editoriale<br />
Comunicazioni Sociali,<br />
2007, pp. 41-84.<br />
36<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
se di fondo per Guardini. La prima vede la conoscenza dell’essenza della<br />
persona come compito specifico della filosofia, non della sola fede o della<br />
teologia. Non però di una filosofia neutrale o addirittura indifferente in<br />
rapporto alla Rivelazione poiché solo la Rivelazione disvela davvero chi è<br />
l’uomo dinanzi a Dio e insieme quali siano l’identità ultima, il senso e la<br />
collocazione dell’uomo nell’esistenza. Tutti dati imprescindibili per un<br />
profilo integrale della persona. Di conseguenza non si darà mai conoscenza<br />
filosofica vera e propria della persona al di fuori del contesto creato<br />
dalla Rivelazione. Ciò non toglie nulla all’approccio filosofico in sé, ma<br />
semmai lo porta a pienezza. La seconda premessa è di carattere metodologico.<br />
L’interrogativo kantiano «Che cosa è l’uomo? (Was ist der Mensch?)»<br />
non va mai declinato in modo astratto, impropriamente oggettivo, avulso<br />
dal contesto storico e dall’esistenza concreta, ma in modo diretto. Non<br />
più quindi «Che cosa è l’uomo?», ma semmai «Chi sono io come uomo?»<br />
oppure «Chi sei tu?» o ancora «Dove sei tu?»... Per muoversi su questo terreno<br />
occorre però un metodo adeguato e segnatamente quello storico-narrativo<br />
piuttosto che quello semplicemente speculativo.<br />
SILVANO ZUCAL<br />
L’identità della persona<br />
Acquisito il metodo storico-narrativo non si parte più dall’essenza<br />
astratta della persona, ma dall’uomo concreto che esiste personalmente.<br />
In tale approccio narrativo e fenomenologico insieme, il primo elemento<br />
che viene alla luce della persona è la sua realtà di “figura (Gestalt)”, il fatto<br />
che come ente si distingue e si mantiene come realtà propria ed unitaria<br />
tanto in relazione al complesso di tutto il resto, quanto rispetto ad ogni<br />
singolo fenomeno in esso. Una realtà è davvero “formata” e non solo<br />
aggregata quantitativamente quando gli elementi che la compongono non<br />
s’ammassano in modo caotico e informe, ma si strutturano secondo la<br />
propria specifica funzione nell’intero. Un principio unitario presiede alla<br />
connessione delle diverse dimensioni e proprietà specifiche che appartengono<br />
ad un ente e così lo configura con una propria e specifica identità.<br />
Figura in tal senso sono però tutti gli enti come realtà caratterizzate da una<br />
forma (un cristallo, un organismo vivente, un’opera d’arte, un’organizzazione<br />
sociale, una figura geometrica) e a tale livello ontologico e semantico,<br />
il suo più basso, la persona rimane ancora “cosa tra le cose”, ente tra gli<br />
enti, pur nella sua identità “formale-figurale” di vita corporea, psichica e<br />
spirituale.<br />
Individuo e persona<br />
Un secondo e più elevato elemento qualificante la persona è il suo<br />
essere individuo, non generico individuo, ma un’individualità vivente.<br />
L’individuo vivente si autodelimita e si autoafferma in due modi.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
37
DIALOGO, ERGO SUM<br />
Anzitutto si crea e si ritaglia un ambiente (Umwelt) riferito a sé, una sorta<br />
di riduzione del mondo nel suo complesso orientata e diretta agli scopi<br />
propri del singolo essere vivente; in secondo luogo si distingue progressivamente<br />
dal genere e dalla specie di appartenenza in modo da non essere<br />
solo un caso d’essi ma qualcosa d’unico in sé. Una tale emersione e distinzione<br />
individuale s’accentua di grado quanto più in alto sta l’essere vivente.<br />
Il disancorarsi da genere e specie con il correlato affermarsi dell’individualità<br />
è un valore che nel contempo rende però meno sicuro il sussistere<br />
dell’individuo. Individualità viventi sono – seppur in modo diverso dall’uomo<br />
– anche piante ed animali, anche se più forte è la loro subordinazione<br />
alle esigenze del genere e della specie, più limitata la possibilità<br />
autoaffermativa individuale, più circoscritta la porzione di mondo che si<br />
possono ritagliare come ambiente proprio (Umwelt). Sia per i viventi non<br />
umani, sia per l’uomo, il singolo individuo è sempre definito dal suo centro<br />
che non è spaziale, ma vivente ed è “interiorità” che si rapporta con il<br />
mondo esterno grazie alla percezione sensibile, alla capacità di attribuire<br />
significati al reale mondano per poter poi orientarsi in esso, alla spontaneità<br />
dell’azione progressivamente non necessitata. Una dialettica internoesterno,<br />
anzi uno scambio permanente, fa sì che l’individuo vivente assorba<br />
il mondo esterno nella sua “interiorità” grazie agli organi di senso e,<br />
viceversa, esistono nella sua “interiorità” impulsi e attività che influiscono<br />
sul mondo esterno. L’individualità vive dunque, di volta in volta, attraverso<br />
una trasmissione dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno. In tal<br />
senso è chiaro che è ben diversa l’individualità vivente di una pianta, di un<br />
animale o di un uomo.<br />
Persona e “personalità”<br />
Oltre che figura e individualità vivente la persona è “personalità<br />
(Persönlichkeit)”. A questo punto – e solo a questo punto – diviene finalmente<br />
evidente lo scarto e la discontinuità tra l’uomo e gli altri individui<br />
viventi vegetali e animali. La personalità è infatti quella particolare forma<br />
dell’individualità vivente che è determinata dallo spirito. L’“interiorità”<br />
che già caratterizzava l’interrelazione piante-ambiente e la percezione sensibile<br />
e l’attività autonoma degli animali cambiano radicalmente: con<br />
l’uomo diviene vita determinata dallo spirito. Tale interiorità segnata dalla<br />
personalità ha tre caratteristiche fondamentali: coscienza, volontà e creatività.<br />
La coscienza personale è diversa dalla consapevolezza animale, non è<br />
un semplice potere percettivo con una sorta di rimbalzo interiore, ma è<br />
una vera e propria consapevolezza del proprio atto percettivo, razionale,<br />
valutativo. È piena coscienza di quell’atto decisivo che comprende e riconosce<br />
l’altro da sé, è in ultima analisi autocoscienza e insieme autogiudizio.<br />
Vera e propria coscienza personale è pertanto la capacità di compren-<br />
38<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
SILVANO ZUCAL<br />
dere i significati, di emettere un giudizio veritativo ed assiologico. Potenza<br />
d’attribuzione semantica e veritativa insieme: qui sta il discrimine tra<br />
uomo e scimmia, qui è il salto nella catena evolutiva, qui si dà l’autentica<br />
“interiorità di coscienza (Bewußtseins-Innerlichkeit)”. Guardini in tal senso<br />
c’insegna a frantumare una lettura dogmatica dell’evoluzionismo: nessuna<br />
“interiorità biologica più evoluta” può condurre là dove sono in gioco l’effettiva<br />
capacità d’attribuzione semantica e veritativa, la possibilità di<br />
cogliere il reale per il solo amore di conoscerlo e non più per meri bisogni<br />
di sopravvivenza.<br />
Volontà<br />
L’interiorità della personalità si realizza anche nella volontà. L’atto volitivo<br />
autentico non è solo impulso all’autoconservazione e all’autoafferma-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
39
zione che caratterizza anche l’animale. Volontà significa sempre nell’uomo<br />
la capacità di procedere da sé in autonomia e in libertà, la possibilità di<br />
prender posizione e di decidere in rapporto a una propria valutazione<br />
della situazione. Peculiarmente umana è la decisione che esige una valutazione<br />
con implicazioni morali. L’animale non può scegliere, decidere,<br />
volere o addirittura valutare eticamente. Si scambierebbero in tal caso dei<br />
semplici meccanismi funzionali di adattamento all’ambiente vitale con il<br />
deliberato conferimento di senso che travalica ogni meccanismo funzionale<br />
d’adattamento e impegna la libera e ponderata – sia sul piano valutativo<br />
che su quello valoriale – decisione dell’uomo.<br />
DIALOGO, ERGO SUM<br />
Creatività<br />
L’interiorità personale s’esprime soprattutto nell’attività creativa, che si<br />
distingue in modo radicale da quella animale perché è “creazione” e non<br />
semplice “produzione”. L’opera d’arte in senso lato e la tecnica sono le<br />
forme proprie di questo creare dietro cui sta l’interiorità umana definita<br />
dallo spirito che esperisce il senso e gli dà forma esprimendo la propria<br />
energia creatrice. Le perfezioni delle produzioni animali sono reduplicazioni<br />
d’uno schema già insito nell’istinto vitale come il formicaio per la<br />
formica, splendenti “prosecuzioni degli organi animali”, mentre l’opera<br />
tecnica dell’uomo sempre travalica le opere animali perché scaturisce dallo<br />
spirito, dalle sue tensioni e dal suo azzardo. In tale rischio originario e<br />
strutturale la tecnica, in senso immediato, è di certo meno sicura nei suoi<br />
esiti, fuoriesce dal grembo della natura, non è più insolcata nei suoi ritmi<br />
e nelle sue dinamiche. Essa non è in primis per il benessere e per la sicurezza<br />
come lo è invece l’opera animale, anzi talora può opporsi nel modo<br />
più evidente ai bisogni vitali immediati, poiché non è qui in gioco l’utile,<br />
ma l’opera in sé, la fascinazione esclusivamente umana per l’opera senza<br />
sapere se da essa verrà promossa la vita o non piuttosto messa in pericolo.<br />
L’Io ovvero il soggetto nella sua unicità<br />
In virtù dello spirito che la definisce, l’interiorità personale nell’uomo è<br />
assolutamente immisurabile, sfugge al dominio, possiede un nucleo spirituale<br />
libero e imprevedibile. A partire dallo spirito muove verso l’altro da<br />
sé, ha coscienza dell’intero, non si imbatte soltanto nel mondo ma può<br />
incontrarlo e in tal modo può incontrare anche se stessa invece di viversi<br />
passivamente. Figura, individualità vivente, personalità come spiritualità<br />
autocoscienziale, volitiva e creativa, non sono però per Guardini ancora la<br />
persona “in senso proprio”. Sono ancora approssimazioni, per quanto<br />
importanti, poiché tutto ciò suona in ultima analisi impersonale, chiarisce<br />
solo “che cosa è lì ”ma non dice ancora “chi è” quella realtà. La persona “in<br />
senso proprio” è invece il soggetto, l’Io ovvero quell’essere in grado di autoap-<br />
40<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
partenersi, che «sussiste in sé e dispone di se stesso», si possiede e nessuno può<br />
espropriarlo della propria identità. Potrà essere soggiogato esteriormente,<br />
schiavizzato, ma il potere altrui può esercitarsi sull’essere psico-fisico, mai<br />
potrà sequestrare l’Io che io sono nella mia soggettività, che nessun altro<br />
può utilizzare e che rimane solo a me e per me quale mio fine. Questa<br />
dimensione dell’Io che caratterizza la persona fa sì che essa non sia mai<br />
surrogabile da alcuno, né che qualsivoglia altro la possa rappresentare. L’Io<br />
non può “essere abitato” da nessuno, perché è unico. Se la persona è essenzialmente<br />
autoappartenenza, tale peculiarità si declina sia sul terreno<br />
numerico-quantitativo (impossibilità dell’Io di essere raddoppiato) che su<br />
quello qualitativo (impossibilità dell’Io di essere riprodotto). Il senso<br />
dell’Io, del soggetto, e di conseguenza della persona, sarebbe tolto se io ci<br />
fossi due volte: è l’incubo del sosia o del clone. Analoga eclissi della persona<br />
si dà in ogni forma di schizofrenia esistenziale, in cui io possa percepirmi<br />
come diviso e non più unito con me stesso, non più unico, ma due<br />
persone. Oltre a tale scissione un ulteriore rischio che può incontrare l’effettiva<br />
identità personale è quello di cadere nel potere totalitario di un<br />
altro: in tal caso non si potrebbe più tenere in mano se stessi così come<br />
accade nelle fiabe in cui l’uomo vende la sua ombra ed essa viene risucchiata<br />
dallo specchio fatale. Sono tutti fenomeni analizzati in ambito psichiatrico<br />
e definiti impropriamente come disturbi della personalità, mentre<br />
sono semmai perturbazioni delle funzioni psichiche che sono alla base<br />
della coscienza della persona. Tale vissuto psichico patologico – o anche la<br />
sola apprensione che esso possa verificarsi – illumina per<br />
contrasto l’autentica identità della persona, il fatto che la<br />
persona non può esserci più volte, non può scindersi, non<br />
può perdersi di mano come invece può avvenire del mero<br />
individuo.<br />
Entropia della persona?<br />
Per Guardini l’uomo antico non possedeva tale nozione<br />
di persona che è peculiarmente ebraico-cristiana, ma l’età<br />
moderna sembra comprometterla e specificamente là dove essa attinge la<br />
propria garanzia ultima: lo spirito. Oggi tutto si riduce allo psichico e<br />
sembra venir meno la dialettica psyché-pneuma nella costituzione della<br />
persona, riducendo anche la malattia spirituale a semplice patologia psichica.<br />
La vita dello spirito s’ammala quando defeziona dalla verità e dalla<br />
giustizia ontologiche, quando smarrisce il senso dell’amore decentrante.<br />
La malattia spirituale non deve avere necessariamente effetti psico-patologici,<br />
ma conduce dritto all’entropia della persona. La salute spirituale<br />
della persona è fatta invece da due elementi: la giustizia ontologica che<br />
riconosce l’essenza delle cose altre da sé e non violenta con un presuntuo-<br />
La vita dello spirito<br />
s’ammala quando<br />
defeziona dalla verità<br />
e dalla giustizia<br />
ontologiche, quando<br />
smarrisce il senso<br />
dell’amore decentrante.<br />
SILVANO ZUCAL<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
41
DIALOGO, ERGO SUM<br />
so atto di libertà l’ordine fondato dalla verità che è presente nell’essere (in<br />
sé e fuori di sé) e l’amore decentrante che evita di incarcerarsi per non aver<br />
scorto amando la struttura valoriale nell’ente diverso da sé, soprattutto<br />
quando questo ente diverso ha i suoi stessi tratti personali. La persona spiritualmente<br />
sana avverte e gusta il valore e il significato dell’altro, sente<br />
che è importante che esso esista, sussista e soprattutto si sviluppi. Chi è<br />
giusto e positivamente amante in certo modo “muore” continuamente<br />
nella propria libertà autoaffermativa, fa cadere e frantuma i ceppi che lo<br />
inchiodano a se stesso, ma proprio e in quanto si autoelimina dal proprio<br />
sguardo e dal proprio sentire, giunge alla propria compiutezza personale.<br />
Se invece la persona rinuncia all’atto veritativo e all’amore decentrante si<br />
ammala nello spirito e l’Io è condannato ad una situazione asfissiante.<br />
42<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Inafferrabilità della persona<br />
Chiariti questi tratti decisivi (con le possibili cadute patologiche), la<br />
persona possiede e mantiene una sua peculiare inafferrabilità. Interrogato<br />
relativamente al mio “essere-persona” non troverò mai la risposta adeguata:<br />
essa infatti non è né il mio corpo, né la mia anima, né il mio intelletto,<br />
né la mia volontà, né la mia libertà, né il mio spirito. Meglio, tutte queste<br />
realtà sono la “materia” su cui e a partire da cui si può realizzare quel fatto<br />
fondamentale per il fenomeno della persona che è l’autoappartenenza, la<br />
presenza originaria di sé a se stesso da parte dell’Io. L’evento in cui si realizza<br />
la persona è il fatto di poter e dovere insieme sussistere in se stessa: in<br />
tale contesto, e solo in esso, figura-individuo-personalità si intersecano e<br />
assumono il vero volto personale. Volto personale che è dato da due qualità<br />
irrinunciabili: l’Eigenständigkeit, la qualità dello stare in sé in autonomia<br />
ontologica, e l’Anfangshaftigkeit, la capacità di iniziativa autonoma,<br />
inedita e non obbligata.<br />
L’attuazione della persona<br />
La realtà della persona così disegnata nella sua autonomia originaria e<br />
strutturale potrebbe esser fraintesa in senso monadico e solipsistico. Nulla<br />
di più lontano dalla filosofia personalistica di Guardini (o di altri pensatori<br />
dialogici come Ferdinand Ebner) che non coglie certo né l’autoappartenenza<br />
della persona né la centralità dell’Io, del soggetto, come indicatori<br />
di autosufficienza. In realtà la persona nella sua concreta attuazione sconta<br />
una sua strutturale dipendenza indigenziale, è inserita in una trama<br />
oggettiva di condizionamenti. Condizionamenti e dipendenze relativi<br />
come la dimensione fisico-biologica o quella assiologica (mappa valoriale<br />
d’orientamento) e condizionamenti di ben altro rilievo come quelli relazionali<br />
propri del rapporto Io-Tu. Tale relazione Io-Tu è essenziale per l’attuazione<br />
della persona, per la sua stessa autoappartenenza. La relazione Io-<br />
Tu non è un rapporto analogo a quello che può esserci nello scambio o<br />
nell’influsso reciproco tra due sostanze che realizzano in tal modo effetti<br />
di carattere meccanico o chimico l’una sull’altra. Neppure è assimilabile a<br />
quello scambio tra animali che avviene per reciproca attrazione o per<br />
repulsione escludente tra due sistemi biologici ognuno dei quali dotato di<br />
una specifica teleologia. Anche il rapporto tra le persone può ridursi ad un<br />
semplice “urto esteriore”come fossero due complessi sostanziali meccanici<br />
o chimici così come, nella lotta per la sopravvivenza, può generarsi un<br />
rapporto meramente animale che si limita alle logiche attrattive o più di<br />
frequente repulsive. Ogniqualvolta il rapporto è assimilabile a quello tra<br />
neutre sostanze o tra animali l’altro non è mai il Tu e – di conseguenza –<br />
neppure l’Io conosce la relazione vitale con il Tu. Per Guardini, nella stessa<br />
linea di Martin Buber, il rapporto Io-Tu richiede il superamento di ogni<br />
SILVANO ZUCAL<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
43
DIALOGO, ERGO SUM<br />
logica gnoseologico-esperienziale soggetto-oggetto: finché l’altro è mero<br />
oggetto e non piuttosto centro autonomo e costitutivo d’un mondo proprio<br />
non sarà mai per l’Io un vero Tu. L’altro diviene Tu per l’Io solo quando<br />
cessata la relazione asimmetrica soggetto-oggetto, abbandonata un’ottica<br />
esperienziale che vuol catturare l’altro nel mio mondo, nella persona<br />
dell’altro emerge l’Io dell’altro che è fine a se stesso e non più a me. Allora<br />
soltanto l’Io si imbatte nell’Io dell’altro e vi si relaziona e quell’Io diviene<br />
per lui Tu. Occorre dunque far spazio al Tu per incrociarlo con giustizia<br />
ontologica che scarta ogni mira annessionistica e con un amore che non<br />
vuol avvolgere l’altro in una prospettiva fusionistica ma che opta per la<br />
direzione opposta, rimane semplicemente in attesa come un Io mendicante<br />
in cerca del Tu. Anticipando in parte Lévinas, Guardini vede il muovere<br />
incontro al Tu da parte dell’Io come un’apertura che mostra il proprio<br />
“volto interiore”: cade così quella barriera sottile, quello schermo illusoriamente<br />
protettivo che consisteva nell’“oggettività cosale (Sachlichkeit)” del<br />
mio atteggiarmi verso l’altro e finalmente mi mostro nella mia nudità di<br />
volto inerme. Certo perché ciò si compia occorre reciprocità: solo quando<br />
l’altro mi consente di diventare a sua volta il suo Tu così come io sono e<br />
non come mi vorrebbe la relazione può davvero decollare. Se tale reciprocità<br />
accade la persona può conoscere la propria feconda attuazione ed anzi<br />
solo ora è presente l’atteggiamento pieno di chi è persona e si annodano i<br />
destini in senso personale. La relazione Io-Tu e di conseguenza l’attuazione<br />
della persona conosce gradi diversi: inizia dalla serietà con cui si prende<br />
l’altro, prosegue nell’attenzione, nella “sympatheia” nel suo significato<br />
letterale, per finire con l’incontro vero e proprio nella comunione, nell’amicizia<br />
e nell’amore.<br />
Contro il personalismo attualistico e contro l’individualismo<br />
La dialettica relazionale Io-Tu ci porta dritto alla dialogica guardiniana<br />
che vuol marcare una propria specificità in due direzioni: contro il personalismo<br />
attualistico di Max Scheler (ma anche – per taluni aspetti – l’enfasi<br />
dialogica di Ferdinand Ebner, Martin Buber e Franz Rosenzweig) e contro<br />
l’individualismo. Prospettive dialetticamente opposte e purtuttavia<br />
reciprocamente dipendenti. Entrambe dissolvono la realtà della persona.<br />
Per il personalismo attualistico non solo la persona si attua nella relazione<br />
dialogica Io-Tu, ma sussiste e consiste solo in tale relazione, tolta la quale<br />
è tolta insieme la persona nella sua essenza. Per l’individualismo che invece<br />
equipara persona ed individuo la persona sta bene nella propria crisalide<br />
e non ha bisogno di attuarsi fuoriuscendo da sé e andando incontro al<br />
Tu per cui tale direzionamento dialogico è opzionale e non costitutivo. La<br />
persona, per Guardini, ha sì bisogno dell’altra persona per pervenire alla<br />
pienezza di sé, ma non per essere in quanto tale persona: si attua nella<br />
44<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
elazione Io-Tu, ma non sorge ontologicamente da tale rapporto. Ha un<br />
suo presidio ontologico indipendente e autonomo dalla prospettiva relazionale-dialogica<br />
anche se ciò non significa che il rifugiarsi in esso in<br />
modo autoreferenziale sia il destino proprio della persona (semmai questa<br />
sarà la deriva individualistica). La posizione equilibrata di Guardini (e<br />
davvero condivisibile) è quella che vede nella persona un patrimonio<br />
ontologico pregresso che certo è già dato ad essa ma che troverà il proprio<br />
inveramento e la propria autenticazione solo nel rapporto con il Tu divino<br />
ed umano. La persona non sorge nell’incontro anche se si attua solo in<br />
esso. Ciò non toglie che in linea di principio non esiste in senso ontologicamente<br />
pieno un essere della persona nell’unicità solitaria e solipsistica:<br />
priva dello sbocco relazionale essa si rattrappisce in una sorta di entropia<br />
ontologica. In tal senso, come già affermava Ferdinand Ebner, l’essenza<br />
della stessa esistenza spirituale della persona si svolge e si realizza costitutivamente<br />
come parola e come linguaggio. E il linguaggio non è semplicemente<br />
un sistema segnico d’intesa mediante il quale due monadi entrino<br />
in scambio, ma è lo “spazio di senso, nel quale vive ogni uomo”. La vita e<br />
l’attività spirituale e relazionale della persona si attuano dunque nella<br />
parola e grazie alla parola e proprio la parola è un elemento distintivo della<br />
persona che ne marca l’abissale distanza dall’animale. Il linguaggio è sul<br />
piano oggettivo il “progetto preliminare” in cui solo può verificarsi l’incontro<br />
tra le persone, incontro nella parola e grazie alla parola che è però<br />
parola autentica solo nell’opposizione polare con il silenzio secondo la<br />
giusta sollecitazione di Max Picard. Con la parola autentica e dialogica la<br />
persona incontra l’altra persona e con tale balbettante parlare e dialogare<br />
diventerà imago Trinitatis, fragile immagine del dialogo archetipo intratrinitario.<br />
SILVANO ZUCAL<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
45
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
La ricerca della verità rende dinamica l’esigenza di autenticità:<br />
la persona in cammino non si accontenta di poter dire quello<br />
che pensa, ma si chiede se le proprie idee siano vere; non si<br />
accontenta di apparire, ma si chiede se mondo interiore ed<br />
esteriore siano tra loro coerenti; non si accontenta di<br />
compiacere gli altri, ma sa pronunciare parole scomode,<br />
custodendo l’amicizia.<br />
Ciò che appare<br />
e ciò che è<br />
I<br />
Alberto Monticone<br />
n questo nostro tempo, caratterizzato dal primato della comunicazione,<br />
che consente immediatezza di conoscenza e tende<br />
a divenire sostitutiva dei contenuti che si vorrebbero trasmettere,<br />
il più importante comportamento virtuoso consiste nella<br />
ricerca di far prevalere l’essere sull’apparire. Le straordinarie<br />
potenzialità delle immagini e delle parole, che affollano le<br />
nostre giornate e che ci raggiungono nei luoghi più remoti o nel<br />
privato delle nostre case, possono divenire strumento di conoscenza<br />
e di partecipazione, se mettono in circolo idee e sollecitano<br />
il pensiero critico, mentre rischiano di isolare e di condizionare<br />
le persone, se dirette prevalentemente a propagandare una<br />
realtà fittizia e a diffondere interessati modelli di vita. La stessa<br />
democrazia è messa alla prova dal sistema comunicativo, non<br />
solo e non tanto per la capacità dei poteri forti e ricchi di<br />
influenzare l’opinione pubblica, ma soprattutto per la sottile<br />
forza persuasiva di ciò che si vuole far apparire giusto e vero. La<br />
democrazia, che è basata sulla partecipazione, sulla rappresentanza<br />
e sul confronto delle idee e dei progetti, corre il pericolo,<br />
in un uso inappropriato dei mezzi di comunicazione, di divenire<br />
anch’essa fiction.<br />
C’è un grande bisogno di verità, dalla quale discende ogni<br />
aspetto dell’etica individuale e comunitaria: per questo persona<br />
virtuosa è innanzi tutto colui che cerca la verità, nella autenticità<br />
di se stesso e nel suo rapporto con gli altri, rispondendo così<br />
in modo coerente alla sfida della modernità. Siamo tutti solleci-<br />
Alberto Monticone<br />
è stato presidente<br />
nazionale dell’<strong>Azione</strong><br />
<strong>Cattolica</strong> <strong>Italiana</strong> e<br />
senatore della<br />
Repubblica nella XIV<br />
legislatura. Professore di<br />
Storia moderna e<br />
contemporanea, oggi è<br />
presidente di “Italia<br />
Popolare”, il movimento<br />
che raccoglie<br />
espressioni del<br />
cattolicesimo<br />
democratico e popolare<br />
italiano. Tra i sui scritti<br />
recenti ricordiamo: La<br />
traccia svanita, Effatà,<br />
Torino 2004; Adesso per<br />
il domani. Una proposta<br />
politica, Effatà, Torino<br />
2004.<br />
46<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
tati ad adeguarci ai tempi e a dismettere comportamenti legati al passato,<br />
ma spesso siamo indotti a modificare solo i nostri atteggiamenti esteriori,<br />
sino al punto di fare di essi il criterio essenziale della nostra vita di relazione.<br />
Quello che siamo dentro o che vorremmo divenire viene confinato<br />
negli spazi più reconditi dell’animo e quasi messo a tacere.<br />
Nelle generazioni passate per indicare persona adulta, capace di decidere<br />
e di assumersi responsabilità, si diceva: quello è un vero uomo. Oggi<br />
tale espressione appare desueta ed è inutilizzata, perché la misura della<br />
validità di una persona è generalmente altra, non attiene alla coerenza e<br />
alla volontà, ma al ruolo pubblico o, se vogliamo, al grado di socializzazione.<br />
Se è giusto valorizzare gli aspetti sociali dei singoli soggetti, è bene<br />
però non dimenticare che assai più rilevanti per la comunità sono i cittadini<br />
che hanno forte e reale consistenza umana. Persino l’aspetto estetico<br />
ha bisogno di verità, poiché ciò che è artefatto nelle cose e nelle persone è<br />
spesso meno valido di ciò che è naturale ed autentico. Certo la natura di<br />
per sé non nasconde i difetti, ma proprio così pone le premesse per la loro<br />
effettiva correzione. Per assurdo gli ambienti dello spettacolo, con i loro<br />
orpelli e le forzate forme di bellezza, finiscono talvolta per dare immagine<br />
di bruttezza, appunto perché si discostano dalla verità e dal buon gusto.<br />
Tre allora possono essere considerate le caratteristiche che distinguono<br />
le donne e gli uomini virtuosi: la verità di se stessi, fondata su autenticità<br />
e trasparenza; la coerenza di comportamenti privati e sociali; la relazione<br />
con gli altri costruita sull’amicizia. L’elemento veritativo esige infatti la<br />
manifestazione di se stessi così come si è, ovviamente nello sforzo costante<br />
di migliorare e comunque senza paludarsi e nascondersi con ornamenti<br />
fittizi. L’antica saggezza della Grecia classica poneva alla base di ogni etica<br />
la conoscenza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie potenzialità.<br />
Non era un principio di umiltà, era un atto di valorizzazione della realtà<br />
personale senza improvvida presunzione e senza rinunciataria timidezza.<br />
Potremmo dire che si trattava di esercitare la virtù della prudenza nel suo<br />
più alto senso propositivo.<br />
Dalla accertata verità di se stessi consegue la necessità di agire secondo<br />
il proprio ruolo personale e irripetibile (per i cristiani la propria vocazione)<br />
in ogni situazione dalla famiglia alla società. Il comportamento è virtuoso<br />
in quanto si manifesta nel suo relazionarsi e nel suo divenire strumento<br />
comunitario, tanto nel condividere caratteri e speranze di una<br />
società in un determinato tempo, quanto nel contrastarne strutture e<br />
inclinazioni. La misura di valore è la coerenza con la vocazione personale<br />
e con gli ideali creduti, mentre la motivazione dell’agire è rivolta al bene<br />
comune. È importante comunque lo spirito di armonia con se stessi e con<br />
l’ambiente storico nel quale si è collocati, una armonia dinamica, non<br />
passiva né distruttiva. Anche i più grandi innovatori virtuosi sono stati<br />
ALBERTO MONTICONE<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
47
CIò CHE APPARE E CIò CHE È<br />
profeti e costruttori di armonia del mondo, del quale pure combattevano<br />
le brutture: tra gli esempi degli ultimi cento anni si possono citare<br />
Gandhi, Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta. Ma nella quotidianità<br />
odierna se ne possono annoverare moltissimi, donne, uomini e<br />
giovani che non saranno ricordati nei libri di storia o venerati sugli altari,<br />
ma che sono il tessuto connettivo della società.<br />
La relazione virtuosa con gli altri e con la comunità non può che essere<br />
una forma di carità, di amicizia, cioè il farsi prossimo secondo le proprie<br />
qualità e capacità senza infingimenti. Verità e amicizia sono inscindibili<br />
e la seconda, radicata nella prima, è il valore sociale più alto, quella<br />
indefinibile, poliedrica forma di condivisione del cammino umano, per la<br />
quale l’io si trasforma in un noi, inclusivo e tonificante di ogni persona.<br />
Essa scaturisce dalla ricerca della verità e dell’armonia e realizza le aspirazioni<br />
profonde dell’uomo. L’amicizia non ha neppure bisogno di costante<br />
consuetudine di vita, valica ogni lontananza e solitudine, genera reciprocità<br />
disinteressata. Oggi essa è una sfida di modernità, dal momento che si<br />
può essere amici veri tanto nella apparente separatezza del monaco, quanto<br />
nella tecnologica comunicazione multimediale.<br />
In tutte le componenti della virtù sopra ricordate vi è una nota di bellezza<br />
e un apporto alla pace e alla giustizia. Esse comunque vanno ricercate<br />
al più alto livello possibile e senza stancarsi, dato che essere virtuosi non<br />
è una condizione appagante e statica, ma un percorso da compiere verso il<br />
miglioramento. È insomma una sorta di tensione allo sviluppo, analoga a<br />
quella cui è continuamente chiamata, sul piano materiale, la società contemporanea.<br />
Se da tali considerazioni generali vogliamo scendere ad una specificazione<br />
concreta e storica, possiamo accennare al tema della virtù nella politica,<br />
sia per ciò che attiene ai politici veri e propri, sia per quanto riguarda<br />
ogni cittadino. In ambito sociale e politico il criterio della verità esige che<br />
nella formazione alla cittadinanza si promuova la capacità di utilizzare gli<br />
strumenti comunicativi e che coloro i quali intendono operare direttamente<br />
in politica presentino caratteristiche veritiere e virtuose nel sottoporre i<br />
loro progetti al vaglio dei cittadini. I programmi politici infatti non sono<br />
determinanti, se coloro che li propongono e si propongono come rappresentanti<br />
non sono persone autentiche ed affidabili, in quanto coerenti e<br />
capaci di aprire per primi il cammino delle realizzazioni delle promesse. Si<br />
afferma giustamente da parte di attenti osservatori che la discriminante tra<br />
le correnti politiche, a livello nazionale ed internazionale, è oggi la visione<br />
dell’uomo. Ma tale antropologia non esclude i proponenti, anzi li coinvolge<br />
personalmente in vista di un’etica civile che accomuna rappresentanti e<br />
rappresentati è così li indirizza verso il bene comune.<br />
Se la propaganda commerciale nasce due secoli or sono con la rivolu-<br />
48<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
ALBERTO MONTICONE<br />
zione industriale, quella politica diviene parte essenziale dei sistemi democratici<br />
e rappresentativi nel corso del Novecento. È vero che essa subì una<br />
forte accelerazione impressa dai regimi totalitari di destra e di sinistra, ma<br />
la sua funzione positiva poté esplicarsi sin tanto che gli strumenti adoperati<br />
e la partecipazione dei cittadini al dibattito ideologico consentirono<br />
un certo controllo da parte di questi ultimi sulla coerenza e sulla affidabilità<br />
di parole e di persone. Quando nell’ultimo ventennio del secolo scorso<br />
la crisi delle ideologie venne accompagnata dalla rivoluzione mediatica,<br />
si ridussero gli spazi della dialettica delle idee e della verifica, talora persino<br />
della individuazione, dei loro portatori.<br />
C’è un bisogno di verità che renda la dialettica democratica capace di<br />
usare gli strumenti per le scelte libere e consapevoli dei cittadini. Un gran-<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
49
CIò CHE APPARE E CIò CHE È<br />
de politico italiano, Aldo Moro, sosteneva, nella fase iniziale della ricostruzione<br />
del nostro Paese dalle macerie materiali e morali della guerra,<br />
che riconoscere le difficoltà e i problemi è già l’inizio della loro risoluzione.<br />
D’altra parte tutta la tradizione del pensiero politico classico pone alla<br />
base di ogni retta costruzione della polis il principio della conoscenza della<br />
realtà, dalla cui applicazione derivano le giuste leggi e la retta amministrazione.<br />
Nel magistero sociale della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano<br />
II, si addita il discernimento dei “segni dei tempi” quale via maestra per<br />
l’evangelizzazione coniugata con la promozione umana.<br />
In un sistema politico e sociale, che sempre più tende a livello nazionale<br />
ed internazionale ad una semplicistica contrapposizione tra due parti,<br />
50<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
che si ritengono entrambe portatrici del bene e considerano l’altra il male,<br />
è difficile scorgere prevalenti comportamenti virtuosi. Questa evanescenza<br />
o superficialità dell’etica è resa più evidente e più dannosa dalla personalizzazione<br />
della politica con la prevalenza della figura del capo, resa più<br />
perspicua dalla sua immagine nei mezzi di comunicazione. Ora sappiamo<br />
bene che in uno schieramento e soprattutto in una persona si mescolano<br />
pregi e difetti, ma la grande maggioranza dei cittadini non è messa in condizione<br />
di discernere gli uni e gli altri e di trarre di conseguenza una valutazione<br />
ragionata per esprimere il proprio consenso. Ne derivano conseguenze<br />
che sono sotto gli occhi di tutti: faziosità di giudizio, disaffezione<br />
dalla politica, generica visione negativa dei rappresentanti dell’agire politico,<br />
riflusso nel privato. Proprio i cristiani possono reagire a questa situazione,<br />
poiché sanno bene, per formazione e per esperienza nella comunità<br />
ecclesiale, che la realtà sociale è plurale, che la molteplicità e le differenze<br />
sono ricchezza, che il metro di valutazione è sulla capacità di operare solidarietà.<br />
Se si è animati dal desiderio di verità e dalla conseguente volontà di<br />
conoscenza, la virtù più grande anche in politica è il farsi prossimo, nella<br />
autenticità e nei limiti della propria persona, applicando tale comportamento<br />
ad ogni livello e in ogni ambiente. Differiranno i mezzi scelti e le<br />
priorità riconosciute, ma questa è la strada virtuosa di ogni cittadinanza e<br />
di ogni politica.<br />
ALBERTO MONTICONE<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
51
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
Come ritrovare la connessione tra ciò a cui le virtù classiche<br />
alludono ed il cammino interiore della persona, che appare<br />
soprattutto come un cammino di conversione e dunque di rottura<br />
rispetto alle abitudini? Anche al di là di una riformulazione del<br />
lessico delle virtù, è importante ricomprenderne il senso alla<br />
luce di un percorso verso la santità, che esprime l’impegno<br />
esistenziale della persona umana.<br />
Quando il cammino<br />
si fa vita<br />
Lilia Sebastiani<br />
Le virtù, idea e termine, sono nello stesso tempo familiari e<br />
desuete, anche nella riflessione teologica.<br />
Un’idea in crisi, una nuova attualità<br />
Oltre alle altre, che a piacere potrebbero essere innumerevoli<br />
o pochissime (tutto dipende dal modo in cui si raggruppa o si<br />
suddivide) e che comunque recano una connotazione culturale<br />
più pronunciata, anche il settenario-base delle virtù riconosciute<br />
dalla tradizione cristiana – le tre teologali e le quattro cardinali<br />
– sta attraversando un periodo di crisi, che potrebbe essere<br />
la reazione a un’eclissi, il tentativo di contrastare un’eclissi più<br />
radicale, ma anche l’avvio di una “ristrutturazione attualizzante”<br />
quanto mai opportuna.<br />
Qualche dubbio in linea di principio, del resto, sussiste da<br />
sempre: per le virtù cardinali, in quanto ne è a tutti chiara la<br />
derivazione dall’etica classica, indice di un rapporto rispettabilissimo<br />
e significativo, che però rende difficile associarle alla<br />
novità cristiana; e anche per le teologali, non perché venga<br />
messa in dubbio la loro centralità nel vissuto cristiano, ma perché<br />
sussistono seri dubbi che possano venir etichettate come<br />
“virtù”. Nella loro fonte più autorevole che è la prima lettera ai<br />
Corinzi, sono chiamate con suggestiva indeterminatezza «le tre<br />
cose che rimangono» (1Cor 13,13).<br />
I dubbi più consistenti oggi riguardano la frammentazione,<br />
la parcellizzazione della persona e del vissuto che la riflessione<br />
Lilia Sebastiani<br />
ha conseguito il dottorato<br />
in Teologia morale<br />
all’Accademia<br />
Alfonsiana, Istituto<br />
superiore di Teologia<br />
morale dell’Università<br />
Lateranense.<br />
Svolge attività di<br />
articolista e conferenziera<br />
in materia teologica,<br />
con attenzione<br />
particolare ai problemi<br />
di etica-spiritualità biblica<br />
e a quelli concernenti il<br />
rapporto tra femminilità<br />
e sfera religiosa.<br />
52<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
sulle virtù, specializzandosi, sembra portare con sé, e che non aiuta quell’integralità<br />
personale che delle virtù dovrebbe essere, secondo i punti di<br />
vista, la sorgente oppure il culmine e il frutto.<br />
I “rischi” delle virtù<br />
Poiché allenarsi alle virtù significa assumere un habitus, come si diceva<br />
nel Medio Evo – insomma, sviluppare un’attitudine sempre più naturale e<br />
spontanea ad agire in un certo modo –, non può sfuggire il rischio teorico<br />
e pratico insito in una vita morale fondata sulla ricerca e la pratica delle<br />
virtù. Il primo versante del rischio è l’autosufficienza, la ricerca della “prodezza”<br />
etica o ascetica, la quantificazione del merito: quand’anche in una<br />
vita del genere il merito fosse altissimo, occorre essere veramente una persona<br />
santa per non incorrere in un accentuato egocentrismo spirituale.<br />
Nella tradizione cristiana si trova, e in qualche modo opera tuttora, un’idea<br />
dell’ascesi che è invalso chiamare eroica, ma che sarebbe più giusto<br />
chiamare “atletica”, fondata sul sospetto previo e sul rovesciamento delle<br />
proprie tendenze naturali, implicitamente dichiarate negative o pericolose,<br />
solo in quanto naturali. Non occorre nemmeno soffermarsi sui guasti<br />
psicologici e sui fallimenti esistenziali prodotti da questo genere di ascesi.<br />
Il secondo versante del rischio è che la persona così costituita, proprio<br />
perché ha un’apparenza (e spesso anche una realtà indiscutibile) di virtù e<br />
di merito, difficilmente si lascia distogliere dalle proprie posizioni, difficilmente<br />
si percepisce come “bisognosa”: non è disposta nel cuore ad assumere<br />
l’atteggiamento di permanente conversione richiesto ai discepoli del<br />
Regno.<br />
Risulta dai Vangeli che tra gli oppositori più risoluti della novità recata<br />
da Gesù si trovavano le persone più rispettabili ed esemplari del suo<br />
ambiente: mentre le persone deboli e irregolari erano più pronte ad accogliere<br />
il dono di Dio e l’offerta di una vita rinnovata. La negatività dell’abitudine<br />
al male si commenta da sé, ma anche l’abitudine alla virtù è un’idea<br />
che può suscitare qualche perplessità, dal punto di vista della vita<br />
nuova in Cristo.<br />
E tuttavia la riflessione sulle singole virtù (il loro significato esatto, l’eventuale<br />
evoluzione di significato attraverso i tempi, le radici bibliche e<br />
filosofiche, la loro portata esplicita e le possibili implicazioni e le articolazioni,<br />
e i peccati a cui si oppongono…), è appassionante, da un punto di<br />
vista speculativo. E non in un senso puramente mentale: diremmo senz’altro<br />
che non resta senza influsso sulla nostra interiorità etico-spirituale, che<br />
ne esce più affinata e più attenta. Ed è anche opportunissima nella nostra<br />
epoca, in cui il rischio di perdere di vista quanto c’è nell’essere umano di<br />
più autenticamente umano è sempre in agguato, e la bellezza e l’intelligenza<br />
vivono tempi difficili.<br />
LILIA SEBASTIANI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
53
QUANDO IL CAMMINO SI FA VITA<br />
In nome dell’autenticità<br />
si sono avallate molte<br />
falsificazioni e molti<br />
equivoci; comunque<br />
l’autenticità è intesa di<br />
solito come espressione<br />
all’esterno, non forzata<br />
e non dissimulata,<br />
dell’interiorità della<br />
persona.<br />
Virtù e autenticità umana<br />
Tuttavia rispetto al tempo in cui la dottrina delle virtù ha preso forma<br />
alcune acquisizioni nuove hanno cambiato profondamente il nostro modo<br />
di sentire e di pensare i comportamenti umani in generale, e i nostri in<br />
particolare, tanto più per quanto concerne gli ambiti tradizionalmente<br />
denominati del peccato e della virtù, che oggi non si chiamano più in questo<br />
modo.<br />
In primo luogo, lo studio della psicologia e dei vari condizionamenti<br />
che inficiano la libertà degli atti umani (negativi e positivi), ci rende giustamente<br />
esitanti a classificare certi modi di agire come peccato o come virtù.<br />
Certe scelte non sono sempre negative, non sono del tutto effetto di secolarizzazione,<br />
non denotano sempre relativismo morale, anzi si accompagnano<br />
spesso a un’etica più delicata, più esigente, più attenta alla persona.<br />
Dinanzi al peccato, anche se gravissimo e totale, anzi tanto più in un<br />
caso del genere, ci chiediamo: si tratta di un vero peccato, di un atto deliberato<br />
e lucido di allontanamento da Dio? Ma può darsi veramente un<br />
atto del genere, nell’intimo di un essere umano? È possibile dire di no a<br />
Dio, conoscendolo?<br />
In nome dell’autenticità – di questa parola si faceva largo uso forse più<br />
negli anni Settanta che non oggi, benché gli strumenti di analisi e consapevolezza<br />
si siano affinati; come se anche all’inautenticità si fosse fatta l’abitudine<br />
– si sono avallate molte falsificazioni e molti equivoci; comunque<br />
l’autenticità è intesa di solito come espressione all’esterno, non forzata e<br />
non dissimulata, dell’interiorità della persona. In altri termini, una corrispondenza<br />
non certo perfetta o piena (ciò che non è possibile),<br />
ma almeno non troppo inadeguata tra l’essere e il fare,<br />
tra l’essere e il mostrarsi/sembrare. E questo suscita un altro<br />
problema, filosofico e psicologico più che teologico, cioè<br />
quello dell’esistenza di una continuità, di un terreno comune<br />
tra mondo interiore e mondo esteriore.<br />
Da un certo punto di vista si potrebbe affermare che<br />
ognuno esprime nel proprio agire e nelle scelte che opera<br />
(anche il rifiuto sistematico di scegliere costituisce in qualche<br />
modo una scelta!) la sua “virtù”, cioè le abitudini che ha<br />
contratto, il modo di vivere che si è strutturato al suo interno.<br />
Non sempre l’habitus è qualcosa di positivo; anzi sappiamo<br />
che al centro del messaggio cristiano si trova la conversione, la metànoia,<br />
che in un certo senso costituisce proprio l’opposto dell’habitus, di<br />
qualunque habitus, anche quando possa apparire virtuoso e rassicurante.<br />
Tutto il cammino di santità è un viaggio alla ricerca del proprio volto<br />
più autentico, quello pensato da Dio: non lo sforzo di cancellare il proprio<br />
volto o di sostituirlo con un altro.<br />
54<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
LILIA SEBASTIANI<br />
Persona, integrità, santità<br />
La riflessione sulle virtù è orientata alla santificazione della vita.<br />
Dio non chiede di sviluppare questa o quella virtù, ma di vivere in<br />
comunione con lui, ricercando il bene degli altri e della comunità umana.<br />
Non chiama a parcellizzare, bensì a unificare. Il cammino di santità presuppone<br />
una riconciliazione con il proprio essere tutto intero; compresi<br />
perciò i desideri, i bisogni, gli impulsi e anche i lati di cui non possiamo<br />
sentirci fieri. Un’accettazione di sé non paga e narcisistica, certo, né<br />
immobilistica/rassegnata, ma dinamica e dialogica, è anche il presupposto<br />
di una sana umiltà.<br />
Ma in termini biblici la santificazione si fonda sulla santità di Dio, il<br />
quale è l’unico Santo santo santo (tutto santo, fondamento di santità,<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
55
QUANDO IL CAMMINO SI FA VITA<br />
santo per essenza, se vogliamo). Il significato originario di santificazione<br />
nelle Scritture designa l’atto inserito nella storia della salvezza con cui Dio<br />
sceglie qualcosa per sé e lo rende sua proprietà, facendolo partecipe della<br />
propria essenza. In questo senso si dice che Dio “santifica” il sabato, o che<br />
“santifica” il popolo d’Israele, al quale tuttavia rimane aperta la possibilità<br />
di essere infedele a Dio.<br />
Santo è chi trova grazia agli occhi di Dio, cioè chi è da lui amato e perdonato.<br />
Quando nel Simbolo apostolico proclamiamo di credere nella<br />
“comunione dei Santi” non parliamo di una mistica assemblea, di un sacro<br />
club formato da persone che si comportano o si sono comportate benissimo<br />
in vita sul piano morale, ma di credenti che sentono il perdono di Dio<br />
con tale forza e trasparenza da irradiarlo nell’ambiente e nella storia.<br />
56<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
La santificazione non designa uno stato (semmai un dinamismo), ma<br />
un rapporto e un’appartenenza. Vi è una santificazione come dono e una<br />
santificazione come compito. Per i cristiani la santificazione significa<br />
sequela di Gesù e vita nuova nello Spirito (chiaramente due versanti inseparabili<br />
dell’unica realtà), che attualizza e vivifica di continuo e rende possibile<br />
qui e ora la redenzione che Gesù ha portato una volta per tutte.<br />
Attraverso lo Spirito santo la vita stessa di Dio fluisce in noi, la sua<br />
energia riempie la terra. Nella forza sovrabbondante dello Spirito sperimentiamo<br />
la vita nella sua pienezza: la stessa vita di Dio, la vita in comunione<br />
con Lui. L’unica che possa chiamarsi vita santa. E affermare questo<br />
non significa rivendicare per i cristiani il possibile monopolio della vita<br />
santa, perché lo Spirito opera per molte vie misteriose e non è detto che<br />
dalla sua forza e dalla sua azione venga raggiunto solo chi ne è consapevole<br />
e “declina” correttamente la propria consapevolezza nei termini biblicocristiani.<br />
La vita si esprime e agisce a profondità sconosciute alla coscienza.<br />
Esiste anche, per i cristiani come per i non cristiani, una santificazione<br />
inconscia nello Spirito (Moltmann).<br />
La vita santa, vita di comunione con Dio, non può essere “fabbricata”<br />
dagli uomini, per quanto facciano, con l’ascesi, la battaglia<br />
anti-vizi e la pratica delle virtù. In un certo senso, quanto<br />
di più attivo ci sia concesso in direzione di questa vita è<br />
acconsentire a che si faccia; rimuovere ostacoli, aprirsi alla<br />
vita e alla luce di Dio e lasciare che passi sempre più<br />
abbondantemente. In questa esistenza rinnovata, è chiaro,<br />
possiamo sviluppare e potenziare sempre più certe attitudini<br />
e abitudini positive, possiamo (dobbiamo) evitare di<br />
commettere “opere cattive” e cercare sempre più di compierne<br />
buone, ma non sono queste cose la santità, anche se<br />
sono indispensabili per manifestarla, per renderla efficace e<br />
irradiante.<br />
Santificare la vita non significa “rendere santa” una vita<br />
che (implicitamente!) al naturale non lo sarebbe, ma illuminare e sprigionare<br />
la qualità di una vita che è già santa per dono e per opera di Dio.<br />
Virtù, conversione, sequela<br />
Nella riflessione tradizionale sulla pratica delle virtù ha un ruolo<br />
importante la “volontà”. Troppo importante, forse, e il volontarismo è un<br />
altro rischio non ignorabile dell’etica cristiana. E molti equivoci sono nati<br />
sulla “buona volontà”. Non si intende né disprezzarla né sottovalutarla<br />
quando è “buona”, ma troppo a lungo è stata confusa, secondo i contesti,<br />
con il volontarismo appunto, con l’ostinazione, con la prepotenza (il fatto<br />
che fosse esercitata di preferenza nei confronti di se stessi non ne migliora<br />
La santificazione non<br />
designa uno stato, ma<br />
un rapporto e<br />
un’appartenenza.<br />
Vi è una santificazione<br />
come dono e una<br />
santificazione come<br />
compito. Per i cristiani la<br />
santificazione significa<br />
sequela di Gesù e vita<br />
nuova nello Spirito.<br />
LILIA SEBASTIANI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
57
QUANDO IL CAMMINO SI FA VITA<br />
Volere il bene, nel senso<br />
forte del termine, non è<br />
qualcosa di generico,<br />
benintenzionato,<br />
indolore, ma comporta<br />
un incessante<br />
discernimento della<br />
coscienza e<br />
l’assunzione di<br />
responsabilità nella<br />
logica del Regno.<br />
la qualità); troppo a lungo, in contesti più ascetici, è stata intesa come un<br />
darsi da fare nello sforzo di capovolgere i propri impulsi e desideri, giungendo<br />
se possibile ad annientarli, meglio ancora a dimenticarli.<br />
Vi è un tipo di santità fondata sullo sforzo e l’intransigenza che, anche<br />
quando sembri e sinceramente si creda fondata su un amore ardente per<br />
Dio, e per gli altri in Dio, può scaturire dal più perverso amore di sé: il<br />
suo ideale, la sua meta, non sono l’amore e la riconciliazione, ma la “prodezza”<br />
(il significato di virtus in latino classico!), non senza qualche venatura<br />
autodistruttiva. In questo modo si giunge a fare della natura umana,<br />
creata da Dio, qualcosa di opposto alla santità e al Regno di Dio.<br />
In latino la parola “volontà” (voluntas) presenta un’evidente parentela<br />
con la parola “piacere” (voluptas). A unire i due termini è il verbo volo,<br />
cioè “volere”, e l’idea connessa, cioè l’intima tensione, non della sfera<br />
razionale soltanto, verso qualcosa che è amato e ricercato perché ritenuto<br />
buono-bello, insomma desiderabile: la volontà non è costrizione, non è<br />
conformismo, non è paura, non è bisogno di sottomissione. La volontà<br />
vera è piuttosto slancio di amore, forza vitale.<br />
E la buona volontà ha un’unica accezione positiva, insieme semplicissima<br />
e impegnativa: “Volere il bene”. Ovvero, riprendendo un concetto<br />
diffuso nella teologia morale degli anni Settanta e oggi piuttosto accantonato,<br />
come un’opzione fondamentale per il bene: volere il bene, nel senso<br />
forte del termine, non è qualcosa di generico, benintenzionato, indolore,<br />
ma comporta un incessante discernimento della coscienza e l’assunzione<br />
di responsabilità nella logica del Regno.<br />
Quando Gesù chiama qualcuno a seguirlo, nei Vangeli,<br />
la sua chiamata risuona come una promessa di felicità, di<br />
autenticità, di vita più piena, e non come un invito a sacrificarsi,<br />
anche se si sa in partenza che per certi aspetti non<br />
sarà un cammino facile. Infatti non risulta dai Vangeli che<br />
qualcuno abbia attraversato crisi interiori per questo. È<br />
semmai il cambiamento di prospettiva a costare al discepolo<br />
fatica e insuccessi almeno all’inizio: il fatto di abituarsi<br />
progressivamente a ragionare «secondo Dio e non secondo<br />
gli uomini»; il che non significa disprezzare quanto è personale,<br />
umano, spontaneo, ma assumere progressivamente<br />
una logica filiale e fraterna, una mentalità redenta.<br />
Gesù chiama esclusivamente con l’autorità propria, non pare che vi<br />
siano né trattative né periodi di prova; e ad ogni suo seguace sembra<br />
richiesta una risposta “totale”. Questa totalità però non è qualcosa di<br />
oggettivo e quantificabile; è una realtà radicata nell’unicità irripetibile di<br />
ogni persona, ed è in continuo divenire.<br />
Gesù non invita i suoi seguaci a sviluppare particolari virtù, ma a con-<br />
58<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
dividere il cammino di salvezza e di evangelizzazione. E mai Gesù esorta<br />
alla “buona volontà” nel senso appunto volontaristico che a noi è familiare;<br />
dinanzi alle situazioni di sofferenza fisica e spirituale che sollecitano la<br />
sua attenzione, non sembra mai che esorti a sopportare: piuttosto a cambiare.<br />
Virtù, santità, ascesi<br />
La santità interpella con vigore il momento presente, e oggi più di<br />
sempre ci viene fatto comprendere, anche se in modi tutt’altro che espliciti,<br />
strani, spesso contraddittori, che c’è bisogno di una nuova ascesi. Ma la<br />
santità e l’ascesi che il nostro tempo richiede devono essere un frutto di<br />
riconciliazione e una via di riconciliazione, anche con se stessi.<br />
Tutti conoscono la radicale, drammatica antitesi con cui Agostino sintetizza<br />
la scelta radicale che si impone al cristiano: amore di sé fino alla<br />
dimenticanza di Dio, amore di Dio fino alla dimenticanza di sé. Non possiamo<br />
non sentire in questa espressione un’eco neppure tanto lontana<br />
delle radici manichee dell’autore. Nonostante le apparenze, l’idea non è<br />
evangelica, non è cristiana nel profondo: al di là delle intenzioni dell’autore<br />
e di tanti che, anche per queste vie “forzate”, hanno comunque raggiunto<br />
una santità vera, sembra sottintendere che Dio sia geloso della felicità<br />
e della realizzazione delle sue creature, o che comunque non ne sia<br />
entusiasta; che alle esigenze del cuore umano anteponga incomprensibili<br />
ragioni sue di gloria e di potere.<br />
Il rifiuto di questa etica dicotomizzante e infelice non vuole inneggiare<br />
alle cose facili, né far calare una frettolosa e semplicistica benedizione legittimante<br />
su qualsiasi impulso umano: sappiamo spesso quanto i nostri<br />
impulsi possano essere disordinati e, veramente, dimenticanza di noi stessi.<br />
No, il vero cammino di santità tende alla theòsis, nel senso inteso dalla<br />
teologia delle chiese d’Oriente, è uno sforzo permanente di prendere sul<br />
serio e rendere vera l’immagine di Dio impressa nella persona. Esercitarsi<br />
nelle virtù significa approfondire il proprio essere redento e camminare<br />
con sempre maggiore coscienza e interezza nella vita nuova. È un cammino<br />
permanente alla ricerca di Dio e, nello stesso tempo, della propria<br />
autenticità in divenire.<br />
LILIA SEBASTIANI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
59
QUALE UOMO PER LE VIRTù?<br />
Quale uomo per le virtù? La questione antropologica affiora non<br />
appena l’attenzione si sposta dall’agire virtuoso al soggetto<br />
dell’azione. Il passaggio attraverso la virtù imprime alla ricerca<br />
una direzione di marcia particolare: per ritrovare l’uomo nella<br />
sua migliore statura occorrerà passare attraverso lo snodo<br />
delle relazioni interpersonali, cogliendo la delicata armonia tra<br />
libertà e limite, tra autodeterminazione e responsabilità.<br />
NLe tappe di un<br />
cammino virtuoso<br />
Pina De Simone e Franco Miano<br />
on c’è dubbio che il discorso sulle virtù chiami in causa un<br />
certo modo di intendere l’uomo e la sua vita, implichi una precisa<br />
antropologia. È lecito pertanto chiedersi: quale uomo per le<br />
virtù, qual è l’uomo capace di essere soggetto di virtù e in che<br />
modo le virtù rinviano al nucleo più profondo e più proprio<br />
dell’essere uomini. Una domanda questa che conduce tra l’altro<br />
alla questione della definizione dell’uomo, del termine o dei termini<br />
che lo identificano nella sua unicità e nelle sue relazioni:<br />
individuo o persona? È una questione che concerne il modo<br />
stesso di intendere le relazioni e il ruolo che esse giocano nella<br />
costituzione dell’umano. Ciò che è tipicamente umano deriva<br />
dalle relazioni che definiscono l’esistenza o si qualifica per una<br />
sua insopprimibile originarietà?<br />
In quanto inserite nel tessuto dell’esperienza e nell’intrecciarsi<br />
delle relazioni, cui contribuiscono a dar forma, le virtù<br />
restituiscono l’immagine di un uomo che plasma se stesso nel<br />
rapporto con le cose e con il mondo, ma soprattutto nelle relazioni<br />
della vita comune. Quale uomo significa allora quale<br />
uomo nella relazione agli altri, quale rapporto con la comunità<br />
e che cosa specifica in un senso propriamente umano la vita<br />
comune.<br />
Non c’è comunità che non chieda a chi ad essa aderisce la<br />
pratica di determinate virtù, che non prescriva criteri, che non<br />
offra parametri di comportamento e ciò a prescindere dal carattere<br />
vincolante con cui questi riferimenti sono presentati. La<br />
Pina De Simone<br />
è docente di Etica<br />
generale e Filosofia della<br />
religione presso la<br />
Pontificia Facoltà<br />
teologica dell’Italia<br />
Meridionale di Napoli -<br />
Sezione san Luigi. Tra le<br />
sue pubblicazioni:<br />
L’amore fa vedere.<br />
Rivelazione e<br />
conoscenza in Max<br />
Scheler, San Paolo,<br />
Cinisello Balsamo 2005<br />
e La rivelazione della vita.<br />
Cristianesimo e filosofia<br />
in Michel Henry, Il pozzo<br />
di Giacobbe, Trapani<br />
2007.<br />
Franco Miano<br />
è Vicepresidente<br />
dell’<strong>Azione</strong> <strong>Cattolica</strong><br />
<strong>Italiana</strong> per il settore<br />
adulti. Insegna<br />
Antropologia filosofica e<br />
Bioetica presso<br />
l’Università di Roma<br />
“Tor Vergata”.<br />
60<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
vita comune reca in sé dei modelli di esistenza. Come rileva Galantino,<br />
citando Patrick, la virtù è, in tal senso «un fenomeno decisamente sociale».<br />
Ma qual è la radice della virtù? La prospettiva cambia se il rimando è<br />
semplicemente al modo di vivere in uso in una comunità e ai criteri che<br />
ne emergono, o piuttosto alla realtà stessa dell’uomo in ciò che egli è, a ciò<br />
che rende l’uomo uomo consentendogli di uscire dalla serialità. Ognuno<br />
di noi ricorda Galantino è insieme individuo e persona. «Ed è questo lo<br />
spazio concreto all’interno del quale l’uomo è chiamato a vivere una vita<br />
virtuosa che, prima di identificarsi con questo o quell’elenco di virtù riconosciute,<br />
deve essere una vita spesa nella direzione della personalizzazione<br />
di ciò che è individuale in ciascuno di noi». In questa prospettiva come<br />
individuo e persona non si contrappongono, così anche il desiderio e la<br />
virtù non sono tra loro alternativi. Il desiderio può costituire l’inizio della<br />
virtù e può trasformarsi in volano per i momenti in cui più difficile appare<br />
percorrere strade altrimenti ritenute non percorribili (verso ciò che<br />
impossibile alla natura è naturalmente cercato dall’uomo).<br />
La virtù è il frutto del processo attraverso cui l’uomo ricompagina continuamente<br />
se stesso, è l’unità dell’uomo con se stesso il suo saper essere<br />
completamente presente in quello che fa. Così insiste Pagani sottolineando<br />
l’imprescindibile ruolo del desiderio e la necessità di educarne il movimento<br />
e rileggendo in tal senso la lezione di Aristotele e di Tommaso. Un<br />
cammino che esige il coinvolgimento dell’elemento passionale, l’educazione<br />
della passione. Si tratta di guidare e di essere guidati fin da giovani a<br />
rallegrarsi e a dolersi delle cose appropriate di aiutare a scoprire il bene<br />
come qualcosa di gustoso e il male come qualcosa di disgustoso, di abituarsi<br />
ad orientare il mondo emotivo in modo che rinforzi il giudizio della<br />
ragione e non si opponga invece ad esso.<br />
Persona dunque si diventa assumendo appieno lo scarto, la discontinuità<br />
tra l’uomo e gli altri esseri viventi vegetali e animali. Se infatti ogni<br />
essere vivente è caratterizzato da una forma individuale solo l’uomo può<br />
essere dotato di personalità, di una interiorità che è vita determinata dallo<br />
spirito, coscienza volontà e creatività. È la grande lezione di Guardini che<br />
Zucal ripropone. Caratteristica essenziale della persona è per Guardini<br />
l’autoappartenenza. La persona è quell’essere in grado di autoappartenersi,<br />
che sussiste in sé e dispone di se stesso, si possiede e nessuno può espropriarlo<br />
della propria identità. L’autoappartenenza è la presenza originaria<br />
di se a se stesso da parte dell’Io. Due sono le qualità che identificano la<br />
persona: lo stare in sé in autonomia ontologica e la capacità di iniziativa<br />
autonoma, inedita e non obbligata. Non siamo tuttavia dinanzi ad una<br />
malcelata forma di entropia che giustifichi una deriva individualistica. Se<br />
è vero infatti che per Guardini la persona non sorge di per sé nel rapporto<br />
con l’altro poiché è dotata di una propria originaria sussistenza ontologi-<br />
PINA DE SIMONE E FRANCO MIANO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
61
LE TAPPE DI UN CAMMINO VIRTUOSO<br />
ca, è altrettanto vero che la salute spirituale della persona è legata a due<br />
elementi: la giustizia ontologica che riconosce l’essenza delle cose altre da<br />
sé e l’amore decentrante. «Chi è giusto e positivamente amante in certo<br />
modo “muore” continuamente nella propria libertà autoaffermativa, fa<br />
cadere e frantuma i ceppi che lo inchiodano a se stesso, ma proprio e in<br />
quanto si autoelimina dal proprio sguardo e dal proprio sentire, giunge<br />
alla propria compiutezza personale. Se invece la persona rinuncia all’atto<br />
veritativo e all’amore decentrante si ammala nello spirito e l’Io è condannato<br />
ad una situazione asfissiante».<br />
La persona è tale e diventa tale unicamente nella verità, nella verità di<br />
se stessa e nella verità delle relazioni che è capace di vivere. Il criterio della<br />
verità è dunque essenziale al cammino di personalizzazione. Quanto l’essere<br />
veri, l’autenticità di se stessi e la trasparenza nel rapporto con gli altri<br />
possa essere il più importante comportamento virtuoso che questo cammino<br />
esige e che cosa questo significhi oggi in concreto è ampiamente<br />
messo a tema nel contributo di Alberto Monticone che considera il reciproco<br />
implicarsi di virtù personale e virtù politica. «C’è un grande bisogno<br />
di verità, dalla quale discende ogni aspetto dell’etica individuale e<br />
comunitaria». Mostrarsi in ciò che si è, agire secondo il proprio ruolo,<br />
farsi prossimo secondo le proprie qualità e capacità senza infingimenti: è il<br />
cammino di verità al quale ogni uomo è chiamato per diventare se stesso<br />
ma è anche «la strada virtuosa di ogni cittadinanza e di ogni politica».<br />
Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che il cammino di personalizzazione<br />
e l’esercizio in esso della virtù possa condurre ad un disporre interamente<br />
di sé in cui la persona è principio e fine. La verità della persona e delle sue<br />
relazioni che la virtù aiuta a ritrovare rinvia oltre la persona stessa. C’è per<br />
così dire un’eccedenza della persona che è l’eccedenza della virtù, un oltre<br />
che impedisce di pensare la virtù come mera tecnica di esistenza, sia pure<br />
vestita di ideale, e di concepire la propria umanità come possesso come<br />
bene di per sé disponibile. La persona nel suo appartenersi viene da altrove<br />
e il cammino di personalizzazione in questo altrove si radica e a questo<br />
altrove in ultima analisi riconduce. La persona si radica nella relazione alla<br />
trascendenza, relazione che è sorgente di ogni relazione, realtà nella quale<br />
avviene ogni nostra relazione, la relazione agli altri come la relazione a noi<br />
stessi. In tal senso appartenersi è scoprire che non ci apparteniamo che la<br />
nostra identità ci è data donata continuamente nel movimento dell’amore<br />
che ci precede. A questa radice ultima della nostra umanità e della santità<br />
che è pienezza di umanità rinvia l’articolo di Lilia Sebastiani che mette in<br />
guardia contro i rischi di un certo modo di intendere la virtù. Il primo<br />
versante del rischio è l’autosufficienza, la ricerca della prodezza etica o<br />
ascetica, la quantificazione del merito. Il secondo versante del rischio è<br />
che la persona “virtuosa” non si percepisca più come “bisognosa”. «Vi è un<br />
62<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
PINA DE SIMONE E FRANCO MIANO<br />
tipo di santità fondata sullo sforzo e l’intransigenza che, anche quando<br />
sembri e sinceramente si creda fondata su un amore ardente per Dio, e per<br />
gli altri in Dio, può scaturire dal più perverso amore di sé: il suo ideale, la<br />
sua meta, non sono l’amore e la riconciliazione, ma la “prodezza” (…) non<br />
senza qualche venatura autodistruttiva». Oltre ogni pretesa di autosufficienza<br />
la santificazione designa «un rapporto e un’appartenenza». È la vita<br />
stessa di Dio che fluisce in noi attraverso il suo Spirito Santo. La vita<br />
santa, vita di comunione con Dio che è la vita nella sua pienezza, «non<br />
può essere fabbricata dagli uomini». «In un certo senso quanto di più attivo<br />
ci sia concesso in direzione di questa vita è acconsentire a che si faccia;<br />
rimuovere ostacoli, aprirsi alla vita e alla luce di Dio e lasciare che passi<br />
sempre più abbondantemente».<br />
In definitiva, come afferma la Sebastiani, «Il vero cammino di santità<br />
tende alla theosis, nel senso inteso dalla teologia delle chiese d’Oriente, è<br />
uno sforzo permanente di prendere sul serio e rendere vera l’immagine di<br />
Dio impressa nella persona. Esercitarsi nella virtù significa approfondire il<br />
proprio essere redento e camminare con sempre maggiore coscienza e<br />
interezza nella vita nuova».<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
63
EVENTI & IDEE - POLITICA SUL FRONTE ORIENTALE<br />
E&I<br />
L’ingressonell’UnioneEuropeaeunanotevolecrescitaeconomica<br />
hanno cambiato il volto della Polonia postcomunista. Un Paese<br />
“vivace”, come la sua politica: un ribollire di alleanze sempre<br />
nuove, di strategie spregiudicate e talvolta sconsiderate, di<br />
sentimenti viscerali e continue contraddizioni.<br />
Politica<br />
sul fronte orientale<br />
Stefano Leszczynski<br />
Anche in Polonia si fa politica. Non sarà un granché come<br />
constatazione, ma è pur sempre qualcosa. Di sicuro, dal<br />
2005 (anno dell’elezione dei gemelli Kaczynski alla guida<br />
del Paese) nessuno in Europa può affermare che a Varsavia<br />
ci si annoi. La politica polacca è, infatti, un ribollire di alleanze sempre<br />
nuove, di strategie spregiudicate e talvolta sconsiderate, di sentimenti<br />
viscerali e continue contraddizioni. Dalla crisi del 1989 ad oggi sono<br />
passati meno di vent’anni, un battito di ciglia se paragonati all’intensità<br />
degli avvenimenti che si sono succeduti in Europa nel secolo da poco<br />
concluso. Per rendersi conto di cosa sia effettivamente cambiato in<br />
questo Paese c’è un esempio, recentemente riportato dalle agenzie<br />
stampa, tanto banale quanto calzante:<br />
un ferroviere di 65 anni, tale<br />
Jan Grzebski, in coma dal 1988 per<br />
un incidente sul lavoro, si è risvegliato<br />
all’improvviso dopo 19 anni.<br />
Le sue prime dichiarazioni pubbliche<br />
sono state: «Quando sono<br />
entrato in coma nei negozi c’erano<br />
soltanto tè e aceto, la carne era<br />
razionata ed ovunque si vedevano<br />
interminabili code per fare un po’<br />
di benzina. «Oggi», ha aggiunto, «la<br />
gente cammina per la strada parlan-<br />
Stefano Leszczynski<br />
è giornalista, lavora per il Radiogiornale<br />
della Radio Vaticana e collabora con<br />
diverse testate cattoliche. Specializzato<br />
in Relazioni internazionali si è occupato<br />
di diritti umani nel Mediterraneo, con<br />
particolare attenzione alle<br />
problematiche del diritto d'asilo e dei<br />
flussi migratori. È autore di diverse<br />
pubblicazioni sulla storia delle relazioni<br />
tra la Germania e la Polonia nel periodo<br />
tra le due guerre mondiali.<br />
64<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
do al cellulare e ci sono talmente tanti prodotti nei negozi da far girare<br />
la testa». Il fatto, al di là delle polemiche di natura etica sull’eutanasia,<br />
assume una particolare rilevanza nel tentativo di tracciare un’analisi<br />
della Polonia di oggi.<br />
Il Pil polacco è cresciuto del 7,4% nel primo trimestre del 2007 (i<br />
dati dell’Ufficio centrale di statistica prevedono per l’intero anno una<br />
crescita superiore al 5,4%), le spese per beni di consumo sono salite del<br />
29,6% rispetto al 7,6% dello stesso periodo dell’anno precedente. Nel<br />
settore edilizio c’è stato un aumento addirittura del 40,1% rispetto al<br />
4,3% dell’anno precedente. Per questo paese di 38 milioni di abitanti si<br />
tratta di una crescita economica straordinaria se paragonata al resto<br />
d’Europa, con un calo negli ultimi due anni di oltre 2 punti percentuali<br />
nel tasso di disoccupazione (da oltre il 15% al 13%). A cosa è dovuto<br />
questo sviluppo? Da un lato, la risposta ovvia è che sia imputabile<br />
all’economia di mercato, ma quella meno ovvia è che il “turbo” sia stato<br />
attivato dall’ingresso nell’Unione europea. Basti pensare all’incremento<br />
nel numero dei lavoratori stagionali polacchi nei Paesi membri<br />
dell’Unione, ma anche all’ingente “pioggia” di denaro comunitario<br />
caduto fino ad oggi sul Paese, con oltre 80 miliardi di euro stanziati per<br />
il periodo 2007-2013.<br />
Quando si parla di “euroscetticismo polacco” bisognerebbe porre dei<br />
distinguo, che il più delle volte non vengono fatti. Può veramente sembrare<br />
plausibile, visti i dati sopraesposti, che il governo polacco o i suoi<br />
cittadini nutrano un qualche malanimo verso l’Europa? Eppure i rapporti<br />
tra questo giovane membro europeo e l’Unione stessa vengono<br />
descritti dalla stampa internazionale come estremamente conflittuali.<br />
Tanto che un’eurodeputata tedesca, Silvana Koch-Mehrin, commentando<br />
il braccio di ferro fra Polonia e resto dell’Ue sul nuovo Trattato europeo,<br />
ha dichiarato: «Se un Paese non si trova bene nell’Unione europea,<br />
bisogna dirgli che c’è anche la possibilità di uscire». Viene da notare che<br />
i polacchi saranno anche gente complicata, ma di certo non sono pazzi.<br />
La dimostrazione è venuta con il recentissimo vertice di Bruxelles,<br />
dove i gemelli Kaczynski hanno spavaldamente tenuto testa ai grandi<br />
dell’Europa, alle loro minacce e alle loro blandizie, portando a casa una<br />
vittoria politica non indifferente: il peso inalterato del proprio voto<br />
nella determinazione delle decisioni più importanti, quelle relative alla<br />
ripartizione dei fondi europei.<br />
Signori, la Polonia ha scoperto la politica e quel che è più rilevante<br />
ha scoperto che la politica rende. Però ha anche scoperto che gli altri<br />
Paesi l’avevano capito prima, ribattezzando con il termine “spirito<br />
europeo” la prassi di attingere con concordia alle casse comuni.<br />
Infrangere tale concordia in Europa viene ritenuto intollerabile.<br />
E&I<br />
STEFANO LESZCZYNSKI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
65
EVENTI & IDEE - POLITICA SUL FRONTE ORIENTALE<br />
E&I<br />
La dirigenza dei Kaczynski, che tutti i sondaggi danno in calo di<br />
consensi con uno scarno 38% di gradimento, ha recentemente messo a<br />
segno alcuni punti che al popolo di sicuro non dispiacciono.<br />
Innanzitutto, ha inaugurato una nuova geopolitica europea, con una<br />
diplomazia che forse non saprà tirare di fioretto, ma che raggiunge<br />
ugualmente lo scopo.<br />
Varsavia ha, infatti, saputo sfruttare i partner europei nel contrastare<br />
l’embargo russo sulle sue carni bovine, ponendo il proprio veto a<br />
qualsiasi intesa tra Mosca e Bruxelles, anzi riuscendo addirittura a mettere<br />
in forte pericolo un possibile ingresso della Russia nel Wto<br />
(l’Organizzazione mondiale del commercio); si è poi affermata come<br />
uno dei più affidabili alleati europei degli Stati Uniti accettando di<br />
diventare il pilastro più importante del nuovo scudo antimissile americano,<br />
coinvolgendo addirittura la Repubblica Ceca e mettendo definitivamente<br />
in crisi ciò che restava del sistema tattico sovietico in funzione<br />
anti-occidentale.<br />
66<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
In campo energetico, la Polonia ha stretto un alleanza con Ucraina,<br />
Azerbaigian, Georgia, Lituania e Kazakistan, per trasportare in Europa<br />
il greggio dal Mar Caspio con un oleodotto che bypassa la Russia attraverso<br />
il Mar Nero: una chiara risposta al piano russo-tedesco di costruire<br />
un gasdotto di 480 chilometri che attraverso il Baltico si snoda fino<br />
alla Repubblica Ceca, tagliando fuori la Polonia. Un mero moto d’orgoglio?<br />
Fatto sta che all’inizio del mese di giugno il ministro dell’economia<br />
polacco, Piotr Wosniak, ha snobbato la proposta del gigante<br />
tedesco Basf di costruire un gasdotto di collegamento che avrebbe consentito<br />
a Varsavia di rifornirsi da quello principale. La nuova priorità<br />
della Polonia è adesso quella di collegarsi alla Danimarca emancipandosi<br />
quasi del tutto dalle fonti energetiche russe.<br />
Commentando il nuovo stile nella politica polacca verso la<br />
Germania il settimanale tedesco Der Spiegel, a metà giugno, titolava in<br />
copertina: «I vicini che non si amano». Addirittura per il premier<br />
austriaco, Alfred Gusenbauer, i Kaczynski avrebbero minacciato di<br />
bloccare i lavori sulla Conferenza intergovernativa solo per mettere i<br />
bastoni fra le ruote alla presidenza di turno tedesca. È del resto vero che<br />
a Berlino sono estremamente irritati per i continui riferimenti, da parte<br />
di molti esponenti del governo polacco, alle nefandezze commesse<br />
dalla Germania ad est dei propri confini nel corso della Seconda<br />
Guerra Mondiale.<br />
Una memoria da elefante, dunque, quella polacca, che tuttavia non<br />
sembra avere paragoni con il desiderio di sistemare i conti all’interno<br />
del Paese con i complici del passato regime comunista. Tra tutte le questioni<br />
politiche emerse di recente in Polonia, questa sembra di gran<br />
lunga quella cui i due cinquantottenni gemelli Kaczynski (Lech, il presidente,<br />
e Jaroslaw, il premier) danno maggiore importanza. Ne hanno<br />
fatto una vera e propria questione di sicurezza nazionale, varando addirittura<br />
una specifica legge, detta della lustracja, con l’obiettivo di decomunistizzare<br />
le categorie professionali con rilevanza pubblica. Il provvedimento,<br />
che riguardava i cittadini nati prima del 1972 (circa<br />
700mila persone), imponeva di dichiarare il proprio passato politico ed<br />
eventuali attività per conto dei servizi segreti comunisti (Sb). Nel calderone<br />
sono finiti un po’ tutti: religiosi, giornalisti, politici, militari.<br />
Un’iniziativa che ha destato scalpore in Europa e che ha generato<br />
drammi incredibili in Polonia, tanto da costringere la Corte<br />
Costituzionale a intervenire e a cassare più della metà degli articoli di<br />
questa nuova legge, che prevedeva tra l’altro il licenziamento in tronco<br />
per chi non si fosse autodenunciato. Tra i nomi di spicco emersi dagli<br />
archivi dell’Istituto della memoria nazionale, oltre a quello di mons.<br />
Stanislaw Wielgus, anche quello del famoso giornalista Richard<br />
E&I<br />
STEFANO LESZCZYNSKI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
67
EVENTI & IDEE - POLITICA SUL FRONTE ORIENTALE<br />
E&I<br />
Kapuszynski. In sua difesa la moglie ha dichiarato alla stampa che,<br />
all’epoca, «chiunque richiedesse il passaporto per uscire dal Paese veniva<br />
contattato dai servizi segreti», questo non vuol dire che si instaurasse<br />
un rapporto di collaborazione vero e proprio. Bisogna notare però<br />
che ad uscire dal Paese erano veramente pochi privilegiati e che la<br />
massa restava in Patria, sopravvivendo in condizioni miserrime, sotto il<br />
giogo di un regime che non aveva scelto.<br />
Se sono molti in Polonia coloro che non condividono quella che da<br />
più parti è stata ribattezzata come una nuova “caccia alle streghe”, il<br />
desiderio di confrontarsi con il passato per ottenere giustizia è piuttosto<br />
diffuso. Lo stesso ex presidente e Nobel per la pace, Lech Walesa,<br />
commentando la recente condanna di alcuni ex poliziotti antisommossa<br />
(i famigerati “Zomo”), che durante lo stato d’assedio del generale<br />
Jaruzelski nel dicembre del 1981 uccisero 9 minatori di Solidarnosc, lo<br />
ha definito «un importante passo avanti per comprendere i meccanismi<br />
dei crimini comunisti ed indicare oltre agli esecutori anche i mandanti<br />
della strage».<br />
L’intransigenza verso i crimini del passato e il duro giudizio sugli<br />
apparatnik del regime non ha impedito a Walesa di stringere alleanze<br />
politiche con gli ultimi nipotini del comunismo, per la verità oggi<br />
molto più rosa che rossi. Con l’obiettivo di sbaragliare alle prossime<br />
elezioni politiche del 2009 l’attuale coalizione di governo, composta da<br />
partiti di destra e nazionalisti, Walesa si è avvicinato proprio a colui che<br />
lo scalzò dalla presidenza della Repubblica nel 1995, il post-comunista<br />
Alexander Kwasniewski. Insieme, hanno dato vita ad una nuova formazione<br />
politica di centro-sinistra (LiD) cui aderiscono i socialdemocratici<br />
ed i democratici di centro, che fanno capo al primo premier dell’era<br />
non comunista Tadeusz Mazowiecki. Per il momento i sondaggi<br />
danno alla nuova coalizione guidata da Kwasniewski circa il 58% dei<br />
consensi, ma questo in Polonia di qui a due anni non rappresenta certo<br />
una garanzia. E poi i Kaczynski dalla loro hanno pur sempre il merito<br />
di avere conquistato per la Polonia gli Europei di calcio del 2012.<br />
68<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
A cento anni dalla fondazione della prima “Casa dei Bambini”,<br />
si conferma la validità del contributo scientifico di Maria<br />
Montessori al pensiero pedagogico: la scoperta di un bambino<br />
laborioso, competente, autonomo, capace di costruire un<br />
positivo senso di sé.<br />
Attualità della<br />
pedagogia montessoriana<br />
Paola Trabalzini<br />
E&I<br />
EVENTI & IDEE - ATTUALITA DELLA PEDAGOGIA...<br />
Il 2007 è un anno di importanti anniversari per l’educazione,<br />
ricorrono, infatti, alcuni centenari come, ad esempio, quello della<br />
pubblicazione del Diario di Gian Burrasca di Luigi Bertelli,<br />
annunciato nel febbraio 1907 sulle pagine del Giornalino della<br />
domenica, e scritto tra il 1907 e il 1908; quello della nascita del movimento<br />
degli scout nell’agosto del 1907 ad opera di Robert Baden<br />
Powell; il centenario della pubblicazione del libro I ragazzi della via<br />
Pál, dell’ungherese Ferenc Molnár.<br />
Quel lontano 1907 si annunciava prolifico sin dal suo avvio, quando a<br />
Roma il 6 gennaio venne inaugurata, nel popolare quartiere di San Lorenzo<br />
in via dei Marsi 58, la prima “Casa dei Bambini” di Maria Montessori (1870-<br />
1952), che a distanza di cento anni è ancora oggi funzionante nell’originaria<br />
sede, meta di numerosi visitatori nazionali e internazionali.<br />
Il centenario montessoriano è<br />
stato celebrato il 6 e il 7 gennaio scorso<br />
con la Montessori Centenary<br />
Conference, organizzata a Roma dall’Opera<br />
Nazionale Montessori e<br />
dall’Associazione Montessori Internazionale<br />
(Ami): 1200 partecipanti<br />
provenienti da 49 Paesi si sono<br />
incontrati per riflettere sulla proposta<br />
pedagogica montessoriana oggi<br />
presente con 22.000 istituzioni<br />
Paola Trabalzini<br />
è docente a contratto<br />
per l’insegnamento di Aspetti di storia<br />
dell’educazione, corso di laurea in<br />
Scienze dell’educazione e della<br />
formazione, Facoltà di Filosofia,<br />
Università “La Sapienza”. Membro del<br />
Comitato di Redazione della rivista Vita<br />
dell’infanzia, organo dell'Opera<br />
Nazionale Montessori.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
69
EVENTI & IDEE - ATTUALITA DELLA PEDAGOGIA...<br />
E&I<br />
educative, tra nidi, “Case dei Bambini”, scuole primarie e secondarie,<br />
in 110 Paesi, in tutti i continenti. Celebrazioni da allora si sono susseguite,<br />
e proseguiranno, sia in Italia, sia in altre parti del mondo, per<br />
iniziativa di singole scuole, associazioni nazionali, università ecc.<br />
A Roma sono stati, dunque, ricordati un pensiero scientifico e una<br />
proposta educativa estremamente vitali, presenti nella quotidianità di<br />
tanti bambini, adolescenti, insegnanti, formatori, genitori. Vitalità e<br />
attualità documentate anche da due recentissime ricerche: una statunitense,<br />
pubblicata nel settembre 2006, e un’altra italiana, dello scorso<br />
febbraio, che confrontano le competenze in vari ambiti tra gruppi di<br />
bambini che frequentano scuole Montessori e gruppi di bambini della<br />
scuola tradizionale. Ci riferiamo allo studio apparso sulla prestigiosa<br />
rivista statunitense Science, curato da Angeline Lillard e Nicole Else-<br />
Quest, ricercatrici del Dipartimento di psicologia dell’Università della<br />
Virginia e del Wisconsin, e all’articolo pubblicato sulla rivista italiana<br />
Orientamenti pedagogici, curato da Beatrice Benelli e Angelica Moè<br />
dell’Università di Padova 1 . Vediamo i risultati di queste ricerche.<br />
Dallo studio di Lillard e Else-Quest emerge che allievi delle scuole<br />
Montessori (“Casa dei Bambini”, 3-6 anni, e primaria, 6-12 anni)<br />
ottengono performance più elevate sia sul piano cognitivo, sia sociale<br />
rispetto ad allievi non montessoriani. Gli alunni sottoposti alla ricerca<br />
sono quelli che concludono i due cicli di educazione: i bambini di 5<br />
anni e i ragazzi di 12 anni per un totale di 59 allievi per il gruppo<br />
Montessori e 53 per quello della scuola tradizionale. Il gruppo dei<br />
bambini di 5 anni comprende 25 alunni del gruppo di controllo e 30<br />
allievi del gruppo Montessori; il gruppo dei ragazzi di 12 anni comprende<br />
28 alunni del gruppo di controllo e 29 del gruppo Montessori.<br />
I bambini del gruppo di controllo provengono da 27 scuole pubbliche<br />
dei quartieri centrali (40 allievi) e 12 scuole suburbane pubbliche o<br />
convenzionate (13 allievi). Le loro famiglie inizialmente avevano scelto<br />
di iscrivere i figli alla scuola Montessori, ma non essendo rientrate tra<br />
quelle sorteggiate per l’iscrizione si sono poi rivolte ad istituzioni educative<br />
tradizionali. Questo aspetto della ricerca è particolarmente interessante,<br />
in quanto indica che anche le famiglie dei bambini del gruppo<br />
di controllo sono in effetti “montessoriane” e, dunque, tutti i bambini<br />
coinvolti nella ricerca condividono un medesimo “stile” famigliare<br />
di partenza. Ciò rende le differenze nei risultati cognitivi e sociali finali<br />
ancora più significative. I bambini del gruppo Montessori provenivano,<br />
invece, da un’unica scuola situata a Milwaukee, riconosciuta dalla<br />
sezione statunitense dell’Ami (Associazione Montessori Internazionale)<br />
che è particolarmente attenta alla corretta applicazione del metodo.<br />
Entrambi i gruppi di bambini sono stati sottoposti a test relativi a<br />
70<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
competenze cognitivo/scolastiche (batteria di test Woodcock-Johnson)<br />
e sociali/comportamentali (ai bambini sono state proposte cinque storie<br />
riferite a problemi sociali ad esempio: è il tuo turno per salire su<br />
un’altalena, un altro bambino se ne impossessa, tu come risolvi la questione?)<br />
selezionate in considerazione dell’importanza per la vita futura<br />
del bambino, e non per analizzare, come si legge nell’articolo, specifici<br />
effetti attesi dall’educazione montessoriana.<br />
Per i bambini di 5 anni le differenze più significative, a favore del<br />
gruppo Montessori, sono state registrate tramite test che misurano:<br />
riconoscimento di lettere e parole, abilità matematiche ed esecutive.<br />
Risultati ancora più sorprendenti si sono avuti nei test riguardanti<br />
socialità e capacità relazionali: il raffronto è in favore del gruppo<br />
Montessori nella misura del 43 per cento rispetto al 18 per cento. I<br />
bambini del gruppo Montessori hanno fatto riferimento alla giustizia e<br />
all’equità per convincere l’altro bambino a non monopolizzare l’oggetto<br />
(l’altalena dell’esempio).<br />
Per i ragazzi di 12 anni le performance sono state pressoché uguali in<br />
materia di spelling e di grammatica, ma gli elaborati differivano di<br />
molto – sempre a vantaggio del gruppo Montessori – per la creatività,<br />
per l’utilizzo di strutture sintattiche significativamente più complesse,<br />
per un senso più sviluppato dell’appartenenza sociale.<br />
La ricerca di Benelli e Moè prende in esame gli effetti dell’educazione<br />
montessoriana sullo stile attributivo, ossia la capacità di riflettere<br />
sulle possibili cause degli eventi, positivi o negativi, che coinvolgono le<br />
persone, e sulla competenza definitoria, quale abilità linguistico-comunicativa<br />
e indice dello sviluppo concettuale e del pensiero. Nella ricerca<br />
sono coinvolti 40 bambini di una scuola Montessori – di cui 20 del<br />
secondo anno della scuola dell’infanzia e 20 del secondo anno della<br />
scuola primaria – e 40 di una scuola tradizionale suddivisi in egual<br />
modo. Le due scuole sono collocate nel medesimo contesto socio-culturale,<br />
in una grande città del Nord Italia.<br />
Per quanto riguarda la misurazione dello stile attributivo 2 , ogni<br />
bambino è stato invitato a scegliere due possibili ragioni su cinque<br />
(impegno, abilità, caratteristiche del compito, fortuna, aiuto e, rispettivamente,<br />
mancanza di queste) per spiegare il successo o l’insuccesso in<br />
24 ipotetiche situazioni di apprendimento. Per la prova relativa alla<br />
competenza definitoria, è stata utilizzata una lista di 20 parole-stimolo<br />
astratte: 10 si riferiscono a termini attributivi o comunque descriventi<br />
caratteristiche psicologiche (aiuto, capacità, bravura, impegno, testardaggine,<br />
responsabilità, caso, sforzo, abilità, facilità), le restanti 10 a<br />
termini di vario contenuto (danno, sonno, turno, prova, canto, furto,<br />
forza, festa, parte).<br />
E&I<br />
PAOLA TRABALZINI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
71
EVENTI & IDEE - ATTUALITA DELLA PEDAGOGIA...<br />
E&I<br />
Dall’esame dei dati è emerso che i bambini provenienti dalla scuola<br />
Montessori hanno uno stile attributivo caratterizzato dall’individuazione<br />
di cause principalmente controllabili e modificabili, «nella misura in<br />
cui riconoscono maggiormente aspetti individuali quali l’impegno e<br />
aspetti socio-relazionali quali l’aiuto».<br />
Particolarmente interessante è la maggiore competenza definitoria<br />
dei bambini del gruppo Montessori per quanto riguarda i termini attributivi<br />
pari, tra l’altro, a quella per i termini astratti, cosa che non accade<br />
con i bambini della scuola tradizionale. «Ciò può dipendere», avanzano<br />
le ricercatrici, «dalla maggiore riflessione sul Sé, sulle proprie azioni<br />
e i propri processi mentali, derivante dalla loro specifica esperienza<br />
educativa e dal conseguente stile attributivo maggiormente orientato<br />
verso cause dipendenti dall’individuo».<br />
Pur riferendosi le due ricerche ad un numero ristretto di bambini,<br />
esse presentano risultati per il gruppo Montessori molto incoraggianti<br />
e concordanti sia per gli aspetti cognitivi, capacità di espressione,<br />
72<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
padronanza linguistica e concettuale, sia per gli aspetti relazionali e<br />
sociali, caratterizzati da comportamenti di aiuto, di mediazione, di<br />
consapevolezza di poter intervenire nelle situazioni. A cento anni di<br />
distanza il principio montessoriano dell’autoeducazione continua,<br />
dunque, a dare i suoi frutti, come accadde nelle “Case dei Bambini” a<br />
San Lorenzo a partire dal 1907.<br />
Esse nacquero per iniziativa dell’ingegnere Eduardo Talamo, direttore<br />
dell’Istituto Romano di Beni Stabili, che, acquistati e ristrutturati<br />
alcuni edifici popolari del quartiere romano, pensò di raccogliere in un<br />
appartamento i bambini in età prescolare che abitavano nell’edificio in<br />
modo che non scorazzassero per i cortili e le scale danneggiandoli, dato<br />
che i genitori erano fuori per lavoro e non potevano aver cura di loro.<br />
Sul finire del 1906 Talamo propose la direzione delle “Case dei<br />
Bambini” a Maria Montessori che accettò iniziandovi un lavoro scientifico:<br />
sperimentare il materiale per l’educazione dei sensi, già utilizzato<br />
con i bambini affetti da insufficienza mentale, ai quali si era dedicata<br />
all’inizio della sua ricerca scientifica dal 1896 al 1902, con i bambini<br />
cosiddetti normali, in modo da verificare eventuali differenze di reazione<br />
tra gli uni e gli altri; verificare, quindi, l’importanza o meno per<br />
lo sviluppo dei bambini normali dell’esercizio sistematico dei sensi, che<br />
si era rivelato fondamentale per il recupero degli insufficienti mentali.<br />
L’esperimento le mostrò l’importanza del fare, della sensorialità e<br />
del movimento nell’apprendimento dei bambini da 3 a 7 anni; un fare<br />
però non casuale, non indotto dall’adulto, ma profondamente automotivato,<br />
che promuoveva l’iniziativa individuale e connetteva la<br />
mano e la mente, il movimento e la cognizione. Alcuni materiali sensoriali<br />
non vennero utilizzati dai bambini normali e furono eliminati,<br />
altri modificati e di nuovi ne furono costruiti sulla base delle indicazioni<br />
offerte dall’osservazione dei bisogni e dei comportamenti dei bambini<br />
stessi.<br />
Oltre all’interesse scientifico, la direzione delle “Case dei Bambini”<br />
rispondeva anche all’impegno civile di Montessori a favore dell’infanzia<br />
abbandonata, dei diritti delle donne, dell’istruzione per tutti, vissuto<br />
sin dal 1896, anno della sua laurea in medicina. I risultati dell’esperimento<br />
di San Lorenzo, la scienziata li espose nel libro Il Metodo della<br />
Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei<br />
Bambini, pubblicato nel 1909, che ha avuto successive quattro edizioni:<br />
la seconda nel 1913, la terza nel 1926, la quarta nel 1935 e la quinta<br />
con il titolo La scoperta del bambino nel 1950.<br />
Proprio nel titolo assunto dal libro nell’ultima edizione, troviamo il<br />
contributo scientifico di Maria Montessori al pensiero pedagogico, e<br />
non solo: la scoperta di un bambino laborioso, competente, autono-<br />
E&I<br />
PAOLA TRABALZINI<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
73
EVENTI & IDEE - ATTUALITA DELLA PEDAGOGIA...<br />
E&I<br />
mo, che si rivela quando sono eliminate condizioni fisiche e psichiche<br />
repressive che impediscono l’espansione delle sue naturali capacità<br />
motorie, sensoriali, comunicative, cognitive, sociali, emergenti progressivamente<br />
durante lo sviluppo, che il bambino ha bisogno di sperimentare<br />
e esercitare nell’ambiente per affinarle e perfezionarle<br />
costruendo un positivo senso di sé.<br />
Da qui l’importanza di creare un ambiente proporzionato sia per<br />
l’aspetto fisico affinché egli possa raggiungere, sollevare, spostare facilmente<br />
gli oggetti, sia per l’aspetto intellettuale con attività aventi uno<br />
scopo e comprensibili e gestibili dal bambino, sia, infine, per l’aspetto<br />
psichico con un adulto guida presente, ma discreta. In un ambiente,<br />
culturale e emotivo, adeguato, il bambino ha la possibilità di scegliere<br />
l’attività che desidera svolgere per il tempo che vuole, secondo il personale<br />
ritmo di lavoro, senza pressioni produttivistiche. Ogni bambino<br />
procede con il proprio “passo”, secondo il personale stile cognitivo,<br />
imparando ad ascoltare e riconoscere i propri bisogni e interessi percependo<br />
se stesso come autore della propria crescita.<br />
Montessori ci fa conoscere un bambino con propri bisogni, interessi,<br />
attitudini, con un proprio modo di conoscere e adattarsi all’ambiente,<br />
con una mente, che ella definisce “assorbente”, “creativa” e “inconscia”,<br />
capace di specifiche conquiste intellettuali e sociali. Un individuo<br />
completo in ciascuna delle fasi del suo sviluppo, piuttosto che appendice<br />
dell’adulto, proiezione del suo egocentrismo. Al bambino considerato<br />
«come un essere vuoto, che l’adulto deve riempire col suo proprio<br />
sforzo; come un essere inerte e incapace pel quale egli deve fare tutto;<br />
come un essere senza guida interiore, per cui l’adulto deve guidarlo dall’esterno»<br />
3 , Montessori contrappone un bambino protagonista del proprio<br />
sviluppo, se posto in condizioni di autoeducazione. All’adulto che<br />
ha ritenuto di essere il “creatore del bambino”, Montessori chiede un<br />
rinnovamento morale e culturale, un atto di umiltà.<br />
Quella montessoriana, come è stato scritto, è una «grande scoperta<br />
epistemologica» 4 , che rivoluziona l’immagine tradizionale del bambino<br />
capriccioso, instabile, tutto sentimento e fantasia, e conduce la scienziata<br />
ad essere paladina dei diritti del bambino “cittadino dimenticato”:<br />
diritto ad una educazione specifica, non improvvisata; diritto ad essere<br />
incoraggiato nell’esprimere bisogni e interessi; diritto ad agire in autonomia;<br />
diritto all’integrità fisica e psichica; diritto a conoscere secondo<br />
modi e tempi personali; diritto a spazi propri in cui poter esprimere l’esigenza<br />
a fare con attenzione e concentrazione; diritto alla socialità con<br />
i pari e gli adulti; diritto ad una educazione che sia esperienza di pace.<br />
Possiamo definire quella montessoriana un’educazione dell’impegno<br />
nella libertà, intesa, quest’ultima, come accoglienza e “liberazione”<br />
74<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
di bisogni e talenti emergenti, via alla sperimentazione di sé e dell’ambiente<br />
attraverso attività individuali o di gruppo. Una libertà che<br />
è anche esperienza di riconoscimento di bisogni e talenti altrui in un<br />
clima di lavoro costruttivo, di confronto, di scambio. Una libertà da<br />
vivere e da costruire. Questa educazione, Montessori definisce negli<br />
anni Quaranta, quando ha oramai elaborato la sua posizione pacifista,<br />
“dilatatrice” della personalità, perché moltiplica interessi, legami,<br />
possibilità, unisce e non divide. Una “educazione di vastità” che<br />
proiettando il singolo nell’ampio scenario dell’evoluzione naturale, e<br />
dunque sociale e culturale dell’uomo, consente di superare i circoscritti<br />
interessi personali per porsi nella prospettiva della interdipendenza<br />
degli individui, della cooperazione tra loro e con l’ambiente in<br />
cui vivono. Anche per questi motivi, oltre agli aspetti scolastici e<br />
sociali presi in considerazione nelle ricerche citate, riteniamo che il<br />
pensiero scientifico e pedagogico montessoriano possa offrire oggi<br />
importanti elementi di riflessione e freschezza.<br />
E&I<br />
PAOLA TRABALZINI<br />
Note<br />
1<br />
A. Lillard, N. Else-Quest, “The early years: evaluating Montessori education”,<br />
in Science, 2006, 313, pp. 1893-1894; B. Benelli, A. Moè, «“Perché è<br />
andata così? Cosa vuol dire questa parola?”. Effetti dell’educazione montessoriana<br />
sullo stile attributivo e sulla competenza definitoria», in Orientamenti<br />
pedagogici, 2007, 2, pp. 105-120. Lillard è anche autrice di un recente libro<br />
dal titolo Maria Montessori: the science behind the genius, Oxford Press, 2006,<br />
in cui mette a confronto otto motivi dell’educazione montessoriana (tra i<br />
quali ambiente, motivazione, sensorialità, movimento, ecc.) con le attuali<br />
ricerche in ambito psicologico.<br />
2<br />
È stata utilizzata la prova elaborata per bambini da 4 a 10 anni da De Beni<br />
e Moè (1999).<br />
3<br />
M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano 1999, p. 15.<br />
4<br />
Cfr. A Scocchera, Maria Montessori. Una storia per il nostro tempo, Edizioni<br />
Opera Nazionale Montessori, Roma 1997, pp. 53-54.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
75
EVENTI & IDEE - IL MALI, L’AFRICA “CINESIZZATA”<br />
E&I<br />
Stanca delle regole della Banca Mondiale e di una cooperazione<br />
allo sviluppo asfittica, c’è una porzione d’Africa che ha scelto<br />
la Cina come “alternativa”, ma a quale prezzo?<br />
Il Mali,<br />
l’Africa “cinesizzata”<br />
Matteo Colombo<br />
Il mese di aprile del 2007 non sarà ricordato solo per le elezioni francesi<br />
e la lotta tra i candidati Sarkozy e Royal. Nell’Africa occidentale<br />
è il mese delle elezioni in Mali, dopo la crisi della Costa d’Avorio e la<br />
riconferma quasi con un plebiscito di Wade in Senegal.<br />
L’elezione maliana è una tra le molte africane? Può essere. Ma la<br />
situazione è più complessa per ridurre il tutto a una tale banalizzazione.<br />
Per cercare di comprendere questo Paese da un punto di vista economico,<br />
bisogna volare fino in Cina; per comprendere le politiche governative<br />
e necessario conoscere alla perfezione i dogmi della Banca<br />
Mondiale; per viverlo è indispensabile ascoltare i suoi abitanti, dai più<br />
umili fino ai ministri. Certo, questa analisi è in ogni modo basata sulla<br />
percezione di un “tobabu” (bianco,<br />
in lingua locale) e non può certo<br />
cogliere tutta la complessità o le<br />
sfaccettature esistenti.<br />
Prima di procedere con l’analisi<br />
della situazione, mi corre l’obbligo<br />
di informare il lettore che qui non<br />
sarà presentata una situazione esaustiva<br />
e completa del Paese, operazione<br />
che richiede uno studio specifico.<br />
Il lavoro si presenta pertanto<br />
come un quadro nel quale sono presenti<br />
gli elementi principali in<br />
Matteo Colombo<br />
è laureato in Scienze Internazionali e<br />
Diplomatiche all’Università di Trieste,<br />
collabora con l’Agenzia di Cooperazione<br />
degli Enti Locali di Torino. Autore di<br />
Malnutrizione in Africa subsahariana,<br />
interventi umanitari e controllo politico,<br />
L’Harmattan Italia, Torino, 2005. Ha<br />
partecipato ai summit mondiali della<br />
società dell’informazione ed è<br />
intervenuto in alcune conferenze sul<br />
tema in Italia.<br />
76<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
forma netta, mentre i dettagli sono solamente abbozzati, per lasciare ad<br />
ognuno la curiosità di cercare e approfondire i temi proposti.<br />
E&I<br />
La colonizzazione cinese<br />
È sorprendente, atterrando a Bamako e recandosi nel centro della<br />
città, quanti cantieri vi siano e quante infrastrutture in costruzione esistano.<br />
Andando sui cantieri, siano essi di costruzioni pubbliche o private,<br />
si ripete sempre il solito cliché: ingegnere e capomastro cinesi e<br />
manodopera locale. Se la sera si vuole bere una bevanda fresca e allo<br />
stesso tempo ascoltare della musica, ci si reca in un bar, come in una<br />
qualsiasi parte del mondo. Ed eccoci di fronte al solito schema: gestore<br />
cinese, personale locale. Insomma, si ha l’impressione di essere di fronte<br />
ad una colonizzazione cinese della capitale e del Paese in generale.<br />
Approcciarsi alla comunità cinese è molto difficile; per un europeo e/o<br />
un americano diventa impossibile, in quanto il francese (lingua coloniale<br />
ancora ufficiale) non è usato a tutto vantaggio del bambara, l’idioma<br />
locale, che è parlato da tutta la comunità cinese alla perfezione.<br />
La prima impressione è dunque quella di una sorta d’esclusione praticata,<br />
attraverso la lingua, nei confronti degli storici colonizzatori.<br />
Ritornando sui cantieri, si scopre che l’ampliamento della residenza<br />
MATTEO COLOMBO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
77
EVENTI & IDEE - IL MALI, L’AFRICA “CINESIZZATA”<br />
E&I<br />
presidenziale è completamente finanziato dal governo di Pechino, la<br />
costruzione degli ospedali è affidata a delle oscure imprese cinesi, la<br />
costruzione delle principali arterie di comunicazione è ancora una volta<br />
assegnata alle imprese o al governo cinese, che l’ambasciatore cinese<br />
entra ed esce da un consiglio di gabinetto di un ministero e cosi via.<br />
Andando più in profondità, si apprende che i capomastri e gli ingegneri<br />
sono in realtà dei prigionieri “specializzati” inviati dalla madrepatria<br />
(Lombard, 2006) per servire il Paese d’origine.<br />
Ho sempre più l’impressione che per comprendere Bamako ci si<br />
debba recare a Pechino. L’occasione per capire quanto il Mali e l’Africa<br />
in generale stiano vivendo, mi è data dalla prima conferenza sino-africana,<br />
svoltasi a Pechino e a cui hanno partecipato i capi di Stato e di<br />
Governo di quaranta Paesi africani. L’evento è storico, oltre che per la<br />
novità assoluta della formalizzazione dei rapporti, perchè nessun capo<br />
di Stato europeo o americano è mai riuscito a far sedere allo stesso tavolo<br />
in un’unica occasione un tal numero di capi di Stato e di Governo<br />
africani. Il Presidente cinese è chiaro quando afferma che «ciò che ci<br />
interessa sono gli scambi commerciali» (McGregor, 2006), all’indomani<br />
di una critica rivoltagli per aver invitato dei capi di Stato decisamente<br />
discutibili dal lato dei rispetti dei diritti dell’uomo.<br />
Il Mali e l’Africa sembrano aver fatto la loro scelta, una scelta molto<br />
pericolosa, andando, come si dice gergalmente “dalla padella alla<br />
brace”. I Paesi africani sono stanchi. Stanchi di dover obbedire a delle<br />
regole impartite unilateralmente dalla Banca Mondiale e dal Fondo<br />
Monetario Internazionale; stanchi di aiuti perversi e drogati che creano<br />
dipendenza; stanchi di una cooperazione allo sviluppo asfittica che si<br />
interessa più dei salari dei cooperanti espatriati che dei reali bisogni<br />
della popolazione; stanchi di dover sopravvivere e di avere un posto<br />
nelle notizie mondiali solo quando un oleodotto esplode o qualche<br />
genocidio è perpetrato, forse con la complicità delle antiche potenze<br />
coloniali, come nel caso del Rwanda (Wallis, 2006).<br />
In tutto questa situazione, la Cina rappresenta un’alternativa o, per<br />
meglio dire, l’alternativa. Ma qual è il prezzo? Nessuno sembra chiederselo.<br />
La contropartita cinese è il petrolio, il vecchio e caro petrolio.<br />
Ebbene sì, l’alternativa in realtà non è molto originale. Gli interessi<br />
cinesi si basano, come sempre, sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi<br />
in cambio di qualche “caramella” rappresentata dalle costruzioni.<br />
È sorprendente vedere come la Cina si interessi ai Paesi della regione<br />
non appena vi si scopra un giacimento. Ricordiamo, a titolo di reminder,<br />
che la Cina dipende in materia di approvvigionamenti di petrolio<br />
in gran parte dai giacimenti africani e che il volume delle sue importa-<br />
78<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Pre-aggiustamento Aggiustamento<br />
Oggi<br />
E&I<br />
Agricoltura<br />
diversificata<br />
(nei limiti del<br />
clima saheliano)<br />
FMI spinge per<br />
investimenti sulla<br />
monocultura<br />
del cotone<br />
- Monocoltura<br />
- Inquinamento falde a causa dei fertilizzanti<br />
- Sterilità terreni<br />
- Insicurezza fluttuazioni prezzo<br />
sul mercato di Liverpool<br />
- Totale dipendenza dai prodotti agricoli stranieri<br />
(intra e inter regionali)<br />
La Sanità è pubblica<br />
Banca Mondiale<br />
spinge alla<br />
privatizzazione<br />
- Frammentazione del Ministero<br />
delle sue competenze<br />
- Inaffidabilità dati sanitari<br />
- Accesso alle cure solo per<br />
chi possiede beni materiali<br />
- Sottoretribuzione del personale<br />
medico-infermieristico<br />
- Mancanza di politiche coerenti<br />
per la lotta a malattie quali AIDS<br />
- Totale dipendenza di approvvigionamenti<br />
dall’estero<br />
- Totale dipendenza dall’estero in materia formativa<br />
MATTEO COLOMBO<br />
Gestione dello Stato<br />
accentrata<br />
Banca Mondiale<br />
spinge alla<br />
decentralizzazione<br />
- Mancanza di ruoli chiari<br />
- Mancanza di competenze locali<br />
- Sentimento di abbandono da parte<br />
degli amministratori locali<br />
- Diffusione corruzione<br />
- Carente gestione della cosa pubblica<br />
- Aumentato rischio di scarsa<br />
valutazione di impatto di progetti<br />
2/3 della popolazione<br />
sono analfabeti<br />
Banca Mondiale,<br />
Unicef, USAID,<br />
UNESCO<br />
investono per<br />
l’alfabetizzazione<br />
della popolazione<br />
- 85% popolazione analfabeta<br />
- Diffusione capillare scuole coraniche<br />
- Sistema educativo pre-coloniale<br />
- Programmi scolastici nella scuola dell’obbligo<br />
con accento esclusivo sulla storia<br />
e la cultura statunitense<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
79
E&I<br />
EVENTI & IDEE - IL MALI, L’AFRICA “CINESIZZATA”<br />
zioni globali dall’Africa è aumentato in quattro anni del 388% (China<br />
[Republic], Zhu ji chu, 2007)<br />
Le responsabilità della Banca Mondiale<br />
A partire dagli anni Ottanta arrivano in Mali il credo e i dogmi della<br />
Banca Mondiale: liberalizzazioni, privatizzazione, buon governo, lotta<br />
alla corruzione. Risultati delle ricette universali sono un’accresciuta<br />
povertà, l’aumento delle disparità sociali, il tracollo dello Stato, una totale<br />
dipendenza dall’estero. I soliti risultati, qualcuno potrebbe dire.<br />
Tuttavia per capire la drammaticità della situazione sociale e politica<br />
80<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
isogna fare un paragone tra il Mali pre-aggiustamento e quello del disastro<br />
a seguito dell’aggiustamento. Su questo argomento esiste una vastissima<br />
letteratura che richiederebbe uno studio ad hoc. Qui si presenta una<br />
tabella riassuntiva di quanto è avvenuto in Mali, basandosi sulle statistiche<br />
del Paese e sulle analisi demografiche realizzate negli anni da Usaid,<br />
l’agenzia per la cooperazione allo sviluppo statunitense (Dhs, 2007).<br />
E&I<br />
La tabella parla da sé e ci presenta un paese non più in grado di<br />
sostentarsi sulle sue forze, completamente dipendente dall’aiuto estero<br />
e senza una politica chiara nei settori chiave di intervento, ovvero<br />
sanità, educazione, economia (Le sphinx, 2006). Ciò che colpisce di<br />
più, entrando in contatto con i ministeri, è una rassegnazione alla<br />
dipendenza dall’estero. La pianificazione delle politiche statali è pensata<br />
ponendo a garanzia del reperimento dei fondi di attuazione delle<br />
linee guida i capitali stranieri: si veda a tale proposito la politica nazionale<br />
per lo sviluppo delle Nuove Tecnologie (République du Mali<br />
2006), in cui più del 75% delle fonti di finanziamento sono indicate<br />
come “fonti estere” e dove lo Stato investe poco più dell’1% del Pil per<br />
l’attuazione di tale piano. Sembra a volte di vivere in una situazione<br />
«drogata dagli aiuti umanitari» (De Waal, 1997) in cui si è persa completamente<br />
la fiducia nei confronti delle proprie capacità, che al contrario<br />
esistono e sono sotto gli occhi di tutti.<br />
MATTEO COLOMBO<br />
Le reti informali<br />
Considerato il ruolo della Banca Mondiale e la diffusione economica<br />
della Cina, si potrebbe avere l’impressione di essere di fronte ad uno<br />
scritto che si occupa più delle “esternalità” che del Mali. In realtà è proprio<br />
l’esternalità che si percepisce vivendo in Mali. Si ha l’impressione<br />
di vivere in un Paese, come altri africani del resto, in cui si può solamente<br />
subire la decisione di qualcun altro, in cui lo spazio per il cambiamento<br />
è inesistente. Guardando più a fondo, tuttavia, la forza di<br />
questo, come di altri Paesi, risiede proprio nella popolazione e nell’estrema<br />
complessità dell’organizzazione sociale 1 . Per comprendere la<br />
forza di questo sistema, si può ricorrere all’immagine dell’esercito, dove<br />
vige una disciplina ferma con ruoli chiaramente assegnati. Questa<br />
struttura è la forza stessa dell’esercito, e il collante della società, fermamente<br />
organizzata. A differenza dell’esercito, però, questo sistema prevede<br />
dei meccanismi di aiuto reciproco del più debole, creando delle<br />
reti sociali di sicurezza (Terry, 2002), spesso non riconosciute a livello<br />
formale dalle Organizzazioni internazionali e dagli stessi Governi, a<br />
causa della loro natura.<br />
Già alcuni decenni fa (M. Carton, 1979) si riconosceva la forza del<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
81
EVENTI & IDEE - IL MALI, L’AFRICA “CINESIZZATA”<br />
E&I<br />
settore informale come una risorsa per lo sviluppo economico di una<br />
città come Bamako. Voci inascoltate. Oggi sembra sempre più che le<br />
reti informali rimangano come una delle scarse risorse per il risanamento<br />
e la ripresa economica e sociale di un Paese che per decenni ha<br />
concesso molto o troppo, a seconda dei punti di vista, alle ingerenze<br />
esterne e che sta perdendo sempre più il treno dello sviluppo. Non<br />
bisogna tuttavia cadere nel mito dell’informale e dirsi che non esistono<br />
assolutamente margini di manovra nel settore formale: sarebbe semplicistico<br />
e irrealistico. Esistono, certo, dei margini di manovra, grazie alle<br />
spinte che vengono dal basso, dalla popolazione più che dalla cooperazione<br />
internazionale. Regolarmente sono avanzate delle istanze negli<br />
spazi formali forniti alle rappresentanze della cosiddetta società civile 2 .<br />
Il gioco sta nel capire quali siano gli spazi liberi, nella loro gestione e<br />
nel tentativo di allargarli quanto più possibile, usando i termini e i concetti<br />
cari ora al potere locale, ora a quello internazionale. Questa opera<br />
richiede una grande conoscenza, pazienza e perseveranza, tre qualità<br />
che non mancano certo in Mali. La sfida risiede nel trovare strumenti<br />
nuovi usando linguaggi vecchi, nel proporre delle soluzioni sfruttando<br />
tutte le contraddizioni all’interno del Paese e traendone quanti più<br />
benefici possibili per la popolazione.<br />
82<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Bibliografia<br />
China [Republic], Zhu ji chu, Statistical yearbook of the Republic of China<br />
2006, [Taipei, Taiwan], Directorate-General of Budget Accounting &<br />
Statistics Executive Yuan The Republic of China, 2007.<br />
A. De Waal, Famine crimes: politics & the disaster relief industry in Africa,<br />
London, African Rights & the International African Institute in association<br />
with James Currey, Oxford & Indiana University Press, Bloomington, 1997.<br />
M. Dhs, Demographic and Health Surveys, Usaid, 2007.<br />
Le Sphinx, ATT-cratie, la promotion d’un homme et de son clan, Harmattan,<br />
Paris 2006.<br />
L. Lombard, “Africa’s China card”, Foreign Policy, 2006.<br />
M. Carton, H. S., G. Nihan, Le secteur non structuré “moderne” de Bamako,<br />
République du Mali: esquisse des résultats de l’enquête et propositions pour un programme<br />
d’action, Organisation internationale du Travail, Genève 1979.<br />
R. McGregor, “Sino-African summit ends with swipe at critics”, Financial<br />
Times, 2006.<br />
M. République du Mali, Politique Nationale et Plan Stratégique National des<br />
Technologies de l’Information et de la Communication, M. d. l. C. e. d. N.<br />
Technologies, MNCT: 1-85, 2006.<br />
B. Sarrasin, Ajustement structurel et lutte contre la pauvreté en Afrique. La<br />
Banque mondiale face à la crise, Harmattan, Paris Montréal (Québec) 1999.<br />
F. Terry, Condemned to repeat?: the paradox of humanitarian action, Cornell<br />
University Press, London 2002.<br />
A.Wallis, “France, steeped in genocidal blood, must face trial”, Timesonline,<br />
2006.<br />
E&I<br />
MATTEO COLOMBO<br />
Note<br />
1<br />
A questo proposito, suggeriamo la lettura di un libro che, seppur occupandosi<br />
di un aspetto molto specifico e specificamente dedicato all’argomento, offre<br />
al lettore una visione complessiva dell’organizzazione sociale del Paese. G.<br />
Mugumya and United Nations Institute for Disarmament Research. (2004).<br />
Exchanging weapons for development in Mali : weapon collection programmes<br />
assessed by local people. Geneve, Switzerland, United Nations Institute for<br />
Disarmament Research.<br />
2<br />
Qui si usa il termine “società civile” così come riassunto da M. Edwards, Civil<br />
society, Polity Press, Malden 2004.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
83
EVENTI& IDEE-AMERICALATINA:UNA NUOVA STAGIONE...<br />
E&I<br />
Alla quinta Conferenza generale dell’episcopato dell’America<br />
Latina, Benedetto XVI ha sottolineato le sfide che attendono<br />
la Chiesa locale: relativismo morale, settarismo, tendenze<br />
indigeniste, povertà non solo materiale.<br />
America Latina:<br />
Una nuova stagione<br />
per l’evangelizzazione<br />
Fabio Zavattaro<br />
Èil continente della speranza dove vivono oltre il 42 per cento<br />
del miliardo e cento milioni di cattolici di tutto il mondo.<br />
Continente che vive una forte e vivace crescita economica<br />
che però non produce effetti uguali per tutti; anzi altrettanto<br />
vivace, se così possiamo dire, è la crescita delle disuguaglianze sociali. È<br />
ancora un continente che conosce un positivo processo di sviluppo<br />
degli assetti democratici, dopo gli anni delle dittature militari, ma è<br />
cammino ancora fragile segnato spesso da derive ideologiche di stampo<br />
populista. Ancora, i “messaggi culturali” che arrivano dal nord America<br />
e dall’Europa sono spesso colti nell’aspetto più negativo con conseguente<br />
perdita della specificità culturale del continente.<br />
Non poteva che iniziare dall’America Latina il viaggio di Benedetto<br />
XVI al di fuori dei confini dell’Europa. Prima visita al di là dell’oceano<br />
e per di più in un Paese simbolo, in un certo senso, del cattolicesimo: è<br />
qui che risiede l’episcopato più numeroso, è qui che è nata e si è sviluppata<br />
la Teologia della liberazione, con la quale l’allora cardinale<br />
Joseph Ratzinger si è trovato a fare i conti negli anni da prefetto della<br />
Congregazione per la dottrina della<br />
fede.<br />
Viaggio che aveva un altro motivo<br />
di interesse e di capacità progettuale:<br />
i lavori della quinta Conferenza<br />
generale dell’episcopato<br />
dell’America Latina e dei Caraibi,<br />
Fabio Zavattaro<br />
è vaticanista e inviato del Tg1. Ha di<br />
recente pubblicato I Santi e Karol,<br />
Ancora, Milano 2004 e realizzato i Dvd<br />
Giovanni Paolo II, un papa nella storia e<br />
Benedictus (edizioni Rai Trade 2005).<br />
84<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
che ha visto riuniti nel santuario di Aparecida – oltre sette milioni di<br />
fedeli ogni anno si fermano davanti l’immagine miracolosa della<br />
Madonna di Aparecida, che significa “apparsa”, trovata nel vicino<br />
fiume Paraiba da tre pescatori – 266 vescovi dal 13 al 31 maggio scorsi.<br />
Sullo sfondo i grande temi che animano il cammino della comunità<br />
cristiana, le luce e le ombre di una Chiesa che si è trovata a riflette sul<br />
tema «Discepoli e missionari di Gesù Cristo perché in Lui i nostri<br />
popoli abbiano vita». È la quarta volta che un Papa è presente ai lavori<br />
del Celam, segno di quanta attenzione è riservata a questo appuntamento<br />
proprio perché è in questo continente che si gioca il futuro del<br />
cristianesimo. È solo il caso di ricordare che Paolo VI aprì i lavori del<br />
secondo incontro dei vescovi latinoamericani a Medellin, Colombia<br />
anno 1968, con a tema «La Chiesa nell’attuale trasformazione<br />
dell’America Latina alla luce del Concilio Vaticano II». Erano gli anni<br />
dei profondi cambiamenti, anche politici, di una Chiesa che, attraverso<br />
le Comunità ecclesiali di base, poneva l’accento sulla giustizia sociale,<br />
sull’equa distribuzione delle ricchezze, sul rispetto dei diritti degli<br />
indigeni. Così undici anni più tardi a Puebla – Messico anno 1979 –<br />
Giovanni Paolo II si trova di fronte una Chiesa che ha proclamato e<br />
vissuto l’opzione preferenziale per i poveri anche attraverso una forma<br />
estrema di contestazione dei regimi, quella Teologia della liberazione,<br />
che poi sarà condannata dall’allora prefetto Ratzinger. Il tema di<br />
Puebla era: «L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America<br />
Latina». Tredici anni dopo è sempre Papa Wojtyla che a 500 anni dalla<br />
scoperta dell’America proprio dal mausoleo di Colombo a Santo<br />
Domingo, parla alla Chiesa del continente su «Nuova evangelizzazione,<br />
promozione umana e cultura cristiana».<br />
Già nei titoli di questi appuntamenti vediamo un’attenzione particolare<br />
al ruolo e alla missione della Chiesa nel continente. Così non è<br />
un caso che alla vigilia dell’apertura della quinta Assemblea il cardinale<br />
Claudio Hummes, prefetto della Congregazione per il clero, fino all’ottobre<br />
2006 arcivescovo di San Paolo in Brasile, abbia voluto sottolineare,<br />
tra le difficoltà, la sfida delle sette: ogni anno l’1 per cento dei cattolici<br />
lascia la Chiesa per le comunità neopentecostali, «ciò è dovuto<br />
all’espansionismo delle sette protestanti che attraggono un sempre<br />
maggior numero di cattolici battezzati», ha detto il porporato in un<br />
incontro a Roma prima del viaggio del Papa, «ma anche al relativismo<br />
morale importato dall’Europa e introdotto nel continente soprattutto<br />
dalle classi dirigenti locali, dai mass media e dagli intellettuali». La<br />
Chiesa latinoamericana, ha aggiunto, deve chiedersi «cosa non ha fatto<br />
e perché non è riuscita a radicare nei suoi battezzati una fede più<br />
profonda». Quanto alla Teologia della liberazione «non è più un pro-<br />
E&I<br />
FABIO ZAVATTARO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
85
EVENTI& IDEE-AMERICALATINA:UNA NUOVA STAGIONE...<br />
E&I<br />
blema di primo piano», ha affermato ancora il cardinale Hummes. Ci<br />
sono gruppi ancora forti in America Latina, ma in realtà ciò che di<br />
buono vi era nel movimento «è stato assimilato»; quello che la Chiesa<br />
invece non ha potuto accettare, è stata «la scelta marxista, violenta e<br />
anti-istituzionale» di alcuni teologi della liberazione.<br />
Benedetto XVI parla della quinta Conferenza di Aparecida come di<br />
una continuità con gli altri appuntamenti da Rio de Janeiro, 1955, l’unica<br />
riunione alla quale non è stato presente un Papa, a Medellin,<br />
Puebla e Santo Domingo. Parla, suscitando reazioni critiche, di un cristianesimo<br />
che da più di cinque secoli integrandosi con le etnie indigene,<br />
ha creato in America Latina «una grande sintonia pur nella diversità<br />
di culture e lingue».<br />
86<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Non hanno senso, dunque, certe tendenze indigeniste: «L’utopia di<br />
tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e<br />
dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso,<br />
un’involuzione». Il cristianesimo sa invece affermare che «i popoli latinoamericani<br />
e dei Caraibi hanno diritto a una vita piena», con alcune<br />
condizioni «più umane: liberi dalle minacce della fame e da ogni forma<br />
di violenza». Il problema a questo punto è come rispondere «alla grande<br />
sfida della povertà e della miseria?». Innanzitutto prendendo atto del<br />
fallimento di marxismo e capitalismo e del loro presupposto ideologico:<br />
«Le strutture giuste», rimarca il Papa, «sono una condizione indispensabile<br />
per una società giusta, ma non nascono né funzionano senza<br />
un consenso morale della società sui valori fondamentali e sulla necessità<br />
di vivere questi valori con le necessarie rinunce, perfino contro l’interesse<br />
personale». Il sistema marxista, «dove è andato al governo»,<br />
spiega ancora Benedetto XVI, «non ha lasciato solo una triste eredità di<br />
distruzioni economiche ed ecologiche, ma anche una dolorosa distruzione<br />
degli spiriti. E la stessa cosa vediamo anche all’Ovest», prosegue il<br />
Papa, «dove cresce costantemente la distanza tra i poveri e i ricchi e si<br />
produce un’inquietante degradazione della dignità personale con la<br />
droga, l’alcool e gli ingannevoli miraggi di felicità». Sono realtà solo i<br />
beni materiali, i problemi sociali, economici e politici?, si chiede<br />
Benedetto XVI, che risponde: qui sta «il grande errore delle tendenze<br />
dominanti dell’ultimo secolo, errore distruttivo, come dimostrano i<br />
risultati tanto dei sistemi marxisti quanto di quelli capitalisti». Chi,<br />
dunque, «esclude Dio dal suo orizzonte, falsifica il concetto di “realtà”<br />
e, in conseguenza, può finire solo in strade sbagliate e con ricette<br />
distruttive». Nei sistemi che mettono Dio tra parentesi, conclude il<br />
Papa, «c’è solo il fallimento».<br />
Ma Dio «non è un enigma indecifrabile», si manifesta in Cristo e<br />
«l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede in quel Dio<br />
che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà». La<br />
Chiesa, ripete Benedetto XVI, non è soggetto politico, e se lo diventasse<br />
«non farebbe di più per i poveri e per la giustizia, ma farebbe di<br />
meno», perdendo indipendenza e autorità. Inoltre le strutture giuste<br />
non sono mai definitive: c’è posto quindi per l’impegno dei politici<br />
cattolici e dei laici cattolici nell’ambito di una sana laicità. I cristiani,<br />
raccomanda Papa Benedetto, siano formati al catechismo, anche attraverso<br />
i mezzi di comunicazione, e educati a virtù sia personali che<br />
sociali.<br />
Altri campi prioritari dell’impegno della Chiesa sono la famiglia, la<br />
formazione dei preti, i laici. Se da un lato si riscontra una «notevole<br />
maturità della fede», si percepisce, dall’altro, «un certo indebolimento<br />
E&I<br />
FABIO ZAVATTARO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
87
EVENTI& IDEE-AMERICALATINA:UNA NUOVA STAGIONE...<br />
E&I<br />
della vita cristiana nell’insieme della società e della partecipazione alla<br />
vita della Chiesa cattolica, dovuto al secolarismo, all’edonismo, all’indifferentismo<br />
e al proselitismo di nuove sette, di religioni animiste e di<br />
nuove espressioni pseudoreligiose». Analizzare questa situazione nuova,<br />
è compito dei vescovi, perchè da questa conferenza «i fedeli sperano un<br />
rinnovamento e una rivitalizzazione della loro fede», «nuove strade e<br />
progetti pastorali creativi», e «una ferma speranza per vivere in maniera<br />
responsabile e gioiosa la fede».<br />
Fin qui le parole del Papa. La Conferenza dopo tre settimane di<br />
lavori, approva due testi – un breve Messaggio e un più corposo<br />
Documento finale – e lancia una Grande missione continentale, finalizzata<br />
a rafforzare la fede dei cattolici che normalmente vanno in chiesa<br />
ma, soprattutto, a cercare di raggiungere quei cattolici che hanno<br />
lasciato la Chiesa in cui sono nati.<br />
Ed è alla luce di questa attenzione che il documento finale, nel restituire<br />
dinamismo all’evangelizzazione, allude ai diversi problemi e sfide<br />
dei popoli latinoamericani. Così parla criticamente degli effetti perversi<br />
della globalizzazione, fa riferimento al debito estero dei Paesi, alla<br />
riforma agraria, alle migrazioni, alla corruzione e alla violenza. Su tutto<br />
quel portare il mondo alla grazia della fede che è compito e missione<br />
delle comunità ecclesiali: «L’incontro con Cristo», si legge nel documento<br />
finale, «grazie all’azione invisibile dello Spirito Santo si realizza<br />
nella fede ricevuta e vissuta nella Chiesa [...]. Nella Chiesa cattolica<br />
abbiamo tutto ciò che è buono, tutto ciò che è motivo di sicurezza e di<br />
consolazione. Chi accetta, nella sua totalità, il Cristo come cammino,<br />
verità e vita ha pace e felicità garantite, in questa e nell’altra vita”».<br />
Un ultimo tema, il messaggio che Papa Benedetto lascia ai giovani.<br />
La giovinezza «è una ricchezza singolare. Bisogna scoprirla e valorizzarla».<br />
Per questo dice: attenzione ai falsi maestri. «Gli anni che state<br />
vivendo sono gli anni che preparano il vostro futuro. Il domani dipende<br />
molto da come state vivendo l’oggi della giovinezza». La vita è una<br />
sola: «Non permettete che passi invano, non la sperperate». Le paure<br />
della gioventù di oggi «sono un deficit di speranza: paura di morire, nel<br />
momento in cui la vita sta sbocciando e cerca di trovare la propria via<br />
di realizzazione; paura di fallire, per non aver scoperto il senso della<br />
vita; paura di rimanere staccato, di fronte alla sconcertante rapidità<br />
degli eventi e delle comunicazioni». Registriamo «l’alta percentuale di<br />
morti tra i giovani, la minaccia della violenza, la deplorevole proliferazione<br />
delle droghe che scuote fino alla radice più profonda la gioventù<br />
di oggi». Si parla di gioventù sbandata - osserva Benedetto XVI – ma<br />
voi «siete i giovani della Chiesa. Vi invio perciò verso la grande missione<br />
di evangelizzare i ragazzi e le ragazze che vanno errando in questo<br />
88<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
mondo, come pecore senza pastore. Siate gli apostoli dei giovani». Voi<br />
giovani, dice ancora Benedetto XVI, «non siete soltanto il futuro della<br />
Chiesa e dell’umanità, quasi si trattasse di una specie di fuga dal presente.<br />
Al contrario: voi siete il presente giovane della Chiesa e dell’umanità.<br />
Siete il suo volto giovane. La Chiesa ha bisogno di voi, come<br />
giovani, per manifestare al mondo il volto di Gesù Cristo, che si delinea<br />
nella comunità cristiana. Senza questo volto giovane, la Chiesa si<br />
presenterebbe sfigurata».<br />
A conferenza conclusa, inizia il cammino della Chiesa locale, e la<br />
sua rinnovata capacità di rispondere alle speranze e alle attese della<br />
gente, in modo particolare della stragrande maggioranza di coloro che<br />
vivono in una situazione di povertà e di ingiustizia sociale: bisogna aiutarli,<br />
essere loro vicino «come facevano le prime comunità cristiane,<br />
praticando la solidarietà [...]. La gente povera delle periferie urbane o<br />
della campagna», ha affermato Papa Benedetto, «ha bisogno di sentire<br />
la vicinanza della Chiesa, sia nell’aiuto per le necessità più urgenti sia<br />
nella difesa dei suoi diritti e nella promozione comune di una società<br />
fondata sulla giustizia e sulla pace. I poveri sono i destinatari privilegiati<br />
del Vangelo».<br />
E&I<br />
FABIO ZAVATTARO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
89
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - LE DONNE NELLA “RIVOLUZIONE...<br />
Il processo di secolarizzazione ha evidenziato una profonda<br />
“asimmetria di genere” che nel corso del tempo ha assunto<br />
una pluralità di forme. Una delle più evidenti è quella della<br />
progressiva sessualizzazione della fedeltà al mondo<br />
religioso.<br />
Le donne nella<br />
“rivoluzione più lunga”<br />
Giuseppe Tognon<br />
Paola Gaiotti, la decana tra le storiche che studiano il movimento<br />
femminile cattolico, ma non solo questo, ci introduce nei meandri<br />
della spiritualità femminile moderna, dall’età della Restaurazione ai<br />
nostri giorni. L’ambito è quello italiano, ma la prospettiva è più generale.<br />
Riguarda la possibilità di declinare al femminile un fenomeno<br />
quale quello della spiritualità che nel rapporto tra l’umano e il divino<br />
supera l’assertività filosofica o teologica per abbracciare, oltre la sfera<br />
del pensato e del classificato, la dimensione storica. Il pensiero sociale<br />
non è che la cristallizzazione di un vissuto che chiede di essere rappresentato<br />
ed è dunque evidente che fino a quando i rapporti tra le donne<br />
e il mondo resteranno fissati secondo principi di disuguaglianza e di<br />
sudditanza non vi sarà dinamismo culturale sufficiente per progredire<br />
verso un’assunzione del femminile come prospettiva civile sostanziale,<br />
per un completamento sostanziale<br />
della prospettiva democratica, e,<br />
soprattutto, per una considerazione<br />
non soltanto critica della secolarizzazione<br />
moderna. Il rapporto tra il<br />
genere e la cittadinanza ha lentamente<br />
messo in crisi sia la pretesa<br />
che la differenza sessuale potesse<br />
essere a fondamento delle filosofie<br />
capitalistiche, liberali o antiliberali,<br />
sia la pretesa di risolvere il problema<br />
Giuseppe Tognon<br />
è professore ordinario di Storia<br />
dell’educazione alla Lumsa di Roma. Ha<br />
scritto, fra l’altro, su Cartesio, Leibniz,<br />
Gioberti, Croce e Gentile.<br />
Recentemente ha curato l’intervista a<br />
Pietro Scoppola: La democrazia dei<br />
cristiani: il cattolicesimo politico nell'Italia<br />
unita, Laterza, Roma 2006.<br />
90<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
attraverso una compensazione tra i sessi o un risarcimento delle donne.<br />
Quando anche sul piano dei diritti e della storia politica si fossero create<br />
tutte le condizioni formali per un riconoscimento a parte intera della<br />
femminilità, la parità resterebbe di fatto concessa e non sarebbe storicamente<br />
feconda, tanto meno rivoluzionaria.<br />
Ciò aiuta a spiegare perché l’esperienza di rottura del femminismo<br />
degli anni Settanta del Novecento sia stata particolarmente sensibile alla<br />
dimensione politica e alla dialettica tra potere e contropotere, da cui si<br />
attendevano quelle risposte di genere che avrebbero dovuto favorire una<br />
critica non soltanto dell’ingiustizia e della separatezza, ma del modello<br />
stesso di modernità così da risalire alle sue premesse originali. Questa<br />
fase di rottura non è stata, tuttavia, che l’ultima forma di un processo di<br />
differenziazione dell’universo femminile da quello maschile che ha coinvolto<br />
la Chiesa e che è diventato spesso il segno della sua difficoltà a rapportarsi<br />
con la modernità. La Chiesa cattolica – come ha ben evidenziato<br />
anche la tesi di dottorato di Rosetta Napoletano, Il genio femminile e<br />
il suo insorgere nel magistero e nella teologia spirituale degli ultimi decenni<br />
del XX secolo (1962-1999), Teresianum, Roma 2003 – solo negli ultimi<br />
decenni è passata da una considerazione del femminile come questione,<br />
al ritenerlo una risorsa, grazie alla Pacem in Terris di Giovanni XXIII e<br />
alla svolta conciliare, fino a riconoscerne la specificità, nel magistero di<br />
Paolo VI, primo pontefice a conferire il titolo di dottore della Chiesa a<br />
due donne, Teresa D’Avila e Caterina da Siena, e poi il “genio” nel magistero<br />
di Giovanni Paolo II e in particolare nella sua Mulieris dignitatem.<br />
Il libro di Paola Gaiotti è articolato in sei capitoli: a grandi linee, ma<br />
non con criterio solo cronologico, si rilegge la storia italiana dalla prima<br />
metà dell’Ottocento ai nostri giorni, così da fornire conferme interpretative<br />
alle questioni più generali esposte in una densa introduzione.<br />
In appendice al libro sono pubblicati i contributi di due altre studiose:<br />
di Roberta Fossati su La nuova passione etica del riformismo religioso,<br />
dove si segnala il coraggioso contributo di molte donne colte, tra la fine<br />
dell’Ottocento e i primi del Novecento al rinnovamento etico, teologico<br />
e liturgico sulla scia anche, ma non solo del movimento modernista; di<br />
Maria Teresa Garutti Bellenzier su La spiritualità delle donne nelle organizzazioni<br />
laicali, che tratta delle principali esperienze associative femminili<br />
cattoliche del secolo scorso, dall’Unione donne cattoliche alla<br />
Fuci femminile, a Rinascita cristiana, al movimento dei Focolari,<br />
all’Associazione guide italiane.<br />
La tesi di fondo della Gaiotti è che il processo di secolarizzazione che<br />
ha accompagnato la società moderna, ha evidenziato una profonda<br />
“asimmetria di genere” che nel corso del tempo ha assunto o, meglio,<br />
sviluppato, una pluralità di forme, non tutte convergenti verso un’unica<br />
GIUSEPPE TOGNON<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
91
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - LE DONNE NELLA “RIVOLUZIONE...<br />
soluzione. Una delle forme più evidenti è quella della progressiva sessualizzazione<br />
della fedeltà al mondo religioso, che vede l’universo femminile<br />
abbandonato da tempo da quello maschile in uno sforzo di fedeltà<br />
alla tradizione che rappresenta un potente richiamo alla continuità storica<br />
ma anche un rinvio alla radicale questione antropologica della persona<br />
umana. Altrettanto feconde sono state le forme che quell’asimmetria<br />
ha assunto in relazione al maggior impegno che le donne hanno<br />
dovuto dimostrare sul terreno della competizione imposta dagli schemi<br />
maschili. In molti casi, tuttavia, anche quando la riuscita delle donne<br />
viene letta come il segnale del compiersi del processo di democratizzazione,<br />
si perpetua lo stereotipo di considerare il “femminile” come fattore<br />
strumentale anziché rivelatore del bisogno etico e relazionale della<br />
democrazia moderna. Le donne che hanno dovuto occuparsi di loro<br />
stesse in chiave emancipativa hanno infatti trovato l’ostacolo aggiuntivo<br />
che la cultura dei diritti, o, in altri termini, la natura del diritto, aveva<br />
una connotazione tipicamente maschile e individualistica. Paola Gaiotti<br />
sostiene che «l’idea razionale e laica dell’individuo, onnipotente padrone<br />
del mondo e di sé, dominatore del futuro e della natura, tecnico ed<br />
inventore, afferma certamente il potere umano sulla storia e spinge<br />
all’innovazione senza limiti, ma si tratta di un privilegio maschile». Il<br />
tema vede una conferma proprio nella dimensione cristiana dove «nella<br />
rivendicazione della superiorità del concetto di persona su quello dell’individuo,<br />
non sembra aver mai, per quanto si sappia, fatto capolino la<br />
considerazione che solo il primo comprende anche la condizione dell’essere<br />
umano donna».<br />
Il ritardo della Chiesa in materia, per l’autrice solo parzialmente colmato,<br />
ha reso più difficile alla cultura cattolica l’utilizzazione delle categorie<br />
del personalismo per consolidare una linea alternativa convincente<br />
alla domanda laicista di liberazione delle donne. I ruoli sociali assunti<br />
dalle donne anche in dimensioni avanzate della vita sociale, nel<br />
campo della medicina, della cultura, dell’arte sono sempre stati dominati<br />
dall’idea dell’obbedienza, sia quella passiva che quella attiva che, attraverso<br />
la loro opera, veniva imposta al corpo sociale. Forse, a mio parere,<br />
l’unica dimensione che costituisce un’eccezione alla asimmetria di genere,<br />
è quella educativa e sentimentale, che la donna ha saputo quasi<br />
dovunque “saturare”, dapprima nella famiglia borghese con l’educazione<br />
affettiva dei figli piccoli e con la concentrazione dei legami affettivi<br />
all’interno della coppia, e poi nella società attraverso l’alfabetizzazione e<br />
la scuola che nel secolo scorso ha visto compiersi il più potente processo<br />
di femminilizzazione del lavoro, quello insegnante.<br />
La riflessione di Paola Gaiotti ha anche il pregio di resistere alla tentazione<br />
di esasperare l’“ulteriorità” della dimensione femminile come<br />
92<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
dato antropologico, per riproporla nella sua dimensione storica e laica.<br />
Alla base di questo sforzo interpretativo sta la condivisibile convinzione<br />
che solo attraverso una lettura storica delle concrete relazioni tra uomini<br />
e donne e dello sforzo delle donne di associarsi per meglio credere e di<br />
emanciparsi per meglio servire Dio e il mondo, è possibile offrire alla<br />
religione la prospettiva di superare gli stereotipi culturali occidentali che<br />
hanno oscurato il “femminile” nella “donna” e privato l’umanità e la<br />
Chiesa della fiducia necessaria per riconoscere che la secolarizzazione<br />
non è stata solo una maledizione moderna, ma anche l’occasione per<br />
recuperare una dimensione più missionaria e vitale del Sacro.<br />
GIUSEPPE TOGNON<br />
Il libro<br />
P. Gaiotti De Biase, Vissuto religioso e secolarizzazione. Le donne nella<br />
“rivoluzione più lunga”, Edizioni Studium, Roma 2006.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
93
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - RITRATTO DI PERIFERIA<br />
Uno studio della Caritas <strong>Italiana</strong> ci racconta dove sono e come<br />
cambiano le periferie delle nostre città. Per ripensare le<br />
modalità di intervento che devono essere rivolte a<br />
contrastare le spirali di abbandono che il nostro tempo tende<br />
a generare.<br />
Ritratto<br />
di periferia<br />
Antonio Mastantuono<br />
Diffuso in libreria a partire da fine maggio, La città abbandonata:<br />
dove sono e come cambiano le periferie italiane è il titolo di uno studio<br />
pubblicato dalla società editrice il Mulino e realizzato grazie a un<br />
intenso lavoro di due anni condotto dal progetto nazionale “Aree metropolitane”<br />
di Caritas <strong>Italiana</strong>, insieme al dipartimento di sociologia<br />
dell’Università <strong>Cattolica</strong> di Milano e alle Caritas diocesane di Torino,<br />
Genova, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catania e<br />
Palermo.<br />
Dieci le città coinvolte nel progetto, dieci i quartieri sottoposti a<br />
capillare analisi, due anni di confronto, di indagini, di ricerca sul<br />
campo: un percorso attento, documentato e “vissuto”, pensato per comprendere<br />
più a fondo una realtà, quella dei margini metropolitani, di cui<br />
spesso si discute, ma (almeno in<br />
Italia) in assenza di adeguate basi<br />
scientifiche di conoscenza. Dal viaggio<br />
nei dieci quartieri (Barriera di<br />
Milano, Begato, Forlanini/Ponte<br />
Lambro, Navile, Isolotto, Esquilino,<br />
Scampia, San Paolo, Librino, Zen)<br />
sono emersi dati, volti, storie e analisi<br />
relativi a realtà in profondo,<br />
radicale, disorientante mutamento.<br />
Un “viaggio” che ha condotto spesso<br />
i ricercatori «ad incontrare proble-<br />
Antonio Mastantuono<br />
è Assistente Nazionale del Miac e del<br />
Mlac. È professore di Teologia pastorale<br />
e Catechetica presso la Pontificia<br />
Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale<br />
(Napoli). Tra le sue pubblicazioni:<br />
Volontariato e profezia, EDB, Bologna<br />
1992; Volontariato, Piemme, Casale<br />
Monferrato 1997 2 ; La profezia straniera,<br />
San Paolo, Cinisello Balsamo 2002.<br />
94<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
maticità spesso schiaccianti – macigni che pesano sulla biografia di<br />
molti uomini, donne e bambini, segnandone il destino in questi territori<br />
– ma altrettanto evidenti risorse, personali e sociali, che sorprendentemente<br />
si producono dentro contesti strappati, nei quali molti continuano<br />
a mantenere un forte senso della propria dignità, una tenace volontà<br />
per non lasciarsi sopraffare dall’ambiente o, nel caso di tanti insegnanti,<br />
operatori sociali e volontari, per entrarci dentro e favorire la costruzione<br />
di forme alternative di ricomposizione sociale» (p. 13).<br />
La città come nuova questione sociale<br />
Il punto di partenza della ricerca è la convinzione che la città è «l’oggetto<br />
analitico (...) per leggere la trasformazione contemporanea» (p.<br />
19). Al sogno o alla paura di una città come luogo di omologazione si<br />
contrappone la realtà di una città frammentata e illeggibile, nella quale<br />
si moltiplicano i punti ciechi e si diffondono l’isolamento e la solitudine<br />
e dove prevale il senso di insicurezza e di paura. Le ricadute locali dei<br />
processi globali hanno fatto sì che «il baricentro della città (...) non è più<br />
la socialità interna, quella fra gli abitanti. Il centro di gravità sta piuttosto<br />
nell’essere un insieme di funzioni, di luoghi capaci di produrre eventi,<br />
di controllare popolazioni, di generare flussi (materiali e immateriali)<br />
che la attraversano e che, almeno in parte, sono fuori dal suo controllo e<br />
devono semmai essere attratti» (p. 27). Ed in questa città «la socialità<br />
diventa residuale nel senso che è sempre più accessoria e semmai ricondotta<br />
all’interno dei circuiti della produzione del valore mediante l’estetizzazione<br />
e l’emozionalizzazione» (p. 28).<br />
La ricerca ha evidenziato anche che le periferie non sono solo, o non<br />
sono più soltanto, quelle classicamente intese. Se si considerano le trasformazioni<br />
della città contemporanea sotto il profilo della mobilità<br />
interna ai quartieri e della ricchezza o meno di connessioni con l’esterno,<br />
l’indagine presenta un panorama in rapida e netta diversificazione.<br />
Alle tradizionali periferie che stanno “ai margini” della città, si affiancano<br />
infatti oggi, in termini di dinamiche di frammentazione, disagio e<br />
degrado, numerosi quartieri, magari storici o “centrali”, divenuti sempre<br />
più “sensibili” a determinate forme di esclusione. È questo il motivo<br />
per cui tra i quartieri indagati non ci sono solo Scampia a Napoli, lo<br />
Zen a Palermo o il genovese Begato, ma anche l’Esquilino di Roma,<br />
l’Isolotto di Firenze, Navile a Bologna e altri ancora. Ciò non vuol dire<br />
che “non ci sono più le periferie di una volta”, ma che oggi l’attenzione<br />
va amplificata ed estesa, perché la città non è più facile da leggere e capire<br />
come avveniva un tempo.<br />
L’indagine ha poi chiarito che non è più il tempo della pianificazione<br />
organica e razionale delle città, peraltro molto spesso fallita proprio<br />
ANTONIO MASTANTUONO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
95
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - RITRATTO DI PERIFERIA<br />
nei quartieri di periferia che dovevano certificarne l’efficacia. Oggi, nelle<br />
metropoli italiane, sembra di assistere, più che a un “progetto di città”,<br />
a una “città per progetti”, in cui si procede per accumulazione di idee,<br />
senza una visione di insieme e la possibilità di un confronto pubblico<br />
sulle scelte da fare, secondo logiche non tanto umanistiche, quanto di<br />
marketing del territorio. Per questo motivo si possono incontrare, in<br />
città come Milano, quartiere Forlanini/Ponte Lambro, cantieri che proliferano<br />
convulsamente, ma totalmente alieni rispetto al contesto in cui<br />
sono sorti, destinati a creare luoghi virtuali lontani da ogni comunità<br />
reale, già oggi cintati e chiusi a ogni sguardo indiscreto.<br />
I nuovi processi rendono dunque superata «l’idea di città quale realtà<br />
unitaria e coesa, inscritta in uno spazio fisicamente e simbolicamente<br />
delimitato e difesa da una altrettanto densa adesione identitaria…» (p.<br />
283) e pongono l’interrogativo su «come possa tenersi insieme una<br />
realtà sempre più disaggregata e disconnessa e quale tipo antropologico<br />
possa nascere da questa nuova esperienza urbana» (p. 285).<br />
Le povertà e i volti<br />
La risposta all’interrogativo prende l’avvio dall’analisi della dimensione<br />
povertà. Questa «divenendo fatto sociale, si rivela in grado di raccontare<br />
molto della natura dei rapporti umani e di misurarne la tenuta»<br />
(p. 285). Ma quale povertà?<br />
Trascorrendo del tempo, muovendosi entro gli spazi sensibili dei<br />
dieci quartieri analizzati, il lavoro di indagine ha potuto constatare<br />
come essi sembrino soffrire di una deprivazione di spazialità (e delle<br />
relative opportunità): sono tanti gli spazi vuoti e anonimi, privi di verde<br />
o di luoghi in cui incontrarsi; pochi sono anche gli spazi in cui ci si riconosce<br />
e in cui ci si può identificare.<br />
Molti individui e famiglie soffrono inoltre l’allontanamento dai luoghi<br />
di origine, le scarse opportunità di mobilità fisica e sociale, il confinamento<br />
nella località, un senso di segregazione. Sembra, insomma, che<br />
in molte periferie la socialità sia stata esiliata dalle mutazioni della città.<br />
E senza socialità resta l’abbandono, come una spirale, ad assorbire chi in<br />
quei quartieri è costretto a vivere, non potendone fuggire.<br />
«L’indebolimento delle reti integrative tradizionali, l’evidenziarsi di<br />
una progressiva disabilità a livello intersoggettivo e l’individualizzazione<br />
dei destini rendono sempre più difficile riconoscersi in una comune<br />
condizione, e dunque anche il dispiegarsi della solidarietà» (p. 286).<br />
In questo quadro la ricerca si spinge a identificare, dando un nome a<br />
percezioni che da tempo i centri di ascolto Caritas, veri osservatori delle<br />
periferie, vanno maturando, potenziali volti di particolari nuove<br />
povertà. I “respinti”, i “viaggiatori di seconda classe”, gli “eredi del wel-<br />
96<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
fare”, gli “alloggiati” che vengono descritti nel volume, sono persone e<br />
storie che, in comune, sperimentano una sofferenza profonda – “antropologica”,<br />
la definiscono gli autori – che li imprigiona in un territorio<br />
che non sentono più, se mai lo hanno sentito, come il loro luogo, una<br />
comunità dove avere dimora. Tutto questo non è avvenuto casualmente,<br />
e nella ricerca non manca una penetrante analisi della cause.<br />
Le risposte<br />
Ma ciò non deve far propendere per lo sconforto più disarmante,<br />
perché si incontrano anche «legature che tengono». Le periferie sono<br />
anche «l’esito di storie singolari in cui si sono andati sperimentando<br />
modelli integrativi, a volte originali, risposte adattative in reazione alle<br />
rappresentazioni esterne del quartiere, culture creole che sono andate<br />
intrecciandosi e radicandosi territorialmente, stili di convivenza tra<br />
popolazioni diverse che hanno costruito in qualche caso, e continuano a<br />
costruire, linguaggi ed azioni comuni» (p. 412).<br />
Una galassia di gruppi, diversi per forma organizzativa, per cultura,<br />
obiettivi... riuniti «sotto il termine di “società civile” o “mondi associati”».<br />
Anche le loro azioni sono estremamente diversificate: vanno dalla<br />
militanza alla difesa della qualità della vita, ad interventi di welfare – che<br />
a loro volta si differenziano in «azioni di prossimità solidale che si esplicitano<br />
nella relazione di cura e si orientano alla sfera socio-assistenziale;<br />
(...) e in promozione dell’inclusione sociale, che entra in contatto con la<br />
sfera economica» (p. 423) – fino ad azioni di contrasto alla marginalità<br />
e di espressione della soggettività.<br />
Un ruolo particolare è riconosciuto alle parrocchie ed alle attività di<br />
animazione che la Chiesa, più di altri soggetti istituzionali, ha continuato,<br />
tra mille difficoltà, a mantenere vive e vitali su queste frontiere.<br />
Queste sono continuamente sfidate, a fronte dei processi irreversibili di<br />
cambiamento sociale, a «riconnettere linguaggi, esperienze, contesti; a<br />
lavorare per rigenerare il senso del vivere insieme oltre i luoghi protetti<br />
delle parrocchie e delle associazioni ad esse collegate; (...) a tenere insieme<br />
la tensione tra la carità aperta a chiunque (...), il rischio di trasformare<br />
la stessa carità in una mera azione di assistenza, e l’importanza di<br />
rimettersi in discussione continuamente nella propria missione per ristabilire<br />
un legame sociale al di là del solo contesto locale» (p. 444).<br />
ANTONIO MASTANTUONO<br />
Una comunità cristiana in ascolto<br />
Il lettore attento potrà trovare nel testo certamente molto di più, per<br />
riflettere e interpretare ciò che attorno gli si muove. È importante, però,<br />
che tra i lettori non manchino gli operatori pastorali delle Chiese, delle<br />
Caritas e dei centri di ascolto: è con loro che la sfida va raccolta, ed è a<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
97
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - RITRATTO DI PERIFERIA<br />
loro che il progetto guarda per cominciare a realizzare quel cambiamento<br />
dal basso – nel senso di una nuova socialità capace di dialogo, coesione<br />
e solidarietà – in cui confidare come unica via possibile per “interrompere<br />
la spirale dell’abbandono”.<br />
La postfazione del Direttore della Caritas italiana, è un primo tentativo<br />
in tal senso. Si tratta, infatti, di capire come impostare una presenza<br />
rinnovata delle realtà ecclesiali nei “quartieri sensibili” delle nostre<br />
città, e nella città nel suo complesso; l’obiettivo, al tempo stesso, è mantenere<br />
la forza profetica di annuncio e testimonianza del Vangelo in un<br />
mondo che continua a cambiare e la capacità di comprendere a fondo<br />
dove tale cambiamento conduce, restando dalla parte dei più piccoli e<br />
poveri, denunciando l’ingiustizia ogni qual volta sia necessario.<br />
È questa la sfida, pratica ma anche teologico-pastorale, cui il progetto<br />
dovrà, proseguendo, attrezzarsi per rispondere. Per adesso esso consegna<br />
all’attenzione dell’operatore pastorale, attraverso i risultati della<br />
ricerca, importanti acquisizioni conoscitive, eludere le quali significherebbe,<br />
per le riflessioni e gli interventi concreti che saranno compiuti,<br />
rischiare di non andare davvero incontro alla città di oggi.<br />
Il libro<br />
Caritas <strong>Italiana</strong> (ed), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le<br />
periferie italiane (a cura di M. Magatti), il Mulino, Bologna 2007.<br />
98<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
Oggi, chi sono i laici cristiani cui la Chiesa affida il compito di<br />
esprimere opinioni autorevoli sulle questioni che interpellano<br />
la coscienza di tutti? A questa domanda cerca di dare risposta<br />
un saggio di Paola Bignardi, letto per noi da Giacomo Canobbio e<br />
Luigi F. Pizzolato.<br />
Il dirsi e il farsi<br />
del laico cristiano<br />
Giacomo Canobbio<br />
IL LIBRO & I LIBRI - IL DIRSI E IL FARSI DEL LAICO CRISTIANO<br />
Il 14 marzo 2007 Edoardo Patriarca sul quotidiano<br />
Avvenire pubblicava un articolo dal titolo “La forte convergenza<br />
del laicato variamente impegnato”. In esso tracciava<br />
un breve bilancio della maturazione del laicato cattolico<br />
nella Chiesa in Italia sotto la presidenza del card. Camillo<br />
Ruini. Tra le iniziative che mostrerebbero la vitalità dei laici<br />
sostenuti dalla Conferenza episcopale italiana vi sarebbero “Retinopera”<br />
e l’Associazione “Scienza & Vita”. A queste fa riferimento anche Paola<br />
Bignardi riconoscendovi «due esperienze che in forma diversa hanno<br />
cercato e stanno cercando di costruire tra il variegato mondo laicale una<br />
serie di legami che preludono ad una stagione nuova» (p. 83). (Al<br />
momento attuale qualcuno potrebbe aggiungere anche il “Family day”,<br />
sebbene questo pur promosso da laici cristiani si apriva a tutti coloro<br />
che hanno a cuore la famiglia). Ciò nonostante, Paola Bignardi non<br />
teme di parlare di «afasia del laicato» e qua e là lascia intravedere una<br />
valutazione non del tutto positiva<br />
circa la situazione della Chiesa in<br />
Italia: vi sarebbe un ritorno di clericalismo.<br />
Sembrerebbe di trovarsi di<br />
fronte a una contraddizione. A ben<br />
guardare però non pare si possa<br />
mantenere tale impressione. E lo si<br />
può affermare partendo da una<br />
osservazione fondamentale: si avver-<br />
Giacomo Canobbio<br />
è docente di Teologia sistematica<br />
presso il Seminario di Brescia e la<br />
Facoltà Teologica dell’Italia<br />
Settentrionale. E membro del Comitato<br />
di direzione di <strong>Dialoghi</strong>. Tra le sue più<br />
recenti pubblicazioni: Dio può soffrire?<br />
Morcelliana, Brescia 2005.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
99
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - IL DIRSI E IL FARSI DEL LAICO CRISTIANO<br />
te uno scollamento tra la vita quotidiana dei laici “normali” e l’organizzazione<br />
della vita ecclesiale ai livelli alti; a parere di alcuni si potrebbe<br />
stabilire un parallelo con lo scollamento che esiste tra gli attori politici e<br />
la gente comune. Il parallelo è certamente azzardato: la gente comune<br />
continua a mantenere fiducia negli ecclesiastici, sebbene i grandi media<br />
insinuino spesso sospetti. Quel che si può sostenere è, tuttavia, che un<br />
di più di dottrina (dal Vaticano II alla Christifideles laici con la riflessione<br />
teologica, anche vulgata, che questi hanno stimolato) non ha prodotto<br />
un di più di corresponsabilità. Il caso emblematico è costituito dal<br />
mancato funzionamento degli “organismi di partecipazione ecclesiale”<br />
(Consigli pastorali – parrocchiali, zonali e diocesani – e Consigli per gli<br />
affari economici).<br />
Per quali ragioni si sarebbe prodotto questo fenomeno? La risposta<br />
può essere articolata, e ovviamente non ha la pretesa di essere esaustiva. Si<br />
tratta di ipotesi finalizzate, qualora lo meritassero, ad aprire un confronto.<br />
Il primo aspetto riguarda l’organizzazione ecclesiale: appare sempre<br />
più complessa; si moltiplicano gli uffici e i convegni con l’intento di stimolare<br />
l’azione pastorale, ma si deve constatare che le ricadute sulla vita<br />
effettiva delle comunità e delle persone è scarsa; pare anzi che la Chiesa<br />
assomigli sempre più a una grande organizzazione sociale, che consuma<br />
energie per mostrare la sua vitalità. Non si può negare la necessità degli<br />
uffici e dei convegni. Ci si potrebbe però domandare se il compito dei<br />
primi non si debba intendere nella linea della sussidiarietà, e quello dei<br />
secondi nella ricerca selettiva di percorsi critici. Sarebbe certo da schizzinosi<br />
immaginare che non si debba dare spazio alla dimensione “celebrativa”.<br />
Ma, d’altra parte, ci si può anche domandare se la prevalenza di<br />
questa non crei l’impressione di una recezione convinta di direttive,<br />
anziché stimolare la riflessione: quando la riflessione è anzitutto eco di<br />
direttive, pure necessarie, dall’alto, difficilmente le persone imparano a<br />
costruire visioni per la vita ecclesiale, e questa, alla lunga, appare “cosa”<br />
solo di chi dà direttive.<br />
Il secondo attiene alla teologia dell’episcopato e al rischio dell’uso<br />
ideologico della stessa. È noto che il Vaticano II ha dato ampio spazio al<br />
ruolo dei vescovi: la riscoperta della sacramentalità e della collegialità<br />
del ministero episcopale va annoverata indiscutibilmente tra i grandi<br />
meriti dell’ultimo Concilio. Come avviene per ogni riscoperta, però,<br />
l’entusiasmo conduce a non cogliere che un solo aspetto della dottrina<br />
ecclesiologica non è tutta la dottrina. Ebbene, l’aver dichiarato che il<br />
vescovo, in quanto vicario di Cristo, è il principio e fondamento dell’unità<br />
nella Chiesa particolare (LG 23), ha fatto pensare che tutta la vita di<br />
una Chiesa debba dipendere dal vescovo, i cui gusti, a volte, diventano<br />
il criterio unico dell’impostazione pastorale, della spiritualità, del rap-<br />
100<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
porto con il territorio e con le istituzioni civili. E ciò sebbene il documento<br />
pastorale della Cei del 1977 Evangelizzazione e ministeri, con una<br />
formula un po’ ad effetto, dicesse che il ministero episcopale non è la<br />
sintesi dei ministeri, bensì il ministero della sintesi. La conseguenza,<br />
non certo voluta da parte dei redattori della Lumen Gentium, di tale<br />
visione è che ogni manifestazione dell’opinione ecclesiale sia solo dei<br />
vescovi. Questi – senza offesa per nessuno – sono esposti alla tentazione<br />
di esprimersi su ogni argomento, anche perché i media, che sono voraci<br />
cercatori di personaggi autorevoli, stimolano il desiderio di protagonismo,<br />
che solo una buona dose di ascesi riesce a tenere a bada. Per avere<br />
un riscontro di quanto detto si potrebbe vedere quanto spazio si dia<br />
all’opinione dei vescovi (soprattutto di alcuni) rispetto a quella di laici<br />
quando si tratta di questioni che attengono alla legislazione civile o al<br />
costume. Nulla da eccepire sulla necessità che il magistero episcopale si<br />
eserciti. Ci si potrebbe però domandare se una sovraesposizione dei<br />
vescovi non faccia passare l’idea – che si riteneva superata grazie alla<br />
cosiddetta ecclesiologia di comunione – che la Chiesa, in ultima analisi<br />
sia costituita prevalentemente (se non solo) dai vescovi. Certo, quando<br />
sono in gioco valori etici di alto profilo e questioni dottrinali è<br />
necessario che chi ha il compito di “custodire il deposito della fede”<br />
faccia udire la sua voce. Ma forse con meno tempestività e con minore<br />
“solitudine”: anche i cristiani laici hanno l’instinctus Spiritus sancti e, se<br />
si vuol credere a quanto scrive LG 37, potrebbero offrire ai pastori elementi<br />
perché essi possano giudicare con più chiarezza (clarius) e più<br />
adeguatamente (aptius) in questioni sia spirituali sia temporali. Va<br />
messo in conto un’eterogenesi dei fini quando la funzione di guida dei<br />
pastori è sovradeterminata.<br />
Il terzo aspetto riguarda la comunicazione. Forse mai come in questo<br />
tempo l’episcopato è stato solerte nell’esercizio del magistero. Questo è<br />
però diventato sovrabbondante. È vero che si tratta – come s’usa dire –<br />
di magistero pastorale. Ma non si è lontani dalla realtà se si afferma che<br />
buona parte di questo raggiunge la “base” ecclesiale prevalentemente in<br />
forma di slogan, che ovviamente semplificano il pensiero, negano l’argomentazione,<br />
riducono i contenuti. E la conseguenza è che si creano<br />
“partiti” sulla base di una recezione che banalizza le prospettive. Se si<br />
rileggessero alcune polemiche che hanno attraversato la vita ecclesiale<br />
degli ultimi anni non sarebbe difficile trovare un riscontro a quanto<br />
detto. Il dialogo langue, la capacità argomentativa diminuisce, per<br />
lasciar posto di nuovo al principio di autorità, la quale, peraltro, a causa<br />
della frequenza degli interventi rischia di perdere autorevolezza: se per<br />
ogni tema si può ricorrere a un documento, non si è più stimolati a cercare<br />
ragioni; si sarà portati a cercare chi dà ragione. Si potrà obiettare<br />
GICAOMO CANOBBIO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
101
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - IL DIRSI E IL FARSI DEL LAICO CRISTIANO<br />
che la “colpa” non è dei vescovi, bensì dei media maliziosi o anche dei<br />
cristiani che non si preoccupano di leggere interamente i documenti.<br />
Ma se così fosse, ci si potrebbe anche domandare, quale vantaggio si<br />
abbia a non cambiare strategia. Si racconta che il card. Manning, famoso<br />
convertito inglese della seconda metà del secolo XIX, auspicasse che<br />
ogni mattina insieme con il quotidiano Times gli fosse recapitato un<br />
intervento autorevole del Papa. Se vivesse oggi, forse vedrebbe insieme<br />
con il Times un discorso del Papa o un documento “pastorale” di qualche<br />
ufficio della conferenza episcopale o della diocesi. Va poi osservato<br />
che in genere i documenti prospettano mete alte (morali e pastorali), ma<br />
non sempre mettono in evidenza le difficoltà che le persone “normali”<br />
incontrano a muoversi verso quelle mete. E chi non ce la fa, ha l’impressione<br />
di non appartenere alla Chiesa oppure si crea una sua visione<br />
che non fa conto di quanto viene indicato dai documenti.<br />
Lettura pessimistica? Può essere. È comunque la percezione che<br />
molti sperimentano.<br />
La via di uscita pare sia quella di dare avvio (o far funzionare) ai<br />
cosiddetti luoghi di “discernimento comunitario”, nei quali le persone<br />
imparano ad ascoltare e a ragionare. Si è tutti d’accordo che i fedeli laici<br />
non maturano la corresponsabilità ecclesiale grazie all’enunciazione di<br />
principi teologici, bensì attraverso pratiche che mostrano il valore di<br />
quei principi. Per questo più che di una nuova riflessione teologica sui<br />
laici c’è bisogno di attuare quanto il Vaticano II ha indicato.<br />
102<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
Luigi F. Pizzolato<br />
IL LIBRO&I LIBRI<br />
interrogativo sollevato da Paola Bignardi è comprensibile, anche<br />
L’ se suona un po’ sconcertante in un’epoca in cui alte questioni<br />
sensibili dell’etica cristiana pervengono all’agenda politica dove sono<br />
sottoposte ad una discussione serrata in vista d’una loro regolazione<br />
dentro la società civile, che, nella guadagnata distinzione tra politica e<br />
religione, era compito di laici. Ma è proprio per la centralità di tali questioni<br />
che il laicato tende a cedere la primazia (per una specie di primogenitura)<br />
a chi di quelle questioni ha il compito di garantire l’aggancio<br />
con l’opzione fondamentale. È però “normale” che si ceda la prima linea<br />
anche nel campo della conclusione pratica politica vera e propria, e non<br />
solo in quello culturale e di formazione delle coscienze? O ciò non segna<br />
un arretramento di fronte alle posizioni della Chiesa in Italia, quelle<br />
conciliari e quelle successive alla scelta religiosa? Si ha l’impressione che<br />
la posizione conciliare sulla laicità sia non cancellata, ma per il momento<br />
conservata in ibernazione, in attesa di una normalizzazione del dibattito<br />
etico-politico che ne libererebbe le potenzialità “minori”. Sembra<br />
quindi che alcune questioni etiche civili siano giudicate troppo serie per<br />
essere lasciate ai laici: e ciò pare talvolta non rispondere ad una constatazione<br />
storica di (ancora) insufficiente preparazione del laicato che esigerebbe<br />
(ancora) tutele e supplenze, ma un dato, per così dire, acronico,<br />
strutturale.<br />
Noi siamo persuasi che la laicità del Concilio e della Chiesa di<br />
Montini esista ancora in Italia e che nuovi orientamenti pastorali e la<br />
domanda da porre è se l’emergenza culturale sia così intensa da giustificare<br />
una supplenza così pervasiva da parte della gerarchia che arrivi fino<br />
alla determinazione di modalità di azione politica concrete.<br />
D’altra parte, siamo convinti che tra i cattolici italiani esista più laicato<br />
che laicità e, a volte, perfino un laicato senza laicità, che diventa<br />
perciò semplice categoria sociologica, non teologica. Quando si può<br />
affermare che il Concilio ha recepito la migliore teologia del laicato in<br />
circolazione, si rischia di svalutare gli sforzi che è costata l’elaborazione<br />
preconciliare della teologia del laicato,<br />
anche in Italia e delle “lacrime e<br />
sangue” che essa ha fatto versare. E<br />
della (relativa) definitività a cui essa<br />
in qualche misura aspirava, almeno<br />
per la normalmente lunga stagione<br />
di cui sempre abbisogna la recezione<br />
delle posizioni conciliari. L’allinearla<br />
Luigi F. Pizzolato<br />
è professore ordinario di Letteratura<br />
cristiana antica presso l’Università<br />
<strong>Cattolica</strong> del Sacro Cuore di Milano<br />
e Preside della facoltà di Lettere<br />
e Filosofia dell’Ateneo.<br />
LUIGI F. PIZZOLATO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
103
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - IL DIRSI E IL FARSI DEL LAICO CRISTIANO<br />
invece già adesso accanto ad altre posizioni (quali? e di che spessore? e di<br />
che esperienza laicale provviste?) la espone al rischio di essere dichiarata<br />
superata prima ancora di essere stata recepita dalla mentalità cristiana<br />
comune. Che se poi delle posizioni teologiche critiche nei confronti<br />
della concezione conciliare della laicità si va a guardare il punto d’arrivo<br />
(respice finem: dicevano gli antichi) delle conclusioni pratiche, si scorge<br />
un silenzio – sdegnoso o imbarazzato non si sa – o una desolante<br />
povertà per quanto attiene l’impegno critico nel campo delle realtà<br />
socio-politiche, se non addirittura una pratica assenza di discernimento.<br />
E allora – ci chiediamo – se il risultato è questo, non è che sia sbagliato<br />
il procedimento?<br />
Il fatto è che una nuova teologia sul laicato non si è imposta e però<br />
ha bloccato la prima, portando ad una situazione sterile di surplace e di<br />
incertezza, che viene sfruttata non per migliorare ma per distruggere<br />
quella categoria. Ma c’è ancora qualcuno oggi che possa credere che<br />
dentro il mondo ecclesiale italiano il rischio epocale più grave sia quello<br />
del “laicalismo” e non (ancora) quello del “clericalismo”?<br />
104<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
L’indebolimento di quella teologia forte ha trovato un alleato inaspettato<br />
nel recupero del senso religioso, che, in assenza d’una precisa<br />
teologia del laicato, rischia di restringersi alla via del sacro, cioè della<br />
religione ristretta solo all’ambito del “separato” e non aperta anche allo<br />
spazio dell’umano comune. E i laici vengono riportati a interpretare il<br />
loro ruolo “in quanto cristiani”, non “da cristiani”, per stare ad una formula<br />
maritainiana che Lazzati ha rigorosamente elaborato in Italia; ad<br />
avere, dentro la Chiesa, compiti paraclericali e, nella società, compiti di<br />
mera esecuzione di direttive elaborate altrove. La mediazione non è più<br />
teorizzata in maniera seria, ma nel migliore dei casi lasciata vivere nella<br />
prassi pastorale ravvicinata, dove coltiva – per fortuna – la sua sussistenza<br />
spesso clandestina. E nella politica sì, ma solo laddove non siano in<br />
gioco – come abbiamo detto – elementi troppo importanti per essere<br />
lasciati ai laici.<br />
Certo – e la Bignardi non manca di rilevarlo – la diaspora politica<br />
dei Cattolici non ha favorito, come avrebbe dovuto, la laicità come<br />
esplicazione motivata di una particolare scelta ideologica. Il pensiero<br />
debole ha trasformato la diaspora (che parla di disseminazione su vari<br />
terreni di germi fecondi) in “libera uscita”. Cadute le ideologie che, pur<br />
con tutte le loro rigidità e prevaricazioni, facevano da camera di compensazione,<br />
il laico in diaspora, per accreditarsi di più agli occhi della<br />
Chiesa, si millanta come il tutore più integrale possibile dei valori cristiani:<br />
non importa se al prezzo di rendere sempre più conflittuale e<br />
discordante la società e di rompere la gradualità dell’etica (politica).<br />
Sulle categorie di laici elencate dalla Bignardi (pp. 28 ss.) sembra prendere<br />
oggi il sopravvento quella degli “atei devoti”, che umiliano un ossequio<br />
alla religione e al sacro per avallare scelte culturali d’altro segno.<br />
Essi non danno ragione (non la sanno dare e non gliene importa nulla),<br />
ma accostano e sembrano dire: vedete voi! E noi vi vediamo in realtà più<br />
farisaismo che testimonianza coerente.<br />
Qualcuno – come il lodevole Savino Pezzotta a Verona -– si arrischia<br />
a stabilire una distinzione: la Chiesa dia la totalità dell’annuncio e si<br />
lasci ai laici la responsabilità della traduzione politica. E subito è accusato<br />
di polarizzazione indebita. E perfino con qualche ragione, perché, se<br />
si esprime solo la totalità dei valori e non si giustifica né si prepara contestualmente<br />
la modalità della mediazione, i laici si sentono colpevolizzati<br />
e frustrati nell’esecuzione del difficile compito di realizzare la loro<br />
fede in una società composita che li lascia sempre nell’incertezza. E perché<br />
la Chiesa, nel momento in cui (sempre) investe i laici della responsabilità<br />
immane della traduzione politica dei loro valori e a volte chiede<br />
loro di difendere la “non negoziabilità” di essi salvaguardando nel contempo<br />
bene comune e pace sociale, chiedendo testimonianza e vittoria<br />
LUIGI F. PIZZOLATO<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
105
IL LIBRO&I LIBRI<br />
IL LIBRO & I LIBRI - IL DIRSI E IL FARSI DEL LAICO CRISTIANO<br />
nello stesso tempo, non simpatizza (almeno qualche volta) più pienamente<br />
e cordialmente con loro, riconoscendo almeno le buone intenzioni<br />
con cui essi non lastricano l’inferno, ma spesso la loro via Crucis?<br />
Prendendo sul serio l’interrogativo di Paola Bignardi, qualcuno tenterà<br />
la rianimazione della teologia del laicato? Un piccolo ma prezioso<br />
segnale positivo viene dall’enciclica Deus caritas est di Papa Benedetto,<br />
laddove egli dice che è compito «immediato» dei fedeli laici «operare per<br />
un giusto ordine nella società!» (n. 29). Se il senso del passo rinvia alla<br />
Christifideles laici di Giovanni Paolo II (n. 42), quell’aggettivo “immediato”<br />
riprende ultimamente l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi<br />
di Paolo VI (n. 70), dove si afferma che «compito primario e immediato<br />
[dei laici] non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale<br />
– che è il ruolo specifico dei Pastori –, ma è la messa in atto di tutte le<br />
possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti ed operanti<br />
nella realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice<br />
è il mondo vasto e complicato della politica». Dentro l’enciclica di<br />
Benedetto XVI quell’aggettivo non è una presenza né casuale né debole,<br />
perché vi è (sempre al n. 29) espressamente distinto dal compito<br />
“mediato” della Chiesa comunità. Il ritorno in scena dell’immediatezza<br />
del ruolo dei laici nella politica ci è ancor più gradito per il fatto che<br />
quel riferimento della Evangelii nuntiandi, a cui – non lo nascondiamo<br />
– ci eravamo tanto affezionati, era stato inopinatamente pretermesso nel<br />
recente Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), che pure<br />
per 9 volte cita quell’esortazione apostolica.<br />
La laicità “conciliare” è però, secondo noi, destinata a riemergere per<br />
forza di cose, nonostante la ripresa prepotente del sacro, perché la<br />
società è destinata – purtroppo – a continuare la sua corsa secolarizzatrice<br />
anche proprio grazie a quanti accolgono il sacro in maniera strumentale<br />
per evitare di trarre le conseguenze pratiche coerenti col loro essere<br />
cristiani. Il fatto che ora da più parti si parli di “meticciato”, cioè di<br />
fecondazione reciproca di culture, chiama in causa chi è destinato ad<br />
operare immediatamente, appunto, la traduzione dei principi primi (o<br />
dei fini ultimi) di una cultura e religione nelle regole d’una città non<br />
solo pluralistica, ma plurireligiosa. Verrà forse il momento di revisionare<br />
quella Carta dei diritti umani che, pur tanto lungimirante, aveva, per<br />
ragioni storiche, pretermesso il dialogo con nuove famiglie religiose che<br />
allora non si ponevano sulla scena mondiale in modo così prepotente<br />
come oggi. Certo: non deve essere abbandonata la scelta della missione<br />
con l’obiettivo della conversione, ma più realisticamente sarà un incontro<br />
sui fini penultimi che permetterà alla nostra società di trovare una<br />
pace sociale, a partire da principi diversi e talvolta inconciliabili sul<br />
piano teorico e dogmatico. E sarà questo ancora, per i cristiani, compi-<br />
106<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
IL LIBRO&I LIBRI<br />
to primario e immediato del laicato che, informato ai principi fondamentali<br />
e compiuti della propria famiglia spirituale, potrà mediare quei<br />
valori per farli così vedere come valori pienamente umani, anche se la<br />
loro origine si radica per essi nel profondo della loro fede. Si ripresenterà<br />
sempre – volenti o nolenti – l’occasione di far collaborare anche quelli<br />
che non credono come noi alla vocazione divina dell’uomo di costruire<br />
il mondo in Regno – anche se non sanno che cosa esso sia – attraverso la<br />
legge delle cose create, che è comunque legge di grazia. E non risulta un<br />
caso che le istituzioni laicali uscite dalla grande stagione della teologia<br />
del laicato preconciliare e conciliare proprio alla figura del Regno si<br />
richiamino, finalizzando ad esso sia la Chiesa del tempo sia la mondanità<br />
autosufficiente. Nel Regno c’è il trascendente segno dell’incontro<br />
tra Chiesa e mondo, che sarà reale e pieno alla fine del tempo, ma può<br />
essere parzialmente e misteriosamente anticipato nella storia, a partire<br />
sia dalle regole della Chiesa sia dalle regole del mondo. Per attuare l’incontro<br />
misterioso, il laico credente, che conosce le prime, partirà preferibilmente<br />
dalle seconde. E costruirà così il mondo in Regno anche<br />
insieme con chi non può (ancora) passare attraverso la Chiesa che sta<br />
nel tempo.<br />
LUIGI F. PIZZOLATO<br />
Il libro<br />
P. Bignardi, Esiste ancora il laicato? Una riflessione a 40 anni dal Concilio,<br />
Editrice AVE, Roma 2006.<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
107
PROFILI<br />
PROFILI - ROBERT BADEN-POWELL. LE VIRTÙ ANTICHE...<br />
I cento anni dello scautismo. Un movimento dalle dimensioni<br />
mondiali, figlio di un originale approccio pedagogico alle<br />
virtù del cittadino e, a seconda delle scelte compiute dalle<br />
diverse associazioni in materia religiosa, del credente.<br />
Robert Baden-Powell.<br />
Le virtù antiche e moderne<br />
dell’uomo di frontiera<br />
Vincenzo Schirripa<br />
Milioni di giovani e adulti coinvolti nello scautismo, in quest’anno<br />
di celebrazioni per il suo centenario, hanno rinnovato solennemente la<br />
propria Promessa. Con qualche variazione più o meno lieve, le formule<br />
della Promessa e della Legge scout resistono all’usura del tempo, sintetizzano<br />
il panorama valoriale di un movimento dalle dimensioni mondiali<br />
e dai tratti particolarmente sfaccettati e tracciano i contorni di un<br />
originale approccio pedagogico alle virtù del cittadino e, a seconda delle<br />
scelte compiute dalle diverse associazioni in materia religiosa, del credente.<br />
La memoria di Robert Baden-Powell (1857–1941) 1 ha anch’essa un<br />
ruolo fondamentale nel cementare il senso di appartenenza e l’autoconsapevolezza<br />
di un movimento che pure si è espresso in forme estremamente<br />
variegate nel tempo e nello spazio. A distanza di tanti anni, e a<br />
valle di una complessa e multicentrica evoluzione metodologica che ha<br />
visto le singole associazioni elaborare<br />
adattamenti di maggiore o minore<br />
rilievo rispetto al modello originario,<br />
le fonti principali a nostra<br />
disposizione per definire chi siano e<br />
cosa facciano gli scout restano gli<br />
scritti del fondatore 2 . E si tratta di<br />
materiali densi di richiami autobiografici:<br />
avvalendosi delle proprie<br />
capacità di narratore, egli delinea<br />
l’idealtipo dello scout rifacendosi<br />
Vincenzo Schirripa<br />
è cultore di Storia Contemporanea<br />
presso l’Università di Messina, insegna<br />
Storia del Movimento Cattolico presso<br />
l’ISSR di Reggio Calabria. Ha pubblicato<br />
recentemente una monografia dal titolo<br />
Giovani sulla frontiera. Guide e scout<br />
cattolici nell’Italia Repubblicana (1943-<br />
1974), Studium, Roma 2006.<br />
108<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
PROFILI<br />
direttamente al proprio vissuto, raccontando di sé. Lo scouting, spiega<br />
Baden-Powell 3 , è stato un aspetto comune alla sua vita numero uno, da<br />
ufficiale dell’esercito britannico, e alla sua vita numero due, al vertice di<br />
una vera e propria internazionale giovanile per la pace fra i popoli.<br />
Primo teorico dello scautismo e nel contempo primo biografo di se stesso,<br />
il fondatore degli scout ha tracciato un percorso molto marcato<br />
attraverso i propri scritti: può darsi sia possibile praticare lo scouting con<br />
qualche risultato senza conoscerli direttamente, ma non è possibile, si<br />
può affermare con Mario Sica 4 , tentare di definirlo senza farvi riferimento,<br />
tanto l’identità del metodo e del movimento scout è legata all’esperienza<br />
del suo artefice.<br />
La fama di Baden-Powell risale alla guerra anglo-boera. La difesa<br />
della cittadina di Mafeking, durata sette mesi e vissuta con grande partecipazione<br />
in patria, gli fruttò nel 1900 il grado di maggiore generale e<br />
un’eccezionale notorietà. Negli anni immediatamente successivi si delineò<br />
la sfida pedagogica sulla quale egli intese investire la propria reputazione<br />
di eroe, rielaborando le esperienze e le riflessioni che aveva maturato<br />
intorno allo scouting. Termine, questo, da mettere a fuoco alla luce<br />
di quanto Baden-Powell scrive sulla propria giovinezza, segnata da un<br />
particolare clima familiare – molti fratelli e una figura materna particolarmente<br />
autorevole; del padre, pastore anglicano e professore a Oxford,<br />
era rimasto orfano a tre anni –, alimentata dal gusto per l’avventura e il<br />
gioco all’aria aperta, orientata alla scoperta dei propri talenti – il disegno,<br />
la recitazione, l’intelligenza pratica e la capacità di tenere gli altri di<br />
buon umore – e alla possibilità di trarne profitto per sé e per il prossimo.<br />
Nello scouting rientra ciò che egli aveva imparato a contatto con le<br />
popolazioni indigene delle colonie e con le esigenze concrete della vita<br />
militare. L’arte dell’osservazione e la scienza dei boschi, il lavoro per pattuglie<br />
e una leadership basata sulla fiducia vennero validate dalla sua<br />
esperienza come efficaci strumenti di formazione del carattere: per essere<br />
buoni soldati, secondo Baden-Powell, occorreva sviluppare il senso di<br />
responsabilità, lo spirito d’iniziativa, la capacità di trarsi d’impaccio,<br />
qualità che i metodi di istruzione tradizionali non erano sufficienti, o<br />
meglio, si astenevano consapevolmente dal coltivare. Dopo Mafeking,<br />
dall’applicazione dello scouting in ambito civile egli confidò di poter<br />
trarre un programma di attività efficaci e motivanti per il risanamento<br />
fisico e morale della gioventù del suo Paese. Un’intensa esperienza di<br />
gioco e di crescita, un forte senso di appartenenza, un elevato investimento<br />
morale, libero e personale, da parte di ciascuno: con il riferimento<br />
al codice d’onore della cavalleria – che nella mitologia dello scautismo<br />
risalta accanto al modello dei popoli selvaggi, degli esploratori e<br />
degli uomini di frontiera – Baden-Powell traspose in un linguaggio com-<br />
VINCENZO SCHIRRIPA<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
109
PROFILI<br />
PROFILI - ROBERT BADEN-POWELL. LE VIRTÙ ANTICHE...<br />
prensibile ai giovani il vincolo di fedeltà che doveva cementare il tutto.<br />
L’alto tenore spirituale di questa impostazione e le applicazioni estremamente<br />
originali ed efficaci che se ne diedero in ambito cattolico meriterebbero<br />
una trattazione a parte.<br />
Il 1907 è l’anno in cui Baden-Powell, intento nel dare al suo progetto<br />
la forma di un libro – che uscì l’anno successivo con il titolo Scouting<br />
for boys 5 –, lo sottopose a una prima verifica sperimentale: a Brownsea,<br />
una piccola isola nella baia di Poole, ebbe luogo sotto la sua guida il<br />
primo campo scout, che coinvolse circa venti ragazzi. Una volta messo a<br />
punto lo scautismo come metodo, l’adesione spontanea di giovani entusiasti<br />
e di volenterosi educatori rese necessario strutturarlo come movimento.<br />
Esso assunse rapidamente dimensioni internazionali e assorbì il<br />
suo leader a tal punto da indurlo, nel 1910, alle dimissioni dall’esercito.<br />
Con un radicale mutamento di prospettiva, Baden-Powell spese la sua<br />
vita numero due legando la propria creatura alla causa della fraternità<br />
mondiale. Una scelta celebrata nei periodici raduni internazionali che<br />
presero il nome di jamboree, e che egli, senza mai smettere di confidare<br />
nella possibilità di costruire un mondo pacificato a partire dall’educazione,<br />
presiedette nella qualità di Capo scout del mondo.<br />
Un tratto tipico del modello di leadership che lo scautismo ha appreso<br />
dal suo fondatore è l’autoironia: dotato di una brillante capacità di<br />
gestire la propria immagine, Baden-Powell si pone consapevolmente<br />
come modello, ma in maniera quanto mai antiretorica. Questo stile ha<br />
avuto una sua efficacia nel trasmettere allo scautismo un profilo di educatore<br />
non autoritario, disponibile a dare fiducia ai ragazzi e a coltivarne<br />
lo spirito critico, anche a proprie spese; ma ha avuto anche un merito<br />
nello scoraggiare superflue devozioni all’icona del Fondatore. Nella<br />
pubblicistica interna al movimento si può cogliere qualche sfumatura<br />
agiografica, ma in misura tutto sommato accettabile. Si presterebbero<br />
invece a letture vagamente freudiane i fenomeni di rimozione - o di<br />
feroce smitizzazione – che ebbero luogo a partire dagli anni Sessanta:<br />
una certa tendenza a prendere le distanze dal generale, per via della sua<br />
estrazione militare e dell’impostazione borghese della sua riflessione,<br />
ebbe diffusione per alcuni anni all’interno del movimento, confermando,<br />
in fin dei conti, l’impossibilità da parte degli scout di definirsi o<br />
ridefinirsi – anche radicalmente - senza fare i conti con l’eredità ricca e<br />
complessa del proprio anziano genitore, con i modelli di virtù antiche e<br />
moderne da lui additati e con la sua affascinante personalità.<br />
110<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007
PROFILI<br />
Note<br />
1<br />
Cfr. Tim Jeal, Baden-Powell, Hutchinson, London 1989. In italiano, un’agile<br />
sintesi è offerta in Fulvio Janovitz, B.-P. e la grande avventura dello scautismo,<br />
Nuova Fiordaliso, Roma 2003, e, sulle origini del movimento, in Domenico<br />
Sorrentino, Storia dello scautismo nel mondo, Nuova Fiordaliso, Roma 1997.<br />
2<br />
Un utile strumento al riguardo si deve a Fr. Carlo Muratori, Robert Stephenson<br />
Smith Baden-Powell. Bibliografia completa delle opere in italiano e in inglese,<br />
Biblioteca Provinciale Cappuccini, Bologna 2007.<br />
3<br />
Nella sua autobiografia Lessons from the “Varsity of Life”, C. Arthur Pearson<br />
Ltd., London 1933, di cui Mario Sica ha curato, integrandola con altri scritti,<br />
un’edizione italiana dal titolo La mia vita come un’avventura, Nuova Fiordaliso,<br />
Roma 2003.<br />
4<br />
Diplomatico, esperto di caratura internazionale della storia del movimento – è<br />
giunta alla quarta edizione la sua Storia dello scautismo in Italia, Nuova<br />
Fiordaliso, Roma 2006 –, Sica ha curato molte edizioni in italiano e inglese<br />
degli scritti di Baden-Powell.<br />
5<br />
Il testo, sottoposto a successivi rimaneggiamenti secondo le esigenze del movimento,<br />
è stato riedito a cura di Elleke Boehmer nella versione del 1908:<br />
Scouting for boys. A handbook for Instruction in Good Citizenship, Oxford<br />
University Press, Oxford 2004; nona ed. it. a cura di Mario Sica (trad. Fausto<br />
Catani), Scautismo per ragazzi, Nuova Fiordaliso, Roma 1999.<br />
VINCENZO SCHIRRIPA<br />
dialoghi n. 3 settembre 2007<br />
111
<strong>Dialoghi</strong><br />
per un progetto culturale cristianamente ispirato<br />
UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA<br />
• al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana<br />
• al dialogo nella città degli uomini<br />
• a una elaborazione culturale aperta e rigorosa<br />
IN OGNI NUMERO<br />
EDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi<br />
PRIMO PIANO: interventi autorevoli su questioni di attualità culturale e sociale<br />
UN PERCORSO TEMATICO ANNUALE: articoli, servizi, interviste a testimoni significativi, forum<br />
EVENTI & IDEE : interpretazioni, aggiornamenti, discussioni;<br />
la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società...<br />
IL LIBRO & I LIBRI: suggerimenti e itinerari critici di lettura<br />
PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare<br />
IL PERCORSO TEMATICO DELL’ANNO:<br />
La riscoperta delle virtù<br />
NEI PROSSIMI NUMERI:<br />
4/2007 Educare alla virtù<br />
Indirizzo internet:<br />
http://www.dialoghi.azionecattolica.it/<br />
(interamente consultabili i numeri del 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005)<br />
E-mail: dialoghi@azionecattolica.it<br />
ABBONAMENTO ANNUALE (4 numeri): 26,00 EURO<br />
L’abbonamento può essere effettuato attraverso il bollettino di conto corrente postale n. 78136116<br />
intestato a Fondazione Apostolicam Actuositatem Riviste – Via Aurelia, 481 – 00165 Roma.<br />
Finito di stampare nel mese di settembre 2007 a cura della So.gra.ro. – Roma