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L’ oggettivizzazione che ha spinto il malato, il folle reo ad identificarsi con le regole dell’istituto,<br />

ad istituzionalizzarsi è l’esito tangibile e visibile di quel pregiudizio culturale prima, e scientifico<br />

poi, che ritiene di curare con teorie e pratiche di separazione e di spersonalizzazione.<br />

Ma se “la follia è proprio la disgregazione della persona, la sua lontananza dagli altri, la sua<br />

estraneità al mondo, come si può pensare di curarla applicando una dottrina i cui principi sono<br />

l’esatta riproduzione dei componenti della follia?”<br />

Com-prendere cosa dice lo schizofrenico, il depresso, il tossicodipendente internato in OPG,<br />

cosa diventano per lui lo spazio, il tempo, il corpo, la colpa, la morte cioè tutte “quelle figure che<br />

ogni giorno cerchiamo di quietare dopo che la luce nera della notte ce le ha disegnate e stagliate<br />

a contorni netti e precisi”<br />

.<br />

La descrizione è drammatica, la partecipazione intensa ma soprattutto il risultato è sorprendente:<br />

i pazzi dicono le stesse cose che diciamo noi, pensano lo stesso che pensiamo noi, solo la<br />

relazione tra le parole e la connessione dei pensieri è strutturata in modo che il loro mondo risulti<br />

rappresentare una figurazione, che non essendoci familiare, viene da noi allontanata e collocata<br />

in quella alterità che ci rende sicuri.<br />

Premessa

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