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Vol. XXXVII / 2 - Studia Moralia

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<strong>Studia</strong><br />

<strong>Moralia</strong><br />

Biannual Review<br />

published by the Alphonsian Academy<br />

Revista semestral<br />

publicada por la Academia Alfonsiana<br />

VOL. <strong>XXXVII</strong>/2<br />

1999<br />

EDITIONES ACADEMIAE ALPHONSIANAE<br />

Via Merulana 31, C.P. 2458 - 00100 Roma, Italia


<strong>Studia</strong> <strong>Moralia</strong> – <strong>Vol</strong>. <strong>XXXVII</strong> / 2<br />

CONTENTS / ÍNDICE<br />

Articles / Artículos<br />

L. PADOVESE, La dimensione sociale del pensiero patristico:<br />

considerazioni generali .........................................<br />

T. KENNEDY, St. Alphonsus’ Selva. Should it be Understood<br />

as Rhetoric? .......................................................<br />

S. VIOTTI, Il problema morale della legge civile ................<br />

J. RÖMELT, Theologische Ethik und In-Vitro-Fertilisation<br />

M. P. FAGGIONI, Stato vegetativo persistente (seconda parte)..................................................................................<br />

R. TREMBLAY, Variations thérésiennes sur le thème de<br />

“l’enfant prodigue”.......................................................<br />

B. V. JOHNSTONE, Can Tradition Be a Source of Moral<br />

Truth? A Reply to Karl-Wilhelm Merks......................<br />

Events/Eventos<br />

D. GROS, Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno<br />

accademico 1998-1999 ................................................<br />

Reviews / Recensiones<br />

Short Notices / Noticias<br />

Books Received / Libros recibidos<br />

Index of <strong>Vol</strong>ume <strong>XXXVII</strong> / Índice del <strong>Vol</strong>umen <strong>XXXVII</strong><br />

273<br />

295<br />

321<br />

357<br />

371<br />

413<br />

431<br />

453<br />

479<br />

525<br />

531<br />

535


273<br />

StMor 37 (1999) 273-293<br />

LUIGI PADOVESE OFM. CAP.<br />

LA DIMENSIONE SOCIALE<br />

DEL PENSIERO PATRISTICO:<br />

CONSIDERAZIONI GENERALI<br />

Prima di presentare alcuni aspetti della dottrina sociale dei<br />

Padri della Chiesa occorre ricordare che le fonti a nostra disposizione<br />

- per quanto ci appaiano consistenti - sono scarse, ci sono<br />

pervenute spesso casualmente 1 e sono disparate poiché composte<br />

da autori diversi, con finalità diverse, in tempi e luoghi diversi.<br />

Con altre parole: non si può capire un periodo o un ambiente<br />

sulla base di una o di poche opere rimasteci. Per quanti<br />

documenti si abbiano a disposizione, non va dimenticato che essi<br />

sono sempre un frammento; occorre altresì ricordare che ogni<br />

ricostruzione del mondo antico fatta con soli testi letterari è<br />

parziale e talora può essere sviante. Non si dimentichi inoltre<br />

che i testi di cui disponiamo provengono in genere da persone<br />

dei ceti colti e, nel caso presente, da autori ecclesiastici e capi di<br />

comunità che vivono all’interno di un particolare ambiente socio-religioso<br />

con responsabilità dirette nei suoi confronti. La lettura<br />

che essi offrono non ricostruisce pertanto la realtà sociale<br />

così com’è, ma soltanto il modo con cui essi se la sono rappresentata.<br />

Oltretutto negli scritti dei Padri c’è una progettualità trasformatrice<br />

ovvero il desiderio di costringere gli ascoltatori o i<br />

lettori ad entrare nella loro prospettiva, accogliendo la ricostruzione<br />

che essi offrono della realtà. A ciò si aggiunga la considerazione<br />

che la trattazione patristica dei temi sociali è perlopiù<br />

espressa attraverso la predicazione e - più esattamente - attra-<br />

1<br />

Si pensi a certi testi teologici antichi che scompaiono perché il tema<br />

da loro trattato (ad es. la lotta contro il marcionismo o il donatismo) non è<br />

più attuale o a certe omelie di Agostino che un autore del V/VI secolo come<br />

Cesario di Arles riduce, semplifica, ritocca adattandole a dei fedeli imbarbariti<br />

ed ignoranti.


274 LUIGI PADOVESE<br />

verso l’esegesi della Bibbia fatta nella predicazione. Questo significa<br />

che la S. Scrittura avrà un ruolo centrale nello sviluppo<br />

di temi sociali. Se poi si considera che l’interpretazione della<br />

Scrittura è storicamente sempre condizionata da circostanze diverse,<br />

si capirà come - variando queste - possa variare anche l’interpretazione<br />

‘sociale’ di certi brani. Talvolta, a determinare certe<br />

letture della Bibbia sono state delle provocazioni esterne al testo<br />

stesso. Insomma, va tenuto ben presente che “la Bibbia nella<br />

storia è stata comandante in quanto comandata, ha agito come<br />

stimolo su gruppi, su società intere, ma in quanto è stata - se<br />

si può dire così - agita da” 2 . Una indagine qual è la presente non<br />

potrà ignorare questi condizionamenti. Va tenuto ben chiaro, insomma,<br />

che i documenti che possediamo per ricostruire la dottrina<br />

sociale dei primi secoli cristiani muovono da una concezione<br />

cristiana della vita che è condizionata dalle circostanze<br />

storiche, dall’area geografica, dalla cultura antropologica, teologica<br />

ed etica del tempo 3 . Tali documenti portano, inoltre, l’impronta<br />

del carattere e delle esperienze di vita di chi scrive. La<br />

cultura, infatti, non è mai impersonale. Sarebbe dunque inesatto<br />

operare una specie di riduzionismo cognitivistico che si limita a<br />

ricercare le idee sociali dei Padri prescindendo asetticamente<br />

dalle proprietà psicologiche di ciascuno. Va ricordato che i nostri<br />

autori non hanno soltanto cervello ma anche cuore. Essi desiderano<br />

e sentono oltreché pensare, e i loro desideri e sentimenti<br />

impregnano i loro pensieri e influenzano le loro intenzioni.<br />

Rilevo, ad esempio, quanto sia significativo che i testi scritti<br />

che possediamo provengano esclusivamente da autori ‘maschi’ e<br />

quindi con un carattere androcentrico e una visione della realtà<br />

sociale improntata dalla cultura patriarcale caratteristica dei<br />

primi secoli cristiani e del mondo mediterraneo. In conclusione,<br />

2<br />

F. BOLGIANI, Senso e limiti di una storia dell’esegesi per il periodo dal II<br />

sec. a.C. al II sec. d.C., in ASE 2 (1985), 21.<br />

3<br />

Il riconoscimento dei condizionamenti culturali, non deve tuttavia indurre<br />

a credere che l’individuo sia un semplice portatore di cultura, uno di<br />

una serie passiva di identiche unità. L’odierna etnologia ha preso coscienza<br />

di come un individuo, in determinate circostanze, lasci questo ruolo passivo<br />

divenendo fattore di mutamenti culturali. Cf T. TENTORI, Antropologia culturale,<br />

Studium ed., Roma 1992, 125.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 275<br />

per capire la storia bisogna incominciare a capire chi l’ha scritta,<br />

mettendosi il più possibile ‘nei suoi panni’, o acquistando<br />

“una visione dal di dentro”, non limitata - come dicevamo - a ricostruire<br />

soltanto teorie o una storia astratta delle idee come se<br />

il cristianesimo sia consistito soltanto in dottrine e non piuttosto<br />

in esperienze e pratiche religiose che si sono espresse anche<br />

nella vita sociale. Si tratta di tenere congiunti anima e corpo, il<br />

pensato ed il vissuto.<br />

E’ altresì importante non accostarsi allo studio del passato<br />

con criteri finalistici o utilitaristici. Ad esempio, le affermazioni<br />

del primitivo cristianesimo sulla proprietà non si possono applicare<br />

che limitatamente alla nostra società industriale dove il capitale<br />

è accumulato nelle mani di pochi e dove esistono corporazioni<br />

pubbliche (sindacati, mutue, assicurazioni...) ignote nella<br />

Chiesa antica la cui etica non può, quindi, offrire un sistema<br />

generale di norme vincolanti 4 . Il passato va preso in sé e per sé<br />

stesso e questo si può fare nonostante che ciascuno di noi - al<br />

pari degli antichi scrittori ecclesiastici - sia storicamente condizionato<br />

da interessi o da prospettive del presente. Eppure è necessario<br />

confrontarsi con altre esperienze perché “impariamo<br />

qualcosa su di noi stessi mettendoci nei panni degli altri” 5 . Del<br />

resto che cosa fa maggiormente crescere del fatto di non vivere<br />

isolati e di trarre insegnamento dalle esperienze altrui, sia passate<br />

che presenti? E dunque, il confronto storico risulta necessario<br />

e fa crescere purché non sia strumentalizzato a fini immediati.<br />

Proprio lo studio del pensiero sociale dei Padri della Chiesa<br />

mostra, invece, come la storicità dello storico abbia condizionato<br />

- a volte in modo determinante e addirittura sviante - la ricerca,<br />

isolando dal contesto antichi testi, e utilizzandoli come<br />

pretesti per avvalorare una particolare posizione ideologica.<br />

Non è questa la sede per ripercorrere le posizioni della storiografia<br />

marxista; quelle successive offerte dalla teologia liberale,<br />

da quella dialettica o kerygmatica, dalla cosiddetta ‘scuola’ di<br />

4<br />

Cf. M. HENGEL, Eigentum und Reichtum in der frühen Kirche - Aspekte<br />

einer frühchristlichen Sozialgeschichte, Calwer Verlag, Stuttgart, 1973, 87-88.<br />

5<br />

V. TURNER, Dal rito al teatro, trad. dall’inglese, Il Mulino, Bologna 1986,<br />

165.


276 LUIGI PADOVESE<br />

Chicago e gli orientamenti attuali 6 . Mi limito soltanto a ricordare<br />

che oggi generalmente si evita di leggere i testi cristiani antichi<br />

attraverso un’univoca interpretazione teologica, così come è<br />

rimossa anche l’idea di considerare il cristianesimo un mero fenomeno<br />

sociale. La sua nascita non si può spiegare in chiave di<br />

moto o di rivoluzione sociale, ma si deve intendere come un fatto<br />

di natura religiosa. Questa realtà religiosa, tuttavia, possiede<br />

un sicuro e fortissimo impatto sul ‘sociale’, anche se indiretto<br />

poiché il vangelo non dà indicazioni concrete o ricette per una<br />

prassi sociale, ma queste vengono dedotte dai suoi principi etici<br />

e, in primo luogo, dal grande principio “ama il prossimo tuo come<br />

te stesso”. Questo pare essere l’elemento caratterizzante della<br />

novità cristiana. Evidentemente questo amore non è legato a<br />

un tipo particolare di traduzione storica. All’inizio del cristianesimo,<br />

in un certo contesto sociale, s’è tradotto in beneficenza e<br />

condivisione dei beni, oggi le forme possono variare, eppure il<br />

movente dell’amore resta perennemente attuale.<br />

Tale movente è riconducibile allo speciale annuncio di Gesù<br />

il quale si rivolge a gente perlopiù economicamente vessata, in<br />

una società in preda a forti tensioni e in cerca di risposte 7 e dove<br />

la decomposizione politica e sociale ha distrutto gli antichi<br />

ideali terreni 8 . E’ fuori discussione che il suo annuncio procede<br />

dal centro focale dell’escatologia. Il Regno di Dio che egli annuncia<br />

è il cuore della sua predicazione. Tuttavia, questo Regno,<br />

ovvero questo regime teocratico che ha il Padre al centro non è<br />

interpretato come avviene nell’ambiente circostante come un regno<br />

che si impone con il diritto e con la forza, ma è un Regno a<br />

sfondo quietista, non violento, che porta una salvezza non confinata<br />

alla sola anima, ma attenta alla totalità della persona, uomo<br />

e donna e, proprio per questo, contro le strutture oppressive<br />

6<br />

Per una sintesi ragionata delle diverse posizioni rimando a G. BARBA-<br />

GLIO, Rassegna di studi di storia sociale e di ricerche di sociologia sulle origini<br />

cristiane I/II, in Rivista Biblica Italiana XXXVI (1988), 377-410.495-520.<br />

7<br />

Al proposito, uno spaccato della situazione socio-politica del tempo di<br />

Gesù è contenuta nell’interessante lavoro di R. A. HORSLEY-J.S. HANSON, Banditi,<br />

profeti e messia, trad. dall’inglese, Paideia 1995.<br />

8<br />

Cf E. TROELTSCH, Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani,<br />

trad. dal tedesco, La Nuova Italia ed., Firenze 1941, 33.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 277<br />

di ordine sociale e religioso del momento. In effetti, con l’annuncio<br />

del Regno Gesù sovverte le strutture di oppressione prospettando<br />

un futuro e rapporti umani diversi muovendo dal presupposto<br />

che davanti a Dio non vi sono differenze. Non è senza<br />

ragione che il messaggio di Gesù abbia avuto un impatto particolare<br />

sulle donne. Il suo annuncio propone un discepolato di<br />

uguali, dove chi comanda dev’essere come chi serve e dove non<br />

ci sono più padri e più maestri, ma tutti sono uguali. In altre parole<br />

Gesù, attraverso un annuncio di tipo religioso, “implicitamente<br />

sovverte le strutture economiche o androcentrico-patriarcali,<br />

anche se, probabilmente, le persone coinvolte in questo<br />

processo non avranno pensato in termini di strutture sociali” 9 .<br />

Va ricordato che l’annuncio di Gesù e dei suoi primi discepoli<br />

fu l’ambiente giudaico dell’area rurale siro-palestinese. E’<br />

noto come la tradizione delle parole di Gesù è legata al mondo<br />

agricolo. Basti pensare alle parabole. Eppure, pochi anni dopo<br />

la sua morte, il movimento da lui iniziato varcò i confini della<br />

Galilea, Giudea e Samaria per opera di alcuni missionari giudeo/cristiani<br />

grecoparlanti (At 11,20).<br />

Che cosa ha comportato questo passaggio ambientale? Previamente<br />

va richiamata la sproporzione economica tra le ‘zone depresse’<br />

della Palestina e il prosperoso mondo urbano mediterraneo.<br />

Occorre inoltre ricordare che la missione di questi primi<br />

cristiani (si pensi a Paolo, Barnaba) si concentrò in città dove<br />

non esistevano quelle contraddizioni strutturali tipiche del critico<br />

assetto socio/politico palestinese. Per questo non meraviglia<br />

che l’annuncio teocratico radicale del primo movimento cristiano<br />

sia venuto via via scomparendo 10 . E’ da collegare a questo<br />

mutamento il fatto che Paolo non annunzi il Regno di Dio che<br />

invece caratterizzava la predicazione di Gesù e dei carismatici<br />

itineranti palestinesi. Neppure meraviglia che le comunità ellenistiche<br />

recepissero molto cautamente le tradizioni palestinesi<br />

che provenivano da un mondo completamente diverso.<br />

9 SCHÜSSLER FIORENZA E., In memoria di lei - Una ricostruzione femminista<br />

delle origini cristiane, trad. dall’inglese, Claudiana ed., Torino 1990, 169.<br />

10<br />

Cf G. THEISSEN, Sociologia del cristianesimo primitivo, trad. dal tedesco,<br />

Marietti, Genova 1987, 187.


278 LUIGI PADOVESE<br />

La conseguenza di ciò si riflette nelle lettere del cristianesimo<br />

primitivo che assai di rado richiamano delle parole di Gesù.<br />

Al radicalismo etico afamiliare che non si poteva realizzare, subentra<br />

un ‘patriarcalismo d’amore’ di stampo familiare che non<br />

scardina dall’ambiente in cui si vive, che accetta, relativizzandole,<br />

le differenze sociali esistenti e che assume senza riserve la<br />

struttura politica (Rom 13,1ss), eppure attenua tutte le differenze<br />

di classe obbligando all’amore vicendevole. Ormai essere<br />

schiavo o libero importa relativamente, dal momento che la<br />

chiamata alla fede prescinde da tutto ciò e svuota le diversificazioni<br />

o stratificazioni vigenti nella società. Per questo Paolo può<br />

affermare: “ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando<br />

fu chiamato” (1Co 7,20). Concretamente ciò significa che le<br />

differenze nella chiesa non contano nulla (cf 1Co 7,19) e non determinano<br />

la situazione dei singoli all’interno di essa. Si tratta<br />

piuttosto di rimanere nello status di schiavo, ma senza la mentalità<br />

dello schiavo, o di rimanere nella condizione giuridica di<br />

libero, ma di non vivere più con la mentalità dell’uomo libero.<br />

Ciò è possibile, secondo Paolo, se avendo presente che “il tempo<br />

ormai si è fatto breve” (1Co 7,29) si vive nelle diverse situazioni<br />

come se non si vivesse realmente in esse: “quelli che hanno moglie<br />

- scrive - vivano come se non l’avessero (...), quelli che comprano<br />

come se non comprassero, quelli che usano del mondo,<br />

come se non ne usassero appieno, poiché passa la scena di questo<br />

mondo”(1Co 7, 29-31). Con questo rinnovamento della mente<br />

(cf Rom 12,2) la struttura sociale non cambia; le differenze<br />

possono continuare ad esistere, eppure l’appartenenza alla nuova<br />

famiglia cristiana le relativizza (cf Gal 3,28) in nome di quell’uguaglianza<br />

che non scaturisce dall’aver la stessa natura o una<br />

comune appartenenza sociale, ma una santità prodotta dal battesimo,<br />

ovvero il fatto che Dio in Cristo ci rende partecipi della<br />

sua immagine (Rom 8,29). Proprio questo patriarcalismo “con il<br />

suo moderato conservatorismo sociale, ha dato al cristianesimo<br />

un’impronta durevole” 11 . Non lo ha comunque privato del suo riferimento<br />

alla persona di Gesù e al suo comportamento che resta<br />

centrale e neppure della tensione escatologica, ovvero del<br />

11<br />

G. THEISSEN, Sociologia... 239.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 279<br />

convincimento dell’imminenza del Regno che caratterizza l’annuncio<br />

di Cristo. Osserviamo anzi che là dove questi aspetti prevalgono<br />

sull’impegno di inculturazione si afferma un cristianesimo<br />

avente una scarsa sensibilità sociale. In aree geograficamente<br />

isolate dal mondo mediterraneo come quelle della Siria/Mesopotamia<br />

evangelizzate da missionari giudeo/cristiani di<br />

lingua aramaica si assisterà così allo sviluppo di comunità cristiane<br />

della apotaxìa ovvero della rinuncia radicale ad ogni forma<br />

di possesso, realizzata a partire dal concetto di sequela e sostenuta<br />

da una forte tensione escatologica 12 . Tra i testi rappresentativi<br />

di questo modo di pensare dove il criterio della sequela<br />

è imperativo per tutti i cristiani e dove la vita ascetica costituisce<br />

l’unica forma di vita cristiana 13 va ricordato il Vangelo di<br />

Tommaso (140 ca.) 14 e gli Atti di Tommaso (metà del III sec.) 15 . In<br />

essi il problema etico circa la proprietà, il possesso delle ricchezze<br />

e il loro utilizzo è del tutto secondario rispetto al tema<br />

kerygmatico della discepolanza e della sequela di Gesù povero<br />

ed itinerante. In questi scritti che ci mettono a contatto con il<br />

cristianesimo siriaco non v’è posto per una dottrina sociale della<br />

Chiesa perché il rapporto con il mondo e i suoi beni, se non è<br />

conflittuale, è perlomeno di disinteresse verso questa realtà<br />

transitoria che non è percepita come ‘nostra’ e nella quale le ricchezze<br />

appaiono quantomeno distraenti e pericolose. Ci trovia-<br />

12<br />

Circa queste osservazioni rimando a M. MEES, Pilgerschaft und Heimatslosigkeit.<br />

Das frühe Christentum Ostsyriens, in Augustinianum 19 (1979),<br />

53-73, in cui l’autore sostiene che la normatività della sequela per tutti i cristiani<br />

delle Chiese della Siria occidentale è riconducibile ad asceti missionari<br />

giudeo cristiani di lingua aramaica che diffusero un cristianesimo di poveri<br />

itineranti.<br />

13<br />

Questa posizione, documentabile sino al IV secolo, rappresenta il pensiero<br />

della maggioranza dei cristiani nell’area siriana ad est di Edessa (Nisibi,<br />

Hatra). cf A. FELDTKELLER, Identitätssuche des syrischen Urchristentums -<br />

Mission, Inkulturation und Pluralität im ältesten Heidenchristentums, Vandenhoeck<br />

& Ruprecht, Göttingen 1993, 80-81.<br />

14<br />

Per la presentazione di questo scritto cf L. MORALDI, (a cura di), Apocrifi<br />

del Nuovo Testamento - Vangeli, Piemme, Casale M., 1994, 547-551.<br />

15<br />

Per informazioni di carattere introduttivo cf L. MORALDI (a cura di)<br />

Apocrifi del Nuovo Testamento - Atti e leggende, Piemme, Casale M. 1994,<br />

303-319.


280 LUIGI PADOVESE<br />

mo dinanzi a una “prospettiva potenzialmente disgregatrice nei<br />

confronti di ogni ordinamento sociale e per questo si troverà necessariamente<br />

in difficoltà man mano che il decorso storico darà<br />

ragione a un cristianesimo non più straniero e itinerante, ma insediato<br />

nel mondo. Sopravviverà allora ai margini dei circuiti<br />

sociali, là dove forme di persecuzione o il vivo sentimento escatologico<br />

terranno desto il senso di estraneità dal mondo” 16 . Se da<br />

questa area della Siria ci si sposta verso il mondo mediterraneo<br />

si constaterà un mutato atteggiamento in rapporto ai temi sociali.<br />

A determinarlo concorre - come già accennato - la situazione<br />

socio-ambientale diversa, il processo di inculturazione in<br />

un mondo greco/romano cittadino, la composizione della Chiesa<br />

(incremento numerico, presenza di strati sociali diversi con<br />

relativa crescita dei cristiani ricchi e colti), la trasformazione o<br />

il passaggio in secondo piano di talune credenze cristiane (es. la<br />

concezione apocalittica), i mutamenti politici, la situazione personale<br />

di chi scrive, ecc. Si può dunque ritenere che a fissare la<br />

diversità di atteggiamenti in rapporto ai temi sociali concorrono<br />

sempre circostanze storiche, ambientali e personali che non vanno<br />

mai dimenticate. Una conferma di una mutata sensibilità sociale<br />

rispetto alle Chiese della apotaxia ci è offerta dal Pastore d’Erma<br />

17 e dal Quis dives salvetur di Clemente Alessandrino 18 , scritti<br />

rispettivamente a Roma e ad Alessandria. Nel Pastore gli inviti al<br />

radicalismo evangelico risultano temperati e prevale quel ‘patriarcalismo<br />

d’amore’ che attenua le differenze sociali nel riconoscimento<br />

della complementarietà - all’interno dello stesso<br />

gruppo cristiano - di ricchi e poveri: i primi aiutano material-<br />

16<br />

G. VISONA’, Povertà, sequela, carità. Orientamenti del cristianesimo dei<br />

primi due secoli, in AaVv, Per foramen acus. Il cristianesimo antico di fronte<br />

alla pericope evangelica del giovane ricco, Milano 1986, 36.<br />

17<br />

Lo scritto redatto in modo definitivo da Erma, un ex schiavo fratello<br />

di Pio, vescovo di Roma, si compone di diverse sezioni redatte in tempi diversi<br />

(presumibilmente dal 90 al 140). Per una sua presentazione generale e<br />

per il testo critico, cf R. JOLY, Hermas - Le pasteur, Introduction, texte critique,<br />

traduction et notes par R. Joly: SCh 53.<br />

18<br />

Una presentazione del Quis dives salvetur che costituisce un commento<br />

(o forse un’omelia?) alla pericope di Mc 10, 17-31 sull’incontro tra Gesù<br />

e il giovane ricco, è offerta da C. NARDI, in CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Quale<br />

ricco si salva? Il cristiano e l’economia, Roma 1991.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 281<br />

mente i secondi e questi sostengono i primi con le loro preghiere.<br />

Erma non esige dai ricchi l’abbandono del mondo e, tantomeno,<br />

considera malvagia la ricchezza, ma la considera un dono<br />

funzionale di Dio in quanto serve a beneficare gli altri, facendo<br />

loro parte dei beni da Lui creati. Nell’essere ricchi è implicito<br />

perciò l’impegno al servizio dei poveri. La pericolosità<br />

della ricchezza - pur riconosciuta - non importa, pertanto, che la<br />

si abbandoni, ma che la si usi rettamente e la povertà non è più<br />

intesa come una ‘virtù’, ma come un ‘male’ da riparare con la beneficenza.<br />

Dal canto suo Clemente (+ prima del 215), facendo<br />

un’esegesi di Mc 10, 17-31 adattata ad un uditorio di ricchi, ritiene<br />

che l’invito di Gesù a lasciare tutto non impone la rinuncia<br />

alle ricchezze, ma la solidarietà verso i poveri. I beni materiali<br />

che provengono da Dio, di per sé non sono né buoni né cattivi.<br />

E’ il loro utilizzo che ne specifica la bontà o la malizia. Anche<br />

per Clemente il senso ultimo della ricchezza si giustifica nel suo<br />

utilizzo sociale, ovvero nell’essere posta al servizio dei bisognosi.<br />

Il diritto alla proprietà privata è limitato dai bisogni dei fratelli<br />

di fede e, probabilmente, di tutti gli uomini.<br />

Se si confronta la posizione degli scritti dell’area siriana<br />

(Vangelo e Atti di Tommaso) con quanto Erma o Clemente scrivono,<br />

si potrebbe pensare che l’atteggiamento di costoro costituisca<br />

un compromesso e quasi un venir meno all’ideale di radicalità<br />

proposto da Cristo. In realtà, l’atteggiamento verso i beni<br />

terreni presentato particolarmente nel Quis dives salvetur? muove<br />

da una diversa spiritualità: è la spiritualità che “risulterà sempre<br />

più quella della Grande Chiesa, anche perché più idonea a<br />

seguire l’evoluzione dell’annuncio cristiano (...). E’ la Chiesa dell’agape,<br />

dell’amore verso il prossimo, della condivisione fraterna,<br />

dell’elemosina meritoria, la Chiesa che predica l’amore per i poveri.<br />

Qui nasce la dottrina sociale della Chiesa” 19 . Tale dottrina<br />

troverà le sue formulazioni più significative nel IV/V secolo per<br />

opera dei grandi Padri orientali ed occidentali. Tutto il discorso<br />

economico svolto da costoro riflette la realtà di un cristianesimo<br />

divenuto ormai fenomeno di massa che ingloba in sé tutti gli<br />

19<br />

G. VISONA’, Povertà, sequela, carità 60.


282 LUIGI PADOVESE<br />

strati dell’antica società. Tenuto presente questo stato di cose,<br />

s’impongono alcune precisazioni:<br />

a. Va tenuto anzitutto ricordato che i testi concernenti temi<br />

sociali provengono perlopiù da personaggi di famiglia benestante<br />

che hanno avuto una buona formazione culturale pagano/cristiana<br />

(Ilario di Poitiers, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo,<br />

Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Agostino,<br />

Teodoreto di Cirro). L’approccio alla cultura pagana attraverso<br />

l’apprendimento della retorica e della filosofia, spiega il frequente<br />

ricorso negli scritti di questi Padri a concezioni divulgate<br />

anzitutto dallo stoicismo e aventi chiari risvolti sociali 20 . Si<br />

pensi all’idea dell’uguaglianza tra gli uomini; allo stato primordiale<br />

di pura natura dove tutto era in comune; al dovere dell’elemosina<br />

in forza della stessa natura; alla concezione che la nobiltà<br />

e la schiavitù dipendono dalla fortuna e dal capriccio; al<br />

convincimento che la vera ricchezza è l’assenza di bisogni, ecc. 21<br />

Non va poi dimenticato che i Padri sopra ricordati, a motivo dell’estrazione<br />

sociale generalmente elevata, hanno una parresìa o<br />

libertas dicendi nel denunciare situazioni di ingiustizia sociale<br />

che ad altri, provenienti da ceti inferiori, sarebbe probabilmente<br />

mancata 22 .<br />

20<br />

Tenendo presente questo, occorrerà rivedere la concezione che considera<br />

i grandi Padri del IV secolo debitori soltanto formalmente della strumentazione<br />

retorica e concettuale della cultura pagana. In realtà essi respirarono,<br />

anche in rapporto a temi sociali, la sensibilità del loro ambiente. Basti<br />

qui richiamare al fatto che il famoso retore pagano Libanio, maestro di<br />

Giovanni Crisostomo e fors’anche di Basilio e di Gregorio di Nazianzo, teneva<br />

e assegnava ai suoi alunni conferenze di retorica concernenti aspetti sociali<br />

(avidità, ricchezze, povertà). Non meraviglia dunque che costoro, divenuti<br />

vescovi, continuassero a svolgere gli stessi temi su una base di esperienza<br />

personale. Cf R.M. GRANT, Cristianesimo primitivo e società 131-133.<br />

21<br />

Per le dottrine stoiche circa temi sociali rimando alla silloge concernente<br />

l’etica, a cura di M. I. PARENTE, Gli stoici - Opere e testimonianze II,<br />

UTET, Torino 1989, 1053-1279.<br />

22<br />

Basti menzionare al riguardo Ambrogio che reputa la libertas dicendi<br />

come una caratteristica del sacerdote. Nel De officiis II 39 ai suoi chierici<br />

scrive: “Il vostro ministero brilla in tutto il suo splendore se con l’aiuto della<br />

Chiesa viene rintuzzata la violenza di un potente al quale o una vedova o degli<br />

orfani non sono in grado di resistere, se mostrate che ai vostri occhi vale


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 283<br />

b. Ha un suo peso nelle considerazioni di carattere sociale<br />

dei nostri autori il fatto che tutti, direttamente o indirettamente,<br />

siano venuti a contatto con l’esperienza monastica percepita come<br />

un modo di vivere la fede cristiana in modo più radicale ed<br />

integrale. In essa, poi, l’elemento più in rilievo è la comunione,<br />

la condivisione. S’inquadra in questa cornice l’affermazione di<br />

Giovanni Crisostomo per il quale “ora si vive nei monasteri come<br />

un tempo a Gerusalemme” 23 . E, tuttavia, il monachesimo,<br />

con la sua spiritualità di condivisione totale, di rinuncia al mondo,<br />

di sacrifici volontari, di comportamenti al limite della misura<br />

e della razionalità, incarna un’ideale di vita difficilmente praticabile<br />

all’interno delle grandi comunità cristiane. Non meraviglia<br />

pertanto che, a motivo del suo carattere provocatorio, produca<br />

anche reazioni negative da parte pagana, ma anche da parte<br />

di alcuni cristiani 24 . In esso, comunque, l’apertura escatologica<br />

rimane più vivace che non tra i cristiani comuni. Ora, questo<br />

sentire escatologico mantiene viva l’idea della radicalità della<br />

sequela in disprezzo al ‘saeculum’. Insomma, l’ideale della apotaxìa<br />

o della fuga mundi che era stato caratteristico delle Chiese<br />

della Siria, ora persiste soltanto all’interno dei monasteri e determina<br />

l’atteggiamento dialettico di quei vescovi-monaci come<br />

Basilio, Crisostomo, Teodoreto che si trovano a capo delle Chiese<br />

dell’agape. Come si conciliano in essi le due tendenze ideologicamente<br />

contrapposte di cui sono rappresentanti? Come monaci,<br />

infatti, hanno scelto la strada della rinuncia radicale ai beni<br />

del mondo; come vescovi devono indicare una strada di salvezza<br />

attraverso l’uso moderato dei beni del mondo. La risposta<br />

a questo apparente conflitto è trovata da costoro nell’affermare<br />

due misure o gradi di essere cristiano, dove la fedeltà all’intransigenza<br />

della sequela non esclude un’altra possibile via di salvezza<br />

(non di perfezione!) attraverso l’esercizio della carità e attraverso<br />

l’uso parsimonioso dei beni terreni. Il rapporto tra le due<br />

più il comandamento del Signore che il favore del ricco. Voi stessi ricordate<br />

quante volte abbiamo lottato contro gli attacchi imperiali in difesa dei depositi<br />

delle vedove, anzi di tutti”.<br />

23<br />

In Act apost. hom 11 1,3.<br />

24<br />

Cf M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Borla 1983,<br />

78-80.


284 LUIGI PADOVESE<br />

strade è lo stesso rapporto che esiste tra il buono e il meglio, tra<br />

il rimedio e la salute, tra il seguire Cristo e il seguirlo expeditior<br />

(più decisamente) 25 , tra l’essere giusto e l’essere perfetto 26 . In<br />

questo contesto si inquadra la precisazione che fa un ignoto autore<br />

del IV secolo: “La legge - dichiara - consiste nel fatto che tu<br />

non prenda l’altrui, ma che non dia neppure del tuo. La grazia,<br />

invece, nel non togliere l’altrui e nel dare il tuo” 27 . In questo tentativo<br />

di fedeltà all’intransigenza della sequela e di adattamento<br />

alla situazione di una Chiesa in cui non tutti si sentono chiamati<br />

alla perfezione, i vescovi si trovano all’interno di una dialettica<br />

immanente all’essenza stessa di un cristianesimo divenuto<br />

‘religione’ di massa. Essi devono salvaguardare “da un lato l’universalità<br />

del messaggio, dall’altro il radicalismo necessariamente<br />

selettivo delle sue esigenze; da un lato la comunione con la<br />

grande chiesa, dall’altro la solidarietà, esente da ogni compromesso,<br />

all’interno del piccolo gruppo; da un lato l’accettazione<br />

realistica della pesantezza del corpo ecclesiale terreno, pur nella<br />

volontà di rinnovarlo per quanto è possibile a partire dalla<br />

propria interiore riforma, dall’altro la tensione verso la riforma<br />

istituzionale e integrale o addirittura l’utopia” 28 .<br />

c. Un altro elemento da non sottovalutare per arrivare a<br />

un’adeguata comprensione della dottrina sociale dei Padri del<br />

IV/V secolo va ricercato nel progressivo disfacimento dello stato<br />

e nel peggioramento della situazione economica, prodotta da diversi<br />

fattori, ma riconducibile alla crisi della ‘dominazione universale<br />

dell’impero’, ovvero al fatto che l’impero non era in grado<br />

di far fronte e sostenere l’apparato politico, amministrativo e<br />

militare che lo garantiva 29 . Il discorso sulla situazione sociale va-<br />

25<br />

Così ZENO DI VERONA, Tractatus II 11, 5. Su questa concezione rimando<br />

per intero al mio studio L’originalità cristiana - Il pensiero etico-sociale di<br />

alcuni vescovi norditaliani del IV secolo, Laurentianum, Roma 1983.<br />

26<br />

Così in MASSIMO DA TORINO, a proposito del giovane ricco del Vangelo<br />

il quale mostra come nelle ricchezze si possa essere giusti e santi, ma non<br />

perfetti. Cf Sermo 48 42-44.<br />

27<br />

Opus imperfectum in Matthaeum - Om. XII 41.<br />

28<br />

Così P.C. BORI, Chiesa primitiva... 197.<br />

29<br />

Cf R. RÉMONDON, La crisi dell’impero romano. Da Marco Aurelio ad<br />

Anastasio (orig. franc. 1964), Mursia, Milano 1975, 264.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 285<br />

ria da Oriente ad Occidente e a seconda degli anni 30 . Tuttavia si<br />

possono individuare alcuni ‘fattori’ costanti di crisi 31 . Anzitutto<br />

la svalutazione con conseguente fluttuazione tra il denaro e l’oro;<br />

le invasioni barbariche e le guerre interne che avevano distrutto<br />

grandi quantità di ricchezze; il peso economico dell’esercito<br />

che doveva essere mantenuto mediante un’eccessiva tassazione<br />

sulle attività allora più diffuse, ma con conseguente abbandono<br />

del lavoro. Se poi si considera che l’imposta fondiaria<br />

gravava sui contadini e piccoli imprenditori indipendenti, non<br />

sulla plebe urbana, ci si spiega la decadenza del ceto borghese<br />

medio e, da parte dei contadini, l’abbandono delle terre coltivate,<br />

l’aumento del latifondo che ingoiava le piccole proprietà e altri<br />

fenomeni collaterali come l’usura, l’incetta consistente nell’accumulo<br />

di beni (grano, olio) tolti dapprima al mercato per essere<br />

poi rivenduti a prezzi maggiorati. La cosa risulta tanto più<br />

grave se si considera che l’impero aveva un’economia prevalentemente<br />

agricola e ricavava più del 90% delle sue entrate dalle<br />

imposte che gravavano sulla terra e sui contadini 32 . La tendenza<br />

ad abbandonare il proprio lavoro spinse il governo a vincolare i<br />

contadini alla terra (colonato). Una legge del 371 emessa da Valentiniano<br />

si esprimeva al riguardo così: “Riteniamo che i coloni<br />

non abbiano la libertà di abbandonare i campi ai quali li legano<br />

la loro condizione e la loro nascita. Se se ne allontanano e<br />

passano presso un altro signore, che siano ricondotti, incatenati<br />

e puniti” 33 . Evidentemente questo rapporto di schiavitù rispetto<br />

alla terra d’origine toglieva materiale umano all’esercito che<br />

pertanto doveva reclutare tra i barbari. Oltretutto, per rendere<br />

appetibile il servizio militare occorreva concedere agli arruolati<br />

dei privilegi che, alla lunga, venivano sempre a gravare su con-<br />

30<br />

Sulla differente situazione tra Oriente ed Occidente in rapporto all’evoluzione<br />

economica nel IV sec. cf R. RÉMONDON, La crisi..., 244-259.<br />

31<br />

Al riguardo cf A. MOMIGLIANO, Il cristianesimo e la decadenza dell’impero<br />

romano, in A. MOMIGLIANO (a cura di), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo<br />

nel secolo IV, (orig. ingl. 1963), Einaudi, Torino 1975, 10-11.<br />

32<br />

Cf A.H.M. JONES, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo<br />

in A. MOMIGLIANO (a cura di), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo<br />

nel secolo IV (orig. ingl. 1963), Einaudi, Torino 1975, 28.<br />

33<br />

Cod Just., 11, 53.


286 LUIGI PADOVESE<br />

tadini ed artigiani 34 . Il sistema del colonato aveva prodotto come<br />

reazione un sistema di patronato consistente nell’affidarsi alla<br />

protezione di un potente al quale si affidava forza lavorativa e libertà<br />

in cambio di protezione. Ora questo sistema di protezione<br />

dei contadini metteva in questione la funzione di riscossione<br />

delle imposte da parte dei magistrati cittadini i quali si vedevano<br />

costretti a risarcire con i propri beni quelle tasse che non avevano<br />

riscosso. Si comprende così come il patronato comportasse<br />

anche la fuga dalle attività di pubblica gestione da parte dei<br />

ricchi cittadini 35 . Non si dimentichi, inoltre, che una delle cause<br />

dell’impoverimento, almeno in Occidente, va ricercata anche<br />

nell’evoluzione delle strutture agrarie: si diffonde l’utilizzo del<br />

mulino ad acqua e, alla fine del IV secolo, la falciatrice che riduce<br />

i tempi di lavoro e la manodopera 36 . A determinare il declino<br />

dello stato ha concorso anche la Chiesa. Come nota un’eminente<br />

studioso “la gente fuggiva dallo Stato dandosi alla Chiesa<br />

e indeboliva lo Stato, offrendo le proprie forze migliori alla<br />

Chiesa (...). Gli uomini migliori lavoravano per la Chiesa, non<br />

per lo Stato” 37 .<br />

In una situazione economicamente così instabile e con un<br />

‘vuoto sociale’, non meraviglia che i vescovi venissero visti come<br />

i garanti della giustizia, come i veri ‘leaders’ a cui fare riferimento.<br />

E da parte sua “il vescovo cristiano e il suo clero ambivano<br />

ad avere una parte sempre più importante nell’esercizio<br />

dell’autorità cittadina” 38 . In realtà, nelle città del IV secolo il vescovo<br />

si profila come “l’amante dei poveri” - in questo tempo<br />

sempre più numerosi - ai quali le amministrazioni municipali<br />

non dedicavano attenzione 39 . Il fatto che Costantino avesse atttribuito<br />

ai capi delle Chiese il giudizio arbitrale in cause di conflitto<br />

in cui erano coinvolti cristiani (audientia episcopalis), permette<br />

di capire come il vescovo dovesse prendersi a cuore situa-<br />

34<br />

Cf R. RÉMONDON, La crisi dell’impero... 141-142.<br />

35<br />

Cf R. RÉMONDON, La crisi dell’impero... 144-145.<br />

36<br />

Cf R. RÉMONDON, La crisi..., 246.<br />

37<br />

A. MOMIGLIANO, Il cristianesimo e la decadenza... 14.<br />

38<br />

P. BROWN, Potere e cristianesimo nella tarda antichità (orig. ingl. 1992),<br />

Laterza, Bari 1995, 111.<br />

39<br />

Cf P. BROWN, Potere e cristianesimo... 133-134.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 287<br />

zioni molto concrete e come diventasse anche protettore delle<br />

classi inferiori 40 . Sarà soprattutto questo rapporto con i poveri<br />

che accrescerà il potere del vescovo, rendendolo un importante<br />

patrono urbano. E dunque il ‘vuoto di potere’ o il senso di sfiducia<br />

nel potere tradizionale che caratterizza in parte il IV secolo,<br />

crea l’esigenza di una nuova leadership: la figura, appunto, del<br />

vescovo dotato oltretutto di un particolare potere ‘spirituale’ 41 .<br />

E’ all’interno di queste considerazioni sull’estrazione socio/culturale<br />

dei vescovi, sulla loro vicinanza all’ideale monastico,<br />

sulla situazione di crisi politica/sociale del IV secolo come<br />

pure sulla funzione di supplenza dei vescovi rispetto alle autorità<br />

locali che si colloca il loro messaggio sociale.<br />

Va anzitutto ricordato che fra i Padri greci quelli che risultano<br />

più attenti ai problemi sociali sono anzitutto Basilio, vescovo<br />

di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa e, in<br />

modo del tutto particolare, Giovanni Crisostomo. Tra i latini<br />

emerge in questo ambito soprattutto Ambrogio di Milano ed<br />

Agostino. Occorre qui aggiungere che lo svolgimento di tematiche<br />

sociali si colloca perlopiù all’interno dell’attività di predicatori<br />

che essi svolgono. Il loro insegnamento etico è dunque legato<br />

al momento liturgico ed è quasi sempre vincolato a passi biblici<br />

che vengono commentati con un’attenzione attualizzante 42 .<br />

L’uditorio al quale si rivolgono è perciò un uditorio cittadino e<br />

quasi esclusivamente cristiano. Sarebbe certo sbagliato pensare<br />

40<br />

Cf P. BROWN, Potere e cristianesimo... 144-145.<br />

41<br />

Rimando, a questo riguardo, all’interessante lavoro di P. BROWN, limitato<br />

però alla sola zona geografica della Siria e interessato ad esaminare figura<br />

e ruoli sociali di eremiti locali. Mi pare, tuttavia, che alcune sue riflessioni<br />

si possano applicare anche ad alcune figure di vescovi e spieghino fenomeni<br />

analoghi a quelli registrati nella Siria del IV/V secolo. Cf L’ascesa e il<br />

ruolo dell’uomo santo nella tarda antichità, in D. VERA (a cura di), La società<br />

del Basso Impero. Guida storica e critica, Laterza, Bari 1983, 75-114.<br />

42<br />

Si veda ad esempio come l’episodio evangelico di Mc 10,17-31 sul giovane<br />

ricco o la parabola sul ricco stolto (Lc 12,16-21) siano state occasione<br />

di una pluralità di riflessioni non sempre coincidenti (al proposito cf il lavoro<br />

di M.G. MARA, Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, Città Nuova,<br />

Roma 1980). Lo stesso si dica per altri versetti biblici, come ad es., Prov<br />

22,2. A questo proposito cf J.L. FEIERTAG, Quelques commentaires patristiques<br />

de Proverbe 22,2. Pour une nouvelle approche du problème richesses et pauvreté<br />

dans l’Église des premiers siècles, in VigCh 42 (1988), 156-178.


288 LUIGI PADOVESE<br />

che questi autori abbiano un programma di rivendicazioni sociali<br />

o di rinnovamento delle strutture economiche del loro tempo;<br />

essi mirano piuttosto a denunciare e/o a risolvere situazioni<br />

concrete di ingiustizia 43 ; mirano ad incrementare una più giusta<br />

distribuzione dei beni in nome della fede che annunciano. Le loro<br />

idee sono dunque di natura religiosa e non economica 44 . In<br />

questa prospettiva si collocano le riflessioni sulla proprietà privata<br />

dove motivazioni bibliche e cristiane si intrecciano a considerazioni<br />

umanistiche. Tipico il caso di Gregorio di Nazianzo<br />

per il quale la proprietà privata con i conseguenti fenomeni di<br />

ricchezza e di povertà è conseguenza del peccato, mentre prima<br />

di esso tutto era in comune 45 : dottrina, questa, comune nell’antichità<br />

e legata al convincimento di un’”età d’oro” dove proprietà<br />

privata e schiavitù erano assenti e dove gli uomini erano guidati<br />

dalla natura senza leggi esterne 46 . Verosimilmente anche Ambrogio<br />

condivide la stessa opinione presente in Gregorio quando<br />

afferma: “Dio comandò che tutto fosse prodotto in modo che il<br />

cibo fosse comune a tutti e la terra fosse, in un certo senso, proprietà<br />

di tutti. La natura, dunque, ha creato il diritto comune,<br />

l’usurpazione il diritto privato (natura igitur ius commune generavit,<br />

usurpatio ius fecit privatum”) 47 . Dal canto suo Giovanni<br />

43<br />

Al proposito è sufficiente ricordare come un piccolo trattato ambrosiano<br />

quale il De Nabuthe, seppure svolga un tema biblico, è ispirato da situazioni<br />

di ingiustizia sociale che hanno l’appoggio del potere regale. Come,<br />

al proposito osserva M.G. MARA “i suoi interventi (di Ambrogio), e di riflesso<br />

le sue opere, vanno sempre misurate con gli avvenimenti di quel momento,<br />

di quella situazione o che a quella situazione fanno capo”, in AMBROGIO,<br />

La storia di Naboth a cura di M.G. Mara, L.U. Japadre ed., L’Aquila 1975, 22.<br />

44<br />

Cf R.M. GRANT, Cristianesimo primitivo e società 137-139.<br />

45 GREGORIO DI NAZIANZO, Sull’amore dei poveri - Oratio XIV 26: “Da<br />

quando l’invidia e la discordia entrarono nel mondo, insieme con la tirannia<br />

fallace del serpente che ci incanta con l’esca del piacere e mette i più forti<br />

contro i più deboli, da quel tempo il genere umano, prima unito, si è diviso<br />

in tanti popoli dai nomi diversi; l’avarizia ha infranto la generosità naturale,<br />

facendosi forza persino della legge, che difende il potente. Ma tu guarda invece<br />

l’iniziale uguaglianza, non le successive divisioni. Aiuta con tutte le forze<br />

la natura, onora la libertà primitiva, rispetta te stesso...”.<br />

46<br />

Tale dottrina, patrimonio comune dell’antichità, troverà poi l’avallo<br />

da parte dei teologi francescani. Cf M. HENGEL, Eigentum... 11-16.<br />

47<br />

De officiis ministrorum I 28, 132. Su questo testo e la problematica


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 289<br />

Crisostomo lascia intendere che all’origine dell’appropriazione<br />

delle ricchezze, per sé buone, c’è sempre - direttamente o indirettamente,-<br />

una qualche forma di ingiustizia 48 . Se si prescinde<br />

da queste affermazioni, i Padri del IV/V secolo non contestano di<br />

fatto la proprietà privata né obbligano ad una condivisione comunitaria<br />

dei beni 49 ; non è questa la finalità dei loro interventi;<br />

essi vogliono piuttosto arrivare ad affermare la destinazione universale<br />

dei beni, l’uguaglianza nativa di ciascun uomo: “La terra<br />

- scrive Ambrogio - è stata messa in comune a tutti, ricchi e poveri:<br />

perché, voi ricchi,vi arrogate il diritto di proprietà del suolo?<br />

La natura non sa che cosa siano i ricchi, lei che genera tutti<br />

ugualmente poveri” 50 . E’ rimarcato pertanto l’uso sociale della<br />

ricchezza e il ricco viene presentato come l’amministratore<br />

(oikonomos) (non il possessore) dei beni con una missione sociale<br />

da compiere: “non siamo cattivi amministratori dei beni<br />

che ci sono stati elargiti - esorta Gregorio di Nazianzo - per non<br />

udire le parole di Pietro: ‘Vergognatevi, voi che possedete i beni<br />

altrui, imitate l’equità di Dio e nessuno sarà povero’” 51 ; da parte<br />

di alcuni autori è altresì rilevato il ruolo complementare di ricchi<br />

e poveri, làddove anche il povero serve al ricco offrendogli<br />

sorta attorno ad esso, cf M.G. MARA, Ricchezza e povertà... nota 121, 70-71.<br />

Da parte sua anche Agostino vede nella disuguaglianza delle condizioni sociali<br />

ed economiche della società una conseguenza del peccato originale. “Il<br />

peccato è la prima causa della schiavitù, per cui l’uomo è sottomesso all’uomo<br />

in una situazione di dipendenza (...): però nella natura in cui Dio originariamente<br />

ha creato l’uomo, nessuno è schiavo dell’uomo, né del peccato”,<br />

La città di Dio XIX 15.<br />

48<br />

Al proposito Giovanni Crisostomo affronta il tema nell’Om 12 in 1Tm<br />

4: “Dimmi: da dove provengono le tue ricchezze? Da chi le hai ricevute? Da<br />

dove provenivano quelle di chi te le ha trasmesse? ‘Da mio nonno - rispondi<br />

- attraverso mio padre’. Potresti dunque, risalendo di generazione in generazione,<br />

dimostrare che sono state procurate in modo giusto? No, non potresti,<br />

e, necessariamente, alla loro origine ci fu qualche ingiustizia”. Sul tema<br />

cf S. ZINCONE, Ricchezza e povertà nelle omelie di Giovanni Crisostomo, L.U.<br />

Japadre ed., L’Aquila 1973, 42-49.<br />

49<br />

Cf R.M. GRANT, Cristianesimo primitivo e società 132-133.<br />

50<br />

De Nabuthe I 2.<br />

51 GREGORIO DI NAZIANZO, Sull’amore dei poveri - oratio XIV 24. Su questo<br />

tema si possono moltiplicare le attestazioni dei Padri. Cf sull’argomento<br />

S. ZINCONE, Ricchezza e povertà... 119-146.


290 LUIGI PADOVESE<br />

l’occasione di fare opere meritorie 52 ; si richiama la distinzione<br />

tra ciò che è necessario e ciò che è superfluo e si rileva che il superfluo<br />

appartiene ai poveri: “il tuo superfluo - scrive Agostino -<br />

è il necessario per un altro” 53 , o, riportando il pensiero di Basilio:<br />

“se ciascuno prendesse soltanto ciò che gli serve per le proprie<br />

necessità e lasciasse il superfluo all’indigente, nessuno sarebbe<br />

ricco, nessuno sarebbe povero, nessuno sarebbe nella miseria”<br />

54 . Lo svolgimento della problematica sociale è accompagnato<br />

da riflessioni circa i pericoli insiti nel possedere: la bramosia<br />

del di più che rende il possessore un ‘posseduto’ 55 , l’iniqua<br />

sopraffazione esercitata sui diritti e sui beni altrui e, fondamentalmente,<br />

quella progressiva miopia - rilevata soprattutto dai Padri<br />

latini 56 - che impedisce al cristiano di vedere e di tendere al<br />

futuro escatologico. La gravità di questa colpa consiste nello<br />

snaturare il messaggio cristiano privandolo della sua ‘apertura’<br />

al futuro e facendo ripiombare gli uomini all’interno del paganesimo<br />

dove si vive “nihil de futuro opinantes” 57 o - come direbbe<br />

il vescovo latino Cromazio d’Aquileia - al modo dei gentili<br />

“qui quasi pecora in hunc mundum viventes et de victu praesentis<br />

vitae tantummodo cogitantes, nihil putant esse post mortem”<br />

58 . Quando ciò si verifica per i battezzati, la pratica cristiana<br />

si restringe al solo momento cultuale, ma non è più vita e non<br />

incide sulla vita. Nascono così le contraddizioni più assurde di<br />

52<br />

Sul tema cf J.L. FEIERTAG, Quelques commentaires... 173.<br />

53 AGOSTINO, Sermo XXXIX 6.<br />

54 BASILIO DI CESAREA, Omelia VI 7.<br />

55<br />

Basta al riguardo richiamare un eloquente testo di AMBROGIO: “è la cosa<br />

posseduta che deve appartenere a chi la possiede, non già viceversa, che<br />

il possessore appartenga alla cosa posseduta. Perciò chi non usa il suo patrimonio<br />

come cosa che sia in suo potere; chi non sa donare al povero ed<br />

elargire con larghezza, è servo dei propri averi; non può dirsi padrone delle<br />

sue sostanze, perché le custodisce come cose altrui, alla pari di un servo: non<br />

le usa come proprie con la libertà di un padrone. Con una simile disposizione<br />

d’animo bisogna dire che quell’uomo appartiene alle sue ricchezze, non le<br />

ricchezze all’uomo”, De Nabuthe XV 63.<br />

56<br />

Come fa osservare J.L. FEIERTAG le riflessioni dei Padri latini si incrociano<br />

con riflessioni sulla salvezza eterna più che non presso i Padri orientali.<br />

Quelques commentaires... 173.<br />

57 ZENONE DI VERONA, Tractatus II 1, 16.<br />

58 CROMAZIO D’AQUILEIA, Tractatus XXXII 172-176.


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 291<br />

cui i Padri citati sono diretti testimoni. Nasce, insomma, un cristianesimo<br />

“di cornice” che solo parzialmente soppianta il paganesimo.<br />

<strong>Vol</strong>endo globalmente richiamare il pensiero sociale dei Padri<br />

del IV/V - pur con le diverse accentuazioni e sfumature che<br />

ciascuno presenta - è possibile richiamare alcuni aspetti fondamentali<br />

e ricorrenti in tutti:<br />

1. L’annuncio di questi predicatori - seppure riconosca la superiorità<br />

dell’ideale di povertà e castità in vista del Regno - non<br />

mira ad allontanare i cristiani dal mondo, estraniandoli dalla costruzione<br />

d’una società più giusta. Eppure il loro ideale non è<br />

questo. L’invito che essi di continuo muovono ai fedeli non è<br />

quello di “fuggire nel deserto”, sottraendosi alle loro responsabilità<br />

verso questo mondo 59 , ma di non confondersi con esso, magari<br />

ritenendo che le leggi della società e il concetto di “giustizia”<br />

vigente in essa debba valere allo stesso modo anche per i cristiani.<br />

Zenone di Verona sintetizza questa posizione comune richiamandosi<br />

a quanto un ipotetico cristiano potrebbe dire: “E’<br />

giusto che io conservi i miei beni e non cerchi quelli altrui. Ma<br />

questo - commenta il vescovo - sono soliti dirlo anche i pagani.<br />

In realtà vedremo quanto ciò sia ingiusto dinanzi a Dio” 60 . A base<br />

di questa concezione è possibile scorgere l’idea biblica della<br />

novitas christiana (“nuova creatura in Cristo” 2Co 5,17) secondo<br />

la quale - per il cristiano - etica, modelli comportamentali ed<br />

ideali non sono identici a quelli vigenti nella società. Come osserva<br />

Ilario di Poitiers “è necessario che i rigenerati (nel battesimo)<br />

abbiano un nuovo modo di pensare” 61 . Avendo presente<br />

questo convincimento di fondo si capisce come i grandi Padri<br />

59<br />

Basti qui richiamare il dovere della ‘responsabilità’ che Giovanni Crisostomo<br />

inculca ai cristiani di Antiochia verso tutti gli abitanti della città (cf<br />

Omelia I al popolo antiocheno. Sulle statue, 122), o alle espressioni di un vescovo<br />

come MASSIMO DI TORINO sulla responsabilità che i padroni cristiani<br />

hanno verso i loro schiavi pagani o, più generalmente, verso i pagani. Cf Sermone<br />

92 1; Sermone 106 2.<br />

60<br />

Trattato II 1. Sul carattere talora ingiusto della giustizia umana che discrimina<br />

in materia matrimoniale tra uomo e donna o che, in ambito sociale,<br />

maschera sotto apparente legittimità disoneste speculazioni, cf L. PADO-<br />

VESE, L’originalità cristiana - Il pensiero etico sociale... 80-81; 83-84<br />

61<br />

De Trinitate liber I 18.


292 LUIGI PADOVESE<br />

del IV/V secolo non considereranno l’impegno sociale del cristiano<br />

nel mondo racchiuso nello spazio di questo mondo. Si<br />

tratta di un impegno sociale, ma con una fondazione religiosa.<br />

2. Conformemente a questo sentire, i predicatori cristiani<br />

del periodo considerato lasciano intendere che un superamento<br />

delle ingiustizie di cui soffre la loro società scaturisce dalla modificazione<br />

interiore dell’uomo e non da un semplice mutamento<br />

delle strutture al quale neppure pensano. Nessuno dei vescovi,<br />

ad esempio, lotta per abolire la schiavitù, quantunque riconoscano<br />

che essa proviene dalla sopraffazione e dal peccato originale,<br />

eppure la svuotano di contenuto insistendo sulla fraternità<br />

universale, sulla comune figliolanza divina e sulla conseguente<br />

corresponsabilità.<br />

3. Questi vescovi, infine, tengono fede a quella tensione<br />

escatologica che costituisce una delle peculiarità cristiane. In<br />

forza di essa, dei predicatori come Giovanni Crisostomo, Ambrogio,<br />

Agostino riconoscono che il cristiano è al centro di un bipolarismo<br />

tra un “già” e un “non ancora”. Tenuto ben presente<br />

ciò, l’impegno del cristiano nel mondo consisterà nel vivere l’oggi<br />

senza dimenticarsi del domani.<br />

Concludendo è possibile affermare che l’insegnamento sociale<br />

dei grandi Padri del IV/V secolo, posti a capo delle Chiese<br />

dell’agápe, più che in vista di pianificazioni su come risolvere i<br />

problemi sociali, può esserci utile a livello di stimoli e di suggestioni.<br />

E’ un insegnamento che ha di mira soprattutto i singoli<br />

ed è inserito in un impegno di coerenza con la vocazione cristiana.<br />

Questi aspetti ci rendono anche ragione del perché, all’interno<br />

di tutta l’enorme produzione patristica in parte perduta,<br />

le omelie ‘sociali’ dei Padri ci siano state conservate. Esse<br />

hanno trovato il consenso della tradizione cristiana; sono valse<br />

a formarla e hanno certo concorso - assieme alla riflessione teologica<br />

sulla dignità dell’uomo e sul suo destino 62 - a creare quel-<br />

62<br />

Mi limito a rilevare l’influenza che la riflessione trinitaria e cristologica<br />

della Chiesa antica ha avuto nello sviluppo della conceziona sull’uomo:<br />

sui suoi diritti, sulla acquisita consapevolezza della sua dignità, sulla libertà<br />

di coscienza, libertà religiosa, sulla questione delle classi sociali. Cf al proposito<br />

A. GRILLMEIER, Moderne Hermeneutik und altchristliche Christologie -<br />

Zur Diskussion um die chalkedonische Christologie heute, in Mit ihm und in


LA DIMENSIONE SOCIALE DEL PENSIERO PATRISTICO 293<br />

la sensibilità odierna, tributaria di un passato da non dimenticare.<br />

Collegio S. Lorenzo da Brindisi<br />

G.R.A. Km. 68,800<br />

C.P. 9091<br />

00163 Roma<br />

Italy.<br />

LUIGI PADOVESE, OFM. CAP.<br />

—————<br />

The reality of the Church as a community of people is subject to a<br />

variety of factors such as historical circumstances, particular epochs<br />

and various localities. This explains the diversity of attitudes with<br />

regard to social issues which one finds within the Church. This article<br />

points out some factors to explain this by examining the 4th and 5th<br />

centuries: the socio-cultural origin of the leaders of the Church, their<br />

closeness to the monastic ideal, the political and social crisis of the 4th<br />

century and the role of the bishops as a sort of substitute in the resulting<br />

power vacuum. It is within this context that the social message of<br />

the great Fathers of the 4th and 5th centuries is placed, communicated<br />

in the main through homilies and focused on recalling the practical<br />

consequences of being a Christian in that particular historical<br />

moment.<br />

La realidad de la Iglesia en cuanto comunidad de personas, está<br />

sujeta a una serie de factores, como las coyunturas históricas, los tiempos<br />

especiales y los diversos lugares. Ello explica la diversidad de actitudes<br />

frente a los problemas sociales que uno encuentra en la Iglesia.<br />

Para explicarla, este artículo señala algunos factores, examinando los<br />

siglos IV y V: el origen sociocultural de los líderes de la Iglesia, su<br />

aproximación al ideal monástico, la crisis política y social del siglo IV<br />

ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven, Herder Verlag, Freiburg<br />

in Br 1975, 552-553; vedi pure G. WILLMANN, La concezione personalistica di<br />

Dio come presupposto della storia della libertà in Occidente, in Concilium 3<br />

(1977), 154.


294 LUIGI PADOVESE<br />

y el papel sustitutivo de los obispos con el resultado de un ‘vacío de<br />

poder’. En este contexto se ubica el mensaje social de los grandes<br />

Padres de los siglos IV y V, difundido sobre todo por medio de homilías<br />

y orientado a recordar las consecuencias prácticas del ser cristiano en<br />

ese especial momento histórico.<br />

—————<br />

The author is an invited Professor of Patrology at the Alphonsian<br />

Academy<br />

El autor es profesor invitado de Patrología en la Academia<br />

Alfonsiana<br />

—————


295<br />

StMor 37 (1999) 295-320<br />

TERENCE KENNEDY C.Ss.R.<br />

ST. ALPHONSUS’ SELVA.<br />

SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC?<br />

I. The Contemporary Retrieval of Rhetoric.<br />

Philosophy in the twentieth century has undergone many<br />

changes of mood. One that has gone rather unnoticed is the<br />

revival of rhetoric in the academy and in practice. In 1958<br />

Chaim Perelman and Lucie Olbrechs-Tyteca published Traité de<br />

l’argumentation. La nouvelle rhétorique. 1 It sparked a revolution<br />

in philosophy by proving that everyday communication could<br />

not really be grasped by the abstract logic of science but by<br />

rhetoric. This they conceived as the deep logic hidden in all<br />

discourse, a universal structure evoking the possibility of global<br />

communication with a universal audience. Perelman held that<br />

we became immune to rhetoric’s power when positivism<br />

branded everyday language pre-scientific and so not fully<br />

rational and reliable. In ethics this stance became known as<br />

emotivism. Perelman devoted great effort to overcoming the<br />

age-old prejudice against rhetoric as dishonest, suave, hidden<br />

manipulation of people’s emotions, without their consent and<br />

often for malign purposes. These accusations have been<br />

repeated ever since Plato objected that the Sophists were no true<br />

philosophers and false educators. 2 On the contrary Perelman<br />

proved that newspapers, radio, television, advertising and the<br />

pulpit all have a coherent, but non-formal logic, typical of life’s<br />

affairs and found in every culture such that without it human<br />

1<br />

Presses Universitaires de France, Paris 1958.<br />

2<br />

For a good account of this tension see SAMUEL IJSSELING, Rhetoric and<br />

Philosophy in Conflict. An Historical Survey, Martinus Nijhoff, The Hague<br />

1976.


296 TERENCE KENNEDY<br />

community could not exist. Rhetoric is essentially the capacity<br />

to reason with people by means of speech, a discourse in a<br />

public assembly that calls a people together as one community,<br />

or as we say, the people united by a common purpose. So speech<br />

in this strong sense, or rhetoric properly so called, creates a<br />

community, a people. This is no mere classroom transmission of<br />

information. It unites people’s purposes by persuading them<br />

about the common good, something that touches individual<br />

interests while remaining the good every citizen enjoys.<br />

Perelman’s analysis of our rhetorical ways of reasoning has<br />

influenced our understanding of contemporary society, its<br />

structures and theories of communication, literature and social<br />

science. It has found application in Biblical studies, Church<br />

history and theology as a model for academic endeavour. 3 What<br />

first appeared unthinkable has happened. Physicists and experts<br />

in pure science have taken over his ideas and often scientific<br />

theories are today viewed as metaphors to be analysed<br />

rhetorically.<br />

A great conquest in this retrieval has been the discovery of<br />

the true character of Giambattista Vico’s (1668-1744)<br />

philosophy. When it was realised that Vico did not fit smoothly<br />

into the mold of scepticism, nor of scientific rationalism, nor of<br />

the aesthetics of romantic idealism as Benedetto Croce wanted,<br />

recent research sought another key to his thought. The answer<br />

lay in rhetoric. In 1708 inaugurating the University of Naples’<br />

academic year, exactly 250 before Perelman published his book,<br />

Vico pronounced his famous discourse on education. He<br />

attacked Descartes’ fashionable new abstract science as<br />

incapable of keeping society together because it failed to<br />

stimulate youths’ imagination with the ideal of a society joined<br />

in a common aim and a common tradition. The timeless logic of<br />

mathematics is no match for myth and the power of the classic<br />

Greek and Roman authors’ narratives to create a viable<br />

historical identity for a people. “If you were to import the<br />

geometric method into practical life, you would do no more than<br />

3<br />

For example, DAVID S.CUNNINGHAM, Faithful Persuasion. In Aid of a<br />

Rhetoric of Christian Theology, Notre Dame Press, Notre Dame, IN, 1991.


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 297<br />

exhaust yourself in becoming a rational lunatic,” 4 says Vico. The<br />

language of imagination cements social relationships; and the<br />

key that unlocks language’s social meaning is rhetoric. Vico<br />

exploited it to penetrate the mythic worlds of Homer and the<br />

Twelve Tables of Roman Law, to discover their true identity and<br />

to explain how the heroic societies of Greece and Rome arose in<br />

time. He extended rhetoric’s range to his own period in Naples,<br />

thus allowing him to unify, some would say straddle, the current<br />

speculative theories of natural right and their historical<br />

evolution. He believed that God effected his providence for the<br />

civic commonwealth rhetorically, as evidenced by the language<br />

employed in religion, jurisprudence and education in various<br />

civilisations. An acute examination of this language revealed<br />

how they developed in history as human creations. Vico too<br />

perceived in rhetoric the organising principle for a university’s<br />

course of studies. He argued that just as a person must have all<br />

the virtues in order to have any one of them, so a scholar must<br />

be familiar with all the sciences in order to be competent in his<br />

profession. This is because rhetoric has no specific content but<br />

can be applied to each and every discipline. Vico was acutely<br />

aware of how rhetoric unifies knowledge as a social reality. 5 He<br />

is thus often honoured as the founder of the modern philosophy<br />

of history and the father of the social sciences.<br />

Vico’s passion for rhetoric makes him a useful model in<br />

recuperating the thought of another great Neapolitan, Alfonso<br />

Maria de Liguori (1696-1787). 6 The one professor, the other<br />

student at L’ Università Federico II di Napoli, both lawyers, they<br />

shared the same culture, were educated to be advocates at the<br />

Neapolitan bar, but their destinies took radically different<br />

directions. Vico aspired to use his rhetoric to save the civic<br />

4<br />

See quotation in ROBERT C. MINER, “Verbum-factum and Practical<br />

Wisdom in the Early Writings of Giambattista Vico,” Journal of the History<br />

of Ideas, 59(1998)1, 53, note 2.<br />

5<br />

See ANDEA BATTISTINI, La sapienza retorica di Giambattista Vico, Guerini<br />

e associati, Milano 1995, especially chapter III at 64.<br />

6<br />

For the relation between Vico and St. Alphonsus see ANDREA BATTISTINI,<br />

“Convergenze e divergenze culturali tra Vico e de Liguori,” in Alfonso M. De<br />

Liguori. La civiltà letteraria del settecento, P. Giannantonio (ed), Leo S.<br />

Olschki Editore, Firenze 1999, 269-295.


298 TERENCE KENNEDY<br />

commonwealth from decline and disintegration. When<br />

Alphonsus the barrister laid off his silks for a priestly habit he<br />

put on the rhetoric of Christ. He now exploited rhetoric to help<br />

him design and execute his apostolic project of forming a<br />

missionary institute dedicated to the salvation of the people.<br />

This institute was to be, we could say, the profession, almost<br />

parallel to lawyers in civil society, who would activate the<br />

practice of the love of Jesus Christ so as to create a truly<br />

Christian community bound to persevere in that love. 7<br />

The differences do not end here. In a short document, “La<br />

pratica della scienza nuova” 8 that Vico did not succeed in<br />

printing with the 1744 edition of the Scienza nuova, he laments<br />

that all his efforts up to then had been speculative and proceeds<br />

to indicate in sketchy outline the virtues needed for its pratica.<br />

Where Vico failed to put his project into pratica, St. Alphonsus<br />

succeeded magnificently. He saw his life not as speculation but<br />

as practice, The Practice of the Love of Christ as he expressed it<br />

in the title of his most famous book. He was not a man of action<br />

but of pratica. He knew how to discipline, direct, project and<br />

magnify his action out to the whole community by using<br />

rhetoric. His pratica of the Christian virtues was shaped by<br />

rhetoric.<br />

Retrieving St. Alphonsus’ rhetoric raises some peculiar<br />

problems not encountered in Vico because his knowledge of its<br />

principles is hidden by the skillful way he puts them into<br />

practice. It is a case of the art that conceals art. Nobody doubts<br />

that St. Alphonsus used rhetoric. His Glories of Mary addressed<br />

the whole Catholic world through emotion, imagination, story,<br />

myth, and the witness of the saints down the centuries. When<br />

translating these stories into English and German the<br />

7<br />

The finality of a mission is precisely to implant this love of Jesus Christ<br />

so as to leave “le anime legate con Gesù Cristo.” Selva di materie predicabili,<br />

Marietti, Torino 1905, Appendice, Punto I, n. 5: page 289. This was<br />

translated into English in two books: Dignity or Duties of the Priest, or Selva,<br />

Redemptorist Fathers, Brooklyn 1927; Preaching of God’s Word, Benzinger<br />

Brothers, New York 1890. Both were translated by Eugene Grimm, C.Ss.R.<br />

These three books will be referred to as Selva, Dignity and Preaching.<br />

8<br />

GIAMBATTISTA VICO, La scienza nuova, Introduzione e note di Paolo<br />

Rossi, Rizzoli, Milano 1998, 716-719.


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 299<br />

Redemptorists appointed to the task deliberately exorcised the<br />

most vivid tales out of their texts. They were terrified by the<br />

criticisms being published by John Henry Newman in England<br />

and Johannes Ignaz von Döllinger in Germany. 9 These<br />

denigrated St. Alphonsus’ spiritual writings as historically<br />

unreliable, a sort of fairy tales apt to scandalise the faithful. But<br />

the faithful were never really put off by this story-telling. It<br />

delighted them immensely thereby fulfilling one of the three<br />

aims of good rhetoric. These experts, who had lost contact with<br />

the popular, pre-enlightened imagination failed to recognise the<br />

rhetorical techniques Alphonsus was using. Perhaps their<br />

cultural arrogance sprang from a preoccupation for Northern<br />

European culture where Protestant interests prevailed. It would<br />

appear that St. Alphonsus’ reputation as an intellectual and<br />

spiritual guide never quite recovered in those countries from<br />

these attacks on his rhetoric, his imaginativeness and<br />

practicality.<br />

Both Newman and Döllinger belong to the period when<br />

rhetoric, quite wrongly, had been reduced either to literary<br />

criticism or to elocution as speech delivery, a time when the<br />

logic of ordinary speech and story-telling had been drowned in<br />

a flood of rationalism. To what tradition then did St. Alphonsus’<br />

popular preaching and writing style belong? His exempla are<br />

drawn from medieval modes of narrative and hagiography as<br />

Giuseppe Orlandi has shown. 10 Orlandi also notes that St.<br />

Alphonsus shared the rationalists’ critical spirit. This purified<br />

his thinking, making his reasoned preaching of the Gospel to the<br />

most abandoned convincing even to the most clear minded<br />

audience. He integrated the old and the new, the inductive and<br />

the deductive in rhetorical reasoning. He therefore belongs to<br />

the great tradition of rhetoric exercised by public figures such as<br />

statesmen,judges and jurists, churchmen and missionaries as a<br />

public ministry or office. He shared Vico’s concern for “il<br />

9<br />

See OTTO WEISS, “Alphonse de Liguori et la théologie allemande du<br />

XIX e siècle,” in Alphonse de Liguori, Pasteur et Docteur, J. Delumeau (ed),<br />

Beauchesne, Paris 1987, 183-229.<br />

10<br />

“L’uso degli in s. Alfonso Maria de Liguori,” in<br />

Spicilegium Historicum C.SS.R., XXXIX(1991)1, 3-39.


300 TERENCE KENNEDY<br />

popolo,” the classic term of reference for the audience which he<br />

repeats in his short tract on rhetoric.<br />

II. Some Presuppositions of Rhetoric.<br />

Alphonsus and Vico inhabited a world furnished by rhetoric.<br />

Aristotle, Cicero, Quintilian and St. Augustine are all in the DNA<br />

chains constitutive of their mental frameworks. St. Alphonsus<br />

was trained to be rigorous about the aims and means of rhetoric.<br />

Some of its important principles and presuppositions are the<br />

following. Classical thought treated rhetoric both as a technique<br />

and a branch of ethics. Aristotle’s Ethics, Rhetoric and Politics<br />

are inseparably connected as the sources of his moral theory.<br />

This essay works from an Alasdair MacIntyre’s premise for the<br />

recovery of virtue, namely that the transmission of a moral<br />

tradition is done rhetorically. 11 Eugene Garver’s Aristotle’s<br />

Rhetoric. An Art of Character 12 construes rhetoric as an art of<br />

ethical rationality, the character of the speaker being the first<br />

cause of persuasion. Alphonsus saw eloquence as a force of<br />

character emanating from the preacher to inculcate virtue in the<br />

assembled people.<br />

The second major principle is that the persuasion needed to<br />

inculcate virtue works through three factors, i). coherent,<br />

logical, argumentation, ii). the emotional state of the audience<br />

which the speaker aims to alter, and iii). the morally upright<br />

character of the speaker. These are the criteria for the apostolic<br />

group of priests Alphonsus formed with the mission of<br />

preaching salvation.<br />

Thirdly, these fit into the tradition of Christian eloquence<br />

formulated in St. Augustine’s De doctrina christiana that aims<br />

11<br />

This is a subtheme in his theory of virtue. It is obvious in his account<br />

of dialectic as the logic of most rhetorical reasoning. It underlies the<br />

historical processes whereby traditions are transmitted. See Chapter XVIII,<br />

“The Rationality of Traditions” in Whose Justice? Which Rationality?,<br />

University of Notre Dame Press, Notre Dame, IN, 1988.<br />

12<br />

University of Chicago Press, Chicago 1994.


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 301<br />

not at imparting information but at applying faith to life, 13 for<br />

knowledge does not guarantee practice. And so St. Alphonsus<br />

translated St. Augustine’s usus as pratica. 14 Since justifying faith<br />

is to be preached to the whole world, each person is capable<br />

under grace of responding to the Gospel. Faith comes through<br />

hearing and St. Augustine asserts that Scripture itself, the<br />

message of salvation, is intrinsically rhetorical and so<br />

communicable to all humanity. This is the foundation for<br />

popular preaching, spiritual exercises, missions to the people.<br />

St. Alphonsus saw faith working through rhetoric to raise up a<br />

people holy to the Lord.<br />

Fourthly, rhetoric is the way of activating the symbolic<br />

forms that constitute a culture, being the art of using language<br />

rightly. Both Aristotle and St. Augustine devote an immense<br />

space in their treatises to its consideration. Aristotle lists a<br />

complete organon of the sciences and gives a comprehensive list<br />

of the virtues to be exercised in public discourse with the aim of<br />

making the polis a community of virtue. St. Augustine is no less<br />

exhaustive in showing how all the sciences lead to knowledge of<br />

Christ through the Scriptures. For this reason Henri Marrou<br />

thought of the De docrtina christiana as the platform for a<br />

Christian culture. 15 Vico and St. Alphonsus were both aware of<br />

rhetoric’s force as a social glue.<br />

While the rhetorical character of St. Alphonsus’ writing is<br />

readily evident, these principles are rarely recognised in them.<br />

How were they lost? Just as Alasdair MacIntyre had to excavate<br />

behind the ruin worked by emotivism in modern ethics to<br />

reestablish the tradition of virtue so it will be necessary for us to<br />

see what could be blocking a more faithful vision of St.<br />

Alphonsus’ rhetoric.<br />

This essay cannot examine all his spiritual writings but will<br />

take up the one work where he explicitly invokes rhetoric as a<br />

13<br />

See A. VERWILGHEN, S.D.B., “Rhétorique et prédication chez<br />

Augustine,” Nouvelle Revue Théologique, 120(1998)2, 233-248.<br />

14<br />

I would like to thank Father DALMAZIANO MONGILLO, O.P. of the<br />

Angelicum who pointed this out to me.<br />

15<br />

See S. AGOSTINO D’IPPONA, La dottrina cristiana, introduzione,<br />

traduzione e note di Luigi Alici, EP, Milano 1989, 29.


302 TERENCE KENNEDY<br />

necessary means in priestly ministry, giving instructions for and<br />

examples of its use. The Selva di materie predicabili was<br />

thoroughly revolutionary when published in 1760. Today it is<br />

usually passed off as out of date because of his insistence on<br />

rhetoric and its perceived theology of priesthood. I shall discuss<br />

that only in as far as it is relevant to understanding his rhetoric<br />

of sanctity. The accepted, rather unreflected, conviction that the<br />

Selva replaced baroque histrionics with simple preaching in the<br />

style of the Apostles, all’apostolica, is utterly justified. 16 St.<br />

Alphonsus found the ideal of preaching for the people that he<br />

longed for suitably formulated in Canon Muratori’s manual of<br />

popular ecclesiastic eloquence. Muratori and St. Alphonsus<br />

became the heroes of the renewal of preaching. 17 Muratori<br />

theorised how a familiar style that could reach every class, even<br />

the unlettered, was always necessary in the pulpit. Some literati<br />

clergy were scandalised by Alphonsus’ novel notions and the<br />

innovation of using ordinary speech without lengthy Latin<br />

quotations or the adornments of wit and ingenuity, and worst of<br />

all without the operatic intonations dictated by the baroque style<br />

of delivery. Alphonsus responded to these attacks on his Selva<br />

with two apologies. 18 Citing Muratori’s authority in his defense,<br />

he proved that simple preaching as on missions was the<br />

normative pratica handed on by Christ, the Apostolic Church<br />

and the Fathers and the great Doctors. His priestly experience<br />

convinced him of its efficacy. “With the aid of popular eloquence<br />

the eternal truths are expounded nakedly, subjects easily<br />

understood are explained in a simple and familiar style, so that<br />

each person present may understand the entire instruction. In<br />

sermons, we address not only the learned, but also the<br />

16<br />

See VINCENZO RICCI, “Per una lettura degli interventi di s. Alfonso sulla<br />

predicazione apostolica,” Spicilegium Historicum C.SS.R., XX(1972), 54-70.<br />

17<br />

See AA. VV., La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento,<br />

Edizioni Dehoniane, Roma 1996.<br />

18<br />

See Opere Ascetiche, III, Marietti, Torino 1867, “Istruzioni ed<br />

avvertimenti ai predicatori. Lettera I. ad un religioso amico. Ove si tratta del<br />

modo di predicare all’apostolica con semplicità, evitando lo stile alto e<br />

fiorito (298-326). Lettera II. Ad un vescovo novello. Ove si tratta del grand’<br />

utile spirituale, che recano a’ popoli le sante missioni (326-337).”


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 303<br />

uninstructed, and these ordinarily form the greater part of the<br />

audience.” 19 His reasoning, stories and illustrations were those<br />

of the poor folk of Naples and the countryside as Hamish<br />

Swanston has shown. 20 These rationalist objections to his<br />

popular rhetoric were magnified as his influence spread in the<br />

nineteenth century. Let us now look a little more into the fate of<br />

the Selva.<br />

III. Literary Criticism and the Selva.<br />

St. Alphonsus published the Selva as one volume in three<br />

parts. In the English and in many other editions these have been<br />

separated, wrongly I contend, into retreat and mission matter.<br />

Parts I and II are the sermons and instructions preached in the<br />

spiritual exercises to clergy. Part III gives the practice of<br />

conducting missions. It tends to be viewed as but an appendix to<br />

the Spiritual Exercises, affording St. Alphonsus a splendid<br />

chance to publish matter collected over years on parish<br />

missions. Since it appeared to interrupt the rhythm of the<br />

whole, publishers have been prone to edit it separately or with<br />

other works on preaching. In spite of their different styles and<br />

tone and the various pragmatic uses to which they can be put,<br />

there is one evangelising intention running through the entire<br />

work, an intention that informs all the apostolates of a<br />

Redemptorist house. The tract on rhetoric is not just a catalogue<br />

of high-class, sophisticated pulpit technique but a revelation of<br />

how he would put his apostolic purpose into action.<br />

In the preface of the Introduzione Generale to the Opere<br />

Ascetiche Don Giuseppe De Luca states forcefully that the<br />

19<br />

Dignity, 269. Selva, 116 (Pt. II, Istruz. IV, n. 5). “Colla popolare poi si<br />

espongono schiettamente le verità eterne, e si dicono dottrine facili con istile<br />

familire e semplice, talmente che ciascuno degli uditori comprenda tutto ciò<br />

che si predica. Nelle prediche non si parla solo a’ dotti, ma anche a’rozzi, i<br />

quali ordinariemente compongono la maggior parte dell’uditorio.”<br />

20<br />

HAMISH SWANSTON, Celebrating Eternity Now, Redemptorist<br />

Publications, Chawton, Hampshire 1995, “He said nothing to them without<br />

parables,” 171-205.


304 TERENCE KENNEDY<br />

obstacles encountered in preparing such a critical edition were<br />

so immense that mistakes were almost inevitable. 21 G.<br />

Cacciatore notes what a many faceted composition the Selva is,<br />

bristling with all sorts of enigmas for the unwary researcher,<br />

In the Selva the citations feature jurists, moralists, inspiring<br />

ascetical authorities, and preachers, all mixed together - proof of<br />

St. Alphonsus’ various experiences as an author, preacher, writer<br />

of moral theology and confessor. (my translation) 22<br />

Cacciatore then explains his approach. By extrapolating from<br />

the rules of rhetoric in Part III he could interpret the saint’s<br />

whole literary production. Distinguishing fontes communes<br />

from fontes particulares enabled him to perform an operation of<br />

archeological retrieval that unearthed the fontes from which St.<br />

Alphonsus proceeded. 23 Cacciatore established that his direct<br />

sources were authors between 1650 and 1760 who summarised<br />

the Scriptures, the Fathers, pious stories and preaching with<br />

their vivid exempla, all according to seventeenth and eighteenth<br />

century canons of literary criticism. 24 It is a curious fact that<br />

Cacciatore transforms St. Alphonsus’s loci into fontes,<br />

evidencing the fact that he has a profoundly different conception<br />

of rhetoric. For Cacciatore it has become the critical discipline<br />

of literary composition that digs out sources embedded in<br />

historical material. For St. Alphonsus loci are not invoked to<br />

project our minds back into the past, but to create presence,<br />

which Chaim Perelman opines is the principal dynamic in<br />

rhetoric. St. Alphonsus wanted to describe preaching as an event<br />

that makes Christ, the Blessed Virgin and the saints actual today<br />

21<br />

Opere Ascetiche. Intoduzione Generale, by O. GREGORIO, G. CACCIATORE<br />

and D. CAPONE, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1960, especially xv.<br />

Hereafter Introduzione Generale.<br />

22<br />

Ibid. 224. “Nella Selva figurano promiscuamente giuristi, moralisti,<br />

esortatori ascetici, oratori, espressione della complessa esperienza<br />

dell’autore, predicatore, scrittore di morale, confessore.”<br />

23<br />

Ibid. “Le fonti e i modi di documentazione”, 119-290, especially<br />

sections beginning at 182 and 186.<br />

24<br />

Cacciatore has a chapter on literary style in St. Alphonsus but no<br />

parallel treatment of rhetoric or sacred oratory.


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 305<br />

in His Church. “By preaching the faith has been propagated, and<br />

by the same means God wishes it to be preserved: Faith comes<br />

by hearing: and hearing by the word of Christ.” 25 The gift of faith<br />

enables us to respond to Christ’s voice lovingly inviting us into<br />

the communion of saints. Although the following declaration<br />

by Perelman is not formally theological it is still rings true of<br />

St. Alphonsus: “The arguing always includes procedures by<br />

which ideas and values can be given special presence (in the<br />

French sense of being made present) in the minds of those<br />

addressed.” 26<br />

Did Cacciatore’s theory of literary criticism prevent him<br />

from properly appreciating St. Alphonsus’ rhetorical presence<br />

and contact with real life situations? Domenico Capone in his<br />

apologetic answer to Döllinger’s assault on St. Alphonsus’<br />

veracity adverted to these crucial questions about correct<br />

criteria and their provenance. 27 Although Capone’s insights into<br />

his master’s pastoral purposes are profound, beautiful and<br />

fruitful, he still seems rather fixed on proving that St. Alphonsus<br />

did not breach Döllinger’s iron laws of critical thought.<br />

Historical criticism based on the methods of the exact sciences<br />

such as physics is clearly unacceptable. But the informal logic of<br />

rhetoric open to audience reaction and flexible life conditions<br />

brings us closer to preaching as an irrepeatable event, a fact to<br />

which St. Alphonsus himself alluded. We can gauge the<br />

effectiveness of a sermon only from the witness of those who<br />

actually hear and are affected by it, e.g., St. Augustine’s<br />

testimony to how grace worked in him through St. Ambrose’s<br />

utterances. 28 The Selva is surely St. Alphonsus’ witnessing to his<br />

first-hand experience on the missions to how the Spirit liberated<br />

so many souls enslaved by sinful habits. Freedom is of course<br />

the invisible element differentiating testimony from science. St.<br />

25<br />

Dignity, 265. Original Selva, 114 (Pt. II. Istruz. IV. n. 2). “Per la<br />

predicazione si è propagata la fede, e per la medesima vuol il Signore che si<br />

conservi: Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi.”<br />

26<br />

CHAIM PERELMAN, The Realm of Rhetoric, University of Notre Dame<br />

Press, Notre Dame, IN, 1982, x.<br />

27<br />

See Introduzione Generale, part three especially from 297.<br />

28<br />

See Opere Ascetiche, III, 302.


306 TERENCE KENNEDY<br />

Alphonsus was utterly persuaded that true freedom before God<br />

was effected through the divine efficacy of preaching. For<br />

preaching is a concrete reality that realises God’s universal will<br />

to save humanity, something not achievable by abstract critical<br />

thought. Simple preaching reaches rich and poor, educated and<br />

uneducated, those who can read and write and those who<br />

cannot. It draws together every class and social grade, the whole<br />

people, as a community united in accepting God’s word. That is<br />

why St. Alphonsus railed against hidden motives in the preacher.<br />

Lack of simplicity or self-seeking after acclaim and glory always<br />

excluded somebody or some class from God’s grace<br />

communicated in his word. The only valid motive is God’s glory<br />

that realises his universal salvific will embodied in his word. The<br />

question thus becomes: how did St. Alphonsus witness to the<br />

efficacy of God’s action in preaching? G. Orlandi, as mentioned<br />

above, found a path through these difficulties by investigating<br />

the exempla as samples of sacred story-telling. 29 Historians have<br />

classified them as a species of rhetoric, thereby defusing<br />

Döllinger’s rationalist objections. Such stories provided concrete<br />

motivation for conversion. To us they may sound fantastic but<br />

for the believing people of St. Alphonsus’ time they were<br />

concrete examples, models of salvation. They allowed people to<br />

enter the stream of salvation history in a spontaneous, non selfreflexive<br />

way, there to respond to Christ present in their history.<br />

IV. The Structure of the Selva.<br />

St. Alphonsus’ rhetoric structures both his message and its<br />

live communication. He was dealing with priests but not in a<br />

theoretic manner. Quite often the contemporary reader is put off<br />

by his definition of priesthood in terms of dignity, indeed a<br />

dignity greater than any other in this world. He seems to over<br />

emphasise priestsly status and superiority over the laity. But his<br />

stance had the same electrifying effect for the priests he<br />

29<br />

G. ORLANDI, “L’uso degli in S. Alfonso Maria de Liguori,”<br />

Spicilegium Historicum C.SS.R., XXXIX(1991)1, 3-39.


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 307<br />

addressed that the proclamation of human rights has today for<br />

the downtrodden and deprived. It is an irrefutable premise, a<br />

definition so obvious that it hardly needs proof, that restores<br />

self-esteem and self-worth. Its one foundation is that God has<br />

chosen them to be priests from eternity and hence their priestly<br />

identity can never be taken from them. Just as all human rights<br />

derive from personal dignity, so all ministerial roles and duties<br />

in the Church flow from divine vocation. Why St. Alphonsus<br />

should be almost strident will becomes obvious when we<br />

consider the state of the clergy at the time. He structured his<br />

argument almost like a system of human rights: all the lesser<br />

arguments confirm and reinforce his starting point, priestly<br />

dignity in whose light all his other theses become meaningful.<br />

This definition is functional and not merely notional.<br />

St. Alphonsus uses dignity in this meaning to put his own<br />

original imprint on the Spiritual Exercises. His proposition<br />

moves the human heart through its connection with the eternal<br />

truths; priests’ path of salvation is their priesthood. By<br />

personally choosing them God wants them to be holy. Their<br />

salvation depends on their being saints who sanctify others. His<br />

idea of salvation and the sanctity flowing out of it is spelt out in<br />

Parts I and II. He divides his retreat talks rhetorically into<br />

sermons to do with the ends of the priesthood (motivation) and<br />

instructions on the means to achieve these (teaching). The<br />

sermons lasted about three quarters of an hour and were<br />

grouped in the following way. Positive topics included; the<br />

dignity, the end or goal, and the sanctity of the priesthood.<br />

Negative themes centred on the harm sin does to priestly dignity,<br />

the evil of tepidity, and the punishment that sins of<br />

incontinence, sacrilegious Masses, and scandal deserve. He<br />

called them to live priestly charity to the full by attending with<br />

zeal to the salvation of the souls in their flock. The last sermon<br />

on vocation to the priesthood was to be preached to seminarians<br />

before ordination, reminding them that their eternal salvation<br />

depended on their honest entry into the priesthood for the right<br />

motives. A priest without a vocation was a thief in the Lord’s<br />

sheepfold. This sermon was not to be preached to priests<br />

because it could easily precipitate some of them into despair.<br />

The dynamic of his preaching has a double motivation<br />

toward conversion; negatively, it exposes sin and its evil


308 TERENCE KENNEDY<br />

consequences; positively, he attracts them by the power of God’s<br />

love away from despair to trust in God’s infinite mercy. He<br />

situates the truth of their vocation within the universe of God’s<br />

providence so as to draw them to God and distance them from<br />

sin as they begin to use the compass that indicates true North,<br />

where true happiness is found, the standard by which to<br />

measure the worth of all things before God. This fulfills the first<br />

aim of rhetoric, to move people to change their goals by<br />

redefining their identity through conversion.<br />

The instructions in Part II are as their name implies, a “how<br />

to do it” course in the skills necessary in pastoral ministry. They<br />

lasted about fifteen minutes each and apply the motives already<br />

inculcated to the details of a priest’s virtuous daily living. They<br />

summarise his spirituality and piety under the titles of<br />

celebrating the Mass, good example, chastity, preaching and<br />

hearing confessions, mental prayer, humility, meekness, internal<br />

and external mortification, the love of God, and devotion to Our<br />

Blessed Lady. Here St. Alphonsus fulfills the second aim of<br />

rhetoric, that is, to teach his hearers by instructing them in a<br />

new style of life.<br />

Part III proposed that priestly life become mission. It<br />

transcends the end of individual conversion and sanctity<br />

programmed in the retreat, inviting the retreatant to a social<br />

commitment to work for the salvation of the world. Called “The<br />

Exercises of the Missions,” (degli esercizi di missione) it is often<br />

characterised as a mission manual. In it St. Alphonsus teaches<br />

priests to become evangelisers like himself by sharing his<br />

rhetorical skills in the communication of the kerygma with them.<br />

Like Christ he calls them to become disciples, taking them on as<br />

apprentices and showing them by example how exhortatory<br />

invitations (sentimenti) and instructions in childrens’ and adults’<br />

catechesis work. Job descriptions on a mission, e.g. of a<br />

superior, preacher, catechist and master of ceremonies, etc., are<br />

clearly laid out. He sets down rules for the frequency and<br />

planning of missions; they are to be held even in small villages<br />

so as to reach the whole population. There must be sufficient<br />

missionaries and time for all to go to confession. Chapter Seven,<br />

“The Sermon” (della predica) is the centre piece in the whole<br />

volume, explaining the techique of preaching. It sketches all a<br />

priest needs to know to compose and deliver a sermon. The


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 309<br />

sermon was the means that encapsulated the Gospel message<br />

for his contemporaries. St. Alphonsus constructed a sermon on<br />

the classic principles of rhetoric, not as stylistics or literary<br />

criticism but as oral communication. 30 His rhetoric focuses on<br />

live performance, a purpose it achieves through the four phases<br />

of invention, disposition, elocution and memory. He states what<br />

right proclamation consists in, i.e., all that will cause the hearers<br />

to actively receive the message with faith and respond with a<br />

total conversion of life. The Selva proposes sermon schemas and<br />

rhetorical principles: his Sunday Sermons and popular writings<br />

are completed discourses informed by the very same rhetoric.<br />

In summary, the dignity of the priest is the motive for his<br />

conversion, for a new style of priestly existence, and for<br />

becoming a disciple, a professional missionary preacher like<br />

Alphonsus himself. In this sense the Selva is a comprehensive<br />

educational programme. Its aims are surety in priestly vocation,<br />

knowledge of its basic duties, and identity with the tradition of<br />

missionary proclamation. Education is an ancient aim of<br />

rhetoric as we know from Quintilian, St. Augustine and many<br />

others. St. Alphonsus is a Doctor of the Church because of the<br />

magisterial way he proposed ideas that could be put into<br />

practice and so be imitated. To read the Selva is still to<br />

experience a Kairos, a moment of conversion.<br />

V. The Rationale of the Selva.<br />

To fully account for St. Alphonsus’ rhetorical techniques<br />

would fill a textbook. That would be a major work impossible in<br />

this essay. Some important indications can be given. St.<br />

Alphonsus denounces the moral shortcomings and even the vice<br />

of the clergy of his time without mincing his terms. He did know<br />

saintly priests but they were a minority. He contends in his<br />

retreat that when people fail to live Christian lives this is caused<br />

30<br />

See H. SWANSTON, Celebrating Eternity Now, Redemptorist<br />

Publications, Chawton, Hampshire 1995, 176 for his dependence on Vico<br />

and Quintilian.


310 TERENCE KENNEDY<br />

by bad example and weak morals among priests. People are not<br />

holy because priests have not satisfied their spiritual hunger for<br />

preaching, catechesis, and the sacraments. Vices such as<br />

superstition reflect those of priests. A priest is set apart for God’s<br />

business, to raise up a holy people, worshiping Him in spirit and<br />

truth.<br />

... our eternal salvation depends principally on embracing the<br />

state to which God has called us. The reason is evident: for it is<br />

God that destines according to the order of his Providence, his<br />

state of life for each individual, and according to the state to<br />

which he calls him, prepares for him abundant graces and<br />

suitable helps..this is the order of predestination. 31<br />

Without a vocation to sainthood a priest cannot realise God’s<br />

providence for his Church. 32 Meditating the eternal truths a<br />

priest comes face to face with his destiny before God and so<br />

discerns his true vocation. His standard is the saint who quivers<br />

with fear at the thought of sacred ordination,<br />

But how, I ask, does it happen that the saints, who live only<br />

for God, resist their ordination through a sense of their<br />

unworthiness, and that some run blindly to the priesthood, and<br />

rest not until they obtain it by lawful or unlawful means? 33<br />

31<br />

Dignity, 201-202. Selva, 86 (Pt. I. Cap. X. n. 13). “...la nostra salute<br />

eterna principalmente depende dal prendere quello stato a cui ci chiama<br />

Iddio...E la ragione è chiara, perchè Dio è quello che, secondo l’ordine della<br />

sua provvidenza, destina a ciascuno lo stato di vita. e, secondo lo stato a cui<br />

lo chiama, prepara poi le grazie e gli aiuti convenienti:...e questo è l’ordine<br />

della predestinazione... “<br />

32<br />

See L. PETROSINO, “Fedeltà alla vocazione sacerdotale secondo S.<br />

Alfonso,” Rivista di ascetica e mistica, 48(1979)3, 218-244. I shall not go into<br />

St. Alphonsus’ theology of priesthood nor its part in disputes earlier this<br />

century. Each image of the dozens he proposes has its own rhetoric which<br />

needs to be grasped before one can come to a unified theology thereof.<br />

33<br />

Dignity, 40-41. Selva, 14 (Pt. I. Cap. II. n. 3). “Ma come va, mi<br />

domando, che i santi, quei che vivono solemente a Dio, ripugnano di<br />

ordinarsi perchè se ne stimano indegni, e poi tanti corrono alla cieca a farsi<br />

sacerdoti e non si quietano, se non vi giungono per impegni e per vie diritte<br />

o storte?”


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 311<br />

The clerical vices described above run parallel to and are<br />

balanced by the virtues of the true priest of Jesus Christ. A<br />

priest’s task is to cooperate with Christ in the world’s salvation<br />

and so continue his work. St. Alphonsus refers to them as<br />

workers (operai) or priest workers (sacerdoti operai). 34 They<br />

honour the Father by distributing the benefits Christ gave into<br />

their keeping to forgive sin and consecrate the body of Christ. 35<br />

They guard Christ’s body in His real presence in the Eucharist<br />

and in His mystical body, the Church. Here are some terms<br />

employed to define their offices:<br />

The dignity of the priest is estimated from the exalted nature<br />

of his offices. Priests are chosen by God to manage on earth all<br />

his concerns and interests. St. Ambrose has called the priestly<br />

office a divine profession. A priest is a minister destined by God<br />

to be a public ambassador of the whole Church, to honor him,<br />

and to obtain his graces for all the faithful...The dignity of the<br />

priest is also estimated from the power that he has over the real<br />

and the mystical body of Christ...Priests are the dispensers of the<br />

divine graces and the companions of God...the glory and the<br />

immovable columns of the Church: they are the doors of the<br />

eternal city...they are the vigilant guardians to whom the Lord<br />

has confided the keys of the kingdom of heaven. 36<br />

Like all the great pastors down the ages St. Alphonsus could<br />

cry when confronted with the decline in the priesthood in his<br />

34<br />

See Selva, 73 (Pt. I. Cap. IX. n. 21).<br />

35<br />

Selva, 14 (Pt. I. Cap. II. n. 5). “Gesù Cristo ha formato i sacerdoti come<br />

suoi cooperatori a procurare l’onore dell’eterno suo Padre e la salute delle<br />

anime.”<br />

36<br />

Dignity, 24-28. Selva, 7-9 (Pt. I. Cap. I. n. 2-7). “Si misura la dignità del<br />

sacerdote dai grandi uffizi ch’essi hanno. I sacerdoti sono gli eletti da Dio a<br />

trattare in terra tutti i suoi negozi ed interessi divini...è chiamato l’uffizio<br />

sacerdotale professione divina...Il sacerdote è il ministro destinato da Dio<br />

come pubblico ambasciatore di tutta la chiesa per onorarlo e per impetrarne<br />

la grazia a tutti i fedeli... Si misura anche la dignità del sacerdote dalla<br />

potestà che tiene sovra il corpo reale e sovra il corpo mistico di Gesù Cristo<br />

... I sacerdoti sono i dispensatori delle divine grazie ed i compagni di<br />

Dio...Sono l’onore e le colonne, sono le porte e i portinai del cielo.”


312 TERENCE KENNEDY<br />

day. 37 And so he drew up his retreat as a polar opposition<br />

between dignity-depravity, sanctity-sin, virtue-vice, good<br />

example-scandal, chastity-incontinence, ambition-meekness<br />

and zeal-tepidity. By now it should be clear how his rhetoric of<br />

contrast was a leaver for conversion. It is a powerful tool,<br />

creating tension inside the hearer, opening up a space where<br />

God can act. He based this rhetoric on Scripture, on the<br />

fundamental distinction of ends: between the highest ends (fini<br />

altissimi) which come from God and false ends (fini storti)<br />

derived from this world’s self-seeking. In his words,<br />

Neither nobility of birth, nor the will of parents are marks of<br />

a vocation to the priesthood; nor is talent or fitness for the<br />

offices of a priest a sign of vocation, for along with talent a holy<br />

life and a divine call are necessary. What, then, are the marks of<br />

a divine vocation to the ecclesiastical state? The first is a good<br />

intention. It is necessary to enter the sanctuary by the door, but<br />

there is no other door than Jesus Christ: I am the door of the<br />

sheep...if any man enter in he shall be saved. To enter, then, by the<br />

door is to become a priest not to please relatives, nor to advance<br />

the family, nor for the sake of self-interest or self-esteem, but to<br />

serve God, to propagate his glory, and to save souls. 38<br />

The contrast between virtue and vice hinges on the value of<br />

priesthood as a God-given-dignity. So a priest must be holy to<br />

37<br />

Dignity, 51. Selva, 18 (Pt. I. Cap. III. n. 4). The quotation is: “Piange s.<br />

Bernardo in vedere tanti che corrono a prendere i sacri ordini senza<br />

considerare la santità che si richiede in coloro che vogliono ascendere a<br />

tanta altezza.”<br />

38<br />

Dignity, 191-192. Selva, 81-82 (Pt. I. Cap. X. n. 6). “Non sono segni di<br />

vocazione al sacerdozio nè la nobiltà di nascita nè la volontà dei parenti: e<br />

neppure è segno il talento e l’abilità che forse avesse già taluno per gli ufficj<br />

di sacerdote...E quali dunque sono i segni per conoscere la vocazione allo<br />

stato ecclesiastico? Il primo segno è il retto fine. Bisogna entrare nel<br />

santuario per la porta, e questa non è altro che Gesù Cristo. Ego sum ostium<br />

ovium etc. per me si quis introierit salvabitur. Non è la porta dunque il voler<br />

piacere i parenti nè l’avanzamento della casa nè l’interesse o la stima<br />

propria, ma il retto fine di servire a Dio, per propagar la sua gloria e salvar<br />

anime.”


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 313<br />

sanctify the people, to nourish them with the Eucharist and<br />

forgive their sins in confession. How does he justify “dignity” as<br />

a definition or first premise? By the classic technique of<br />

reasoning through enthymemes and exempla, i.e., by deduction<br />

from the axiomatic wisdom of the Scriptures, Fathers and<br />

saints, and by induction from the lived experiences of the<br />

Church and her saints in history. These complement each other<br />

as they should in all good rhetoric. The argument of the Selva<br />

oscillates between imagining and thinking, appealing to heart<br />

and mind as appropriate.<br />

Part II uses the same rhetoric of opposition and contrast. It<br />

sketches a spirituality from both aspects, negatively as distacco<br />

mortifying worldly concerns, and positively as loving union with<br />

God by conforming our lives to His will. It comes to grips with<br />

the difficulties experienced by isolated, country priests with a<br />

remedial course in ministry that is not ashamed to descend to<br />

practicalities (cose di pratica) in a way scandalising to many<br />

well-healed retreat masters. St. Alphonsus wanted to restore to<br />

his often ignorant hearers their dignity as functional ministers<br />

of the Gospel in their home villages. He instructs them in their<br />

pastoral duties and in the spiritual life required to sustain their<br />

ministry. His rhetoric succeeds because he identifies with them,<br />

their needs and their mentality which he learnt from years on<br />

the missions. His slogan is, “But to obtain grace for others the<br />

priest himself must be holy.” 39 He formed sacerdotal character<br />

by exercising them in prayer and ministry. He realised rhetoric’s<br />

teaching purpose at its best by instructing them in mental prayer<br />

where they learnt the science of the saints. 40 He concretises the<br />

way of perfection into a rule of life (regolamento) based on deep<br />

personal commitment.<br />

In Part III St. Alphonsus describes the further possibilities<br />

of their life on a dryer, more objective level. He presents<br />

preaching missions as an evangelical project. A squad of secular<br />

priests might band together for a preaching campaign in their<br />

own area, or by dedicating their lives permanently and fully by<br />

39<br />

Dignity, 61. Selva, 22 (Pt. I. Cap. III. n. 14). “Ma per ottenere le grazie<br />

agli altri è necessario che il sacerdote sia santo.”<br />

40<br />

Selva, 129 (Pt. II. Istruz, V. n. 5). Note the dependence on St. Bernard.


314 TERENCE KENNEDY<br />

joining his own Redemptorists. Second, if not moved to become<br />

missionaries, at least, they should know the rationale of<br />

missions so as to be positively disposed and not negative and<br />

destructive toward them.<br />

What then is the purpose of St. Alphonsus’ tract on rhetoric<br />

in the Selva? In our terms, it corresponds to the yearning for a<br />

new language in which to socialise the faith. The sermon<br />

packaged the faith’s conversion content, and the mission<br />

institutionalised the Gospel’s energy for the Church. He shaped<br />

the project of preaching salvation to the people into a historical<br />

force by founding his own missionary institute. Rhetoric was the<br />

instruments he used to mold sermons into a unified plan and<br />

shape preaching as a social structure, an institution in the<br />

Church. 41 Rhetoric succeeds only when it adjusts its logical<br />

arguments and structures to the psychological condition and<br />

capacity of the people. Here one palpably touches the source of<br />

Alphonsus’ persuasiveness. His rhetoric is the fruit and image of<br />

his experience. In this sense there is a praxis (preaching) - theory<br />

(rhetoric) - praxis (mission) dynamic at work throughout the<br />

Selva. Neither praxis nor rhetoric are individualistic terms: they<br />

are essentially social and inter-related. St. Alphonsus knew he<br />

could change the Church’s praxis by transforming the practices<br />

of priests, the pastoral agents closest to the people. 42 Luigi<br />

Petrosino suggests St. Alphonsus had an end (vocation to<br />

holiness) - means (duties of clerics) - project (apostolate as<br />

mission) schema in mind as a practical plan to reform the<br />

priesthood in his time. 43 The fact that the Exercises were often<br />

preached during missions in order to evengelise the clergy and<br />

41<br />

The power of rhetoric to mold social structures is well treated in<br />

Richard Harvey Brown,” Rhetoric, Textuality and the Postmodern Turn in<br />

Sociological Theory,” in The Postmodern Turn, Steven Seidman (ed.),<br />

Cambridge University Press, Cambridge 1994, 229-241.<br />

42<br />

See my “Did St. Alphonsus practice practical Theology? “Per venire<br />

dunque alla pratica”: Practice or pragmatism?”, La recezione del pensiero<br />

alfonsiano nella chiesa, Collegium S. Alfonsi de Urbe, Roma 1998,155-167.<br />

43<br />

L. PETROSINO, C.SS.R. presented an unpublished tesina for the licence<br />

in moral theology in the Accademia Alfonsiana in 1985 entitled La “Selva” al<br />

servizio del sacerdozio nel ‘700. He draws attention to the importance of the<br />

libraries in the Redemptorist houses in Ciorani and Pagani and to the


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 315<br />

to make them evangelisers confirms this. Alphonsus stands<br />

firmly in the Augustinian tradition which argues from what<br />

priests are, to what they ought to be. His rhetoric appeals to<br />

them to be converted so as to convert others. He inserted<br />

rhetoric into the processes of conversion, sanctification and<br />

community building in the Church as a necessary means of<br />

spreading God’s merciful love to the world.<br />

St. Alphonsus’s list of sermons appears excessively negative,<br />

even harsh, and over-emphatic about sin. To get inside his<br />

approach to priests we need to know the conditions in which he<br />

laboured. 44 The state of the clergy at the time was a cause for<br />

serious concern. Although the priests he addressed celebrated<br />

Mass they were by and large incapable of hearing confessions or<br />

assisting the dying. Another problem was a type of parish, the<br />

parrocchia ricettizia, often found in the Kingdom of Naples. It<br />

answered more to powerful government-backed local families<br />

than to the bishop. This occurred against a background of<br />

Church-State tension that sometimes flared into open fights<br />

over taxes, property and jurisdiction. The Council of Trent had<br />

been officially accepted but was not effectively applied. The<br />

Diocesan Synod of 1726 and Cardinal Spinelli’s 1741 Pastoral<br />

Visitation set new clerical standards that inspired Blessed<br />

Gennaro Sarnelli’s L’ecclesiastico santificato in 1739. 45 St.<br />

Alphonsus also wrote on bishops and seminaries. 46 He knew that<br />

only learned and saintly priests dedicated to serving the poor<br />

could prevent a mass abandonment of the practice of the faith.<br />

Clergy numbers were quite excessive, even over 2% of the<br />

population. Many became priests from family pressure, a way of<br />

getting a son “set up” in life. Seminaries were in a pitiable state,<br />

being financially viable only because the wealthy sent their sons<br />

authors whose preached retreats St. Alphonsus had available there, e.g., L.<br />

Abelly, M. Beuvelet, C. A. Cattaneo, etc.<br />

44<br />

See G. ORLANDI, Il regno di Napoli nel settecento, Collegium S. Alfonsi<br />

de Urbe, Roma 1996, especially Parte II.<br />

45<br />

This is the date given by FRANCESCO CHIOVARA, Il beato Gennaro Maria<br />

Sarnelli Redentorista, Materdomini 1996, 141.<br />

46<br />

See Opere Ascetiche, III.; “Riflessioni utili ai vescovi,” 865-877;<br />

“Regolamento per i seminarj,” 878-886.


316 TERENCE KENNEDY<br />

for a good education with no notion of orders. Many students<br />

lived outside, like Alphonsus himself, often doing their studies<br />

under a pastor’s guidance who had to guarantee a candidate’s<br />

suitability. Standards were lax indeed, even on the part of<br />

bishops. There resulted a largely uneducated clergy, living with<br />

their families, frequently involved in business and secular<br />

affairs. Such worldliness was the price the Church paid for<br />

failing to be authentically spiritual, something against which<br />

St.Alphonsus rebelled with a rhetoric of contrast, prophetic in<br />

word and action.<br />

VI. Character and the Rhetoric of Liberty in St.Alphonsus.<br />

The author’s admonitions at the beginning of the Selva<br />

reveal his personal attitude to rhetoric. The freedom he expects<br />

of priests is very impressive. His approach to them could be said<br />

to be based on the principle of freedom. Sermons and a fortiori<br />

the Exercises, he notes, do not function according to a<br />

predetermined plan. But his plans are not haphazard for their<br />

matter, division and way of relating to the audience have to be<br />

invented. The title Selva or wood suggests that invention is a way<br />

of finding one’s way through a forrest of possible arguments as<br />

explained by “The Invention, or the Choice of Materials for<br />

composing a Sermon.” 47<br />

Great is the error of some who, having found the materials,<br />

set themselves to determine the points and to compose the<br />

sermon. One must before all prepare the materials, that is, the<br />

texts of Scripture, the arguments, the comparisons, etc.; which<br />

are to serve to prove the propositions that one has in view. 48<br />

47<br />

Preaching, 179. Selva, 228 (Pt. III, Cap VII, n. 1). “dell’invenzione o sia<br />

selva per formare la predica.”<br />

48<br />

Preaching, 179. Selva, 228 (Pt. III. Cap. VII. n. 1). “E’ grande errore<br />

quello d’alcuni che prima di trovar la materia si pongono a determinare i<br />

punti ed a stendere la predica. Bisogna dunque prima di tutto ritrovar la<br />

materia, cioè le scritture. le ragioni, le similitudini ec. che conducono a<br />

provar la proposizione che si propone di trattare.”


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 317<br />

St. Alphonsus evokes this response freely in the retreat<br />

master as well as in the person meditating his writings for<br />

spiritual light. He defends their liberty to create and arrange<br />

arguments which<br />

are given without order, and expressed briefly, that the reader<br />

may select the authorities, subjects, and thoughts that are most<br />

pleasing to him, and may afterwards arrange and extend them as<br />

he pleases, and thus make the discourse his own. 49<br />

Parts I and II furnish models of discourses from which a<br />

retreat master may choose and compose completed discourse as<br />

he desires. In communication a speaker’s integrity is most<br />

important. For people see quickly if the message pronounced is<br />

not his own. A vital stage in forming a preacher is personalising<br />

his message.<br />

For experience shows that a preacher will scarcely deliver<br />

sentiments with fervor and zeal unless he has first made them<br />

his own, 50<br />

Communication is a two-way process: a preacher fits his<br />

message to his hearers’ condition by entering their world. “The<br />

preacher must imagine himself to be one of them.” 51 Aflame<br />

with the love of God he can warm their hearts, opening them up<br />

to God’s action. God takes the initiative by operating in the<br />

preacher who calls his listeners to “the freedom.. of the children<br />

of God” (Rom 8: 21). St. Alphonsus strove vigorously to liberate<br />

49<br />

Duties, 19. Selva, 5 “Avvertimenti necessarj a chi da gli esercizi<br />

spirituali ai sacerdoti” “non si è dato l’ordine che ricerca un discorso formato<br />

per ciascuna materia; nè i sentimenti si sono distesi; si son notati questi alla<br />

rifusa, ed in breve; ma ciò si è fatto di proposito, affinchè il lettore<br />

scegliendone quelle autorità, dottrine e pensieri che più gli gradiscono, egli<br />

poi gli ordini e li stenda come meglio gli piacerà, facendosi con ciò proprio<br />

il discorso.”<br />

50<br />

Ibid. “l’esperienza fa vedere che ‘l predicatore difficilmente dirà con<br />

calore e spirito quei sentimenti, se prima non gli avrà fatti proprj,”<br />

51<br />

Dignity, 270. Selva, 117 (Pt. II. Istruz. IV. n. 6). “Bisogna che il<br />

predicatore si figura d’essere come uno di loro.”


318 TERENCE KENNEDY<br />

his hearers from every bondage, e.g. family pressure and secular<br />

affairs, and to release the abundant grace of redeeming love<br />

within them. Retreat masters are exhorted to “be careful to treat<br />

with respect and sweetness the priests who listen to him” 52<br />

The title Selva suggests a place of mystical encounter as in<br />

the pastoral poetry and opera of the period. This rhetoric set up<br />

an atmosphere of silent contemplation of God and his goodness,<br />

the reason St. Alphonsus make mental prayer with the people.<br />

He so fixed the social form of many practices of popular piety<br />

that they have lasted to the present day. To read the Selva<br />

through the lens of critical reason turns a living forest into a pile<br />

of fire-wood, depriving it of God’s living presence active through<br />

His Word. St. Alphonsus recommended the Selva for a private<br />

retreat, aspecially where a difficult life-decision or vocation<br />

hung in the balance. 53<br />

In preaching a priest communicates of himself. He becomes<br />

a mirror reflecting God’s goodness to people in their need.<br />

Cardinal Martini says preaching involves contact with self,<br />

others and God in his beautiful meditation on “The preacher<br />

before the mirror.” 54 Alphonsus projected multiple images of<br />

priesthood since no one alone could contain this mystery. He<br />

never sought to bolster his own reputation, yet he has testified<br />

to how God worked his own conversion, calling him to be his<br />

advocate pleading the cause of poor sinners. Here is the source<br />

of his rhetoric of contrast.<br />

The causes that a priest should advocate are the causes of<br />

poor sinners; and these he should seek to deliver from the hands<br />

of the devil and from eternal death by sermons, by hearing<br />

confessions, or at least by admonitions and prayers. 55<br />

52<br />

Dignity, 20-21. Selva, “Avvertimenti a chi dà gli esercizi spirituali a’<br />

sacerdoti,” 5. “di trattare que’ sacerdoti che l’ascoltano, con rispetto e con<br />

dolcezza.”<br />

53<br />

See, “Sull’utilità degli esercizj spirituali fatti in solitudine,” in Opere<br />

Ascetiche, III, Marietti, Torino 1847, <strong>Vol</strong>. III, 609-617.<br />

54<br />

CARLO MARIA MARTINI, Il predicatore allo specchio, Ancora, Milano 1986.<br />

See Selva, 103 (Pt. II, Istruz. II, n. 9).<br />

55<br />

Dignity, 350. Selva, 153 (Pt. II. Instruz. VIII. n. 11). “Le cause che ha<br />

da difendere sono le cause dei poveri peccatori, per liberarli colle prediche,


ST. ALPHONSUS’ SELVA. SHOUND IT BE UNDERSTOOD AS RHETORIC? 319<br />

This is how St. Alphonsus understood himself, God’s<br />

advocate using the priestly rhetoric of mercy in the service of the<br />

poor. It is not enough to treat the Selva as a treasure trove of<br />

sermon material or manual of how to conduct missions. It<br />

transcends these things to reveal what moved him as a priest, a<br />

missionary and a founder. Implicit in its structure, running<br />

through it from beginning to end are the presuppositions of<br />

classical rhetoric enunciated in Section II of this essay. We have<br />

seen his argument, the condition of his audience, and his own<br />

character, which in good rhetoric is the chief source of<br />

persuasion, the most important of these three elements that<br />

combine to create a discourse. The Selva is to be understood<br />

then not just as another great monument in the tradition of<br />

classic rhetoric, but as the active presence of the living God<br />

working through the mouth of the preacher. Perhaps it is only<br />

the poet who can catch this truth.<br />

What function is so noble as to be<br />

Ambassador of God and destiny?<br />

To open life! to give kingdoms to more<br />

Than kings give dignities? to keep heaven’s door?<br />

Mary’s prerogative was to bear Christ, so<br />

‘Tis preachers to convey him, for they do,<br />

As angels out of clouds, from pulpits speak,<br />

And bless the poor beneath, the lame, the weak. 56<br />

Accademia Alfonsiana<br />

Via Merulana 31<br />

C.P. 2458<br />

00100 Roma - Italy.<br />

TERENCE KENNEDY, C.Ss.R.<br />

—————<br />

colle confessioni o almeno colle ammonizioni ed le orazioni, dalle mani del<br />

demonio e dalla morte eterna.” See the reproduction of the engraving<br />

opposite the frontpiece in St. Alphonsus’ original edition in E. Marcelli and<br />

S. RAPONI, Un umanista del ‘700 italiano. Alfonso M. de Liguori, Provincia<br />

Romana C.SS.R, Roma 1992, 53.<br />

56<br />

JOHN DONNE, quoted by EDGAR N. JACKSON, A Psychology for Preaching,<br />

Hawthorn Books, New York 1961, 69.


320 TERENCE KENNEDY<br />

Summary / Resumen<br />

This essay describes the contemporary recovery of rhetoric and its<br />

importance in understanding G. B. Vico and St. Alphonsus Liguori.<br />

The Selva di materie predicabili of Saint Alphonsus is not just a<br />

manual of preaching technique. Its use of rhetoric reveals how he conceived<br />

the goals of the priesthood, of preaching, of missions to the<br />

people, and of their institutionalization in the Church.<br />

Este ensayo describe el rescate actual de la retórica y su importancia<br />

para la comprensión de Juan Bautista Vico y de San Alfonso de<br />

Liguori. La Selva de materias predicables de San Alfonso no es sólo<br />

un manual de predicación técnica. Su uso de la retórica demuestra<br />

cómo él concibió el fin del sacerdocio, de la predicación, de las misiones<br />

populares y de su establecimiento en la Iglesia.<br />

—————<br />

The author is an Ordinary Profesor at the Alphonsian Academy.<br />

El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana.<br />

—————


321<br />

StMor 37 (1999) 321-356<br />

SEBASTIANO VIOTTI<br />

IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE<br />

La questione dell’impatto tra morale e legge civile incontra<br />

non poche difficoltà per approdare ad una soluzione adeguata<br />

e, soprattutto, condivisa dalle varie cosmovisioni e correnti di<br />

pensiero che animano e frastagliano le società contemporanee,<br />

complesse e pluralistiche; anzi, forse proprio questo frastagliamento<br />

culturale costituisce il maggiore ostacolo. Il rapporto tra<br />

etica e legge civile diventa problematico soprattutto con l’avvento<br />

della modernità e tale rimane anche oggi, sia per la prassi<br />

che per la teoria: l’irrilevanza della legge civile per la coscienza<br />

di molti cittadini e la discordanza circa i parametri che definiscono<br />

una legge buona o la sua legittimità sono i nodi del rapporto<br />

tra etica e diritto umano. Non pochi cittadini, infatti, e tra<br />

essi vanno annoverati anche parecchi cristiani, distinguono e<br />

separano la rettitudine morale personale dall’adempimento dei<br />

doveri civici, convinti che l’ordinamento giuridico non interpelli<br />

in qualche misura la responsabilità della persona, la sua coscienza.<br />

I criteri in base ai quali qualificare una legge come<br />

buona o norma sociale autentica suscitano discussioni e non sono<br />

parametri condivisi non solo nell’opinione pubblica, spesso<br />

umorale, facilmente suggestionabile e manipolabile, e tra gli<br />

uomini politici, sovente più interessati all’affermazione della loro<br />

parte e al conseguimento di un consenso maggiore che al bene<br />

della società, ma incontrano dissenso e contrasto anche tra<br />

gli stessi cultori di filosofia politica. Il problema poi balza prepotentemente<br />

in evidenza, sfociando spesso in accese polemiche<br />

che, come innescate da una miccia, si riaccendono e rinfocolano,<br />

specialmente quando vengono presentate determinate<br />

proposte di legge, o durante il loro iter di elaborazione, e raccomandazioni<br />

di organismi internazionali intese a regolamentare<br />

“aspetti delicati” per la convivenza, legati alle nuove situazioni<br />

sociali o alle possibilità di manipolazione aperte dalla scienza e


322 SEBASTIANO VIOTTI<br />

dalla tecnica 1 . Discussioni e polemiche che spesso assumono<br />

anche toni veementi con scambio di reciproche accuse tra le<br />

parti: integrismo e oscurantismo; relativismo e agnosticismo.<br />

Il problema morale della legge civile è certamente ascrivibile<br />

in primo luogo al venir meno di evidenze etiche comuni, ma,<br />

a mio avviso, soprattutto le polemiche, che rendono la discussione<br />

e la controversia più aspra e lacerante, in alcuni casi, non<br />

sono scevre da un qualche equivoco, connesso ad una precomprensione<br />

circa la natura e la funzione della legge civile. La parte<br />

cattolica, infatti, non sempre riesce a sfuggire alla tentazione<br />

di attribuire impropriamente alla legge civile, chiamata ad indicare<br />

la condotta sociale auspicabile, il compito di esprimere e<br />

definire la verità morale o di sanzionare e rafforzare con la coazione<br />

il vigore dell’intera legge morale. In sostanza, assegna alla<br />

legge civile un ruolo eminentemente educativo della coscienza 2 ,<br />

equiparandola tout-court alla legge morale, senza avvertire chiaramente<br />

che, se questa è chiamata ad esprimere la verità morale<br />

e formare i convincimenti morali della coscienza, il diritto po-<br />

1<br />

Mi riferisco in particolare alle proposte di legge per la regolamentazione<br />

dell’aborto, della fecondazione medicalmente assistita e della sperimentazione<br />

in genetica, per il riconoscimento dei diritti delle convivenze di<br />

fatto…<br />

2<br />

Questa era la convinzione condivisa dei teologi moralisti del passato,<br />

che mi limito a documentare con alcune affermazioni di Häring : “Le leggi<br />

dettate dagli uomini non offrono la chiarezza e la sicurezza del bene assoluto,<br />

come le leggi divine. Tuttavia sono richieste dalla stessa natura sociale<br />

dell’uomo. L’uomo ha bisogno dell’autorità e della sua legge per il proprio<br />

sviluppo morale. Ma soprattutto ha bisogno della legge la comunità per la<br />

propria stabilità (la legge è una realtà sociale), per rendere possibile a ogni<br />

singolo membro un ambiente d’ordine, in cui prestare il proprio servizio e<br />

svolgere la propria attività morale. Doppiamente necessaria è poi una rigida<br />

legislazione, a causa della colpa originale. Se la legge non ponesse un argine<br />

agli abusi della libertà da parte dei cattivi, i buoni perderebbero ben presto<br />

la loro libertà al bene, sedotti o costretti. (Qui sta il grande errore del « concetto<br />

di libertà » della democrazia occidentale). La legge con i suoi mezzi<br />

coattivi è un necessario strumento di educazione per la debolezza umana e<br />

una difesa contro la malvagità degli uomini”. B. HÄRING, La legge di Cristo,<br />

Morcelliana, Brescia 1967, V^ ed., voll,3, I, 327 In seguito, nell’opera Liberi<br />

e fedeli in Cristo, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, l’autore si distaccherà da<br />

questa impostazione.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 323<br />

sitivo invece suppone dei convincimenti morali nelle persone ed<br />

è finalizzato a rendere possibile la compresenza e l’interazione<br />

di soggetti e mondi vitali diversi per convinzioni e progetti di vita.<br />

La funzione pedagogico-morale non può essere il ruolo primario<br />

e principale della legge civile, poiché lo Stato non può arrogarsi<br />

il compito di plasmare le coscienze, non può erigersi a<br />

maestro di morale, in quanto: “[...] non ha competenza in materia<br />

teologica e religiosa, perché per natura sua è «laico» e non<br />

può quindi emettere giudizi in materia che oltrepassino il livello<br />

sociologico” 3 . Negare alla legge civile la funzione di esprimere<br />

la verità morale e di formare le coscienze, non equivale ad affermare<br />

che essa possa disertare l’etica, che debba estraniarsi ed<br />

essere avulsa da considerazioni circa quanto è bene e giusto per<br />

la convivenza, che l’ordinamento giuridico non debba ispirarsi a<br />

dei valori, ma significa riconoscere che esso non “progetta” un’etica,<br />

non forgia una sua etica, ma solo assume e dà vigore sociale<br />

ai convincimenti morali dei cittadini circa quanto è eticamente<br />

significativo per la convivenza. La relazione tra legge civile e<br />

morale, per essere adeguatamente compresa, non può che essere<br />

pensata a partire dalla distinzione, per compito e per ambito,<br />

tra le due grandezze:<br />

“Bisogna distinguere e solo quando avremo distinto le due<br />

dimensioni, quando avremo capito che la politica non ha il compito<br />

di dirci quello che è giusto o non è giusto fare eticamente<br />

ma che ha il compito di stabilire le condizioni per favorire una<br />

presa di coscienza etica e far sì che una azione etica sia possibile,<br />

allora avremo fatto un passo avanti. [...] se noi distingueremo<br />

politica ed etica, cioè se davvero avremo compreso come la politica<br />

non sia se non quel gioco attraverso cui rendiamo possibili<br />

degli scenari in cui siamo liberi, in cui siamo capaci della nostra<br />

libertà, in cui siamo capaci di comportarci eticamente, allora<br />

avremo ritrovato, a quel punto, e solo a quel punto, il legame che<br />

lega queste due esperienze. Quindi distinguere per ritrovare ciò<br />

che lega” 4 .<br />

3<br />

G. MATTAI, Morale Politica, EDB, Bologna 1977, 2^ ed., 264-5.<br />

4<br />

S. GIVONE, La casa della verità è la storia, in AA.VV., L’Etica dei giorni<br />

feriti, Cittadella, Assisi 1997, 76.


324 SEBASTIANO VIOTTI<br />

L’altra parte, quella che si definisce laica (laicista?), viceversa,<br />

non riesce sovente a sfuggire alla tentazione opposta: separare<br />

e contrapporre legge civile e morale, dimenticando che l’ordinamento<br />

giuridico, quale norma per un bene-essere delle persone<br />

e della vita sociale nella convivenza politica, non può prescindere<br />

del tutto da una considerazione circa il significato e il<br />

fine della vita associata, espressi dall’etica. Giunge così a configurare<br />

e ridurre la legge civile unicamente ad imposizione, o comando,<br />

espressione della forza dei numeri o codificazione delle<br />

preferenze della maggioranza. In altre parole, non riesce ad evitare<br />

l’insidia del positivismo e del sociologismo giuridico, racchiudendo<br />

e facendo consistere la significatività della legge solamente<br />

nella correttezza del procedimento della sua emanazione,<br />

equiparando così legittimità a legalità, sostituendo il ius quia<br />

iussum al ius quia iustum.<br />

La zona d’ombra circa la natura dell’ordinamento giuridico<br />

si accompagna poi ad una non sempre puntuale attenzione e valutazione<br />

di tutti i fattori che entrano in gioco nella sua costituzione,<br />

che formano così, in buona misura, il nocciolo duro della<br />

controversia sul problema morale della legge civile.<br />

La riflessione filosofico-politica contemporanea sulla legittimità<br />

della legge civile è quindi una questione culturale intricata,<br />

ulteriormente complicata dalla molteplicità delle visioni del pianeta<br />

“uomo” e delle cosmovisioni morali presenti nelle nostre<br />

società pluralistiche. Essa si trova come di fronte ad un guado<br />

certamente difficile da superare, ma non impossibile, se si vorrà<br />

attivare un dialogo, scevro da pregiudizi e posizioni precostituite,<br />

un dialogo che, per approdare a dei risultati, certamente richiederà<br />

tempi lunghi e notevole impegno e pazienza. Senza alcuna<br />

presunzione o pretesa di indicare una facile soluzione,<br />

quasi un uovo di Colombo, vorrei intervenire nel dibattito con<br />

un obiettivo modesto e limitato: compiere una ricognizione dei<br />

fattori implicati nella questione del problema morale della legge<br />

civile, evidenziando gli elementi che devono essere considerati e<br />

composti, per richiamare una rinnovata riflessione su di essi,<br />

anche a costo di apparire banale e cadere nell’ovvio. Metodologicamente<br />

vorrei risalire dagli aspetti che appaiono più semplici<br />

e condivisi agli aspetti più complessi, problematici e controversi.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 325<br />

Norma necessaria, legale e chiara<br />

Le leggi civili, fenomenologicamente, possono essere descritte<br />

e comprese come determinazioni dell’autorità politica<br />

che esprimono l’atteso apporto collaborativo di ogni cittadino<br />

per la vita della comunità, in quanto con esse l’autorità cerca di<br />

promuovere la sinergia degli intenti e dell’operare di tutti e, contemporaneamente,<br />

di rassicurare ognuno circa il comportamento<br />

degli altri cittadini. Risulta così immediatamente chiara la loro<br />

valenza di forza finalizzata: sono norme autoritative e coattive,<br />

ma finalizzate a dare un volto ordinato e armonico alla convivenza<br />

socio-politica. Forza finalizzata, poiché sono contemporaneamente<br />

senso e coazione, poste a servizio della socialità<br />

umana, quali strumenti che propiziano il dipanarsi e lo svilupparsi<br />

ordinato della socializzazione e della vita sociale o convivenza<br />

politica. Il diritto umano è dunque uno strumento per veicolare<br />

una progettualità sociale e ha, quale caratteristica inscindibile,<br />

la necessità di essere efficace, deve cioè effettivamente incidere<br />

sulla pluralità delle relazioni, e dei gruppi, da cui la convivenza<br />

è costituita, per garantirle e sostenerle e per comporre le<br />

particolarità con la pluralità, in modo che l’agire di tutti sia concordemente<br />

orientato al perseguimento del bene comune, risultante<br />

da una composizione equilibrata tra esigenze di libertà ed<br />

esigenze di giustizia e di uguaglianza. Tale necessità di effettiva<br />

incidenza o di efficacia è messa particolarmente in risalto dalla<br />

sanzione, che accompagna ogni legge.<br />

E’ nella natura delle cose che uno strumento sia tale, se è veramente<br />

pertinente allo scopo, cioè se idoneo al fine, correttamente<br />

prodotto ed usabile; la legge civile dunque è veramente<br />

uno strumento a servizio dell’umanizzazione della convivenza se<br />

riveste un carattere di giustizia, di necessità o utilità, di correttezza<br />

procedurale nelle modalità di emanazione e di chiarezza e<br />

comprensibilità quanto alla formulazione. Caratteristiche queste<br />

che, a partire da Isidoro 5 , sono state costantemente ribadite<br />

5<br />

“Erit lex honesta, iusta, possibilis secundum naturam, secundum consuetudinem<br />

patriae, loco temporique conveniens, necessaria, utilis; manifesta<br />

quoque, ne aliquid per oscuritatem in captionem contineat; nullo privato<br />

commodo, sed pro communi utilitate civium scripta”. ISIDORO, Etymolo-


326 SEBASTIANO VIOTTI<br />

nella tradizione morale cattolica: “Sono da recensire come proprietà<br />

precipue della legge: l’onestà, la possibilità, la giustizia,<br />

l’utilità” 6 . Certo sono esigenze di spessore diverso, ma tutte significative<br />

e convergenti a qualificare una legge civile come buona<br />

legge, vera norma sociale.<br />

Nella convivenza politica, l’ordinamento giuridico non è un<br />

lusso o un optional, esso è necessario ed indispensabile quale<br />

supporto e condizione per il dipanarsi ordinato e concorde della<br />

vita sociale, poiché, se è vero che le varie relazioni sgorgano<br />

quasi spontaneamente dalla costitutiva dimensione sociale della<br />

persona, è altrettanto certo che il loro integrarsi armonico necessita<br />

di mediazioni. Le leggi sono la mediazione necessaria affinché<br />

“l’altro” possa essere riconosciuto nella sua fondamentale<br />

uguaglianza di dignità, possa essere effettivamente destinatario<br />

di giustizia e partner sociale: “Le leggi sono la struttura architettonica<br />

della comunità. La «comunità» [...] come tale si<br />

compone senza leggi, ma in seguito [...] esige le leggi per permettere<br />

ai suoi componenti - individui e gruppi - di coesistere e<br />

vivere ordinatamente” 7 . La necessità delle leggi è una logica e<br />

giarum, I, 10, 6 in J.P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, serie latina, Garnier,<br />

Parigi 1844-64, 82, 203. Posizione che già san Tommaso riprende, affermando<br />

che Isidoro ha convenientemente posto le caratteristiche che la<br />

legge umana deve possedere. Cf. THOMAE, AQUINATIS, Summa Theologiae, I-II,<br />

95, 3.<br />

6<br />

M. ZALBA, Theologiae Moralis Compendium, BAC, Madrid 1958, voll. 2,<br />

I, 207. Confrontando le affermazioni di Isidoro e di Zalba si può notare che<br />

i manualisti non menzionano più tra le caratteristiche della legge “la chiarezza”,<br />

inoltre rapporteranno “possibilità” unicamente alle forze fisiche e<br />

morali della singola persona e non presteranno seria attenzione alla legalità<br />

o correttezza della procedura di emanazione della legge, non menzionabile<br />

da Isidoro per evidenti ragioni storiche, ma certamente da avvertire nella<br />

modernità.<br />

7<br />

R. SPIAZZI, Principi di Etica Sociale, ESD, Bologna 1990, 2^ ris., 100.<br />

La necessità dell’ordinamento giuridico e l’illustrazione della sua funzione<br />

sono un tema importante e ricorrente nel Magistero Sociale; paradigmatico<br />

al riguardo è quanto afferma Pio XII: “Affinché la vita sociale, quale è voluta<br />

da Dio, ottenga il suo scopo, è essenziale un ordinamento giuridico, che le<br />

serva di esterno appoggio, di riparo e protezione; ordinamento la cui funzione<br />

non è dominare, ma servire, tendere a sviluppare e accrescere la vitalità<br />

della società nella ricca molteplicità dei suoi scopi [...]. Un tale ordina-


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 327<br />

coerente conseguenza della naturale socialità dell’uomo e della<br />

naturalità della comunità politica: il concetto di legge è connaturato<br />

ai concetti di socialità umana e di comunità politica. Verità<br />

logica messa in luce e confermata anche dall’esperienza: la<br />

storia, infatti, testimonia come le norme sociali, consuetudinarie<br />

o scritte, abbiano sempre accompagnato e sostenuto l’esperienza<br />

socio-politica, la loro presenza è, infatti, attestata, in modo<br />

inequivocabile, anche nella vita associata dei popoli più antichi.<br />

La convivenza sociale, per essere ordinata ed armonica, ha<br />

dunque bisogno di leggi, ma solo nella misura adeguata, cioè il<br />

loro numero non deve essere insufficiente o smoderatamente<br />

moltiplicato. La mancanza di leggi o un loro numero insufficiente<br />

condannerebbe la convivenza alla legge della giungla, alla<br />

sopraffazione del più forte, ma una loro eccessiva proliferazione<br />

asfissierebbe e ingabbierebbe la vitalità della società, la<br />

snaturerebbe e ne sfigurerebbe il volto, riducendola all’immagine<br />

di una istituzione totale, la avvicinerebbe all’esperienza di un<br />

campo di concentramento. La libertà dei cittadini è un bene<br />

troppo prezioso perché il legislatore possa restringerla senza<br />

una vera necessità per il bene comune: “La «sottomissione» o<br />

consenso all’autorità politica non esige affatto che si sia disposti<br />

a lasciarsi privare senza necessità delle espressioni ragionevoli<br />

della libertà creativa o lasciarsi sovraccaricare di leggi inutili o<br />

non necessarie” 8 , per questo le leggi non devono essere moltiplicate<br />

e ognuna di essa deve rivestire un vero carattere di necessità<br />

per la comunità.<br />

La tradizione cattolica e le sane filosofie politiche, come<br />

concordano nel rivendicare la necessità dell’ordinamento giuridico,<br />

altrettanto fermamente e concordemente affermano che<br />

ogni singola legge deve rivestire un carattere di necessità o al-<br />

mento per garantire l’equilibrio, la sicurezza e l’armonia della società ha anche<br />

il potere di coercizione contro coloro, che solo per questa via possono essere<br />

trattenuti nella nobile disciplina della vita sociale; [...]. L’ordinamento<br />

giuridico ha inoltre l’alto e arduo scopo di assicurare gli armonici rapporti<br />

sia tra gli individui, sia tra le società, sia anche all’interno di queste”. PIO XII,<br />

Nuntius Radhiophonicus, 24.12.1942, nn. 10. 12 in R. SPIAZZI, I documenti<br />

sociali della Chiesa, Massimo, Milano 1988, 2^ ed., voll. 2, I, 459-61.<br />

8<br />

B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, 4^<br />

ed., voll. 3, III, 443.


328 SEBASTIANO VIOTTI<br />

meno di utilità per la società, per il bene comune. Un primo assunto<br />

dunque: una legge è buona, se è necessaria.<br />

La legge è una determinazione che proviene dall’autorità politica,<br />

ma questa, nello Stato di Diritto, quali sono quasi tutti gli<br />

Stati contemporanei, non decide o governa a proprio piacimento<br />

o arbitrio, ma sub lege, vale a dire nell’ambito e secondo modalità<br />

prefissate dalla Costituzione o Carta Fondamentale, quale<br />

recezione basilare di valori condivisi per la convivenza e formulazione<br />

di un quadro procedurale generale, in cui sono delineati<br />

i diritti e doveri dei cittadini, le istituzioni e i poteri statuali, i loro<br />

reciproci ambiti e rapporti e i meccanismi secondo cui devono<br />

operare. Di più, nella forma democratica di Stato e di governo,<br />

propria ormai anch’essa della stragrande maggioranza degli<br />

Stati contemporanei, il potere politico trova la giustificazione<br />

prossima della sua esistenza e del suo operare nel consenso del<br />

corpo sociale: i governanti ricevono in affidamento dal popolo il<br />

mandato di governare, quali suoi rappresentanti ed interpreti,<br />

mandato che costituisce la giustificazione del loro potere e in<br />

pari tempo il suo limite. Certamente questo non implica di per<br />

sé che il vigore di una legge dipenda da un consenso o da un’accettazione<br />

formale o pratica di essa da parte della comunità 9 , ma<br />

questo non significa che non vi debba essere una corrispondenza<br />

tra quanto la legge prescrive e quanto nella coscienza sociale<br />

emerge e che le leggi non debbano essere emanate dall’autorità<br />

legittima, in coerenza con la Costituzione e secondo procedure<br />

previste. In caso contrario la sensibilità democratica ne sarebbe<br />

urtata. In democrazia, infatti, come già ho accennato, il potere è<br />

un potere consentito, che trova nel consenso del popolo, titolare<br />

naturale del potere, la sua radice prossima e il suo controllo,<br />

specialmente tramite le elezioni, quali scelta e revoca di persone<br />

e programmi; ne segue che anche le singole leggi, almeno indirettamente,<br />

sono al vaglio del popolo sia quanto alla loro legittimità<br />

che quanto alla loro legalità. Fattore che, senza dubbio,<br />

complica la soluzione del problema morale della legge civile, co-<br />

9<br />

“Necessitas acceptationis ex parte subitorum ut lex obliget nulla est<br />

per se”. M. ZALBA, Theologiae Moralis Compendium, BAC, Madrid 1958, voll.<br />

2, I, 243.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 329<br />

me emergerà meglio in seguito; infatti, la presenza, nel corpo sociale,<br />

di visioni etiche diverse, che emergono e vivacizzano un’opinione<br />

pubblica pluralista, non può non condizionare in qualche<br />

modo la formazione ed il dettato delle singole leggi.<br />

Legittimità dell’autorità e correttezza della procedura di<br />

emanazione sono dunque significative, anche se non in modo<br />

esclusivo, per definire la legittimità di una legge. Un secondo assunto<br />

dunque: una legge è buona se è valida o legale.<br />

Sembra lapalissiano affermare che una legge, poiché detta<br />

ai cittadini un comportamento, dovrebbe essere formulata chiaramente,<br />

in modo che quanto prescrive possa essere da essi facilmente<br />

compreso, almeno dalla stragrande maggioranza, e che<br />

l’obiettivo specifico in ordine al bene comune che con essa si<br />

persegue dovrebbe essere facilmente riconoscibile o individuabile<br />

dai cittadini 10 . Già Isidoro menzionava la necessità di chiarezza<br />

per la legge 11 , se essa è complicata e oscura per il linguaggio<br />

della formulazione, può trarre in inganno circa quanto effettivamente<br />

prescrive e diventa una trappola per il cittadino, se<br />

10<br />

Ho usato il condizionale in quanto l’aspettativa non sempre si realizza.<br />

E’ significativo che la Camera dei Deputati italiani abbia riscontrato la necessità<br />

di istituire una commissione ad hoc: rendere intelligibili i testi legislativi.<br />

Del resto è esperienza diffusa che la giurisprudenza deve ripetutamente<br />

intervenire per interpretare le leggi: ciò è una spia, un indice della non<br />

chiarezza di tante leggi. La “chiarezza” è una caratteristica non esplicitamente<br />

menzionata, come già ho notato, in buona parte dei manuali di Teologia<br />

Morale, anche se bisogna dire che il problema non è del tutto ignorato in<br />

quanto, ad esempio, Zalba menziona la facile e plurima modificazione del testo<br />

di una legge, che in una certa misura attiene al problema della chiarezza,<br />

tra le varie cause che giustificano e rendono plausibile la teoria delle leggi<br />

meramente penali, escamotage inventato dai moralisti del passato, in mancanza<br />

di altre soluzioni, per alleviare la coscienza dal gravame di troppe leggi:<br />

“Convenientia ipsa (che esistano leggi meramente penali ndr) nostris temporibus<br />

fortasse rationabilior apparet cum, neglectis a legislatore non raro<br />

rationibus moralibus, non ponderato adaequate bono communi secundum<br />

suam totalitatem et integritatem, iustitia distributiva et civium libertate insufficienter<br />

considerata, multiplicatis et saepe modificatis immoderate (corsivo<br />

mio) legibus, necessario hae amittunt nativam sanctitatem; tam in conscientia<br />

subditorum, quam in mente legislatorum”. M. ZALBA, o.c., I, 258.<br />

11<br />

“[...] manifesta quoque ne aliquid per oscuritatem in captionem contineat<br />

[...]”. Cf. sopra, nota 5.


330 SEBASTIANO VIOTTI<br />

l’obiettivo con essa perseguito non è chiaro e riconoscibile, può<br />

sorgere un dubbio circa la sua utilità. Un simile dubbio depaupera<br />

di significato la legge e la svisgorisce nella sua forza, rischiando<br />

di renderla addirittura “odiosa” agli occhi dei cittadini,<br />

e diventa quasi una premessa giustificatrice di un suo essere<br />

disattesa, che potrebbe anche travalicare in una disaffezione<br />

generale per le leggi. Mi pare indubbio che si debba affermare<br />

che anche la chiarezza della legge ha attinenza con la sua razionalità<br />

o giustizia; è questa un’esigenza unanimemente condivisa,<br />

ma purtroppo spesso è disattesa dal legislatore, in quanto<br />

non sempre il vero perché e significato di una legge è chiaro<br />

ai cittadini. Spesso poi le leggi sono formulate con un linguaggio<br />

astruso, la cui comprensione diventa affare degli addetti ai<br />

lavori ed inoltre determinate leggi sono facilmente e ripetutamente<br />

modificate ed integrate, per cui non è sempre agevole essere<br />

a conoscenza del testo in vigore. Un terzo assunto dunque:<br />

una legge è buona, se è chiara.<br />

Norma efficace<br />

La legge civile, già l’ho ricordato, è finalizzata ad ordinare la<br />

convivenza e quindi deve efficacemente incidere sul comportamento<br />

dei cittadini, infatti il potere dell’autorità politica non è<br />

un potere di proposta di valori e di ideali, o di consiglio e di guida<br />

dalla valenza pedagogico-educativa, ma è un potere impositivo<br />

in vista del raggiungimento del bene comune. Si può dire che<br />

la legge deve, in qualche misura, “costringere” i cittadini (pur<br />

non privandoli della libertà psicologica) ad assumere determinati<br />

comportamenti e compiere od omettere determinati atti; solo<br />

così essa può veramente adempiere la propria funzione. In altre<br />

parole essa deve effettivamente incidere sul tessuto sociale,<br />

ha necessità di essere efficace; proprio per questo abitualmente<br />

è integrata da una sanzione contro i trasgressori.<br />

La necessità che la legge sia efficace, nella riflessione di alcuni<br />

ambienti cattolici, è sottovalutata, probabilmente per il timore<br />

che efficacia ed efficienza diventino paravento di efficientismo<br />

o efficienza fine a se stessa, per giustificare un disattendere<br />

i valori da parte della stessa legge. Essa è invece sovradimensionata<br />

nella considerazione di taluni filoni laici, che non


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 331<br />

avvertono come spesso in tal modo si apra la strada per una resa<br />

al fattuale. Alcuni infatti, è un fatto innegabile, in nome dell’efficacia<br />

approdano a svuotare l’esigenza di razionalità o eticità<br />

inerente alla legge, accettando che il contenuto delle sue prescrizioni<br />

non sia che il frutto di opinioni mutevoli, in balia quindi<br />

degli umori e dell’emotività del momento, condannando così<br />

la legge ad essere unicamente imposizione o forza dei numeri,<br />

dicktat di una maggioranza. Ma, non riconoscere o trascurare<br />

l’esigenza dell’efficacia, è altrettanto innegabile, equivale ad ipotizzare<br />

la legge civile come indicazione o proposta di un ideale,<br />

anche affascinante, ma sovente confinabile nel libro dei sogni.<br />

L’efficacia o efficienza di una legge dipende dal radicamento<br />

che i valori da essa codificati hanno nella coscienza sociale,<br />

ossia dalla relazione tra quanto essa prescrive e i valori che<br />

emergono nel corpo sociale, nel concreto contesto socio-culturale,<br />

trova cioè il suo humus nella sensibilità morale del corpo<br />

sociale. La legge, per essere norma efficace, deve dunque essere<br />

adeguata al contesto, commisurarsi alla concreta realtà storica,<br />

come lo stesso Giovanni XXIII ricorda, quando afferma che, oltre<br />

ad essere in armonia con l’ordine morale, l’ordinamento giuridico<br />

deve essere rispondente al grado di maturità della comunità<br />

12 . In sostanza l’efficacia di una legge dipende dal suo saper<br />

contemperare o bilanciare e articolare l’immutabile con il contingente,<br />

i principi con la situazione, il dato oggettivo-veritativo<br />

con le percezioni comuni delle esigenze della giustizia (i contenuti<br />

concreti del bene comune) presenti in una determinata comunità<br />

politica. Efficacia della legge non è un suo piegarsi al puro<br />

dato fattuale, ma sinonimo di sano realismo, ossia prudente<br />

e sapiente interpretazione delle possibilità di incarnazione di un<br />

valore.<br />

L’esigenza di efficienza, ora messa in luce, mi pare rapportabile<br />

a quanto la tradizione morale cattolica ha costantemente<br />

insegnato: la legge deve essere possibile, poiché, se quanto essa<br />

12<br />

“Un ordinamento giuridico in armonia con l’ordine morale e rispondente<br />

al grado di maturità della comunità politica, di cui è espressione, costituisce,<br />

non è dubbio, un elemento fondamentale per l’attuazione del bene<br />

comune”. GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, n. 29 in R. SPIAZZI, I documenti…<br />

cit., I, 751-2


332 SEBASTIANO VIOTTI<br />

prescrive non può essere osservato dai cittadini, la legge si rivela<br />

inutile per la convivenza, anzi è di danno. L’espressione tradizionale<br />

“deve essere possibile” è stata, abitualmente, quasi esclusivamente<br />

interpretata in riferimento alle possibilità o capacità<br />

fisico-psichiche della singola persona (possibile secondo la natura,<br />

nell’affermazione di Isidoro), ma, in virtù dell’analogia, si<br />

potrebbe intendere il “deve essere possibile” anche in riferimento<br />

al contesto socio-culturale, alla sensibilità morale del popolo,<br />

perché la persona-cittadino è un essere situato, e perciò condizionato,<br />

in un ben preciso contesto culturale, che gli offre possibilità<br />

ed insieme gli pone condizionamenti. Quest’interpretazione<br />

estensiva non mi pare arbitraria, si tratta di cogliere e sviluppare<br />

lo spunto offerto dall’affermazione di Isidoro: la legge deve<br />

essere “ […] possibile secondo il costume della patria, conveniente<br />

al tempo e al luogo […]” 13 , che san Tommaso riprende,<br />

spiegando come l’uomo, vivendo in società, non possa non risentire<br />

e non condividere il costume 14 , interpretazione a cui<br />

sembra alludere Häring, affermando che la legge: “[…] deve tener<br />

conto delle possibilità morali del popolo” 15 . Correlare l’efficacia<br />

di una legge alla sua possibilità nella cultura, che ispira e<br />

sorregge la vita di un popolo e quindi influisce e condiziona le<br />

espressioni, lo sviluppo e la maturazione della coscienza morale<br />

dei singoli e dell’insieme della comunità, significa riconoscere<br />

un dinamismo sociale ineludibile, ossia che primariamente sono<br />

i mores che influenzano l’ordinamento giuridico e non viceversa,<br />

sono i convincimenti del popolo che plasmano le legge e non il<br />

13<br />

“[...] possibilis [...], secundum patriae consuetudinem, loco temporique<br />

conveniens [...]”. Cf. sopra, nota 5.<br />

14<br />

“[…] Attenditur enim humana disciplina primum quidem quantum<br />

ad ordinem rationis, qui importatur in hoc quod dicitur iusta. Secundo,<br />

quantum ad facultatem agentium. Debet enim esse disciplinam conveniens<br />

unicuique secundum suam possibilitatem, obsevata etiam possibilitate naturae<br />

(non enim eadem sunt imponenda pueris, quae imponentur viris perfectis);<br />

et secundum humanam consuetudinem; non enim potest homo solus<br />

in societate vivere, aliis morem non agens. Tertio quantum ad debitas circunstantias,<br />

dicit, loco temporique conveniens. […]. THOMAE AQUINATIS, STh,<br />

I-II, 95, 3.<br />

15<br />

B. HÄRING, o.c., I, 441.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 333<br />

contrario. Tocca poi all’etica purificare ed elevare i costumi, questa<br />

elevazione a sua volta si rispecchierà in un affinamento della<br />

legislazione. Se è incontestabile l’adagio: ad impossibilia nemo<br />

tenetur, altrettanto incontestabile è un altro adagio: Quid lege sine<br />

moribus? Un dettame di legge non radicato e non supportato<br />

dalle convinzioni della coscienza sociale si rivela ben presto una<br />

fuga in avanti e risulta concretamente privo di efficacia; la legge<br />

cadrebbe in desuetudine e potrebbe anche rivelarsi dannosa.<br />

Queste considerazioni diventano ancor più rilevanti e significative<br />

se si avverte come, nelle società contemporanee, l’ordinamento<br />

giuridico non sia il frutto della riflessione e della decisione<br />

asettica di un legislatore solitario, ma sia il risultato di un<br />

dibattito e di un confronto tra visioni ideali diverse, se cioè si ha<br />

consapevolezza che il popolo in vari modi “partecipa” alla definizione<br />

di una legge. I valori significativi per la convivenza (le<br />

verità morali), infatti, passano al diritto, ricevono codificazione<br />

giuridica e forza sociale, attraverso un libero confronto intellettuale,<br />

un paziente dialogo di chiarificazione e di persuasione e<br />

l’azione di forze politiche diverse. Si deve affermare che vale per<br />

le leggi quanto è della politica in generale: “ Il riferimento dell’azione<br />

politica alla verità deve essere mediato dal libero confronto<br />

intellettuale in seno alla società, e i valori propri della verità<br />

fondante debbono essere resi operativi nell’ordine politico<br />

per via di consenso” 16 . La legge non può essere solo forza dei numeri,<br />

o espressione dell’opinione della maggioranza, poiché il<br />

consenso da solo non determina la giustizia o verità di una legge,<br />

ma tuttavia la codificazione giuridica di una esigenza di valore<br />

non può prescindere in assoluto dai convincimenti del corpo<br />

sociale. Una legge è dunque efficace se è una determinazione<br />

prudenziale dell’autorità, cioè un tradurre sapientemente e prudentemente<br />

in regole di convivenza quanto è compreso come<br />

esigenza per un corretto e ordinato vivere sociale: “ E’ compito<br />

della prudenza politica operare il congiungimento tra le esigenze<br />

proprie del tempo, dell’efficacia politica e delle forze in gioco,<br />

16<br />

A. ACERBI, Potere e sapere: la parabola dei loro rapporti nella teologia<br />

cattolica d’ottocento e novecento, in L. SARTORI / M. NICOLETTI (edd.), Teologia<br />

e Politica, EDB, Bologna 1991, 108.


334 SEBASTIANO VIOTTI<br />

con gli imperativi assoluti e non preteribili dell’ordine morale” 17 .<br />

Norma sociale efficace è dunque quella legge che codifica i valori<br />

nella misura in cui emergono alla coscienza sociale, che<br />

contempera la fedeltà a principi etici con un’intelligente attenzione<br />

ai dinamismi propri della vita sociale, che coniuga realisticamente<br />

valori e situazione concreta, che storicizza e dà forza<br />

coattiva alle esigenze della giustizia nella misura della loro<br />

possibile incarnazione. Efficacia significa per la legge evitare assolutizzazioni<br />

etiche, o fughe in avanti, che verrebbero a rendere<br />

impossibile un ordinamento, magari solo relativamente umano<br />

e giusto, ma che, nonostante la sua problematicità e i suoi limiti,<br />

viene ad esser meglio di nessun ordinamento, senza che<br />

tuttavia ciò significhi un suo arrendersi e arrestarsi alla pura fattualità,<br />

perché altrimenti scadrebbe a dominio, la legge non sarebbe<br />

più una forza finalizzata. Un quarto assunto dunque: una<br />

legge è buona, se è efficace.<br />

Norma giusta<br />

La legge civile è autentica norma sociale se è legge giusta, è<br />

questa la caratteristica o esigenza principale; siamo così al nodo<br />

cruciale e discriminante di tutta la questione. La tradizione cattolica,<br />

le varie filosofie politiche, i movimenti politici storici, l’opinione<br />

pubblica convergono nel riconoscere e asserire formalmente<br />

che la categoria “giustizia” è la discriminante per giudicare<br />

della bontà di una legge. La convinzione unanime, tuttavia,<br />

si disarticola e si frantuma quando si tratta di enucleare e tematizzare<br />

quali siano in concreto i contenuti che devono contraddistinguere<br />

una legge giusta, poiché le varie posizioni si diversificano<br />

in tanti rivoli sensibilmente divergenti, e spesso contrapposti,<br />

entrano cioè in gioco le diverse visioni etiche e scale di valori<br />

o sensibilità morali presenti nel corpo sociale, le diverse teorie<br />

sulla giustizia stessa e le concezioni, talora alternative, circa<br />

il significato stesso e lo scopo della convivenza politica. Il pluralismo<br />

si trasforma spesso in babele e talora decade a pretesto per<br />

17<br />

G. MATTAI, o.c., 68.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 335<br />

giustificare relativismo ed individualismi, piuttosto che essere<br />

opportunità di cogliere più compiutamente la verità. La delucidazione<br />

in concreto di che cosa significhi “legge giusta” è veramente<br />

il punto in cui la questione del rapporto tra morale e legge<br />

civile manifesta tutta la sua problematicità ed anche costituisce<br />

il pomo della discordia.<br />

Le varie interpretazioni dell’affermazione “ la legge deve essere<br />

giusta” possono, schematicamente e riassuntivamente, essere<br />

ricondotte a due poli significativamente contrapposti ed alternativi.<br />

La legge è giusta se si ispira ad una concezione sostanziale<br />

di giustizia, quale virtù che attribuisce ad ognuno il<br />

suo, e quindi riconosce la persona nella sua dignità e valore, la<br />

legge civile dunque va sottoposta ad un giudizio di valore o etico;<br />

la legge è giusta se si ispira ad una concezione procedurale<br />

di giustizia, se è emanata in modo corretto e in conformità ad alcuni<br />

presupposti di partenza concordati, la legge dunque va soltanto<br />

sottoposta ad un giudizio tecnico di validità, in questione<br />

è unicamente la correttezza della procedura della sua emanazione<br />

e la sua coerenza con l’insieme dell’ordinamento giuridico.<br />

Nel primo polo si riconoscono la tradizione morale cattolica, le<br />

filosofie personaliste che si ispirano al cattolicesimo ed alcune<br />

correnti umaniste, mentre nel secondo polo si riconoscono le varie<br />

concezioni di politica e di ordinamento giuridico che si ispirano<br />

al sociologismo e al positivismo giuridico, che fu teorizzato<br />

in modo radicale da Kelsen. Il filosofo austriaco, attivo nella<br />

prima metà del ’900, infatti, a partire dal suo relativismo filosofico<br />

(non è possibile, né è utile conoscere le verità e i valori assoluti),<br />

giunge ad affermare che il diritto deve prescindere da<br />

ogni considerazione di ideali e valori, esso non è che un sistema<br />

compiuto e coerente di norme, dove decisivo e qualificante è che<br />

esso sia in armonia con il maggior numero di soggetti. L’idea basilare<br />

è che l’ordinamento giuridico deve avere come unico referente<br />

la maggioranza delle opinioni, la giustizia della legge si radica<br />

nella forza dei numeri. L’agnosticismo filosofico ed il relativismo<br />

etico fondano l’assolutizzazione del positivismo giuridico:<br />

il diritto ha una totale autonomia e autogiustificazione, il sistema<br />

di norme della società ha il suo valore unicamente nella<br />

validità, nel rispetto di procedure o quadro istituzionale.<br />

La tradizione morale cattolica si pone a paladino della necessità<br />

che la legge civile sia giusta in senso sostanziale, cioè che


336 SEBASTIANO VIOTTI<br />

l’ordinamento giuridico riconosca e promuova dei valori autentici<br />

connessi alla verità della persona, vale a dire che quanto esso<br />

prescrive non misconosca o ferisca la dignità della persona e<br />

non contrasti con il bene comune, inteso come un bene-essere<br />

condiviso. Questa convinzione, che è un po’ il clou della riflessione<br />

cattolica sulla legge civile, già è espressa nel definire la legge<br />

civile “un ordinamento razionale”, dal momento che, quasi<br />

all’unanimità, i manualisti assumono come definizione specifica<br />

di legge civile la definizione di legge in genere posta da Tommaso:<br />

“ […] un ordinamento razionale in vista del bene comune,<br />

promulgato da chi ha cura della comunità” 18 . Convinzione che è<br />

sottolineata ulteriormente, affermando che la legge civile deve<br />

essere in armonia con l’ordine morale, da cui è evidenziato il valore<br />

ontologico e assiologico della persona, e che la legge civile<br />

deve rispettare ogni aspetto della giustizia 19 . Legge giusta è dunque<br />

quella che rispetta le esigenze della giustizia in senso lato,<br />

ossia quella che non prescrive qualche cosa che contrasti con il<br />

volere o bene divino, diversamente deve essere considerata legge<br />

disonesta (iniusta ex parte obiecti); e parimenti rispetta le esigenze<br />

della giustizia intesa in senso stretto, ossia non prescrive<br />

qualche cosa di contrario al bene umano, non contrasta cioè con<br />

il bene comune, diversamente deve essere considerata una legge<br />

ingiusta (iniusta ex parte finis), come già spiegava Tommaso 20 .<br />

18 THOMAE AQUINATIS, STh., I-II, 90, 4.<br />

19<br />

“Lex iusta est ea quae nulli iuri superiori nullique speciei iustititiae<br />

adversatur; quae scl. servat iustitiam: Legalem, nihil praescibendo quod ad<br />

bonum commune non conferat; distributivam, curando aequam proportionem<br />

in distribuendis oneribus et beneficiis inter subditos; commutativam,<br />

neque subditorum iura subiectiva violando neque limites potestatis trasgrediendo”<br />

. M. ZALBA, o.c., I, 208. Non deve meravigliare che tra le specie di<br />

giustizia non venga menzionata la giustizia sociale: ciò è spiegabile per la discussione,<br />

all’epoca ancora aperta, tra i teologi moralisti se la giustizia sociale<br />

dovesse essere considerata una specie di giustizia a se stante o una<br />

combinazione di esigenze della giustizia legale e della giustizia distributiva.<br />

20<br />

“Iniustae autem sunt leges dupliciter. Uno modo, per contrarietatem<br />

ad bonum humanum, e contrario praedictis: vel ex fine, sicut cum aliquis<br />

praesidens imponit onerosas subditis non pertinentes ad utilitatem communem<br />

[…]; vel etiam ex auctore, sicut cum aliquis fert legem ultra sibi commissam<br />

potestatem; vel etiam ex forma, puta cum inaequaliter onera multi-


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 337<br />

La mancanza di giustizia non solo rende la legge irrilevante per<br />

la coscienza, ma la fa scadere ad arbitrio, a danno per la convivenza<br />

e la stessa autorità che la pone in essere si svuota del suo<br />

significato e della sua funzione 21 .<br />

Tale convinzione viene poi rigorosamente giustificata e argomentata<br />

a partire dalla natura della filosofia, della scienza e<br />

dell’azione politica (progetto, programma e costruzione di una<br />

convivenza dal volto umano), dal significato e dal fine del diritto<br />

positivo (veicolo primo delle decisioni politiche in vista del<br />

bene della comunità) e dal fine stesso della convivenza sociale (il<br />

bene comune, che è un bene per la persona condiviso dai membri<br />

della comunità politica). Un progetto di una vita associata<br />

buona e la ricerca della sua realizzazione non possono astrarre<br />

da una considerazione di che cosa significhi il con-vivere umano,<br />

chiamano in causa una concezione di uomo, sottintendono<br />

cioè un’antropologia; la volontà di perseguire il bene comune<br />

della comunità, che è un bene per la persona, non può prescindere<br />

da una valutazione di ciò che è bene o male per la convivenza.<br />

Non è inoltre da trascurare il fatto che la politica, la formulazione<br />

delle leggi e la loro esecuzione sono attività umane e,<br />

come ogni altra attività umana, mettono in gioco la responsabilità<br />

della persona, il suo dovere di agire con senso. La politica e<br />

tudini dispensantur, etiam si ordinentur ad bonum commune. Et huiusmodi<br />

magis sunt violentiae quam leges […]. Unde tales leges non obligant in foro<br />

conscientiae: nisi forte propter vitandum scandalum, vel turbationem<br />

[…]. Alio modo leges possunt esse iniustae per contrarietatem ad bonum divinum:<br />

sicur leges tyrannorum inducentes ad idolatriam, vel ad quodcunque<br />

aliud quod sit contra legem divinam. Et tales leges nullo modo licet observare<br />

[…]”. THOMAE AQUINATIS, STh., I-II, 96, 4<br />

21<br />

“L’autorità, come si è detto, è postulata dall’ordine morale e deriva da<br />

Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con<br />

quell’ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno alcuna<br />

forza di obbligare la coscienza […]; in tal caso, anzi, l’autorità cessa di<br />

essere tale e degenera in sopruso: «La legge umana in tanto è tale in quanto<br />

è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece<br />

una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in<br />

tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza»”.<br />

GIOVANNI XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, 21b, in R. SPIAZZI, I docementi…<br />

cit., I, 745. Affermazioni riprese e citate da GIOVANNI PAOLO II, Lettera<br />

enciclica Evangelium Vitae, 70-73.


338 SEBASTIANO VIOTTI<br />

l’ordinamento giuridico non possono dunque essere solo una<br />

questione tecnica, di ingegneria costituzionale o di coerenza di<br />

sistema, ma prima ancora devono essere assoggettati ad un giudizio<br />

etico, in quanto toccano il regno dei fini e dei valori, che è<br />

campo di dominio dell’etica. Tra etica e politica e ordinamento<br />

giuridico c’è dunque un rapporto nativo, che costituisce e decide<br />

della verità stessa della politica e della legge civile: “La società,<br />

sia nel suo aspetto di vita sociale sia per l’ordinamento che<br />

la giustifica e la regola, non può disinteressarsi dell’etica. Il puro<br />

positivismo fattuale o giuridico introduce la società in un circolo<br />

vizioso, senza uscita e dominato in definitiva dal potere” 22 ,<br />

scindere la politica e la legge dall’etica non sarebbe a servizio<br />

dell’umanizzazione della vita sociale, ma causa di un suo imbarbarimento.<br />

Non costituisce un problema per i moralisti del passato spiegare<br />

quando concretamente la legge civile è giusta: se è coerente<br />

e congrua con la legge naturale da cui deriva e di cui è complemento<br />

23 . L’ordinamento giuridico è costituito norma di giustizia<br />

e regola sociale in virtù della sua connessione organica e<br />

derivata con la legge naturale, legge propria e prima dell’uomo:<br />

“Dotata di creatività giuridica, la legge naturale è la matrice di<br />

tutto lo ius che regola i rapporti umani nella formazione e nella<br />

vita della società; il primo germe dell’ordine giuridico” 24 . La gerarchizzazione<br />

dipendente con la legge naturale conferisce verità<br />

e nobiltà al diritto umano: “Nella legge naturale il diritto positivo<br />

trova la sorgente della sua forza vincolatrice e la giustificazione<br />

del suo potere sull’uomo, che, nella sua coscienza, sente<br />

di dover seguire l’impulso e il dettame di quella legge anche<br />

nella sua espressione societaria” 25 . Il percorso argomentativo dei<br />

manualisti si presenta semplice e lineare. La legge naturale è la<br />

legge primordiale della persona, regola di tutto il suo vivere e<br />

agire, quindi anche della vita sociale. Essa, tuttavia, presenta<br />

22<br />

M. VIDAL, Etica civile e società democratica, SEI, Torino 1992, 23.<br />

23<br />

“Lex humana est derivatio legis naturalis. […] Lex humana est complementum<br />

legis naturalis. […] Lex humana debet esse proportionata tum fini,<br />

tum legi naturali et divinae”. B.H. MERKELBACH, Summa Theologiae Moralis,<br />

Descleé de Brower, Bruges 1962, 11^ ed., voll. 3, I, 247-8.<br />

24<br />

R. SPIAZZI, Lineamenti di Etica Politica, ESD, Bologna 1989, 106.<br />

25<br />

ID., Principi di Etica Sociale, ESD, Bologna 1990, 1^ris., 106.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 339<br />

come un vuoto di normatività in riferimento alle situazioni concrete,<br />

parecchie questioni e problemi posti dal convivere politico<br />

non trovano immediatamente e direttamente una chiara e puntuale<br />

risposta o regolamentazione nelle sue determinazioni, poiché<br />

essa non contiene che principi o precetti generali e perciò indeterminati<br />

che, per di più, potrebbero anche essere ignorati da<br />

alcuni uomini. La regolamentazione della vita sociale non può<br />

pertanto essere unicamente affidata ai suoi dettami, significherebbe<br />

lasciare troppo spazio alle scelte ed opzioni individuali dei<br />

cittadini e non precisare a sufficienza la portata del comune intento<br />

che li deve animare e la fattiva collaborazione a cui sono<br />

chiamati, si rischierebbe così di compromettere l’efficace perseguimento<br />

del bene comune. Ne consegue pertanto che sono necessarie<br />

altre norme che colmino tale insufficienza della legge<br />

naturale, che ne specifichino ed integrino per via di deduzione o<br />

di enucleazione i principi indeterminati: ecco la legge civile.<br />

Il problema morale della legge civile trova nella posizione<br />

dei manualisti una soluzione compatta e armonica, che glissa<br />

difficoltà e tensioni nel rapporto tra ordine morale e ordine giuridico,<br />

illustra e salvaguarda molto positivamente il nesso tra le<br />

due grandezze, configurando quasi una simbiosi e omogeneità<br />

tra i due ordini, praticamente travasando il primo nel secondo.<br />

L’ordinamento giuridico trova il suo fondamento, la sua giustificazione<br />

e valenza nella connessione derivata da un ordinamento<br />

meta-positivo; il rapporto armonico tra etica e legge civile<br />

è garantito da un processo logico-deduttivo, da una applicazione<br />

al concreto di imperativi e precetti perenni, ossia da un<br />

passaggio dall’universale al particolare, dall’indeterminato allo<br />

specifico. Il carattere di giustizia della legge civile è insomma affidato<br />

alla correttezza di un sillogismo. La soluzione non è, però,<br />

del tutto adeguata, poiché non sembra prendere adeguatamente<br />

in considerazione la distinzione o autonomia della legge civile<br />

rispetto all’etica, perché lascia una zona d’ombra sulle peculiarità<br />

del diritto positivo, che risulta unicamente un corollario e<br />

un’appendice (espressione societaria, secondo la locuzione di<br />

Spiazzi) della legge naturale, quale passaggio da proposizioni<br />

generali a norme più concrete e specifiche. Esso è cioè ricondotto<br />

ad un’opzione puramente tecnica che, come esplicitazione<br />

di superiori esigenze esplicite o implicite, approda a norme più<br />

particolareggiate per dare vigore e attuazione concreta a detta-


340 SEBASTIANO VIOTTI<br />

mi indeterminati e generali. Non sarebbe dunque altro che una<br />

codificazione giuridico-positiva che concretizza, esplicita e conferma<br />

indicazioni superiori ed immutabili, favorendone in tal<br />

modo anche una conoscenza più puntuale e rafforzandone l’incisività<br />

con la coazione e la sanzione. Gli stessi manualisti, del<br />

resto, parzialmente avvertono l’inadeguatezza della loro posizione<br />

ed esplicitamente affermano che la legge civile non può sanzionare<br />

tutti gli atti di tutte le virtù, né può proibire tutti i vizi;<br />

tentano perciò un recupero della distinzione tra diritto e morale<br />

tramite il concetto di legge permittente: “Può essere onesta una<br />

legge che non punisca certi mali, anzi che positivamente, senza<br />

tuttavia una formale approvazione, li permetta” 26 . La morale è<br />

indicazione di una verità e di un dovere da cui non si può derogare,<br />

il diritto positivo, invece, stante la sua debolezza 27 , può tollerare,<br />

nel senso di limitare regolamentandolo circoscrittivamente,<br />

un qualche male per salvaguardare un bene maggiore<br />

della convivenza. Diventa però problema, che suscita vivaci discussioni,<br />

il precisare quali mali o vizi possano essere tollerati,<br />

tanto che Fuchs ne conclude: “ è cosa di cui non raramente è assai<br />

difficile prudentemente giudicare” 28 .<br />

La soluzione dei manualisti presenta poi un ulteriore e rilevante<br />

aspetto di problematicità a causa dell’ambiguità sottintesa<br />

nella loro interpretazione del concetto di legge naturale. Essi assumono<br />

la definizione di legge naturale di Tommaso: “[...] partecipazione<br />

della legge eterna nella creatura razionale” 29 , ma<br />

26<br />

H. VERMEERSCH, Theologiae Moralis. Principia-responsa-consilia. Gregoriana,<br />

Roma 1933-7, 3^ ed., voll.4, I, 148. Dalla precisazione del concetto<br />

di legge permittente si può arguire che in senso stretto legge disonesta è<br />

quella che impone un qualche comportamento direttamente contrario all’ordine<br />

morale, ossia un’azione intrinsecamente illecita ed anche quella che<br />

non prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza per evitare una cooperazione<br />

ad una male, tollerato dalla legge, che un altro intende compiere.<br />

27<br />

Cf. THOMAE AQUINATIS, STh., I-II, 96, 2 cf. anche Ibidem, I-II, 96, 2, ad 2.<br />

28<br />

J. FUCHS, Theologiae Moralis Generalis. Prima Pars., PUG, Roma 1963,<br />

2^ed., 114.<br />

29<br />

“Inter cetera autem rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae<br />

providentiae subiacet, in quantum et ipsa fit providentiae particeps, sibi<br />

ipsi et aliis. Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per quam habet naturalem<br />

inclinationem ad debitum finem et actum. Et talis participatio legis


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 341<br />

mentre l’Aquinate sembra intenderla come un lumen insitum,<br />

capacità di cogliere ed interpretare le inclinazioni naturali generiche<br />

e specifiche dell’essere che è l’uomo e di formulare un progetto<br />

di vita adeguato, i manualisti invece, oscurando parzialmente<br />

il pensiero tommasiano, sembrano pensarla come un<br />

elenco organico e disponibile ad ogni uomo di principi già formulati,<br />

riconducibile ad una lettura scientifica della natura<br />

umana. Dalla conoscenza dell’uomo, in altre parole, si ricaverebbe<br />

immediatamente un complesso organico e formulato di<br />

principi etici, quasi che la creazione portasse in sé le istruzioni<br />

per l’uso; le strutture dell’uomo, espressione della volontà creatrice<br />

di Dio, sarebbero contemporaneamente direttamente ribaltabili<br />

in volontà etica divina, come se nelle strutture bio-psichiche<br />

fossero anche impressi i precetti per il comportamento dell’uomo,<br />

precetti che, per la loro genesi, devono essere ritenuti assoluti<br />

ed immutabili, universalmente condivisibili. La legge civile<br />

non sarebbe altro che una specificazione e un complemento<br />

di tali principi indeterminati. L’interpretazione dei manualisti<br />

della comune espressione “la legge naturale è scritta nel cuore<br />

dell’uomo” è in parte falsante, conducendo, per esprimermi con<br />

parole di Maritain, a: “rappresentarci la legge naturale come un<br />

codice del tutto avvolto nella coscienza di ciascuno e che ciascuno<br />

non ha che a svolgere e del quale tutti gli uomini dovrebbero<br />

avere un’eguale conoscenza” 30 . Inoltre essa denuncia un ulteriore<br />

aspetto di problematicità in quanto suppone che la natura<br />

dell’uomo sia oggettivamente, pienamente e univocamente<br />

descrivibile e che sia del tutto statica, mentre in realtà l’uomo è<br />

insieme natura e cultura, la storicità entra del definire la persona,<br />

che si sperimenta come un essere non esaustivamente definibile<br />

a priori, che si comprende progressivamente, e inoltre<br />

ogni concettualizzazione è culturalmente condizionata.<br />

aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur. […] quasi lumen rationis<br />

naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum, quod petinet ad naturalem<br />

legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis. Unde patet<br />

quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali<br />

creatura”. THOMAE AQUINATIS, STh., I-II, 91, 2 cf. anche ID., Summa<br />

contra Gentiles, III, 113-114.<br />

30<br />

J. MARITAIN, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano<br />

1979, 1^ ris., 57-58.


342 SEBASTIANO VIOTTI<br />

Chiavacci puntualizza la questione ricordando che occorre<br />

porre una distinzione tra legge naturale come legge indita o<br />

scritta nel cuore e legge naturale come formulazione espressa di<br />

principi:<br />

“[…] la legge naturale è in primo luogo la stessa capacità<br />

dell’uomo di riflettere su se stesso, di ragionare sul proprio fine,<br />

sulla propria vocazione, sul significato della propria esistenza, e<br />

così stabilire quei criteri valutativi e quelle considerazioni di fatto<br />

in base ai quali scoprire la norma per la situazione concreta.<br />

[…] Primo principio, esperienza di valori, condizioni oggettive<br />

esterne sono le tre componenti che la ragione del singolo deve<br />

combinare insieme per trarne la norma operativa concreta: Ogni<br />

creatura razionale è capace di questo: le tre componenti sopraddette,<br />

e la ragione che le combina e le confronta, costituiscono la<br />

possibilità concreta di conoscere la chiamata di Dio, e – prese insieme<br />

– possono chiamarsi ‘legge naturale’ all’interno del singolo:<br />

Questa legge naturale è non-scritta né scrivibile: essa è piuttosto<br />

‘indita’.<br />

[…] capacità (di ragionare ndr) che si esercita sempre all’interno<br />

di un gruppo […] all’interno di una storia […]. Nasce così<br />

una riflessione dei gruppi – e dell’intera famiglia umana – sull’uomo<br />

e il suo significato, i cui risultati possono ben chiamarsi<br />

‘legge naturale’. Ma in questo caso, a differenza del precedente,<br />

la legge naturale deve essere detta o scritta […] la legge naturale<br />

‘scritta’ è sempre sussidiaria e subordinata alla legge naturale<br />

‘presente nel cuore’ […]” 31 .<br />

Non bisogna infine dimenticare che la categoria “legge naturale”<br />

incontra un rifiuto, o almeno diffidenza, in molte correnti<br />

culturali, critiche verso il concetto stesso o verso l’interpretazione<br />

di esso prodotta dai manualisti, per cui oggi non appare<br />

uno strumento adeguato per un dialogo etico alla ricerca di<br />

una fondazione condivisa del rapporto tra etica e legge civile.<br />

I teologi post-conciliari, animati da un sincero intento di<br />

dialogo etico in generale con la cultura contemporanea, caldeg-<br />

31<br />

E. CHIAVACCI, Teologia Morale, Cittadella, Assisi 1986, 4^ ed., voll. 4, I,<br />

164-8.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 343<br />

giato dal Concilio: “ Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono<br />

agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo<br />

verità numerosi problemi morali, che sorgono nella vita<br />

privata quanto in quella sociale” 32 , e desiderosi, nel contesto specifico<br />

del problema morale della legge civile 33 , di trovare una<br />

piattaforma etica condivisa da porre come base e guida per una<br />

convivenza umana e come fermento di giustizia per l’ordinamento<br />

giuridico, preso atto delle difficoltà connesse alla soluzione<br />

dei manualisti, tentano un approccio diverso alla questione.<br />

Operano, dapprima, una chiarificazione e purificazione del<br />

concetto di legge naturale, come già si nota nelle espressioni di<br />

Chiavacci, antecedentemente citate. Essa non viene più intesa<br />

come un insieme di principi espressi, da cui dedurre conseguenze<br />

operative per la vita sociale, ma come capacità di rettamente<br />

cogliere (la recta ratio, espressione dei migliori autori della<br />

Scolastica) 34 le esigenze fondamentali della vocazione umana<br />

a partire da alcune intuizioni di senso, riconducibili alle incli-<br />

32 CONCILIO ECUMENICO, VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et<br />

spes, 16b in R. SPIAZZI, I documenti… cit., I, 822.<br />

33<br />

La riflessione sul problema morale della legge civile, infatti, e i moralisti<br />

post-conciliari se ne mostrano consapevoli ed attenti, non è esclusiva<br />

della tradizione cattolica. Essa fin dall’antichità ha accompagnato le migliori<br />

filosofie politiche e, proprio sul versante laico, è diventata una questione<br />

più impellente e drammatica per le coscienze in questo ultimo scorcio di secolo,<br />

a seguito delle esperienze tragiche dei totalitarismi e delle guerre mondiali<br />

con i loro orrori, in cui più evidenti e macroscopiche sono apparse le<br />

conseguenze nefaste di una concezione della legge civile come puro comando,<br />

puro atto di una positiva volontà umana.<br />

34<br />

Già Leone XIII riprendeva questa locuzione, affermando: “ […] la legge<br />

naturale […] non essendo altro che la stessa ragione, che ci comanda di<br />

fare il bene, e proibisce di fare il male […]”. LEONE XIII, Lettera enciclica Libertas<br />

praestantissimum, 6a in R. SPIAZZI, I documenti… cit., I, 65. Giovanni<br />

Paolo II, rifacendosi all’insegnamento del venerato predecessore ricorda che<br />

la legge naturale non è altro che il riflesso nell’uomo dello splendore del volto<br />

di Dio, che ha voluto costituire la ragione umana interprete della ragione<br />

divina, in modo che l’uomo avesse l’inclinazione al fine e all’atto dovuti. Citando<br />

Tommaso, afferma: la legge naturale “[…] altro non è che la luce dell’intelligenza<br />

infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve<br />

compiere e ciò che si deve evitare: Questa luce e questa legge Dio l’ha donata<br />

nella creazione. […] mediante la ragione […] Dio chiama l’uomo a partecipare<br />

della sua provvidenza, volendo per mezzo dell’uomo stesso, ossia at-


344 SEBASTIANO VIOTTI<br />

nazioni naturali dell’uomo. La ragione umana è capace di scoprire<br />

e formulare un ordine, secondo il quale la volontà deve agire<br />

per raggiungere i fini necessari dell’essere umano. La legge<br />

naturale, come ricorda Aranguren, in quanto non data interamente,<br />

ma inscritta, si pone così come principio euristico, come<br />

impulso per la ricerca della verità e giustizia della convivenza,<br />

diventando richiamo ad un’attenzione vigile perché la legge civile<br />

abbia contenuti razionali o etici:<br />

“Il diritto naturale deve essere considerato, perché non sia<br />

unilateralmente reazionario né unilateralmente rivoluzionario,<br />

come un puro principio di significazione e di valore euristici, come<br />

impulso verso un bene sempre «cercato», come un concetto<br />

più intenzionale e funzionale che materiale, e, infine, come dialettico<br />

ed essenzialmente problematico […]” 35 .<br />

Quale impulso ad una tensione, che deve inerire al diritto<br />

umano, ad incarnare in regole per la convivenza l’esperienza<br />

morale e intuizione fondamentale “ fa il bene, evita il male”, unica<br />

categoria veramente trasculturale 36 , la legge naturale assolve<br />

così una duplice funzione nei confronti della legge civile: ispirazione<br />

e verifica, giustificazione e limitazione. In altre parole l’ideale,<br />

rappresentato dalla legge naturale, lancia una continua<br />

sfida al reale: ciò che deve essere si pone davanti a ciò che è e gli<br />

addita il cammino futuro. Il diritto umano è dunque significativo<br />

per la convivenza se i suoi dettami si ispirano, si armonizzano,<br />

convergono, incarnano al meglio possibile nel contesto sto-<br />

traverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non soltanto<br />

il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane”. GIOVAN-<br />

NI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatis Splendor, 40.43 in AA. VV., Lettera enciclica<br />

Veritatis Splendor del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, Libreria<br />

Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, 59. 62.<br />

35 ARANGUREN, Etica e Politica, Morcelliana, Brescia 1966, 27.<br />

36<br />

“La sola conoscenza pratica che tutti gli uomini hanno naturalmente<br />

ed infallibilmente in comune è che bisogna fare il bene ed evitare il male. E’<br />

questo il preambolo e il principio della legge naturale […]”. J. MARITAIN, o.c.,<br />

58. “[…] postulare un’unità di vocazione e di significato di tutti gli esseri<br />

umani non vuol dire necessariamente che questa vocazione sia descrivibile<br />

o già descritta in acconce proposizioni”. E. CHIAVACCI, o.c., I, 170.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 345<br />

rico concreto le indicazioni primordiali per vivere con senso che<br />

provengono dalla legge naturale. Sono dunque due le strade seguite<br />

dai teologi moralisti per illustrare il nesso tra legge naturale<br />

e legge civile o tra ordine morale e ordine giuridico: derivazione<br />

e ispirazione o convergenza, come sono due i modi di pensare<br />

il rapporto tra etica e politica:<br />

“Col primo metodo viene comunicato al politico un dettagliato<br />

codice normativo strutturato entro un sistema dottrinale,<br />

mettendone in evidenza le rigorosità scientifiche e la sua imperiosità<br />

invariabile. Il politico ha il dovere di aderire agli elencati<br />

principi morali, cercando di applicare rigorosamente [...]. Un secondo<br />

metodo preferisce sollecitare il politico a osservare direttamente<br />

la realtà sociale nella sua concretezza storica, a riflettervi<br />

sopra per cogliere all’interno di essa quale sia il comportamento<br />

moralmente più benefico. E’ un osservare nei dettagli le situazioni<br />

cogliendo i valori in esse strutturati come in filigrana [...]” 37 .<br />

Parlare di derivazione significa supporre che il legislatore<br />

“riceve” un elenco di principi da completare e specificare con le<br />

sue disposizioni (è il pensiero dei manualisti), esprimersi in termini<br />

di ispirazione e convergenza significa che il legislatore è<br />

chiamato a intelligentemente discernere la situazione e le possibilità<br />

che essa offre di incarnare giuridicamente le esigenze di<br />

valore, benefiche per la convivenza, legate alle intuizioni morali<br />

fondamentali dell’uomo, ed è la convinzione dei teologi postconciliari.<br />

La volontà di dialogo e di intesa induce gli autori post-conciliari<br />

ad un ulteriore passo di avvicinamento alla categoria ed al<br />

linguaggio propri della modernità per fondare l’eticità della legge<br />

civile. Essi assumono la categoria dei Diritti Umani, espressione<br />

fenomenologica della convinzione comune circa la dignità<br />

ontologica e assiologica della persona, riconosciuta titolare di<br />

diritti originari, inviolabili ed inalienabili, che devono essere tutelati<br />

e promossi, come esigenze etiche impreteribili e criteri essenziali<br />

che devono stare a base della convivenza umana e ad<br />

37<br />

T. GOFFI, “Un metodo per la formazione morale del politico”, RTM 81<br />

(1989), 41.


346 SEBASTIANO VIOTTI<br />

ispirazione e limite per la legge civile 38 . Reinterpretano e rifondono<br />

il discorso della tradizione morale cattolica nel tema dei<br />

Diritti Umani. La Dichiarazione dei Diritti Umani viene ritenuta<br />

come “l’emergere almeno di un embrione di esperienza morale<br />

comune a tutta l’umanità” 39 , quali convinzioni etiche quasi universalmente<br />

condivise: “[...] già il tema dei diritti dell’uomo come<br />

è venuto a configurarsi nel dopoguerra [...] costituisce di fatto<br />

una piattaforma di finalità comuni in cui hanno potuto convergere<br />

uomini e gruppi con storie culturali e filosofiche, religioni,<br />

sistemi sociali diversi fra loro” 40 e quindi può essere assunta<br />

come base etica condivisa che deve ispirare e giustificare<br />

la razionalità della legge civile:<br />

“I diritti della persona - che le autorità politiche devono rispettare,<br />

onorare e promuovere - quali sono stati proclamati nel<br />

1948 e in seguito dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, contengono<br />

una buona piattaforma di partenza nella quale le grandi<br />

religioni e gli umanisti autentici di ogni Paese possono incontrarsi<br />

e definire perlomeno alcuni principi fondamentali di politica.<br />

Il punto di partenza in ogni questione è una concezione dell’esistenza<br />

umana come un insieme di rapporti Io-Tu-Noi” 41 .<br />

I Diritti Umani, benché diversamente fondati e giustificati<br />

dalle diverse famiglie religiose e filosofiche, emergono come un<br />

plesso etico condiviso, per questo è logico pensare che gli uomini<br />

possano concordare, e di fatto ciò avviene, nel considerarli come<br />

una piattaforma normativa-funzionale per un’etica socio-politica<br />

condivisa, per un progetto di convivenza politica significativa,<br />

per dare legittimità ad un’esperienza sociale e alle leggi:<br />

“Affinché l’uso dei potere possa essere razionale, bisogna che gli<br />

38<br />

Il tema del rispetto dei Diritti Umani da parte dell’autorità e degli ordinamenti<br />

giuridici è un tema centrale , e talmente insistito, nel Magistero<br />

sociale di Giovanni Paolo II da apparire superfluo l’indicare specificamente<br />

delle referenze; esso poi è la linea su cui si muove la maggior parte dei moralisti<br />

nel discorso sul sociale.<br />

39<br />

E. CHIAVACCI, o.c., II, 219.<br />

40<br />

ID., o.c., III/2, 281-2.<br />

41<br />

B. HÄRING, o.c., I, 434-5.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 347<br />

scopi siano chiari e giusti e che nel ricorso ai mezzi si rispettino<br />

i diritti umani e i diritti fondamentali e la con-divisione della libertà,<br />

senza la quale il bene comune della città secolare non può<br />

essere sostenuto” 42 . Essi rappresentano idee di giustizia che per<br />

trasformarsi in norme, per diventare effettive, necessitano di un<br />

riconoscimento politico e di una protezione giuridica. Sono “dati<br />

nativi” dell’uomo, fondamentalmente gli stessi in ogni tempo<br />

e in ogni luogo, inalienabili ed inviolabili, perché inscritti nello<br />

statuto ontologico della persona, pur avendo una dinamica interna<br />

di sviluppo e di approfondimento in una loro progressiva<br />

scoperta e comprensione del significato. Il loro rispetto e la loro<br />

promozione, la realizzazione delle loro potenzialità sono fattore<br />

propulsore dell’incivilimento della convivenza sociale ed insieme<br />

sono in relazione alla maturazione della coscienza sociale.<br />

Le legge civile non interviene a fondare o definire tali diritti, non<br />

ne ha la capacità, né è suo compito, ma interviene ad interpretare<br />

e delineare le modalità o forme storiche della loro attuazione;<br />

i valori sono dati una volta per sempre, ma le regole che li<br />

traducono operativamente vanno individuate e ridefinite di volta<br />

in volta nel contesto. La legge civile è dunque giusta, è un ordinamento<br />

razionale per il bene comune della convivenza, ha<br />

uno spessore etico o di giustizia se tende effettivamente a riconoscere,<br />

rispettare e promuovere i Diritti Umani: in questo consiste<br />

la connessione tra ordine morale e ordine giuridico.<br />

I Diritti Umani vengono così a costituire quel plafond condiviso<br />

di valori, quel minimo-massimo etico, come si esprimono<br />

gli autori, irrinunciabile e condiviso, da difendere e promuovere,<br />

il patrimonio etico da porre a base di una convivenza umana<br />

pacifica e solidale, a cui la legge civile, finalizzata al perseguimento<br />

del bene comune, è chiamata a dare concreta tutela giuridica<br />

e possibilità di esercizio ed espressione, minimo-massimo<br />

che “[…] segna il livello di accettazione morale della società al di<br />

sotto del quale non può collocarsi alcun progetto sociale valido”<br />

43 . L’ordinamento giuridico dunque contribuisce a rianimare<br />

una società malata e a moralizzare la vita sociale, se si fa carico,<br />

42<br />

ID., o.c., III, 451.<br />

43<br />

M. VIDAL, o.c. 10 cf. pure A. CORTINA, Ética sin moral, Tecnos, Madrid<br />

1995, 3^ed., e ID., Ética civil y religión, PPC, Madrid 1995.


348 SEBASTIANO VIOTTI<br />

con sano realismo, di tali esigenze etiche possibili e condivise<br />

dai vari progetti umani presenti in una società libera, democratica<br />

e pluralista. La politica e il diritto umano sfuggono così alla<br />

sempre incombente tentazione del pragmatismo e dell’utilitarismo,<br />

vengono riscattati dal non senso, dall’insita tendenza a<br />

diventare ricerca e gestione del potere e dominio, per assumere<br />

il loro vero volto di empirismo sapienziale:<br />

“[...] potremmo indicare la politica come attività per la quale<br />

l’uomo, dinanzi al fatto acquisito di un’organizzazione statale<br />

della vita collettiva, impegna la propria riflessione e valuta le forme<br />

del proprio intervento per rendere più umane le strutture, ossia<br />

per richiamarle alla loro vocazione di servizio all’uomo. [...]<br />

La politica è dettata da un sentire sapienziale che per mantenere<br />

la propria dinamica rifugge dal segnare l’ambito della propria<br />

autonomia quanto dall’assumere su di sé il compito e il significato<br />

finale dell’uomo. Empirismo perché concreto umanesimo<br />

rivolto all’uomo come esso si presenta nella pluralità dei suoi interessi<br />

concreti. Sapienziale perché sensibile ai valori senza per<br />

questo assumersi la responsabilità o la pretesa di una loro deduzione<br />

metafisica. Sapienziale anche perché tiene conto dell’uomo<br />

reale che ha la passione dell’unità, pur nelle deficienze dei<br />

suo agire. La sapienza impedisce al politico di ridurre l’uomo alla<br />

«realtà effettuale», come pure di lavorare per una città tutta<br />

armoniosa della tradizione utopica” 44 .<br />

Questo minimo-massimo etico o convergenza etica, condizione<br />

necessaria per il dipanarsi di una convivenza umana pacifica,<br />

nel rispetto delle varie concezioni religiose e morali presenti<br />

all’interno di una società pluralista, ha trovato, per opera<br />

di alcuni autori contemporanei, specie di lingua spagnola, una<br />

teorizzazione in una figura etica: l’Etica Civile o etica dei cittadini.<br />

Questa consisterebbe in un complesso di valori, sia pure diversamente<br />

fondati e giustificati nelle varie e distinte concezioni<br />

dell’uomo e della storia, espressioni del legittimo pluralismo<br />

44<br />

A. RIGOBELLO, L’identità morale della politica tra calcolo e profezia, in<br />

A. LOBATO, Coscienza e responsabilità politica, ESD, Bologna 1990, 150-1.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 349<br />

all’interno della società, condivisibili e condivisi dai cittadini su<br />

cui si può, e si deve, costruire una convivenza ordinata e giusta.<br />

Vidal le assegna il compito attribuito in passato alla legge naturale,<br />

affermando che il suo ruolo è quello di: “fornire una «giustificazione<br />

morale della convivenza pluralistica e democratica»”<br />

45 , svolgendo una triplice funzione:<br />

“[…] 1) mantenere lo spirito etico (la capacità di «protesta»<br />

e di «utopia») all’interno della società e della civiltà nelle quali le<br />

ragioni «strumentali» hanno sempre più importanza, mentre diminuiscono<br />

le domande sui fini e significati ultimi dell’esistenza<br />

umana; 2) unire i diversi gruppi e le differenti opzioni creando<br />

un campo di gioco neutrale affinché, nell’ambito del necessario<br />

pluralismo, collaborino tutti per elevare la società verso livelli<br />

sempre più alti di umanizzazione; 3) screditare eticamente quei<br />

gruppi e quei progetti che non rispettano il minimo morale comune<br />

postulato dalla coscienza etica generale” 46 .<br />

Sorge non usa l’espressione “ Etica civile”, molto probabilmente<br />

per evitare anche solo ombre semantiche, per non correre<br />

cioè il rischio che denominare Etica Civile il nucleo etico su<br />

cui converge il consenso possa essere inteso come sostegno alla<br />

teoria dell’Etica del discorso o Etica consensuale (proprio per<br />

questo altri autori preferiscono usare l’espressione: consenso sociale<br />

in materia etica), ma la sua proposta è molto simile. Egli<br />

ritiene che si possa riscattare la politica e ridare senso alla convivenza<br />

sociale solo a partire da “una grammatica etica comune”,<br />

che dovrebbe ispirare e innervare naturalmente anche l’ordinamento<br />

giuridico:<br />

“Nessun progetto politico, nessuna proposta sociale si può<br />

elaborare, né tanto meno si può tradurre in pratica o trasformare<br />

in «programma politico», se manca il fondamento di una cultura<br />

politica comune. A sua volta, non è possibile convergere in<br />

una medesima cultura politica, se non c’è un comune sentire<br />

45<br />

M. VIDAL, o.c., 17.<br />

46<br />

Ibidem, 21.


350 SEBASTIANO VIOTTI<br />

morale, cioè se la maggioranza dei cittadini non è d’accordo su<br />

alcuni principi e valori etici fondamentali” 47 .<br />

A suo giudizio, tali valori etici fondamentali e impreteribili<br />

si riversano in alcuni principi basilari, del resto già comunemente<br />

riconosciuti: principio personalista o primato della persona,<br />

che, in quanto titolare di diritti nativi ed inviolabili, deve<br />

essere il soggetto, il fine e fondamento di tutta la vita economico-politica;<br />

principio di sussidiarietà o rispetto dell’autonomia e<br />

responsabilità della persona e delle varie formazioni sociali;<br />

principio di solidarietà o riconoscimento che la persona è chiamata<br />

a realizzarsi nella reciprocità e nella solidarietà; principio<br />

del bene comune, bene-essere o qualità di vita veramente umana,<br />

bene indivisibile e da condividere da tutti i cittadini, quale fine<br />

che dà senso alla convivenza politica. Sono principi, afferma<br />

ancora, conformi a retta ragione e quindi accessibili a tutti gli<br />

uomini di buona volontà, presenti nel vangelo e da esso illuminati,<br />

cosicché la fede può svolgere un ruolo di sostegno e purificazione<br />

del comune sentire morale.<br />

Parrebbe dunque che il dialogo sul problema morale della<br />

legge civile abbia trovato una soluzione anche nella modernità:<br />

la legge civile è giusta se rispetta i Diritti Umani, se si fa carico<br />

di un comune sentire morale (Etica civile, grammatica etica comune)…<br />

le difficoltà sembrerebbero dunque sciolte, ma in realtà<br />

non è così, come evidenziano le discussioni accennate in apertura<br />

di queste riflessioni e come è esperienza di tutti. Probabilmente<br />

si tratta solo, anche se è già significativo, di aver individuato<br />

una via percorribile per arrivare ad una soluzione condivisa,<br />

un terreno d’intesa da cui partire. La convergenza etica comune,<br />

infatti, spesso si arresta alle formulazioni di principio, alle<br />

dichiarazioni formali dei diritti; quando poi si tratta o di tematizzare<br />

la portata concreta di tali diritti o la loro gerarchizzazione,<br />

in non pochi casi, si evidenziano divergenze significative,<br />

ascrivibili alle diverse fondazioni dei diritti stessi, al bagaglio<br />

delle diverse concezioni del pianeta “uomo” e alle differenziate<br />

cosmovisioni morali che stanno a monte. Il problema morale<br />

47<br />

B. SORGE, Per una civiltà dell’amore, Queriniana, Brescia 1996, 115.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 351<br />

della legge civile dunque rimane, in larga misura, una sfida che<br />

il XX secolo lascia in eredità.<br />

La legge civile come un compromesso<br />

La ricognizione svolta ha evidenziato come siano numerosi<br />

i fattori che formano la fisionomia della legge civile e come la<br />

bontà o giustizia dell’ordinamento giuridico consista nella sua<br />

capacità di operare una loro armonica ed equilibrata sintesi, in<br />

altre parole la razionalità della legge civile sta nel suo sapiente<br />

bilanciare due esigenze ineludibili: esigenza di senso o fedeltà a<br />

dei valori ed esigenza di realismo o attenzione ed intelligente interpretazione<br />

della situazione. Le leggi civili devono, infatti,<br />

esprimere un comportamento sociale razionale in una situazione<br />

storica dalla fluidità estrema; non possono ignorare le esigenze<br />

della giustizia, ma neppure possono astrarre dal contesto<br />

socio-culturale. Il diritto umano non può non presentarsi come<br />

un’espressione reale dell’ideale etico della virtù della giustizia,<br />

ma sarà sempre ed unicamente una sua espressione parziale,<br />

perché, nei confronti dell’ideale di giustizia, ha comunque<br />

un’imperfezione strutturale, non può codificarne esaustivamente<br />

tutte le esigenze, sia perché è una realtà temporale e quindi<br />

imperfetta, sia perché non può non risentire del marchio della<br />

debolezza e della colpa insito nell’esperienza umana, sia perché<br />

ogni formulazione è culturalmente e storicamente condizionata.<br />

Le leggi civili tuttavia devono essere formulazioni, pur nella loro<br />

provvisorietà e apertura al futuro, di vere esigenze di giustizia,<br />

anche se mai pienamente adeguate, il rapporto stesso tra etica<br />

e ordine giuridico, infatti, è costituito da comunanza e insieme<br />

da distinzione:<br />

“Queste distinzioni e comunanze non seguono una logica<br />

sempre comune e parallela, bensì esse si ridisegnano in ogni caso<br />

concreto secondo modalità diverse. Se si volesse esprimere la<br />

complessità di queste multiformi relazioni tra diritto e morale<br />

con figure geometriche evocatrici si dovrebbe far dunque riferimento<br />

non tanto alla figura dei due cerchi separati, ancor meno<br />

a quella dei cerchi concentrici, quanto piuttosto alla figura emblematica<br />

di due ellissi che hanno in comune un «fuoco» […]


352 SEBASTIANO VIOTTI<br />

Dialetticamente non si dà diritto senza ricorso alla figura di un<br />

accordo su valori etici accettati, e d’altra parte questo universo<br />

di valori etici diventa reale quando una comunità accetta di renderli<br />

visibili e vincolanti” 48 .<br />

Non è pensabile che tra etica e ordinamento giuridico vi<br />

possa essere una simbiosi o un’omogeneità e coestensione, tra le<br />

due grandezze vi è un rapporto dialettico, quale intreccio di riferimento<br />

o connessione e di distanza o diversità:<br />

“La legge e la morale non sono né identiche né separate:<br />

stanno invece in un rapporto di polarità. La legge dovrebbe servire<br />

l’autorealizzarsi degli individui in reciprocità e solidarietà<br />

sociale. I cittadini, i legislatori e gli amministratori politici hanno<br />

una responsabilità morale in ordine a una buona legislazione<br />

e all’applicazione corretta di leggi buone. Ma sarebbe un’illusione<br />

nefasta sognare di formare una società perfetta cercando di<br />

sanzionare quasi tutto il campo della morale e della buona condotta<br />

con il codice penale” 49 .<br />

Tale raccordo sta in un equilibrio, mai posseduto una volta<br />

per sempre, ma fluido e ridefinibile, frutto della ricerca, che non<br />

può conoscere stanchezza e soste, in un bilanciamento sapiente<br />

tra le esigenze assolute del bene, della loro tutela e riconoscimento<br />

e le possibilità offerte dalla convivenza umana segnata da<br />

pluralità di posizioni e punti di vista (che talora sembrano inconfrontabili<br />

e irriducibili), da limiti e colpe.<br />

La legge civile dunque è un ordinamento razionale nella misura<br />

in cui si fa carico di obiettive esigenze di valore e di esigenze<br />

di realismo (mediante un’intelligente lettura delle possibilità<br />

offerte dalla situazione), se contempera cioè principi di giustizia<br />

ed efficacia; in altre parole la giustizia del diritto positivo<br />

si rivela come un punto di incontro, come una mediazione, operata<br />

dalla prudenza 50 , tra un ideale di convivenza e la possibilità<br />

48<br />

A. BONDOLFI, Diritto e Morale, in L. LORENZETTI (ed.), Trattato di Etica<br />

Teologica, EDB, Bologna 1992, 2^ ed., voll. 3, I, 413.<br />

49<br />

B. HÄRING, o.c., III, 456.<br />

50<br />

“E’ compito della prudenza politica operare il congiungimento tra le


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 353<br />

concreta di attuazione di esso o intelligente e prudenziale adattamento<br />

di principi perenni. La razionalità di una legge sta nel<br />

suo essere incarnazione nella misura del meglio possibile, attraverso<br />

la codificazione giuridica e la sanzione sociale, di esigenze<br />

di giustizia, in una tensione effettiva e dinamica verso “l’ideale<br />

etico impossibile” di una convivenza giusta, quale cammino di<br />

avvicinamento graduale ed instancabile ad un’incarnazione<br />

sempre più adeguata, che può avanzare e affinarsi in relazione<br />

al maturare della coscienza sociale, luogo storico-culturale dove<br />

emergono e sono riconosciuti i valori, dove costumi e riflessione<br />

etica si confrontano.<br />

L’identità della legge civile dunque, mi pare, si può rappresentare,<br />

mutuando le espressioni da Häring 51 , con le categorie di<br />

approssimazione non statica e autosoddisfatta e compromesso<br />

prudente, efficiente e aperto.<br />

La legge civile è approssimazione ad un ideale di giustizia,<br />

ove approssimazione non è sinonimo di arbitrarietà, pressapochismo<br />

o accondiscendenza al relativismo, ma avvicinamento<br />

graduale ed instancabile verso l’ideale in relazione alle opportunità<br />

presenti. Potrà essere una formulazione non perfettamente<br />

adeguata, da ascrivere al limite che segna l’esperienza umana, e<br />

provvisoria, ma pur sempre valida sul momento e aperta ad una<br />

possibile e ricercata migliore formulazione futura.<br />

La legge civile risulta come un compromesso, espressione<br />

da intendere non come negoziazione di quanto non è negoziabile,<br />

ma come interpretazione che fa vivere il valore nel contesto,<br />

quale mediazione tra poli diversi (ideale, possibilità reali) e<br />

frutto di dialogo tra prospettive diverse, quale riconoscimento,<br />

nella misura possibile nel contesto, di un ideale che continua<br />

sempre a trascendere la legge, perché è un paradigma che non<br />

è mai esauribile e non è mai racchiudibile in una formulazione:<br />

“[…] il compromesso politico e legislativo si configura quale<br />

mezzo con cui tradurre e vivere, pur nel rispetto della coscienza<br />

di ciascuno, alcuni impreteribili principi o diritti inviolabili<br />

esigenze proprie del tempo, dell’efficacia politica e delle forze in gioco, con<br />

gli imperativi assoluti e non preteribili dell’ordine morale”. G. MATTAI, o.c.,<br />

50.<br />

51<br />

Cf. B. HÄRING, o.c., I, 406-7.


354 SEBASTIANO VIOTTI<br />

dell’uomo […]” 52 . Compromesso aperto fra l’ideale e la concreta<br />

possibilità della situazione (frutto della prudenza che muove<br />

a proteggere e promuovere il bene comune in un mondo malvagio),<br />

perché porta in sé e riconosce l’esigenza di ulteriori<br />

avanzamenti, di un affinamento della legge. Compromesso prudente<br />

sul grado di pace e giustizia, che in un mondo segnato dal<br />

peccato si riesce a tutelare e difendere; storicizzazione e codificazione<br />

giuridica di quel minimo-massimo di valori di giustizia<br />

e correttezza nei comportamenti sociali, che la coscienza sociale<br />

riconosce come ciò da cui non si può prescindere per una<br />

convivenza razionale e ordinata. Compromesso efficiente, finalizzato<br />

alla necessità di garantire efficacemente alcune mete<br />

concrete e alcuni obiettivi comuni.<br />

Il problema morale della legge civile è dunque un problema<br />

avvertito, un problema che stimola una riflessione in cui i limiti<br />

di una prospettiva di soluzione inadeguata ed inaccettabile (legge<br />

giusta = legge correttamente emanata) sono ormai chiaramente<br />

denunciati, cosicché essa perde quota. Un embrione di intesa,<br />

quale pista per un dialogo da sviluppare, è stato rinvenuto<br />

nell’affermazione formale che la legge è giusta se rispetta i Diritti<br />

Umani. Rimane, tuttavia, da compiere un notevole lavoro<br />

culturale, si tratta di proseguire e di intensificare un dialogo rispettoso<br />

delle varie posizioni di partenza, un dialogo senza posizioni<br />

preconcette o riserve mentali per dare ai Diritti Umani<br />

una fondazione adeguata e condivisa, che li metta al riparo da<br />

interpretazioni riduttive (una loro fondazione unicamente nell’emergere<br />

storico è insufficiente e labile, facilmente degenerabile<br />

in fraintendimenti della loro assolutezza e dei loro contenuti).<br />

Un dialogo, affinché la loro proclamazione non resti una<br />

bandiera o si riduca a pura retorica (le dichiarazioni formali non<br />

trovano automaticamente un loro inveramento nelle situazioni<br />

concrete), affinché l’interpretazione dei loro contenuti sia purificata<br />

dalle incrostazioni dell’ideologia individualista e borghese,<br />

in cui storicamente si affermarono, e maturi sempre di più la<br />

convinzione che essi non sono una creazione o una concessione<br />

della legge positiva, ma che la precedono e la giudicano. Tutto<br />

52<br />

E. TREVISI, Coscienza morale e obbedienza civile, EDB, Bologna, 184.


IL PROBLEMA MORALE DELLA LEGGE CIVILE 355<br />

ciò significa che è ancora necessario proseguire a co-riflettere<br />

per conseguire una più puntuale, compiuta e condivisa idea di<br />

uomo, del significato dell’affermazione che l’uomo è persona e a<br />

interrogarsi ulteriormente sul significato e fine della vita associata.<br />

Il problema morale della legge civile rimane dunque ancora<br />

una sfida, ma non irrisolvibile anche per un’epoca e per una società<br />

caratterizzate dalla mancanza di evidenze etiche comuni e<br />

dalla crescente complessità delle esperienze morali. Sarebbe<br />

una iattura che le difficoltà e la complessità arrestassero una ricerca<br />

ed un dialogo, anche se problematici, faticosi e dai tempi<br />

lunghi, ed inducessero ad arrendersi passivamente, subendo la<br />

mera fattualità, sarebbe non aver fiducia nell’intelligenza umana,<br />

che è capace di verità, e nella sete del bene propria dell’essere<br />

umano.<br />

Via Padana Inferiore, 21<br />

10023 Chieri (TO)<br />

Italy<br />

SEBASTIANO VIOTTI<br />

—————<br />

Summary / Resumen<br />

The moral problem of the civil law (the relationship between ethics<br />

and juridical order) continues in that the various aspects, both of value<br />

and of procedure, which enter into defining a social norm as just are<br />

given a different weighting and evaluation. Harmonizing and reconciling<br />

the needs of a good life in community with the perceptions of such<br />

that are present in the social conscience marked by historicity and<br />

diverse cultures is no easy matter in our pluralistic and complex societies.<br />

Human right can only be a partial incarnation of the needs of value<br />

and of justice, as an approximation or a gradual and untiring approach<br />

to the ethical ideal or prudent compromise which, being efficient<br />

and open, tempers principles and realism. Human rights remain a still<br />

usable basis for dialogue insofar as they are a shared complex of ethical<br />

normativity: there remain, however, the differences to be overcome<br />

which are evident when the formal declarations or those of principle<br />

have to be translated into concrete rules for living together.


356 SEBASTIANO VIOTTI<br />

El problema moral de la ley civil (la relación entre ética y orden jurídico)<br />

continúa cuando varios aspectos tanto de valor como de procedimiento<br />

entran a definir como justa una norma social y adquieren un<br />

significado y valoración diferentes. No es fácil para nuestras pluralistas<br />

y complejas sociedades armonizar y reconciliar las exigencias de una<br />

vida honesta en comunidad con su percepción presente en la conciencia<br />

social marcada por la historia y las diversas culturas. El derecho<br />

humano no puede ser más que una encarnación parcial de las exigencias<br />

de valor y de justicia, como aproximación o acercamiento gradual<br />

e incansable al ideal ético o compromiso prudente que, siendo eficaz y<br />

abierto, modera principios y realismo. Los derechos humanos siguen<br />

siendo aún una base utilizable para el diálogo mientras sean un complejo<br />

compartido de normatividad ética: subsisten, sin embargo, diferencias<br />

evidentes que tienen que superarse, cuando las declaraciones<br />

formales o de principio tienen que plasmarse en reglas concretas de<br />

convivencia.<br />

—————<br />

The author is an invited Professor at the Alphonsian Academy.<br />

El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.<br />

—————


357<br />

StMor 37 (1999) 357-370<br />

JOSEF RÖMELT<br />

THEOLOGISCHE ETHIK<br />

UND IN-VITRO-FERTILISATION<br />

Die Techniken der Sterilitätstherapie entwickeln sich mit<br />

rasantem Tempo weiter. Intratubarer Gametentransfer (gamete<br />

intrafallopian transfer, GIFT), In-Vitro-Fertilisation (IVF) mit<br />

anschließendem Embryonentransfer (ET), intratubarer Zygotentransfer<br />

(zygote intrafallopian transfer, ZIFT),<br />

intracytoplasmatische Sameninjektion (ICSI) und<br />

Präimplantationsdiagnostik (PID) bzw. genetische Diagnostik<br />

vor der Implantation (Preimplantation Genetic Diagnosis, PGD)<br />

stehen für die mittlerweile breit gefächerten Möglichkeiten der<br />

Hilfe. Während dabei die ICSI als erfolgreiche Erweiterung<br />

möglicher Überwindung von Sterilitätsursachen zu sehen ist -<br />

durch die Anwendung dieser Methode wird eine Samenzelle des<br />

Mannes unmittelbar in die Eizelle durch Injektion eingebracht,<br />

so daß nun auch schwere Störungen männlicher Fruchtbarkeit<br />

überbrückt werden können 1 -, so führen die diagnostischen<br />

Verfahren vor der Implantation eines in vitro befruchteten Eies<br />

die IVF in neue Anwendungsbereiche. Die Möglichkeit,<br />

menschliche Prokreation nicht nur über psychische oder<br />

physische Fertilitätsprobleme hinweg zu ermöglichen, sondern<br />

zugleich auch auf ihre genetische “Korrektheit” hin zu prüfen,<br />

wie das innerhalb der künstlichen Befruchtung außerhalb des<br />

1<br />

1997 wurden 15365 Behandlungen dieser Art in der BRD durchgeführt.<br />

Dem stehen 9902 Behandlungen nach der herkömmlichen Form der<br />

IVF (Befruchtung in vitro mit dem aufbereiteten Samen des Mannes)<br />

gegenüber. Diese letztere Technik steht vor allem zur Verfügung, wenn die<br />

Ursachen für die Sterilität eines Paares auf seiten der Frau liegen (diverse<br />

Eileiterdefekte etc.). Vgl. J. Reiter, Problematische Eigendynamik.<br />

Fortpflanzungsmedizin 20 Jahre nach dem ersten Retortenbaby, in: HerKorr<br />

52 (1998) 407-412.


358 JOSEF RÖMELT<br />

Mutterleibes durch genetische Tests am erzeugten Embryo vor<br />

seiner Einführung in den Mutterleib möglich ist, macht die<br />

Techniken der IVF auch für sogenannte Risikopaare interessant:<br />

Menschen, die Träger einer genetisch vererbbaren Krankheit<br />

sind - sei es dominant oder auch nur rezessiv - könnten sich nun<br />

- obwohl sie ohne technische Hilfe ein Kind haben können - der<br />

In-vitro-Fertilisation und der Präimplantationsdiagnostik<br />

bedienen, um angstfrei ein Kind zeugen zu lassen und austragen<br />

zu können, das mit Hilfe bestimmter Testverfahren zumindest<br />

weniger wahrscheinlich den bestimmten genetischen Defekt<br />

übernommen hat 2 . In-vitro-Fertilisation wird so zu einer<br />

medizinischen Technik, die in den vielfältigen Risiken und<br />

Nöten menschlicher Fortpflanzung eine immer gewichtigere<br />

Aufgabe erhält, um Probleme zu überbrücken und zu lindern,<br />

aber auch um Belastungen zu erkennen und zu “meiden”.<br />

Angesichts solcher Tendenzen scheint auch innerhalb der<br />

katholischen Moraltheologie der Diskussionsbedarf über die<br />

ethische Legitimität dieser Techniken zu steigen. Auch wenn die<br />

Probleme der Sterilität (ca. 15% der Paare) und der genetisch<br />

bedingten Erbkrankheiten weit weniger Menschen betreffen, so<br />

darf die Kirche sicherlich nicht ein zweites Mal (nach der<br />

Enzyklika “Humanae vitae”) gerade in den so sensiblen<br />

Bereichen der Sexualität und Fortpflanzung in die Gefahr<br />

kommen, hilfreiche medinzinische Interventionen auf Grund<br />

moralischer Bedenken zu ängstlich zu blockieren. Aber es<br />

bedarf auch einer sachgerechten und offenen Bewertung, die<br />

den Bedürfnissen des Menschen und den ethischen Werten, die<br />

auf dem Spiel stehen, wirklich Rechnung zu tragen versucht.<br />

2<br />

Das heißt, alle in vitro erzeugten Embryonen werden auf das entsprechende<br />

genetische Merkmal hin untersucht. Bei positivem Befund wird<br />

der jeweilige Embryo “verworfen”. Nur unauffällige Befunde erlauben die<br />

Implantation. Bei dem heutigen Stand der prä-, intra- und<br />

postkonzeptionalen Präimplantationsdiagnosen bedarf es freilich auch nach<br />

der Implantation einer nochmaligen Pränataldiagnostik, um Testfehler aus<br />

der Phase vor der Einnistung und mögliche Veränderungen in den nach dem<br />

Test liegenden Entwicklungsphasen des Embryos zu erfassen.


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 359<br />

1) Eine wachsende moraltheologische Pluralität in der ethischen<br />

Bewertung der IVF<br />

Zu Beginn der Entwicklung rangierte im Zentrum der<br />

Auseinandersetzung mit der modernen Technik für die<br />

Theologie das Argument, daß das Zugrundegehen menschlichen<br />

Lebens in frühesten Stadien durch die IVF in Kauf genommen<br />

werde. In diesem Sinne gab mit Hinweis auf die große Zahl an<br />

Follikelpunktionen und Befruchtungen in vitro, die aber<br />

schließlich begrenzte Erfolgsrate der Behandlungen im Sinne<br />

tatsächlich gelingender Schwangerschaften und Geburten Klaus<br />

Demmer 1987 noch zu bedenken: “Der Mensch provoziert [mit<br />

der Technik der IVF] künstlich ein Risiko, das notwendigerweise<br />

mit tödlichem Ausgang, der vorhergesehen wurde, verbunden<br />

ist. Dann läßt sich allerdings der Frage nicht ausweichen, ob der<br />

sehnliche Kinderwunsch eines sonst unfruchtbaren Paares<br />

Grund genug ist, ein solches Risiko hervorzurufen.” 3 Die<br />

modernen Erfolge der IVF liegen heute ein wenig höher als zu<br />

Beginn der Anwendung des Verfahrens (ca. 15% erfolgreiche<br />

Schwangerschaften pro Behandlungszyklus), bleiben damit aber<br />

immer noch unterhalb der natürlichen Fertilitätsrate. Dennoch<br />

bemüht sich heutige theologische Reflexion, Argumente für eine<br />

moralische Legitimierung der IVF zu finden, die den Verlust von<br />

menschlichem Leben in frühesten Stadien damit zu<br />

rechtfertigen versucht, daß auch die Natur offenbar in dieser<br />

Entwicklungsphase mit der menschlichen Zygote äußerst<br />

verschwenderisch umgeht, daß demgegenüber aber mit der<br />

künstlichen Befruchtungsmethode der IVF gerade um die<br />

Zeugung eines Kindes gerungen wird, welches ansonsten mit<br />

Sicherheit nicht auf die Welt kommen könnte: “Die anfänglichen<br />

therapeutischen Mißerfolge bei den Befruchtungsversuchen im<br />

Rahmen der IVF lassen sich” im Sinne solcher Überlegungen<br />

“mit den Prinzipien der ‘Handlung mit Doppelwirkung’ und der<br />

‘Verschwendung in der Natur’ ethisch rechtfertigen.” 4 Mit<br />

3<br />

K. Demmer, Leben in Menschenhand. Grundlagen des bioethischen<br />

Gesprächs (Studien zur theologischen Ethik 23). Freiburg i.Ue. 1987, 90.<br />

4<br />

J. Gründel, Art.: In-vitro-Fertilisation. III. Ethisch, in: LThK 5 ( 3 1996)<br />

576.


360 JOSEF RÖMELT<br />

diesem Gedanken nähert sich theologische Ethik einem<br />

Konzept, das zwar die prinzipielle Schutzwürdigkeit<br />

embryonalen menschlichen Lebens gegenüber bloßem<br />

Sachmaterial und nicht-menschlichen Feten nicht in Frage<br />

stellt, aber ähnlich nicht-theologischen Deutungen des<br />

moralischen Status des menschlichen Embryos dem<br />

menschlichem Leben in seinen frühesten Entwicklungsstadien<br />

nur eine Schutzwürdigkeit zuerkennt, die im Konfliktfall mit<br />

anderen moralischen Gütern (nicht nur im Sinne einer<br />

medizinisch-vitalen Indikation) in Konflikt geraten kann.<br />

Suchen nicht-theologische Theorien die eigentliche ethische<br />

Abwägung in den verschiedenen möglichen Konfliktsituationen<br />

menschlicher Fortpflanzung dadurch zu entlasten, daß sie die<br />

moralischen Rechte des heranreifenden Menschen gleichsam<br />

depotenzieren und reduzieren 5 , so spricht theologische Ethik bei<br />

der IVF von Kriterien der Rechtfertigung, die wohl die ethische<br />

Kompromißhaftigkeit menschlichen Handelns im Auge behält.<br />

Der Hinweis auf die Handlungen mit Doppelwirkung bei der<br />

Rechtfertigung des in Kauf genommenen Verlustes<br />

menschlicher Embryonen im Rahmen der IVF läßt die<br />

5<br />

Für die verschiedenen Entwicklungsstadien des Menschen (Eizelle in<br />

statu fertilisandi, Zygote [Präembryo], Embryo, Fetus) werden<br />

Differenzierungen in bezug auf das Lebensrecht des Embryos in<br />

Konfliktfällen vorgenommen: durch Unterscheidung zwischen dem durch<br />

das deutsche Embryonenschutzgesetz auch dem Embryo zugesprochenen<br />

Begriff der Menschenwürde als Gattungsbegriff auf der einen Seite und als<br />

(für alle ausgetragenen und geborenen Menschen geltenendem)<br />

individuellem Personbegriff auf der anderen (vgl. D. Birnbacher, Gefährdet<br />

die moderne Reproduktionsmedizin die menschliche Würde?, in: A. Leist<br />

[Hg.], Um Leben und Tod. Moralische Probleme bei Abtreibung, künstlicher<br />

Befruchtung, Euthanasie und Selbstmord [stw 846]. Frankfurt 2 1990, 266-<br />

281), durch Ergänzung des Potentialitätsarguments mit Gradualitätsargumenten<br />

im Sinne erst potientieller Handlungsfähigkeit (K. Steigleder, The<br />

moral significance of potential persons, in: E. Hildt/D. Mieth [Hg.], In Vitro<br />

Fertilization in the 1990s. Towards a Medical, Social and Ethical Evaluation.<br />

Aldershot 1998, 239-246) oder durch epigenetische, philosophisch<br />

begründete Stufenmodelle (Einnistung als Beginn auch leiblich fundierter<br />

Individualität, Ausbildung neurologischer Strukturen als Beginn der<br />

Schmerzempfindlichkeit, Ausbildung organischer Strukturen [Neocortex]<br />

als Besitz physiologischer Grundlagen selbstbewußten Daseins etc.).


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 361<br />

Komplexheit menschlichen Handelns anklingen 6 . Aber das Bild<br />

von der Verschwendung der Natur dient in der Vorbereitung<br />

moralischer Bewertung der IVF offenbar dazu, von der übertriebenen<br />

Vorstellung zu befreien, daß im Verlauf menschlicher<br />

Intervention in den Lebensbeginn und technischer Manipulation<br />

nur ja auch nicht eine der befruchteten Eizellen<br />

verlorengehen dürfe.<br />

Dieses Argument erscheint gegenüber den differenzierten<br />

modernen moralphilosophischen und moraltheologischen<br />

Überlegungen in bezug auf den moralischen Status auch des<br />

frühen menschlichen Embryos global und grob, aber man kann<br />

sich seinem Gewicht kaum entziehen. Auch theologische<br />

Interpretation wird mit ihrer Deutung einer notwendigen<br />

Einbeziehung der menschlichen Zygote vom Beginn der<br />

Befruchtung an in den Schutz menschlicher Würde und<br />

menschlichen Lebens kaum pauschal behaupten wollen, “daß<br />

angesichts einer über 50% liegenden natürlichen Abortrate vor<br />

der Implantation wirkliche menschliche Personen mit einer<br />

unsterblichen Seele sich nicht über die ersten undifferenzierten<br />

Stadien des Lebens hinaus entwickeln” 7 .<br />

Hier liegt wohl der Grund, daß auch theologisch-ethische<br />

Reflexion beginnt, sich an der Kasuistik zu beteiligen, mit der<br />

die moderne Technik der In-vitro-Fertilisation und der<br />

verschiedenen Diagnosemöglichkeiten vor der Implantation der<br />

künstlich gezeugten Embryonen von seiten der philosophischethischen<br />

Reflexion begleitet wird. Bei der theologischen<br />

Bewertung spielen allerdings zentrale ethische Werte der<br />

moraltheologischen Tradition eine Rolle: Der theologischethischen<br />

Beurteilung der IVF geht es über den angemessenen<br />

Lebensschutz hinaus um die sozialen Rahmenbedingungen<br />

auch der künstlichen Fortpflanzung im Sinne des Schutzes der<br />

6<br />

Ähnlich etwa den tragischen Konflikten indirekter Tötung von Feten,<br />

um das Leben der Mutter zu retten, wie sie in der traditionellen Moraltheologie<br />

heftig diskutiert wurden.<br />

7<br />

H.-M. Sass, Hirntod und Hirnleben, in: Ders. (Hg.), Medizin und<br />

Ethik. Stuttgart 1989, 160-183; hier: 179.


362 JOSEF RÖMELT<br />

Ehe, um die Abwehr von genetisch-manipulativen Zugriffen auf<br />

den menschlichen Embryo, von Selektion des Geschlechtes oder<br />

anderen Eigenschaften usw. So werden IVF im heterologen<br />

System, Klonen, Kryokonservierung, Reduzierung von<br />

Mehrlingsschwangerschaften, Leihmutterschaft, Etablierung<br />

der IVF als “medizinisch routinemäßig empfohlenes<br />

Zeugungsverfahren” 8 - Verfahren und Techniken, die alle im<br />

Schlepptau von IVF mit ihren verschiedenen Spielarten folgen -<br />

abgelehnt. Theologisch positive ethische Wertung der In-vitro-<br />

Fertilisation beschränkt sich in diesem Sinne letztlich lediglich<br />

auf die medizinische Hilfe für ein verheiratetes Paar, bei der der<br />

Frau im Rahmen der Sterilitätstherapie die (in der BRD)<br />

gesetzlich erlaubten drei künstlich gezeugten Embryonen in einem<br />

Fruchtbarkeitszyklus eingepflanzt werden, ohne daß bei<br />

Mehrlingsschwangerschaften eine Reduktion oder bei pränatal<br />

festgestellter Behinderung eine Abtreibung vorgenommen<br />

werden dürfte. “IVF oder GIFT [gemeint ist hier offenbar ZIFT]<br />

lassen sich homolog zwischen Ehepartnern ethisch<br />

verantworten, wenn sie recht motiviert sind und keine<br />

Vernichtung von Embryonen mit einschließen.” 9<br />

8<br />

K. Hilpert, Art.: In-vitro-Fertilisation, in: Lexikon der Bioethik 2<br />

(1998), 295-297; hier: 296.<br />

9<br />

J. Gründel, Art.: In-vitro-Fertilisation. III. Ethisch, 575. Gründel<br />

betont in diesem Sinne: “Menschliches Leben bedarf von seinem Beginn an<br />

der Achtung und des Schutzes. Angesichts der differenzierten Entwicklung<br />

menschlichen Lebens muß mit wachsender Einsicht in die biologischen<br />

Abläufe auch sein Schutz verstärkt werden.” (Ebd.) Der Artikel von K.<br />

Hilpert im Lexikon der Bioethik scheint diese Wertung freilich nur noch als<br />

allgemeinen gesellschaftlichen Standard bei “sparsamer Anwendung der<br />

IVF” festhalten zu wollen, demgegenüber im Einzelfall aber viele<br />

Ausnahmen “diskutierbar” sind: heterologe IVF bei einer Wahrscheinlichkeit,<br />

“dass Eltern eine für das auf normalem Wege gezeugte Kind<br />

schwerste Erbkrankheit weitergeben würden”, Leih- oder<br />

Ersatzmutterschaft aus “seltenen rein altruistischen Motivationen ...<br />

(denkbar am ehesten innerhalb ein und derselben Familie)”. K. Hilpert, Art.:<br />

In-vitro-Fertilisation, 296.


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 363<br />

2) Die vielen ungelösten ethischen Probleme der modernen Techniken<br />

der IVF und PID<br />

Gerade weil theologische Ethik aber um einen positiven<br />

ethischen Diskurs in bezug auf die modernen Verfahren<br />

künstlicher Befruchtung in vitro und diagnostischer Hilfen<br />

bemüht ist, nimmt sie die vielen ungelösten moralischen Fragen<br />

wahr, die sich mit der Anwendung der genannten Techniken<br />

verbinden.<br />

Gegenwärtige extrakorporale Fertilisierungstechnik bleibt<br />

nicht bei dem bloßen Versuch stehen, die biologischen (oder<br />

psychischen) Hindernisse einer Zeugung durch künstliche<br />

Assistenz zu überbrücken, die Natur lediglich in ihren gleichsam<br />

grob mechanischen Defekten (durch Imitation gelingender<br />

natürlicher Vereinigung von Ei- und Samenzelle) zu korrigieren.<br />

Moderne Fertilitätsmedizin steht unter Druck, ihren<br />

Substitutionserfolg durch weitere Maßnahmen zu perfektionieren,<br />

die garantieren sollen, daß mit solchen<br />

Hilfsmaßnahmen auch ein gesundes Kind geboren wird. Und<br />

diese Sorge betrifft nun nicht mehr nur die Sorgfalt bei der<br />

Überwindung der organischen Probleme der Sterilität der Eltern,<br />

sondern weitet sich irgendwie geradezu zwangsläufig auf<br />

die genetischen Prozesse der Fortpflanzung aus.<br />

Anders als in bezug auf die bloßen Schwierigkeiten der<br />

Sterilität bleiben freilich die Möglichkeiten genetischer<br />

Korrekturen (nicht nur) in bezug auf die Vorgänge der<br />

Prokreation zur Zeit noch äußerst begrenzt. Was sich durch heutige<br />

Anstrengungen auf dem Sektor der Humangenetik ständig<br />

weiter entwickelt, ist zunächst die Chance der diagnostischen<br />

Einsicht in genetische Strukturen, die durch die Prozesse der<br />

Fortpflanzung weitergegeben werden und eine mögliche<br />

Krankheit des Trägers disponieren 10 . Eine wirkliche Therapie -<br />

10<br />

Wichtig werden solche Erkenntnisse etwa zur Vorbereitung der<br />

Geburt, z.B. wenn ein Kind die Anlage zur Hämophilie geerbt hat. Allerdings<br />

gilt es auch hier zu differenzieren. Nur bei mongenetischen<br />

Krankheitsformen ist diese Disposition so eng, daß die epigenetische<br />

Entwicklung die genetische Anlage mit einiger Zwangsläufigkeit auch zum<br />

Ausdruck bringt. Die meisten Dispositionen bleiben multikausal.


364 JOSEF RÖMELT<br />

nicht einmal im Sinne der Substitution - ist für solche<br />

Diagnosen allerdings kaum gegeben.<br />

Diese gegenwärtige medizin-historische Situation führt in<br />

der beginnenden klinischen Praxis sowie der begleitenden<br />

moralischen Reflexion der Fertilitätstherapien zunehmend zu<br />

kontrovers geführten Überlegungen, ob parallel zur gesetzlichen<br />

Regelung der Abtreibungspraxis in den modernen Industriegesellschaften<br />

11 im Rahmen der IVF eine zumindest als<br />

Option offenzuhaltende Selektion kranker Embryonen vor der<br />

Implantation in den Mutterleib zur Verfügung gestellt werden<br />

müßte. Die moralische Situation tragischer<br />

Schwangerschaftskonflikte wird dabei unbesehen auf die Probleme<br />

der künstlichen Befruchtungshilfen, also auf die<br />

künstlich induzierte Risikosituation assistierter, artifizieller<br />

Fertilisation und die präimplantive Selektion kranker Embryonen<br />

ausgedehnt. Die ersten Testverfahren der<br />

Präimplantationsdiagnostik werden parallel zu den Instrumentarien<br />

pränataler Diagnostik entwickelt. Dabei wird auf den<br />

Vorteil abgehoben, daß mit Hilfe solcher Verfahren die riesigen<br />

Belastungen pränatal diagnostizierter, genetisch belasteter<br />

Schwangerschaften und mit diesem Befund durchgeführter<br />

Spätabtreibungen vermieden werden könnten. Und so wird die<br />

Indikation zur IVF über die Probleme der Fertilitätsstörungen<br />

hinaus auf die gesamten Konflikte sogenannter<br />

Risikoschwangerschaften erweitert, in denen genetische Defekte<br />

die Geburt eines kranken Kindes “heraufbeschwören” könnten.<br />

So wird IVF als indiziert angesehen als Hilfe bei Trägern<br />

schwerer Erbkrankheiten nicht nur im Sinne einer heterologen<br />

Fertilisierung (die das belastete Erbgut zu umgehen versucht),<br />

sondern als kontrollierte Zeugung im homologen System, bei<br />

dem nur gesunde Embryonen in den Mutterleib transferiert<br />

werden. Ethisch diskutiert werden die Sicherheit der angewendeten<br />

Methoden der PID 12 als auch auf die Frage, welche<br />

11<br />

Vgl. die Integration der embryopathischen Indikation in die medizinische<br />

Indikation in der BRD.<br />

12<br />

Hier gilt nicht: je früher, um so besser, weil in den Entwicklungen der<br />

menschlichen Zygote zu allen (frühen und späteren) Zeitpunkten immer


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 365<br />

Dispositionsgrade zu welchen Krankheitsgraden einen entsprechenden<br />

Zugang zur Diagnostik und eine entsprechende<br />

Selektion rechtfertigen 13 .<br />

Kommen hier Fragestellungen zur Sprache, ob es für ein<br />

Kind zumutbar ist, von seinen Eltern und Ärzten mit Wissen um<br />

genetische Krankheitsdispositionen implantiert und<br />

ausgetragen zu werden, ob deshalb nicht gar die Autonomie der<br />

Eltern in der Verfügung über einen genetisch belasteten Embryo<br />

um der Gesundheit der genetischen Erbanlagen einer<br />

Population willen beschnitten werden muß, dann scheint<br />

paradoxerweise das Argument natürlicher Redundanz im Umgang<br />

mit menschlichem Leben in den frühsten Stadien vergessen.<br />

Es wird demgegenüber eine Rationalität menschlicher<br />

technischer Intervention in die Prozesse menschlicher Zeugung<br />

mit großer Strenge und Rigorosität offenbar. Die Überwindung<br />

natürlicher Defekte unter Berufung auf die Verschwendung der<br />

Natur wandelt sich zur technisch berechneten Abwehr natürlicher<br />

Defekte gegenüber der spontanen, unberechenbaren<br />

Offenheit der Natur, die nicht nur zahlreiche befruchtete<br />

Eizellen zugrundegehen läßt, sondern auch aus der Sicht<br />

humangenetischer Wissenschaft genetisch defekte Embryonen<br />

heranwachsen läßt. Und was zur Rechtfertigung der IVF<br />

bestritten wird, daß man in Rechnung stellen muß, aus jeder<br />

befruchteten Eizelle könne ein erwachsener Mensch heranreifen,<br />

das wird zur Begründung einer zunehmend als moralische<br />

Verpflichtung verstandenen Meidung von Krankheitsträgern<br />

im genetischen Sinne nun gerade als logischer<br />

Zusammenhang dargestellt: daß aus jeder Zygote, die einen bestimmten<br />

genetischen Befund von Aberration aufweist, ein<br />

Mensch heranreifen kann, der unter einer bestimmten<br />

Krankheit leidet. Der theologisch-ethische Tutiorismus im<br />

Verbot von menschlichen Manipulationen (wie etwa der IVF),<br />

bei denen der Verlust von menschlichen Zygoten in Kauf<br />

wieder das Risiko fehlerhafter genetischer Entwicklungen besteht.<br />

13<br />

Vgl. G. De Wert, Ethik der Praeimplantationsdiagnostik: Ein<br />

gordischer Knoten, in: Biomedical Ethics 1/1 (1996) 9-13.


366 JOSEF RÖMELT<br />

genommen wird, wandelt sich in der Semantik der Fortpflanzungsmedizin<br />

in den Tutiorismus moderner Selektionsbemühungen,<br />

die es mit zunehmendem, gleichsam moralischem<br />

Druck auf die Schwangeren für geboten erachtet, bei<br />

unsicherem genetischen Befund die Alternative der<br />

“Verwerfung” bzw. Abtreibung zu wählen.<br />

K. Ruppel und D. Mieth machen in diesem Zusammenhang<br />

darauf aufmerksam, daß innerhalb der modernen ethischen<br />

Wertung der Entwicklung menschlichen Lebens in seinen<br />

frühesten Stadien die Gefahr besteht, “an die Stelle der Entwicklungspotentialität”<br />

gleichsam eine “Qualitätspotentialität”<br />

treten zu lassen, freilich nicht mehr zur Begründung des<br />

Lebensschutzes, sondern zur ethischen Rechtfertigung von<br />

Selektion. Sie fordern deshalb dazu auf, “die Einwände gegen<br />

ein Potentialitätsargument” noch einmal zu durchdenken. “Die<br />

Koppelung von Lebensqualitäten mit Überlebensrechten [von<br />

zur Einpflanzung anstehenden menschlichen Zygoten und<br />

Embryonen] bleibt jedenfalls problematisch, wenn es nicht um<br />

Nicht-Überlebensfähige oder in dieser Fähigkeit erheblich eingeschränkte<br />

menschliche Wesen geht. Hier bleiben noch einige<br />

Fragen an die Wissenschaft offen, z.B. wie überlebensfähig sind<br />

in der sog. ‘natürlichen Lotterie’ signifikante Embryonen?<br />

Woher wissen wir, wieviele hiervon zur Einpflanzung gelangen?<br />

Vermutlich kann man diese Fragen aber nicht ohne die<br />

Techniken beantworten, die moralisch in Frage stehen, so daß<br />

wir zu dem Ergebnis kommen müssen, daß uns die PID im<br />

ganzen vor mehr Probleme stellt als sie in Einzelfällen - in sehr<br />

geringer Prozentzahl gesund geborener Kinder - zu lösen<br />

scheint.” 14<br />

Die moralischen Begründungen der Legitimität der neuen<br />

medizinischen Techniken - seien es Fertilitätsverfahren wie IVF,<br />

14<br />

K. Ruppel/D. Mieth, Ethische Probleme der Präimplantationsdiagnostik,<br />

in: M. Düwell/D. Mieth (Hg.), Ethik in der Humangenetik. Die<br />

neueren Entwicklungen in der genetischen Frühdiagnostik aus ethischer<br />

Perspektive (Ethik in den Wissenschaften 10). Tübingen 1998, 358-379; hier:<br />

373.


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 367<br />

ZIFT oder ICSI, seien es diagnostische Instrumente wie PID<br />

oder PGD - gewinnen ihren Anspruch letztlich daraus, daß der<br />

Erfolg der Geburt eines gesunden Kindes, der durch die Technik<br />

möglich wird, mit den vielen Belastungen ungewollter<br />

Unfruchtbarkeit, vererblicher Krankheitsdispositionen usw.<br />

abgewogen wird. Die Unbestimmtheit der natürlichen Prozesse<br />

scheint dabei einmal die Unvollkommenheit technischer Maßnahmen,<br />

das andere mal die Entschiedenheit technischer<br />

Korrekturen zu legitimieren. An der Radikalität der Forderung<br />

der Selektion beschädigten Lebens gerade in sehr frühen<br />

Stadien aber wird die Ambivalenz dieses Unternehmens letztlich<br />

deutlich: der Zwang zur immer weitergehenden Korrektur der<br />

Natur, der schließlich den Horizont der Möglichkeit, ja unter<br />

Umständen sogar die Notwendigkeit einer umfassenden<br />

Kontrolle der von Natur aus offenbar immer riskanten Prozesse<br />

der Zeugung durch menschliche Technik eröffnet.<br />

Demgegenüber stellt sich aber ganz entschieden die Frage,<br />

welches Leitbild kultureller Entwicklung für eine menschliche<br />

Zukunft wirklich tragfähig ist: das einer vorrangigen Substitution<br />

der spontanen, technisch nicht kontrollierten <strong>Vol</strong>lzüge<br />

des Lebens durch technologische rationale Verfahren, oder das<br />

einer prinzipiell auf natürlich-spontanen Erfahrungen aufbauenden<br />

Kultur, die Technik wohl zur Bewältigung äußerster<br />

Konfliktsituationen für menschliche Existenz und Biosphäre in<br />

Anspruch nimmt 15 . Im Blick auf die tief sensiblen, die ganzheitlichen<br />

Erfahrungen menschlicher Sinnlichkeit, zwischenmenschlicher<br />

Begegnung und Leiberfahrung berührenden Akte<br />

menschlicher Prokreation bedarf es zur Beantwortung dieser<br />

Sinnfragen keines ökologistischen oder feministischen 16<br />

Technikpessimismus, um zu verstehen, was kirchliche Tradition<br />

15<br />

Läßt sich in diesem Sinne die Technik der IVF im homologen System<br />

im Rahmen der Sterilitätstherapie als äußerster Grenzfall legitimieren (ohne<br />

PID) - auch wenn die unfruchtbare Konstellation eines Paares kein<br />

menschliches Leben unmittelbar bedroht und auch ein positives Recht auf<br />

Nachkommenschaft kaum begründbar ist?<br />

16<br />

Vgl. R. Maguire, Personhood, Covenant and Abortion, in: P. Jung/T.<br />

Shannon (Hg.), Abortion and Catholicism. New York 1988, 100-120.


368 JOSEF RÖMELT<br />

mit dem Gedanken der “Natur als Schutz der Person” 17 meint:<br />

daß der Mensch vor dem größeren Ganzen der Natur seine<br />

eigene Begrenztheit auch annehmen muß, um seiner eigenen<br />

Identität gerecht zu werden.<br />

Letzter Anspruch dieser Begrenzung menschlicher<br />

Interessen in ihrer Durchdringung der Natur ist die notwendige<br />

Achtung der vorgegebenen Vielfalt natürlichen Lebens, die nicht<br />

nur in bezug auf die Fortpflanzungstechnik als solche<br />

Voraussetzung und Rahmen aller menschlichen kulturellen<br />

Formung und Gestaltung bleibt: Die Bewahrung z.B. der<br />

Artenvielfalt zur Sicherung eines gesunden Genpools etwa der<br />

natürlichen pflanzlichen Evolution ist nach dem gegenwärtigen<br />

Erkenntnisstand wohl durch keine menschliche Kreativität zu<br />

ersetzen. Heutige technische Forschung spielt mit dem<br />

Gedanken der unbegrenzten Horizonte weiterer Entwicklung,<br />

behauptet, daß nur unter dieser Idee einer prinzipiellen Beherrschbarkeit<br />

aller Lebensphänomene Fortschritt (nicht nur)<br />

um des Menschen willen möglich sei. Aber angesichts der<br />

Krisenphänomene technischer Zivilisation stellt sich immer<br />

dringlicher die Frage, ob dem Forschungsimpuls nicht eine<br />

nüchterne Akzeptanz der metaphysisch-apriorischen Einsicht in<br />

die bleibende Begrenztheit des Menschen an die Seite gestellt<br />

werden muß, damit das Gewicht der Folgen technischer Aktion<br />

sich nicht gegen den Menschen und die belebte Natur kehrt, ihre<br />

Lebensentfaltung zerstört. Diese Begrenzung technischer<br />

Aktivität ist dabei ein Desiderat kultureller Gestaltung durch den<br />

Menschen selbst 18 . Die Vogel-Strauß-Politik des Forschers, der<br />

sich nur seinem kleinen begrenzten Erkenntnisfortschritt<br />

17<br />

Vgl. J. Reiter, Problematische Eigendynamik, 409 (mit Berufung auf<br />

K. Demmer). In diesem Gedanken scheint eine moderne, nachmetaphysische<br />

Interpretation des Naturrechts auf.<br />

18<br />

Es geht hier nicht um eine Neuauflage naturrechtlichwesensintuitiver<br />

Einschränkung menschlicher Autonomie und Kreativität.<br />

Es geht vielmehr um eine kulturelle Selbstinterpretation des Menschen in<br />

seiner bleibenden Bezogenheit auf die Natur, um die “Hermeneutik” seiner<br />

natürlich fundierten, kreativ offenen Identität als Basis seines ethisch<br />

verantwortlichen Handelns. Vgl. J. Römelt, Realistische Freiheit. Gedanken<br />

zur Theologie der Verantwortung. Frankfurt 1995, 17-24.78-85.


THEOLOGISCHE ETHIK UND IN-VITRO-FERTILISATION 369<br />

widmet unter der insgeheimen Phantasie, der Mensch werde<br />

einmal alle Lebensprozesse der Natur und sogar des Lebensbeginns,<br />

des Alterns und Sterbens durchschauen, vergißt, daß<br />

diese gleichsam metaphysische Annahme durch keine<br />

Erfahrung zu belegen ist und gegenwärtig immer heftigere<br />

kulturelle und zivilisatorische Paradoxien produziert. Das gilt<br />

auch für eine weitgehende technische Kontrolle menschlicher<br />

Akte der Fortpflanzung. Vielleicht wird von diesem Gedanken<br />

her auch deutlich, warum katholische Theologie im Blick auf die<br />

Techniken der Fortpflanzungsmedizin - trotz unbestrittener<br />

Ziele, die leidvolle Erfahrungen zu mindern suchen - für einen<br />

Verzicht auf eine Manipulation wirbt, die die natürliche Basis<br />

menschlicher Prokreation immer weiter verläßt und die in<br />

diesem Zusammenhang das zugegebenerweise mit der Natur<br />

noch sehr undifferenziert verbundene Leben früher<br />

menschlicher Embryonen immer stärker instrumentalisiert<br />

(z.B. schon wenn sie dessen Verlorengehen allzu rasch in Kauf<br />

nimmt).<br />

Karthäuser Strasse 7a,<br />

99084 Erfurt<br />

Germany<br />

JOSEF RÖMELT<br />

—————<br />

Summary / Resumen<br />

The technological therapy of sterility problems has seen great advances<br />

in recent years. This is the case both on the level of overcoming sterility<br />

and in respect of the pre-diagnosis of pregnancies that carry the<br />

risk of genetic disorders. These advances pose important questions for<br />

moral theology. Some of these issues are examined, for instance IVF<br />

and its restriction to married couples. Precisely because moral theology<br />

should be a positive science that tries to understand modern developments,<br />

these problems have to be analyzed, complex though they be.<br />

This article examines some of these issues, particularly from the point<br />

of view of the possible manipulation of the human species, as could


370 JOSEF RÖMELT<br />

happen in selection of how, when and with whom one should genetically<br />

intervene. The fundamental issue is: how do we view cultural<br />

development, and what criteria do we propose to guide us in the resolution<br />

of the conflicts which arise?<br />

La terapia técnica de los problemas de esterilidad ha experimentado<br />

enormes adelantos en los últimos años. El caso se presenta en ambos<br />

niveles: al querer superar la esterilidad y cuando el diagnóstico previo<br />

del embarazo corre el riesgo de desórdenes genéticos. Estos adelantos<br />

plantean cuestiones importantes para la teología moral. Se examinan<br />

algunos de estos problemas, como el de la FIV y su restricción a los<br />

matrimonios. Precisamente porque la teología moral debe ser una ciencia<br />

positiva que intenta comprender los adelantos modernos, se deben<br />

analizar estos problemas así sean complejos. Este artículo examina<br />

algunos de ellos, sobre todo desde el punto de vista de la posible manipulación<br />

de la especie humana, como podría suceder cuando alguno<br />

debe intervenir genéticamente escogiendo el cómo, el cuándo y con<br />

quién. El problema fundamental es: ¿cómo vemos nosotros el desarrollo<br />

cultural, y qué criterios proponemos para guiarnos en la solución<br />

de los conflictos que se presentan?<br />

—————<br />

The author is Professor of Ethics and Moral Theology in the<br />

Catholic Faculty of Erfurt.<br />

El autor es profesor de ética y de teología moral en la Faculdad<br />

Teológica Católica de Erfurt.<br />

—————


371<br />

StMor 37 (1999) 371-411<br />

MAURIZIO P. FAGGIONI, Ofm.<br />

STATO VEGETATIVO PERSISTENTE<br />

Nella prima parte del nostro studio sullo stato vegetativo persistente<br />

1 , abbiamo affrontato il problema dello status personale<br />

di questi soggetti, anche in relazione alla nozione di morte/vita<br />

corticale, e i criteri morali che dovrebbero guidare le decisioni<br />

terapeutiche e assistenziali nei loro confronti.<br />

In questa seconda parte, vogliamo esaminare dapprima il<br />

problema di chi sia idoneo a prendere queste difficili decisioni<br />

per pazienti che si trovano nell’impossibilità di farlo personalmente,<br />

con particolare riferimento al dibattito sul valore etico e<br />

giuridico del living will. Successivamente estenderemo la nostra<br />

riflessione alla questione, oggi tanto dibattuta, della disponibilità<br />

della vita umana e quindi se il progettare la propria soppressione<br />

e l’attuare tale decisione, da parte del medico e di chi<br />

assiste un malato in condizioni disperate, come quelle appunto<br />

dello stato vegetativo persistente, possano mai configurarsi come<br />

un esercizio ragionevole rispettivamente dell’autonomia personale<br />

e della nostra responsabilità nei confronti della vita.<br />

1. Una difficile decisione<br />

Nella notte dell’11 gennaio 1983, Nancy Cruzan, una donna<br />

di 25 anni, mentre è alla guida della propria auto lungo una strada<br />

di campagna nei pressi di Carthagena (Missouri), perde il<br />

controllo della vettura che finisce fuori strada, capovolgendosi.<br />

La donna viene ritrovata con assenza di funzione cardiaca e respiratoria:<br />

rianimata dal personale paramedico prontamente ac-<br />

1 FAGGIONI M. P., Stato vegetativo persistente. Prima parte, in “<strong>Studia</strong> <strong>Moralia</strong>”<br />

36 (1998), 523-552.


372 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

corso, riprende la funzione cardiorespiratoria, ma la ragazza resta<br />

in coma. All’ospedale viene ipotizzata una commozione cerebrale<br />

associata a grave anossia, che deve essersi protratta per almeno<br />

12-14 minuti prima della rianimazione, per cui - considerato<br />

che dopo 6 minuti il danno encefalico diventa permanente<br />

- la prognosi quoad valetudinem è molto preoccupante.<br />

Dopo circa un mese, pur rimanendo priva di conoscenza,<br />

Nancy fu in grado di deglutire e di alimentarsi per via orale, anche<br />

se i medici, per facilitare l’assistenza e il recupero della paziente,<br />

il 5 febbraio 1983 realizzarono, con il consenso del marito,<br />

una gastrostomia per l’alimentazione e inserirono una agocannula<br />

per l’idratazione. Nell’ottobre dello stesso anno la donna<br />

fu trasferita al centro statale di riabilitazione di Mount Vernon<br />

(Miss.), dove ella non dette però segni di ripresa dallo stato<br />

vegetativo persistente in cui era caduta. L’ospedale - particolare<br />

non irrilevante nel sistema sanitario americano - si faceva carico<br />

di tutte le spese di assistenza, che costavano ai contribuenti<br />

del Missouri circa 112 mila dollari l’anno.<br />

Dopo tre anni, il marito alla fine la abbandonò al suo destino<br />

e a quel punto i genitori chiesero allo staff medico di interrompere<br />

le procedure di alimentazione e idratazione. Di fronte<br />

al deciso rifiuto dei medici, il 23 ottobre 1987, i genitori si rivolsero<br />

alla Corte della Contea di Jasper per ottenere il permesso di<br />

rimuovere il tubo per l’alimentazione così che la figlia potesse<br />

morire, come essi pensavano che ella stessa avrebbe desiderato.<br />

L’udienza sulla richiesta avanzata dai genitori iniziò il 9 marzo<br />

1988, mentre intorno al caso si accendeva un vasto dibattito<br />

pubblico pro e contro la rimozione del life support. I Cruzan sostenevano<br />

che era un diritto riconosciuto dalla common law che<br />

Nancy fosse libera di non ricevere trattamenti medici indesiderati<br />

e che il diritto alla privacy riconosciuto dallo Stato e dalla<br />

Federazione tutelava il suo diritto di rifiutare trattamenti medici<br />

indesiderati. Il giudice C. Teel accolse la richiesta con la sentenza<br />

del 27 luglio 1988, ma una settimana dopo W. Webster,<br />

Procuratore Generale (Attorney General) del Missouri, annunciò<br />

che si sarebbe appellato alla Corte Suprema dello Stato. Questa,<br />

con quattro voti contro tre, nel novembre del 1988 capovolse la<br />

sentenza della Corte inferiore e allora la famiglia a sua volta fece<br />

appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti che il 25 giugno<br />

1990, con cinque voti contro quattro, bloccò la rimozione del


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 373<br />

tubo dicendo che lo Stato può mantenere un paziente nelle condizioni<br />

di sostegno vitale artificiale nell’assenza di una prova<br />

“chiara e convincente” che la persona stessa vuole morire.<br />

Il 30 agosto i Cruzan chiesero al giudice Teel una nuova<br />

udienza perché erano state rintracciate tre persone le quali ricordavano<br />

di aver sentito affermare da Nancy che avrebbe preferito<br />

morire piuttosto che vivere in uno stato vegetativo. Il Procuratore<br />

Webster, a questo punto, dichiarò che lo Stato non aveva<br />

più alcun interesse legale nella questione e chiese al giudice<br />

Teel di tenere fuori dalla causa il Dipartimento della Sanità e il<br />

Centro di Riabilitazione del Missouri. Nel corso della nuova<br />

udienza tre compagni di lavoro di Nancy riferirono di ricordare<br />

un conversazione nella quale la donna aveva detto che non<br />

avrebbe mai voluto vivere “come un vegetale” in una macchina.<br />

Anche il medico personale di Nancy, che si era opposto alla rimozione<br />

del tubo per l’alimentazione, definì la sua vita “un vero<br />

inferno” e dichiarò che ella avrebbe dovuto essere lasciata morire.<br />

Fu così che il 5 dicembre il tutore designato dalla Corte chiese<br />

di rimuovere il tubo dell’alimentazione così che la ragazza potesse<br />

morire e la richiesta fu approvata dal giudice Teel. Mentre<br />

le Corti di Stato e Federale respingevano varie richieste di ingiunzione<br />

provenienti da gruppi anti-eutanasia, nella settimana<br />

prima di Natale la sfortunata ragazza scivolava verso la morte.<br />

Nancy Cruzan cessò di vivere il 26 dicembre 1990 2 .<br />

Abbiamo voluto narrare ancora una volta la penosa storia di<br />

Nancy Cruzan perché in essa risalta con chiarezza l’importanza<br />

della questione di chi sono i soggetti idonei a fare scelte terapeutiche<br />

e assistenziali per malati incompetenti, incapaci cioè di<br />

prendere decisioni autonome per se stessi, soprattutto quando<br />

sono in gioco valutazioni inevitabilmente segnate da un margine<br />

di soggettività, quali l’ordine di non rianimare o la decisione<br />

di ridurre le terapie alle sole cure ordinarie, in cui le categorie di<br />

utilità e di danno non possono prescindere dall’apprezzamento<br />

del paziente stesso. Se pensiamo inoltre alla rilevanza che oggi<br />

2<br />

La storia giudiziaria della vertenza “Cruzan versus Director, Missouri<br />

Department of Health” è documentata e commentata in: BEAUCHAMP T. L.,<br />

WALTERS L. eds., Contemporary Issues in Bioethics, Belmont (California)<br />

19944, 383-412.


374 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

viene data al consenso libero e informato nell’ambito dell’attività<br />

medico-chirurgica, il problema assume contorni davvero dilemmatici<br />

3 .<br />

Quando non sono disponibili informazioni sulle reali attitudini<br />

del paziente nei confronti di un’evenienza clinica, si cerca<br />

onestamente di comprendere che cosa deciderebbe per il proprio<br />

bene una persona di buon senso che si trovasse in quelle<br />

stesse condizioni. In questo primo modello decisionale, detto del<br />

principio dei migliori interessi (the best interests), finché non<br />

emergono situazioni di palese violazione delle leggi vigenti o<br />

non intervengono conflitti - come accadde invece nel caso di<br />

Nancy Cruzan - fra sanitari e familiari, la società tende a demandare<br />

a costoro l’onere delle decisioni cliniche senza interferenze<br />

o controlli esterni. Si tratta di una forma tacita di fiducia<br />

(trust) fra lo stato, da una parte, in quanto deputato alla tutela<br />

del bene dei cittadini e i sanitari e i familiari dall’altra: l’attesa<br />

sociale è che i sanitari per coscienza professionale e i familiari<br />

per affetto naturale decideranno per il maggior bene in relazione<br />

alle condizioni del paziente, senza per questo predeterminare<br />

in modo univoco che cosa possa intendersi con “fare il bene<br />

di qualcuno”.<br />

Nel dubbio sul comportamento più corretto, trattandosi della<br />

vita di un’altra persona, nessuno potrà arrogarsi il diritto di<br />

disporre liberamente dell’altro come potrebbe forse ritenere di<br />

poter fare per sé e occorrerà giudicare il più oggettivamente possibile<br />

per il bene del paziente in modo da procurargli inutili danni<br />

aggiuntivi, ma fornendogli quanto può essergli anche solo<br />

3<br />

Fra i numerosi interventi sul tema, segnaliamo lo studio monografico:<br />

BUCHANAN A. E., BROCK D. W., Deciding for Others: The Ethics of Surrogate Decisions,<br />

New York 1989. Cfr. AIKMAN P. J., THIEL E. C., MARTIN D. K., SINGER<br />

P. A., Proxy, Health, and Personal Care Preferences: Implications for End-of-Life<br />

Care, in “Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics” 8 (1999), 200-210;<br />

BEAUCHAMP T. L., CHILDRESS J. F., Principles of Biomedical Ethics, New York-<br />

Oxford 19944, 170-181; CANTOR N., Advance Directives and the Pursuit of<br />

Death with Dignity, Bloomington-Indianapolis 1993; CAPRON A. M., Advance<br />

Directives, in KUHSE H., SINGER P. eds., A Companion to Bioethics, Oxford<br />

1998, 261-271; EMANUEL L. L., EMANUEL E. J., Decisions at the End of Life:<br />

Guided by Communities of Patients, in “Hastings Center Report” 23 (1993),<br />

n. 5, 6-14.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 375<br />

ipoteticamente utile dal punto di vista terapeutico e assistenziale.<br />

Nel caso di pazienti incompetenti, quali i neonati, gli handicappati<br />

mentali gravi o i soggetti in coma irreversibile, queste<br />

scelte dovranno ispirarsi al principio di non maleficenza e non<br />

potranno quindi mai prevedere la soppressione diretta della vita<br />

fisica per non cadere nell’ingiustizia o nell’arbitrio e non tradursi<br />

in una forma di violenza indebita verso un’esistenza che non<br />

ci appartiene, ma che ci viene a diverso titolo affidata. Questo atteggiamento,<br />

tanto più giustificato quanto più significativo e rilevante<br />

è il valore in gioco, quello della vita, impedisce il ricorso<br />

all’eutanasia diretta, tanto la attiva quanto la passiva, ma non<br />

esime dall’astenersi dall’accanimento, sino ad una riduzione<br />

estrema delle cure, secondo la criteriologia precedentemente<br />

elaborata.<br />

Nel caso di pazienti incapaci di decisioni autonome, ma che<br />

erano stati in precedenza padroni di sé, si configura la possibilità<br />

che i familiari e, in genere, coloro che avevano avuto rapporto<br />

di confidenza con il paziente, possano farsi interpreti della<br />

sua volontà e stabilire che cosa ritenesse effettivamente bene<br />

per sé. Questa seconda situazione, denominata del giudizio sostitutivo<br />

(substituted judgment), è stata che avevano avuto rapporto<br />

di confidenza con il paziente, possano farsi interpreti della<br />

sche gli intimi, congiunti o amici, abbiano conosciuto a fondo<br />

la sensibilità, le convinzioni, i desideri del paziente e che addirittura<br />

ricordino come il paziente avesse espresso un suo preciso<br />

punto di vista sull’argomento, per esempio affermando che<br />

se si fosse trovato in condizioni di grave menomazione avrebbe<br />

preferito esser lasciato morire che non condurre un’esistenza indegna<br />

della persona ed essere di peso a tutti.<br />

Rimandando per ora la discussione sul contenuto etico di<br />

una eventuale scelta dell’astensione terapeutica e assistenziale a<br />

scopo direttamente eutanasico, resta il problema di come fornire<br />

“una prova chiara e convincente” che i familiari stanno davvero<br />

rappresentando i desideri di un paziente riguardo alle terapie<br />

di sostegno vitale e alle stesse cure ordinarie. Durante il dibattito<br />

sul caso Cruzan è emerso più volte il dubbio che i membri<br />

della famiglia potessero desiderare la fine della vita della paziente<br />

e per motivi ben diversi dal benessere o dalla volontà presunta<br />

di Nancy. Nel dubbio sui desideri pregressi del paziente e<br />

sulla affidabilità dell’interpretazione della sua reale volontà data


376 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

dai familiari, che possono talora trarre un vantaggio dal decesso<br />

del paziente o essere influenzati nel loro giudizio dalla stanchezza<br />

e dalla disperazione o che semplicemente possono non<br />

aver avuto contatti col paziente stesso da lungo tempo, il loro<br />

ruolo come naturali surrogatori decisionali è alquanto discutibile<br />

4 . Se si prospetta tale situazione di incertezza, il medico, non<br />

potendo di sua iniziativa escludere i congiunti del malato dal<br />

processo decisionale, dovrà ricorrere al comitato etico della<br />

struttura sanitaria o al giudice, che provvederanno - se necessario<br />

- a indicare un soggetto idoneo a prendere decisioni nel miglior<br />

interesse del paziente.<br />

Può accadere che coloro che sono chiamati a formulare una<br />

decisione surrogatoria ritengano di interpretare la volontà del<br />

paziente secondo modalità apparentemente difformi dalle sue<br />

esplicite dichiarazioni, ma sostanzialmente in sintonia con la sua<br />

volontà autentica, benché talora solo implicitamente autentica 5 .<br />

Esemplare, a questo proposito, la storia paradigmatica di Teresa<br />

proposta da D. Gracia nel primo volume dei Fondamenti di bioetica,<br />

come ideale contesto della sua pensosa trattazione del principio<br />

del rispetto dell’autonomia 6 . La donna, affetta da carcinoma<br />

rettale in fase avanzata, informata delle possibilità terapeutiche<br />

offerte da un intervento estesamente demolitivo che prevede<br />

anche la realizzazione di un colostoma decide di non operarsi.<br />

Dopo un anno e mezzo, un’occlusione intestinale viene a far precipitare<br />

la grave situazione renale e determina un nuovo ricovero.<br />

Essendo Teresa in uno stato di sensorio obnubilato, non può<br />

essere consultata e il marito, pur conoscendo il parere della moglie,<br />

autorizza l’intervento chirurgico e la realizzazione della colostomia,<br />

unica via per evitare una penosa agonia. “Sembra chia-<br />

4<br />

Cfr. ARRAS J. D., Beyond Cruzan: Individual Rights, Family Autonomy<br />

and the Persistent Vegetative State, in “Journal of the American Geriatric Society”<br />

39 (1991), 1018-1024; SECKLER A. B. et al., Substituted Judgment: How<br />

Accurate are Proxy Predictions?, in “Annals of Internal Medicine” 117 (1992),<br />

599-606.<br />

5<br />

Cfr. FADEN R. R., BEAUCHAMP T. L., A History and Theory of Informed<br />

Consent, New York 1986, 266-268 (criterio della “decisione negativamente<br />

autentica”).<br />

6 GRACIA D., Fondamenti di bioetica, Cinisello Balsamo 1993, 141-142.<br />

231-233.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 377<br />

ro - conclude Gracia - che bisogna ritenere quella decisione assolutamente<br />

opportuna, se ebbe lo scopo di evitare una morte<br />

sgradevole e perfino inumana, e non di sostituirsi alla decisione<br />

della paziente. In questo caso si configurerebbe come paternalismo;<br />

nell’altro, invece, si tratterebbe di una decisione in sostituzione<br />

attuata correttamente, che viene presa a maggior beneficio<br />

della paziente (beneficio che in questa circostanza ha lo scopo di<br />

rendere più umana e degna non la vita, ma la morte)” 7 .<br />

Infine accenniamo soltanto - perché il tema richiederebbe di<br />

essere inquadrato nel vasto dibattito sulla giustizia sanitaria 8 -<br />

alla questione del peso relativo che dovrebbero avere nel processo<br />

decisionale, tanto quello sostitutivo quanto quello del miglior<br />

interesse, la considerazione degli effetti del prolungarsi indefinito<br />

di una assistenza in termini di costi umani ed economici<br />

per la famiglia e per la collettività. L’attuale situazione socioeconomica,<br />

infatti, caratterizzata dalla crisi dello Stato sociale,<br />

non permette, neppure nei paesi del primo mondo, di far fronte<br />

alla crescita della domanda sanitaria, alla lievitazione dei costi<br />

della sanità, all’aumento relativo della popolazione non produttiva<br />

e bisognosa di assistenza, soprattutto per malattie croniche.<br />

I primi a far le spese di questa crisi sono ovviamente i deboli, gli<br />

inefficienti, come gli handicappati psichici e fisici gravi, gli anziani<br />

non autosufficienti, i malati terminali 9 . Bisogna prendere<br />

atto che le risorse sanitarie a disposizione non sono infinite e<br />

che negli anni futuri sarà sempre più difficile fornire a tutti i malati<br />

tutta l’assistenza teoricamente indicata.<br />

7<br />

Ibid., 232-233.<br />

8<br />

Sulla questione della giustizia sanitaria, in generale: BRESCIANI C. cur.,<br />

Etica, risorse economiche e sanità, Milano 1998; ENGELHARDT H. T., The<br />

Foundations of Bioethics, New York 19962, 383-426; IANDOLO C., HANAU C.,<br />

Etica ed economia nella “azienda” sanità, Milano 1994 2 ; SGRECCIA E., SPAGNO-<br />

LO A. G. curr., Etica e allocazione delle risorse nella sanità, Milano 1996.<br />

9<br />

Cfr. BANKOWSKI Z., BRYANT J. H. eds., Health Policy and Human Values:<br />

European and American Perspectives, Geneva 1988; BOMPIANI A., Brevi riflessioni<br />

sugli aspetti etici dell’economia sanitaria, in “Credere oggi” 17 (1997), 4,<br />

80-91; PALAZZANI L., Per una giusta distribuzione delle risorse secondo la bioetica<br />

personalista, in “Medicina e Morale” 49 (1999), 485-496; PUCA A., Economia<br />

e politica come ideologia. Il problema del razionamento delle cure sanitarie,<br />

in “Medicina e Morale” 43 (1993), 307-330.


378 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

Se però la sanità e le decisioni in ambito sanitario non possono<br />

sottrarsi alle regole e alle necessità economiche, d’altra parte<br />

l’economia non può imporsi sul bene delle persone e di ciascuna<br />

persona. Nel valutare il rapporto costo/beneficio la bioetica<br />

cattolica, pur tenendo nel debito conto la questione dei costi 10 ,<br />

non dimentica mai che ogni vita umana indipendentemente dalla<br />

sua qualità e al valore che le viene attribuito, appella alla nostra<br />

responsabilità e alla nostra solidarietà, che è il volto sociale<br />

della carità. Si tratta quindi di praticare una giustizia che sappia<br />

distribuire le risorse umane e tecniche disponibili secondo il bisogno<br />

di ciascuno: non sarà giusto perciò con nessuno l’accanimento<br />

terapeutico in cui si ha sproporzione fra i mezzi usati, in<br />

termini di costi umani e materiali, e i benefici per il malato, ma<br />

sarà giusto e doveroso tutelare anche le vite apparentemente destituite<br />

di valore. <strong>Vol</strong>endo e dovendo tener conto, a livello decisionale,<br />

della distribuzione fra la popolazione di risorse cronicamente<br />

insufficienti, si dovrà procedere su basi oggettive privilegiando<br />

chi ha più bisogno e può trarre più vantaggio da una certa<br />

terapia, fermo restando che nessuno può essere privato delle<br />

cure ordinarie che permettono il mantenimento della vita, se<br />

queste sono di fatto disponibili e clinicamente utili 11 .<br />

10<br />

Nell’algoritmo, menzionato nella prima parte dell’articolo, i costi erano<br />

messi in relazione con la probabilità di risultati positivi e con la qualità e<br />

lunghezza presunte della vita restante: ID=PQI/C. L’etica medica cattolica ha<br />

da tempo introdotto la categoria della expensio nel giudizio sulla proporzionalità<br />

delle cure. Cfr. KELLY G., The Duty of Using Artificial Means of Preserving<br />

Life, in “Theological Studies” 11 (1950), 203-220.<br />

11<br />

Le esigenze della spesa sanitaria chiedono di ripensare l’assistenza ai<br />

lungodegenti e si prospettano nuove soluzioni, attraverso l’integrazione di<br />

cure domiciliari e cure ospedaliere e la promozione dell’esperienza degli hospice.<br />

Vedere, per esempio: SCARCELLA P., CALAMO-SPECCHIA P., Il problema del<br />

malato terminale nella società attuale, in “Medicina e Morale” 38 (1988), 69-<br />

87; ID. L’assistenza ai malati terminali: realtà internazionali e prospettive italiane,<br />

in “Medicina e Morale” 38 (1988), 411-431.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 379<br />

2. Le advance directives e il living will<br />

Abbiamo finora ipotizzato che medici e familiari si trovino<br />

a dover prendere angosciose decisioni sulla sospensione o il proseguimento<br />

di terapie senza conoscere o conoscendo solo in modo<br />

incerto o presunto la volontà del diretto interessato. Una situazione<br />

ben diversa si viene a realizzare quando un malato, attualmente<br />

incompetente, avesse in precedenza espresso direttive<br />

esplicite in merito alla sua assistenza nel caso si venisse a trovare<br />

in condizioni cliniche tali da impedirgli di decidere in modo<br />

autonomo. Tali direttive si iscrivono in un positivo processo di<br />

adeguamento della concezione tradizionale dell’atto terapeutico<br />

ai principi di autonomia decisionale del paziente. Una delle<br />

grandi rivoluzioni della filosofia medica contemporanea, recepite<br />

più o meno lentamente dai codici deontologici e dalle legislazioni,<br />

consiste proprio nel superamento del paternalismo medico<br />

di ippocratica memoria e nell’importanza crescente attribuita<br />

all’autonomia del paziente di fronte al sanitario.<br />

Ci sono fondamentalmente due tipi di direttive previe, meglio<br />

note nella dizione inglese di advance directives. Il primo tipo<br />

provvede a indicare un tutore che è autorizzato a prendere decisioni<br />

al posto del paziente, se questi si trovasse a non essere<br />

compos sui (le proxy directives). Il secondo tipo di direttive contiene<br />

invece istruzioni precise sul comportamento da tenersi in<br />

particolari evenienze cliniche (instructional directives), esonerando<br />

in qualche modo i familiari o i tutori dal dilemma di scegliere<br />

al posto di un altro. Una forma tipica di instructional directives,<br />

diffusasi dai primi anni ’70, è costituita dal living will,<br />

espressione inglese introdotta nel 1969 da L. Kutner 12 e tradotta<br />

in genere con testamento di vita o testamento biologico. In tale atto<br />

testamentario (will) sono contenute le dichiarazioni di volontà<br />

che un soggetto sottoscrive nel pieno delle sue facoltà psico-fisiche<br />

sulle cure mediche e il trattamento da ricevere in situazioni<br />

estreme nelle quali non fosse in grado di disporre ade-<br />

12 KUTNER L., Due Process of Euthanasia: The Living Will: A Proposal, in<br />

“Indiana Law Journal” 44 (1969), 539-554. Cfr. BELTRAN J. E., The Living Will,<br />

Nashville (TN) 1994.


380 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

guatamente intorno alla sua salute 13 . La struttura dei diversi modelli<br />

di living will in circolazione è piuttosto costante e comprende<br />

una indicazione dei destinatari del documento (in genere<br />

i congiunti e i medici curanti) e direttive sull’assistenza sanitaria<br />

e i trattamenti medici richiesti e rifiutati in situazioni di<br />

malattia in fase terminale o irreversibile (es. rianimazione cardio-polmonare).<br />

L’atto di Durable Powers of Attorney for Health Care o Poteri<br />

durevoli di procura per la cura della salute combina i due tipi di<br />

direttive, perché prevede sia la nomina di un tutore sia l’indicazione<br />

di direttive per lui e i sanitari intorno alle cure desiderate<br />

in una certa situazione clinica. Il tutore può essere semplicemente<br />

delegato a vigilare sull’osservanza della volontà del paziente<br />

o, come per esempio nello Stato di New York, può essere<br />

incaricato di praticare lui stesso l’eutanasia attiva sul tutelato. Il<br />

primo stato dell’Unione a dare riconoscimento legale esplicito a<br />

queste direttive del paziente fu la California con il Natural Death<br />

Act del 1976. Da allora la maggioranza degli stati americani ha<br />

approvato leggi che permettono ai pazienti di esprimere i loro<br />

desideri sulle cure terminali o in situazioni estreme, soprattutto<br />

dopo che una President’s Commission riconosceva valore legale<br />

ai living wills 14 . Inoltre nel 1990 il Patient Self-Determination Act<br />

o Atto di autodeterminazione del paziente impone a tutti gli ospedali<br />

e le case di cura che ricevono qualche finanziamento pub-<br />

13<br />

Per il dibattito nell’area italiana, vedere: BOERI R., La carta dell’autodeterminazione:<br />

un primo bilancio, in “Bioetica” 1 (1993), 339-345; BONDOLFI<br />

A., Il “living will” nel dibattito sulla “buona morte”, in “Kos” 8 (1992), 18-25;<br />

D’AGOSTINO F., D’ORAZIO E., Autodeterminazione, diritto alla vita e autonomia<br />

della persona di fronte alla propria morte, in “Politeia” 24 (1991), 3-5; FASA-<br />

NELLA G., Il testamento di vita (living will) e il rifiuto delle cure nella fase terminale<br />

della vita. Aspetti etici e deontologici, in “Anime e Corpi” 29 (1992),<br />

615-649; PERICO G., “Testamento biologico” e malati terminali, in “Aggiomamenti<br />

Sociali” 43 (1992), 677-692; SANTOSUOSSO A., A proposito di “living will”<br />

e di “advance directives”: note per il dibattito, in “Politica del Diritto” 21<br />

(1990), 477-497; SPAGNOLO A. G., Testamenti biologici, in “Vita e Pensiero” 76<br />

(1993), 576-590.<br />

14<br />

U. S. PRESIDENT’S COMMISSION FOR THE STUDY OF ETHICAL PROBLEMS IN<br />

MEDICINE AND BIOMEDICAL AND BEHAVIORAL RESEARCH, Deciding to Forego Life-Sustaining<br />

Treatment: A Report on the Ethical, Medical, and Legal Issues in<br />

Treatment Decisions, Washington D. C., 1983.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 381<br />

blico di informare i pazienti del loro diritto legale di preparare<br />

direttive terapeutiche 15 .<br />

Benché il principio dell’inderogabilità del consenso informato<br />

agli atti medici sia ormai largamente recepito nella normativa<br />

deontologica e giuridica, si fatica ad accogliere l’idea di<br />

dare valore legale a indicazioni vincolanti per il medico in vista<br />

di situazioni future e solo ipotetiche e questo non solo per la difficoltà<br />

di inserire coerentemente nel quadro delle teorie giuridiche<br />

tradizionali tale inedito e singolare tipo di dichiarazione della<br />

propria volontà. La necessaria simultaneità fra l’espressione<br />

della volontà e l’oggetto della scelta viene, infatti, a mancare e si<br />

profila il rischio che un’indicazione di volontà previa, per quanto<br />

dettagliata e inequivocabile, non corrisponda alla scelta che<br />

di fatto il paziente farebbe, trovandosi realmente in una contingenza<br />

prima soltanto immaginata. Una decisione precostituita<br />

non potrà mai essere ritenuta del tutto equivalente a una reazione<br />

autonoma, ponderata e razionale che suppone, fra l’altro,<br />

la capacità di adattarsi di fronte alla estrema variabilità delle situazioni<br />

cliniche di soggetti diversi e di uno stesso soggetto nel<br />

tempo, senza considerare che una persona può mutare la sua<br />

posizione verso la vita, la malattia, le cure 16 . Perciò – conclude il<br />

deontologo italiano C. Lega – “a prescindere dall’efficacia giuridica<br />

di siffatti documenti (che vengono assimilati al testamento),<br />

generalmente si ritiene necessario che ... se è incosciente, si<br />

debba effettuare una diligente indagine sulla permanenza della<br />

volontà del testatore rapportandola al momento in cui si sono effettivamente<br />

verificate quelle condizioni e quegli eventi in vista<br />

dei quali la dichiarazione fu fatta poiché può darsi che, di fronte<br />

a una realtà, dapprima solo ipotizzata e poi verificatasi in termini<br />

precisi, il testatore cambi opinione” 17 .<br />

15<br />

Cfr. WOLF S. M. et al., Sources of Concern about the Patient Self-Determination<br />

Act; WHITE M. L.. FLETCHER J. C., The Patient Self-Determination<br />

Act: On Balance, More Help than Hindrance.<br />

16 EVERHART M. A., PEARLMAN R. A., Stability of Patient Preferences Regarding<br />

Life-Sustaining Treatments, in “Chest” 97 (1990), 159-164; SEEGAL A.<br />

et al., How Strictly Do Dialysis Patients Want Their Advance Directives Followed?,<br />

in “Journal of the American Medical Association” 267 (1992), 59-63.<br />

17 LEGA C., Manuale di bioetica e deontologia medica, Milano 1991,<br />

310-311.


382 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

In effetti, nei primi living wills le espressioni usate, soprattutto<br />

in merito ai trattamenti indesiderati, erano molto generiche<br />

in modo da coprire un’ampia gamma di evenienze, ma si<br />

prestavano per ciò stesso sia ad applicazioni meccaniche e non<br />

sempre ben riconducibili alla variegata realtà della clinica sia, di<br />

contro, a interpretazioni molto soggettive fino ai limiti del tradimento<br />

della volontà del testatore. La stessa vaghezza terminologica<br />

di una direttiva suggerisce, inoltre, o almeno fa sospettare<br />

una non adeguata informazione del sottoscrittore e certo qualunque<br />

direttiva “non vale più del counseling che le ha precedute”<br />

18 . È indubitabile pertanto che ogni direttiva anticipata perde<br />

in autorevolezza e potere vincolante, quanto più è espressa in<br />

maniera generica e imprecisa 19 . Un esempio di questa imprecisione<br />

si ha nella classica formulazione proposta nel 1974 dall’Euthanasia<br />

Educational Council, dove la richiesta di non essere<br />

mantenuto in vita con “mezzi artificiali o misure eroiche”<br />

(ìartificial means or heroic measures”) lascia del tutto indeterminata<br />

la questione - in vero essenziale - di che cosa si intenda<br />

per artificiale o eroico e quindi se si parli di una doverosa rinuncia<br />

all’uso di mezzi sproporzionati/straordinari oppure di<br />

abbandonare anche le cure ordinarie, come l’idratazione e l’alimentazione<br />

20 .<br />

Se dovesse insorgere la situazione in cui non esiste la ragionevole<br />

aspettativa della mia guarigione dalle condizioni di inva-<br />

18 LYNN J., TENO M. J., Advance Directives, in REICH W. ed., Encyclopedia<br />

of Bioethics, vol. 1, New York 1995 rev., 575: “Advance directives are limited<br />

by being no better than the counseling that preceded them”.<br />

19<br />

Cfr. CATTORINI P., Malato terminale. Una Carta per l’autodeterminazione,<br />

in ID., Sotto scacco. Bioetica di fine vita, Napoli 1993, 83-96.<br />

20<br />

È stata più volte constatata un’incredibile confusione, persino fra gli<br />

addetti ai lavori, relativamente ad espressioni tecniche essenziali per affrontare<br />

questa delicata materia, quali “eutanasia”, “sospensione delle cure”,<br />

“suicidio assistito”: EMANUEL E. J. et al., The practice of euthanasia and physician<br />

assisted suicide in the United States: adherence to proposed safeguards<br />

and effects on physicians, in “Journal of the American Medical Association”<br />

280 (1998), 507-513; WEHRWEIN P., US physicians confused about end-of-life<br />

care, in “Lancet” 352 (1998), 549.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 383<br />

lidità fisica o mentale, richiedo che mi si lasci morire e che non<br />

mi si tenga in vita con mezzi artificiali o misure eroiche 21 .<br />

Attualmente si tende a elaborare living wills dettagliati e tali<br />

da poter far fronte alle situazioni più diverse, sufficientemente<br />

sicuri di interpretare la volontà del paziente. La Medical Directive<br />

preparata da Linda ed Ezekiel Emanuel prevede sei scenari<br />

o situazioni tipiche e chiede alla persona che deve riempire<br />

il formulario di scegliere fra diverse opzioni terapeutiche e di<br />

stabilire la finalità del trattamento in ogni singola situazione 22 .<br />

Nella situazione A, per esempio, si ipotizza che il soggetto sia in<br />

coma o in uno stato vegetativo persistente e il medico curante e<br />

due medici consultori non sperano in una ripresa della coscienza<br />

e delle funzioni mentali superiori. In tale contingenza si invita<br />

il soggetto a esprimersi intorno a diversi interventi medici e<br />

assistenziali, sempre a condizione che essi siano “medicalmente<br />

ragionevoli”, dicendo se si vogliono, se debbono essere tentati,<br />

ma sospesi se non portano ad un chiaro miglioramento, se si è<br />

indecisi, se non si vogliono: rianimazione cardiopolmonare e<br />

chirurgia invasiva, respirazione assistita e dialisi, trasfusioni di<br />

sangue o di prodotti del sangue, nutrizione e idratazione artificiali,<br />

test diagnostici di routine o antibiotici, terapia del dolore<br />

(anche se indirettamente abbrevia la vita). Lo scopo dell’assistenza<br />

medica deve essere indicato fra prolungare la vita e trattare<br />

tutto, preferire la qualità della vita rispetto alla durata della<br />

vita (“longevity”), fornire soltanto conforto (“comfort care”) o altro<br />

scopo da specificare. Nella situazione B, invece, si ipotizza<br />

uno stato di coma in cui esista, a parere dei medici, soltanto una<br />

vaga probabilità (ìuncertain chance”) di recuperare le funzioni<br />

mentali ed una probabilità più grande di sopravvivere con gravi<br />

danni cerebrali. La situazione C ipotizza un danno cerebrale irreversibile<br />

e tale da impedire una adeguata vita di relazione, e<br />

così via. Il formulario del living will è completato da osservazio-<br />

21 CAUCANAS-PISIER P., Le associazioni per il diritto a morire con dignità.<br />

Documentazione, in “Concilium” 21 (1985), n. 3, 80-92.<br />

22 EMANUEL L. L., EMANUEL E., The Medical Directive, in CATE F. C., GILL<br />

B. A. eds., The Patients Self-Determination Act: Implementations and Opportunities,<br />

Washington 1991, 58-64.


384 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

ni e raccomandazioni personali del sottoscrittore, da disposizioni<br />

sull’eventuale prelievo di organi e dalla designazione di un tutore.<br />

Ancora più interessante è la proposta della Values History o<br />

Storia dei valori 23 . Partendo dall’osservazione che l’attuazione<br />

dell’autonomia è più che una pura potestà decisionale, ma piuttosto<br />

“l’esercizio di questa potestà nel concreto e palticolare contesto<br />

delle convinzioni e dei valori di un paziente”, D. Doukas e<br />

L. McCullogh hanno proposto un documento diviso in due sezioni:<br />

la prima contiene un’esplicita identificazione dei valori e<br />

delle convinzioni in gioco, la seconda contiene l’articolazione<br />

delle direttive previe sulla base dei valori espressi dal paziente 24 .<br />

“Ciascuna di queste direttive - sottolineano gli Autori - richiede<br />

che il paziente spieghi i motivi della sua decisione in rapporto<br />

con i valori precedentemente identificati. L’importanza di questa<br />

informazione è di capire le motivazioni del paziente, esaminare<br />

e discutere possibili valori incoerenti e mettere in luce e superare<br />

possibili fattori psicologici che possono impedire al paziente<br />

di partecipare al processo del consenso informato” 25 . In<br />

questo modo il testatore viene aiutato a chiarire a se stesso che<br />

cosa desidera e perché, mentre i sanitari possono meglio comprendere,<br />

rispettare e attuare l’insieme valoriale che ne risulta.<br />

Si supera infine anche la rigidezza dello schema “si o no” che<br />

mal si adatta alla realtà clinica, dove un presidio può essere utile<br />

solo temporanemente e poi viene sospeso o dove si rende talora<br />

necessario fare diversi tentativi terapeutici perché non è<br />

possibile prevederne con esattezza in anticipo gli effetti. La decisione<br />

che viene prodotta con questa procedura si avvicina di<br />

più ad un consenso informato autentico che non la semplice esecuzione<br />

di una opzione predeterminata.<br />

L’introduzione del sistema assiologico del paziente come<br />

elemento essenziale per una comprensione contestualizzata delle<br />

direttive previe sposta - a nostro avviso opportunamente - il<br />

23 GIBSON J., National Values History Project, in “Generations” 14 (1990),<br />

Suppl., 51-63.<br />

24 DOUKAS D J., McCULLOUGH, The Values History, in “Journal of Family<br />

Practice” 32 (1991), 145-153.<br />

25<br />

Ibid., 148.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 385<br />

fuoco del living will dalla dettatura di istruzioni previe più o meno<br />

dettagliate all’affidamento al medico e ai familiari della tutela<br />

e pratica attuazione delle proprie convinzioni, assumendo la<br />

categoria di decisione precostituita con intelligente flessibilità.<br />

Si è anzi proposto, per superare le difficoltà oggettive testé segnalate,<br />

nonché la riluttanza della classe medica ad abdicare<br />

dalla propria potestà decisionale per farsi mera esecutrice di<br />

istruzioni preconfezionate, di considerare i testamenti vitali non<br />

come documenti ingiuntivi, bensì come documenti orientativi<br />

“che danno al medico un appoggio indiretto nel conoscere o presumere<br />

quale possa essere la volontà del paziente in questa situazione<br />

particolare” 26 .<br />

In ogni caso, sia che si tratti di direttive vincolanti sia che si<br />

tratti di direttive orientative, chiunque sia il destinatario, un tutore<br />

o lo staff curante, la questione morale di fondo sta nello spirito<br />

e nei contenuti del living will. Esistono infatti diversi modelli<br />

di living will elaborati a partire da diversi contesti antropologici<br />

ed etici, ma riportabili a tre varianti fondamentali: autonomista,<br />

utilitarista e personalista 27 .<br />

Nella prospettiva autonomista - indubbiamente la più diffusa<br />

- si mette in risalto la volontà del paziente espressa nelle direttive<br />

stesse. L’autonomia nei confronti dell’atto medico, corrispondente<br />

sostanzialmente alla necessità di pervenire a un consenso<br />

libero e informato, si allarga fino a diventare autodeterminazione<br />

nei confronti del proprio corpo e della propria sussistenza,<br />

rivendicandone una completa autodisponibilità. L’approccio<br />

utilitarista tende, da parte sua, a sottolineare il risparmio<br />

di sofferenze al malato ottenuto anche a prezzo dell’eutanasia<br />

diretta, la riduzione delle difficoltà decisionali per medici e<br />

26 BONDOLFI A., Living Will, in LEONE S., PRIVITERA S. curr., Dizionario di<br />

Bioetica, Acireale-Bologna, 1994, 554.<br />

27<br />

Cfr. EISEMANN M., RICHTER J., Relationship between Various Attitudes<br />

Towards Self-detemination in Health Care with Special Reference to an Advance<br />

Directive, in “Journal of Medical Ethics” 25 (1999), 37-41; VECA S., SPA-<br />

GNOLO A., Autodeterminazione, diritto alla vita e autonomia della persona di<br />

fronte alla propria morte, in “Notizie di Politeia” 7 (1991), 3-9. Non si parla<br />

ovviamente di un living will paternalista, perché nel paternalismo, più meno<br />

modificato, le decisioni su qualsiasi malato spettano per definizione al medico.


386 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

familiari permessa da direttive univoche e precise, i benefici sociali<br />

derivanti dalla sospensione di cure e assistenze inutili o<br />

sproporzionatamente dispendiose.<br />

L’approccio personalista, caro alla morale cristiana, non<br />

esclude la pratica del testamento vitale, ma si caratterizza per<br />

l’accettazione adulta del limite costituito dalla malattia e dalla<br />

morte, per la esclusione di forme più o meno larvate di eutanasia,<br />

percepita come un attentato all’inviolabilità della persona, e<br />

per l’accento sugli aspetti spirituali e relazionali dell’assistenza 28 .<br />

Esemplare per questa impostazione è il Testamento vital che si<br />

trova in uno studio curato dalla Conferenza episcopale spagnola.<br />

Dopo aver affermato la propria accettazione della morte e il rifiuto<br />

di essere sottoposti, se irrecuperabili, a trattamenti sproporzionati<br />

o straordinari, il documento prosegue:<br />

Chiedo egualmente aiuto per accogliere in modo cristiano e<br />

umano la mia morte. Desidero potermi preparare a questo compimento<br />

finale della mia esistenza, in pace, con la compagnia dei<br />

miei cari e il conforto della mia fede cristiana 29 .<br />

Da qualunque spirito siano animati, il diffondersi dei testamenti<br />

biologici nelle loro diverse declinazioni sono indice dell’abisso<br />

che si va allargando in medicina fra le crescenti possibilità<br />

tecnologiche e la scarsa qualità umana della relazione medicomalato<br />

che si riflette, fra l’altro, nella profonda crisi del rapporto<br />

di fiducia (trust) del paziente verso i sanitari. La spersonalizzazione<br />

della relazione terapeutica, inevitabilmente connessa<br />

con l’estrema specializzazione medica e con la conseguente parcellizzazione<br />

dell’assistenza fra molteplici figure mediche, sospinge<br />

il malato verso una zona oscura di solitudine e di non pie-<br />

28<br />

Apparentemente la scelta personalista potrebbe inscriversi nella prospettiva<br />

dell’autonomia, ma soltanto se viene assunta come possibilità assiologicamente<br />

indifferente in mezzo ad altre: là dove infatti il principio formale<br />

del rispetto dell’autonomia del paziente è cardine di un corretto rapporto<br />

medico-paziente, il contenuto dell’opzione è eticamente meno rilevante<br />

del rispetto dell’opzione stessa.<br />

29 CONF. EP. ESPAÑOLA, La eutanasia. 100 cuestiones y respuestas sobre la<br />

defensa de la vida umana y la actitud de los católicos, Madrid 1993, 86-87.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 387<br />

na comprensione. Non dimentichiamo poi che si va diffondendo<br />

nell’opinione pubblica, alimentata anche dal sensazionalismo<br />

emotivo dei media, il timore, non sempre infondato, dell’accanimento<br />

terapeutico e quindi di una sopravvivenza assurda e indegna<br />

della persona, permessa dagli artifici di una scienza prometeica<br />

che non si arresta neppure alle soglie della morte e che obbliga<br />

a vivere chi dovrebbe essere lasciato morire. “Vivere attaccati<br />

ai tubi”, proprio come Ann Quinlan o Nancy Cruzan, è l’incubo<br />

di molte persone che ritengono al contrario ispirato a misericordia<br />

l’atto di “staccare i tubi” ai pazienti per cui si dispera<br />

una ripresa.<br />

Come abbiamo visto nella prima parte del nostro lavoro, fa<br />

parte di una ragionevole e saggia amministrazione della vita fisica<br />

chiedere l’interruzione di presidi medico-chirurgici inutili e<br />

alla fine dannosi e l’astensione da manovre rianimatorie una volta<br />

stabilita l’irreversibilità dello stato vegetativo, rinunciare, in<br />

una parola, all’accanimento senza tuttavia cadere nell’eutanasia<br />

passiva. A ben guardare, infatti, l’eutanasia, sia nella forma dell’abbandono<br />

o astensione terapeutica, quando la terapia avrebbe<br />

ancor ragione d’essere praticata, sia nella forma della soppressione<br />

attiva tanto di consenziente o richiedente quanto dell’incapace<br />

di esprimere una deliberazione, è soltanto un altro<br />

volto della logica operante nell’accanimento: è l’estremo approdo<br />

dell’hybris umana che cerca di impadronirsi della vita e quando<br />

questa sfugge, nonostante tutto, al suo controllo, cerca allora<br />

“di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo” 30 . Proprio<br />

a questo aspetto inquietante dell’autonomia del malato nei<br />

30 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Evangelium Vitae, 25-3-1995, n. 64, in<br />

AAS 87 (1995), 475. A proposito della posizione cattolica, si è parlato di una<br />

innocenza pretecnologica che, in sostanza, rimanda alla natura fisica la soluzione<br />

pratica dei dilemmi di fine vita. “Questa posizione – scrive M. Mori<br />

– sembra essere sempre meno plausibile oggi, man mano che aumenta la capacità<br />

di controllo umano del mondo biologico. Oggi cresce la richiesta di<br />

autodeterminazione proprio perché l’uomo si rende conto che è urgente assumere<br />

nuove responsabilità per una parte della natura (quella biologica)<br />

che fino a qualche tempo fa non rientrava nell’ambito di controllo”: MORI M.,<br />

Dal vitalismo medico alla moralità dell’eutanasia, in “Bioetica” 7 (1999), 122-<br />

123. La questione, davvero fondamentale, mette in discussione tutto un orizzonte<br />

antropologico di riferimento, ma non è possibile qui approfondirla.


388 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

confronti della propria vita biologica e delle decisioni sul malato<br />

incompetente dedicheremo il prossimo paragrafo.<br />

3. La vita disponibile<br />

L’enfasi unilaterale sulla categoria dell’autodeterminazione<br />

coniugata con l’ideologia della qualità della vita, basata su criteri<br />

prestazionali ed efficientistici, sta favorendo la diffusione di living<br />

will di chiara impronta eutanasica. Sottesa ai living will che<br />

chiedono l’eutanasia attiva o passiva, soprattutto in casi analoghi<br />

a quello rappresentato dallo stato vegetativo persistente, sta<br />

l’idea che l’autonomia di una persona possa giungere a scegliere<br />

se continuare a vivere o darsi la morte. Si insinua inoltre, più o<br />

meno esplicitamente, la pretesa che il medico e i familiari abbiano<br />

il dovere di rispettare questa decisione e che anzi esista<br />

una forma di impegno fiduciario a cooperare all’atto suicidiario<br />

o, addirittura, a metterlo in atto qualora il soggetto fosse nell’impossibilità<br />

fisica e mentale di dar corso alla sua volontà di<br />

morte. Tutta la questione dell’autodeterminazione nei confronti<br />

della propria morte e quindi della liceità morale del suicidio assistito<br />

poggia appunto - come lucidamente sottolinea E.<br />

Schockenhoff - su due taciti presupposti: il primo è che il desiderio<br />

di morte possa essere espressione di una autonomia autentica,<br />

il secondo che l’appagamento di tale desiderio rappresenti<br />

per il malato un aiuto reale e, per di più, l’unico aiuto che<br />

noi possiamo dargli nella sua dolorosa situazione 31 .<br />

Il living will eutanasico si inscrive quindi nella logica che<br />

giustifica il ricorso al suicidio medicalmente assistito con la differenza<br />

che nel suicidio assistito stricto sensu il malato chiede di<br />

essere aiutato dal medico a morire per sfuggire una situazione<br />

in atto che viene sperimentata come dolorosa o indecorosa o in<br />

qualche modo insostenibile, mentre nel living will il testatore,<br />

pienamente padrone di sé e nella sola previsione di una situazione<br />

per il momento ipotetica, dispone per orientare e anzi determinare<br />

le decisioni dei medici e dei congiunti nei suoi ri-<br />

31<br />

Cfr. SCHOCKENHOFF E., Etica della vita. Un compendio teologico, Brescia<br />

1997, 345.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 389<br />

guardi. La tesi della legittimità o accettabilità del suicidio in particolari<br />

circostanze, un tempo proscritta dal senso comune e dalle<br />

leggi civili, sta entrando nella mentalità prevalente e, sotto la<br />

spinta dell’opinione pubblica e l’incalzare di agguerriti movimenti<br />

pro euthanasia, ci sono in vari paesi progetti di legge tendenti<br />

a legalizzare o almeno depenalizzare questa pratica. Nella<br />

attuale discussione sulla moralità del suicidio si confrontano<br />

due diverse concezioni della vita e il filosofo laico italiano U.<br />

Scarpelli ben sintetizza i due corni del dibattito affermando che<br />

“si tratta in sostanza di stabilire se gli esseri umani siano stati<br />

creati per appartenere, sino all’ultima stilla di vita, a qualcosa o<br />

a qualcuno che li trascende e vuole disporne, o se al contrario<br />

siano padroni della propria vita e legittimati a porvi fine quando<br />

non possa più trarre significato dall’amore, dall’intelligenza,<br />

dalla felicità” 32 .<br />

La nozione di suicidio razionale, di ascendenze stoiche, ma<br />

modernamente elaborata nel XVIII secolo con Hume, Montesquieu<br />

e Holbach, si oppone all’idea propria della tradizione teologico<br />

morale cristiana che il suicidio vero e proprio non possa<br />

mai essere davvero razionale, cioè in accordo con la recta ratio 33 .<br />

La dottrina teologica traeva i suoi argomenti sia dall’esperienza<br />

umana (filosofica e giuridica) sia dalla Rivelazione e, seguendo<br />

lo schema fornito da san Tommaso nella Summa Theologiae, può<br />

essere sintetizzata in tre ordini di ragioni 34 .<br />

In primo luogo il suicidio è ritenuto irrazionale perché con-<br />

32 SCARPELLI U., Bioetica laica, Milano 1998, 126.<br />

33<br />

Trattazioni sintetiche: BLÁZQUEZ N., Bioética Fundamental, Madrid<br />

1996, 530-537 (con particolare riferimento agli aspetti biblici e patristici);<br />

RUSSO G., Il suicidio, in ID. cur., Bioetica sociale, Leumann (To) 1999, 8-53<br />

(ampia bibliografia).<br />

34<br />

S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae, q. 6, art. 5, resp.<br />

Merita segnalare l’affermazione del cardinal de Lugo che è difficile trovare<br />

argomenti razionali per una verità che appare autoevidente e fondata su motivi<br />

estrinseci (es. di fede). Cfr. LUGO G., De iustitia et iure, disp. 10, n. 45: “Tota<br />

difficultas consistit in assignanda ratione huius veritatis: nam licet turpitudo<br />

haec statim appareat, non tamen facile est eius fundamentum invenire;<br />

unde (quod in aliis multis quaestionibus contigit) magis certa est conclusio<br />

(quia nempe aliunde certa est, puta ex fide), quam rationes, quae variae de<br />

diversis afferuntur ad huius probationem”.


390 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

traddice la naturale inclinazione all’autoconservazione e il naturale<br />

amore per se stessi 35 . “Questa inclinazione - scrive il<br />

Pinckaers - è fondamentale perché riguarda l’essere stesso dell’uomo,<br />

alla base dei suoi sentimenti e dei suoi atti. L’universalità<br />

dell’inclinazione ne manifesta il carattere originario: dipende<br />

dalla sostanza stessa dell’uomo e assicura la sua conservazione<br />

in vita ... Questa inclinazione è certamente così profonda che<br />

spesso sfugge alla nostra coscienza, ma agisce in noi come la<br />

fonte stessa di ogni volontà cosciente e libera. Essa produce il<br />

desiderio spontaneo di esistere e di vivere. Questo desiderio è irrefrenabile,<br />

e tuttavia non ci costringe; non limita la nostra libertà,<br />

ma la fa esistere e la ispira. L’inclinazione alla conservazione<br />

dell’essere è all’origine della vita e dell’azione. Ci porta verso<br />

quel bene primitivo che è la vita, secondo la nostra natura, come<br />

esseri viventi, ragionevoli e liberi” 36 .<br />

In secondo luogo il suicidio, come l’omicidio, contraddice la<br />

signoria di Dio sulla vita umana e la persuasione che ogni vita ha<br />

un senso e uno scopo degno solo in quanto è risposta fedele a<br />

una chiamata di Dio 37 . Il comando decalogico “non uccidere” -<br />

come sottolinea Agostino - esprime il divieto di sopprimere ogni<br />

vita umana, senza distinguere fra la vita propria o quella altrui 38 .<br />

Se si comprende che il senso dell’esistenza umana è il dialogo<br />

con Dio e che da questa relazione costitutiva trae valore e senso<br />

l’esistenza stessa, allora sarà chiaro che interrompere unilateralmente<br />

e arbitrariamente questo dialogo è un implicito rifiuto di<br />

Dio e della sua sovranità. L’uomo, in quanto immagine di Dio,<br />

ha una signoria autentica sulla sua vita, ma questa signoria ministeriale<br />

è subordinata al principale dominium di Dio. All’uomo<br />

devono pertanto essere riconosciuti veri spazi di libertà e il diritto<br />

di organizzarsi autonomamente l’esistenza, ma il fatto di<br />

vivere-una-vita non è oggetto di scelta per l’uomo: come nessuno<br />

35<br />

Sul tema delle inclinazioni naturali, vedere: PINCKAERS S., Le fonti della<br />

morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Milano 1992, 468-532 (per l’inclinazione<br />

alla conservazione dell’essere, 493-497).<br />

36<br />

Ibid., 493-495 (passim).<br />

37<br />

Tommaso si appoggia su un’auctoritas biblica (Dt 32, 39: “Ego occidam,<br />

et vivere faciam”), ma la spiegazione rimanda agli argomenti socratici<br />

contro il suicidio in: PLATONE, Fedone, 62 c.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 391<br />

ha deciso di entrare nella vita, ma vi è stato chiamato, così nessuno<br />

può uscirne senza aver ricevuto la chiamata.<br />

Tommaso aggiunge un ulteriore motivo di rifiuto del suicidio,<br />

derivante dalla filosofia di Aristotele e in sintonia con la sua<br />

concezione dell’etica come impresa comunitaria e realtà eminentemente<br />

sociale:<br />

Ogni uomo è parte della comunità e perciò quello che è, è<br />

della comunità. Ne segue che nel momento in cui uccide se stesso,<br />

fa un’ingiustizia alla comunità, come si legge nel V libro dell’Etica<br />

di Aristotele.<br />

Queste parole contengono una intuizione profondamente<br />

vera perché riferisce l’assoluta indisponibilità da parte dell’individuo<br />

della propria vita “al carattere non solipsistico dell’esistenza,<br />

al fatto (indiscutibile) che il nostro io dipende sempre e<br />

comunque da un altro-da-noi e che sempre e comunque ha responsabilità<br />

verso altri alle quali non può unilateralmente sottrarsi”<br />

40 . Nella visione di Tommaso, ogni uomo è considerato<br />

parte di un unico disegno divino universale e, in questo senso,<br />

ogni uomo è parte di un tutto, rappresentato dalla communitas<br />

in cui egli è concretamente inserito. Nessuno è padrone di disporre<br />

della propria vita non solo perché essa viene da Dio, ma<br />

anche perché essa ha sempre un significato e un valore per gli<br />

38<br />

S. AGOSTINO, De civitate Dei, lib. 1, cap. 20 (PL 41, 35): “Restat ut de<br />

homine intelligamus quod dictum est ‘Non occides’. Nec alterum ergo nec te.<br />

Neque enim aliud quam hominem occidit, qui seipsum occidit”.<br />

39<br />

S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae, q. 64, art 5, resp.:<br />

“Quilibet utem homo est pars communitatis: et ita id quod est, est communitatis.<br />

Unde in hoc quod seipsum interficit, iniuriam communitati facit, ut<br />

patet per Philosophum, in V Ethicorum (Eth. Nic. V, 11, 1138a 11)”. Ovviamente<br />

se l’esistere non è valutato come un bene in sé, ma soltanto in rapporto<br />

con la possibilità di promuovere il benessere materiale, l’argomento<br />

può addirittura essere ribaltato e riconoscere, in certe circostanze, il suicidio<br />

come un lodevole atto di amore di sé e di responsabilità sociale, come fa David<br />

Hume nel saggio Of Suicide.<br />

40 D’AGOSTINO F., Morte, in COMPAGNONI F. ed., Etica della vita, 63.


392 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

altri uomini: il suicidio (diretto) è sempre anche in qualche modo<br />

una ingiustizia, un danno arrecato alla società 41 .<br />

Certamente la morale cattolica sa che non ogni azione con<br />

cui si rischia mortalmente o si perde la propria vita corrisponde<br />

all’oggetto morale che noi chiamiamo suicidio, che non è mai e<br />

in nessuna circostanza ordinabile al bene ultimo della persona.<br />

Il cristiano che rifiuta di bruciare incenso agli dei falsi e bugiardi,<br />

pur sapendo che questo gli costerà la vita, non è un suicida,<br />

ma un martire della fede. Il medico che, mentre infuria l’epidemia,<br />

soccorre gli infermi sprezzando il pericolo del contagio e<br />

muore lui stesso del terribile morbo non è uno scriteriato, ma un<br />

eroe o forse un santo. Sansone che perisce nel crollo del palazzo<br />

filisteo da lui stesso provocato, non agisce mosso da follia autodistruttiva,<br />

ma spinto dall’amor patrio e dallo zelo per il suo Dio.<br />

Secondo san Tommaso, che segue in questo l’impostazione agostiniana,<br />

Sansone compì la sua impresa suicida per ispirazione<br />

divina 42 . Ora il Dio di Tommaso non è nominalista e, se ordina<br />

qualcosa, la ordina non per semplice atto d’arbitrio, ma in sintonia<br />

con la recta ratio e quindi conformemente a quel bene autentico<br />

che realizza l’uomo nella verità. L’offerta della propria vita<br />

per motivi superiori, lungi dal negare il senso ultimo dell’esistenza,<br />

permette infatti di attuarne in modo eroico la fondamentale<br />

apertura oblativa.<br />

Risulta più difficile accettare la tesi stoica che il suicidio<br />

messo in atto per sfuggire l’imminente catastrofe non sia segno<br />

di pusillanimità o di rinuncia, ma costituisca al contrario una<br />

manifestazione eccelsa di eroismo e di forza 43 . Non possiamo<br />

negare il fascino che ancor oggi sprigionano le pagine degli an-<br />

41<br />

Si noti come l’appartenenza dell’uomo alla comunità da una parte<br />

possa richiedere anche il sacrificio della integrità fisica, come nel caso della<br />

donazione di organi, giustificata dal principio di solidarietà, dall’altra fonda<br />

l’indisponibilità della propria vita, in base al principio di responsabilità comunitaria.<br />

42<br />

S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae, q. 64, art. 5, ad 4.<br />

Cfr. AGOSTINO, De civitate Dei, lib. 1, cap. 21 (PL 41, 35).<br />

43<br />

Si veda, per esempio, il suicidio di Catone, nell’assedio di Utica del 46<br />

a. C: SENECA, De providentia, 2, 11-12; PLUTARCO, Vita di Catone Minore, 67-<br />

73. Addirittura il cristiano Dante ne fece il simbolo dell’uomo in ricerca della<br />

libertà (Purgatorio, I, 71-75).


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 393<br />

tichi scrittori in cui si riferiscono alcuni esempi di siffatti suicidi<br />

lucidi, né vogliamo giudicare la nobiltà e la rettitudine soggettiva<br />

di questi suicidi, bisogna però riconoscere che, tanto nel<br />

caso degli Stoici, come Seneca e Catone Uticense, come del re<br />

Saul o di Razis, menzionati dalla Scrittura 44 , si tratta pur sempre<br />

di suicidi voluti direttamente come mezzo per sfuggire all’infamia,<br />

allorché la morte appare preferibile a una vita senza onore:<br />

è difficile non vedere in questi gesti estremi una forma di fuga<br />

da una realtà percepita insostenibile, anche se l’exitus dal<br />

mondo si presenta ammantato di tragica grandezza. Per questo<br />

motivo, benché l’Agiografo tessa l’elogio di Razis come testimone<br />

della fede nella risurrezione, sant’Agostino sottolinea come la<br />

Scrittura affermi che volle morire nobilmente, ma non che volle<br />

morire saggiamente 45 e san Tommaso, rifacendosi alla dottrina<br />

di Aristotele, giudica Razis un debole e non un forte 46 . Per la morale<br />

cattolica, il suicidio non è giustificato neppure quando apparisse<br />

quale unico mezzo onde evitare la violazione della castità<br />

fisica, come nel caso di alcune donne venerate come martiri<br />

che, durante le persecuzioni anticristiane, si uccisero piuttosto<br />

che subire l’affronto della violenza carnale 47 . Agostino, pur<br />

non volendo criticare il pio sentire dei fedeli, insegna che – a meno<br />

che non intervenga un comando diretto di Dio – darsi la morte<br />

costituisce sempre un male, anche in tale frangente, ed è perciò<br />

un esempio da non imitare 48 .<br />

44<br />

Cfr. 1 Sam 31, 8 (suicidio di Saul); 2 Mac 14, 37-47 (raccapricciante<br />

suicidio di Razis).<br />

45<br />

S. AGOSTINO, Epistula 204, 8 (PL 33, 941): “Scriptum est quod voluerit<br />

nobiliter et viriliter mori, sed numquid ideo sapienter?”. Cfr. ID., Contra Gaudentium,<br />

lib. 1, cap. 31, 37 (PL 43, 733).<br />

46<br />

S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae, q. 64, a. 5, ad 5:<br />

“Non tamen est vera fortitudo, sed magis quaedam mollities animi non valentis<br />

mala poenalia sustinere”. Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, III, 7,<br />

1116a 15.<br />

47<br />

Apollonia si buttò nel fuoco: EUSEBIO, Historia ecclesiastica, lib. 6, cap.<br />

41 (PG 20, 607); Pelagia si precipitò da un tetto: Ibid., lib. 8, cap. 12 (PG 20,<br />

770); Domnina e le figlie si annegarono in un fiume: Ibid., lib. 8, cap. 12 (PG<br />

20, 772).<br />

48<br />

S. AGOSTINO, De civitate Dei, lib. 1, cap. 26 (PL 41, 39-40). Poco prima<br />

aveva affermato, a proposito di alcuni esempi biblici, che “sana quippe ratio<br />

etiam exemplis anteponenda est”: Ibid., lib. 1, cap. 23 (PL 41, 36). Diversa l’o-


394 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

Per il credente stretto dalle prove della vita e persino ridotto<br />

in condizioni al limite dell’umano, ove non gli sia possibile più<br />

nemmeno pregare o compiere un atto di abbandono fiduciale,<br />

resta la possibilità di offrire agli altri, proprio con la nudità dell’esistere,<br />

una testimonianza. Accogliendo una vita umana crocifissa,<br />

il cristiano proclama la signoria di Dio. Il cristiano che apparentemente<br />

non ha più nulla da dare al prossimo con la sua<br />

attività, può dare molto al prossimo attraverso la accoglienza del<br />

proprio limite, che è indice di profonda saggezza e frutto di una<br />

fede autentica e così, forte nella sua impotenza, può amare sino<br />

alla fine.<br />

Questo che abbiamo appena delineato è senza dubbio un sublime<br />

ideale di vita cristiana e rappresenta un maximum morale<br />

cui aspirare, ma ci si può chiedere se, in condizioni estreme,<br />

non sia lecito o almeno non colpevole, come minimum morale,<br />

privarsi della vita fisica 49 . Dal momento che – come si è visto –<br />

l’amore per Dio e per il prossimo possono essere motivi adeguati<br />

per rischiare e perdere la vita fisica, ci si chiede insomma se<br />

possa far parte di una ragionevole amministrazione del dono di<br />

Dio privarsi della propria vita non solo per il bene fisico o spirituale<br />

degli altri, ma anche per il proprio bene, come attuazione<br />

di un ragionevole amore di sé. Benché questo territorio della<br />

morale cattolica appaia ancora largamente inesplorato e risulti<br />

pinione di Girolamo: S. GIROLAMO, Commentariorum in Ionam Prophetam liber,<br />

lib. 1, vers. 16 (PL25, 1129): “Et in persecutionibus non licet propria perire<br />

manu absque eo ubi castitas periclitatur”. Cfr. S. AMBROGIO, De virginibus,<br />

lib. 3, cap. 7, 33 (PL 16, 241-244); S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Homilia in<br />

Pelagiam (PG 50, 579-584); Homilia 1 in Bernicen (PG 50, 629-640); Homilia<br />

2 in Bernicen (PG 50, 641-644). Vedere: AMUNDSEN D. W., Suicide and Early<br />

Christian Values, in BRODY B. A. ed., Suicide and Euthanasia, Dordrecht<br />

1989, 77-153; NARDI C., Il martirio volontario nelle omelie di Giovanni Crisostomo<br />

sulle martiri antiochene, in “Ho Theològos” 2 (1983), 207-278.<br />

49<br />

Un aspetto da approfondire sarebbe quello del suicidio come difesa di<br />

fronte a una condizione patologica, soprattutto se dolorosa, che viene percepita<br />

come estranea e nemica alla corporeità: non si tratterebbe di un atto<br />

buono in senso proprio, ma di un atto non punibile nella logica della difesa<br />

da un’aggressione ingiusta. Sulla nozione di omicidio per necessità: GARCÍA<br />

de VICENTE J. C., Homicidio por necesidad. La legítima defensa en la teología<br />

tardomedieval, Berna 1999.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 395<br />

difficile applicare a situazioni estreme, come appunto quella dello<br />

stato vegetativo persistente, l’esortazione a valorizzare l’esperienza<br />

del dolore e della morte incombente, sembra arduo affermare<br />

che il suicidio possa talora configurare una possibile forma<br />

di attuazione della nostra responsabilità per la vita. Mentre<br />

infatti nel suicidio per amore di Dio o del prossimo, la responsabilità<br />

verso la vita si attua in modo sublime nella logica della<br />

carità che sa amare sino alla fine, nel suicidio per fuggire un dolore<br />

o una situazione comunque percepita come indesiderabile<br />

io mi rivolgo, da solo o con la cooperazione di altri, contro la<br />

mia vita. Perciò occorre distinguere il suicidio di chi si sente o si<br />

prevede incapace di abbracciare la morte imminente e “quel sacrificio<br />

con il quale per una causa superiore - quali la gloria di<br />

Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli - si offre o si<br />

pone in pericolo la propria via” 50 . Il suicidio compiuto per fuggire<br />

atroci sofferenze o situazioni incresciose presenti o in previsione<br />

di esse, anche se soggettivamente può essere non colpevole<br />

o collocarsi in un contesto esistenziale e psicologico tale da<br />

ridurre o addirittura togliere la responsabilità morale, resta tuttavia<br />

una forma di violenza contro se stessi che contraddice in<br />

modo radicale il messaggio evangelico.<br />

A questo punto dobbiamo però riconoscere - con F. D’Agostino<br />

- che “nella prospettiva soggettivistica della modernità il<br />

fondamento stesso di questo discorso viene invece meno e l’atto<br />

suicidiario, da cifra della disperazione, acquista una nuova valenza,<br />

ontologicamente positiva, sia pure di carattere estremo:<br />

quella di negazione di Dio (Dostoevskij) o di negazione del ‘prossimo’<br />

(Nietzsche) o comunque di riaffermazione di una peculiare<br />

forma di razionalità, la razionalità calcolante, prediletta dagli<br />

utilitaristi, che pretende di avere per oggetto una ponderata ge-<br />

50 CONGR. DOTTR. FEDE, Dich. Iura et bona, 5-5-1980, I, 3, in AAS 72<br />

(1980), 545. Non persuade la tesi proposta come Gedankexperiment da D. C.<br />

Thomasma che “in the case of killing out of love, the individual requests …<br />

death for a higher purpose, a symbol of some commitment to the Divine”,<br />

per cui “as the martyrdom stories suggest, actively assisting in that death<br />

may sometimes but rarely be subsumed into God’s greater redemptive plan”:<br />

THOMASMA D. C., Assisted Death and Martyrdom, in “Christian Bioethics” 4<br />

(1998), 122-142 (citazioni pp. 132-133. 137).


396 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

stione di sé” 51 . Fuori della logica di un Dio che chiama all’amore<br />

e alla vita piena, altra moralità non si dà che nella logica narcisistica<br />

dell’autorealizzazione e il suicidio può esser concepito<br />

come un modo possibile di realizzare se stessi e addirittura come<br />

suprema moralità, come riappropriazione da parte dell’uomo<br />

di tutta l’esistenza, inclusa la morte.<br />

L’uomo veramente uomo sa morire, secondo Nietzsche, “al<br />

momento giusto” (zur rechten Zeit) facendo del morire una festa<br />

in cui si celebra il raggiungimento della pienezza e della maturità<br />

52 . Una esemplificazione significativa di questo atteggiamento<br />

si può trovare nell’aforisma 80 di Umano, troppo umano:<br />

Perché dovrebbe essere più lodevole per un uomo invecchiato,<br />

che sente il declino delle proprie forze, attendere la propria<br />

lenta consumazione e il disfacimento, che non porre termine<br />

in piena coscienza alla propria vita? In questo caso il suicidio<br />

è un’azione del tutto naturale e a portata di mano che, come vittoria<br />

della ragione, dovrebbe giustamente suscitare rispetto 53 .<br />

Una concezione distorta della libertà umana che approva ed<br />

esalta lo svincolamento della libertà dagli assoluti morali e dalla<br />

relazione col mondo dei valori oggettivi porta a ritenere che<br />

l’autonomia di una persona possa giungere a scegliere se, quando<br />

e come continuare a vivere o darsi la morte, benché, dal punto<br />

di vista puramente razionale, questa giustificazione del suicidio<br />

sia - a ben guardare - assurda: è paradossale infatti che un<br />

soggetto morale realizzi compiutamente se stesso annientandosi<br />

come soggetto nell’atto suicida, è assurdo che la massima<br />

espressione della moralità coincida con l’annientamento dello<br />

stesso agente morale, che una libertà per affermarsi si autodi-<br />

51 D’AGOSTINO F., Morte, 63-64.<br />

52<br />

Vedere sul tema un suggestivo intervento: REGINA U., Nietzsche: morire<br />

al momento giusto, in BIOLO S. cur., Nascita e morte dell’uomo. Problemi filosofici<br />

e scientifici della bioetica, Genova 1993, 239-254. Cfr. LUCAS LUCAS R.,<br />

Il soggettivismo e l’individualismo della libertà radice della violenza contro la<br />

vita umana, in SGRECCIA E., LUCA LUCA R. curr., Commento interdisciplinare<br />

alla “Evangelium Vitae”, Vaticano 1997, 245-262.<br />

53 NIETZSCHE F., Umano troppo umano, n. 80, in COLLI G., MONTINARI M.<br />

curr., Opere di Friedrich Nietzsche, Milano 1964, vol. 4/2, 67.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 397<br />

strugga 54 . “Chi si dà la morte dichiara, paradossalmente, che l’unico<br />

modo per salvare la propria vita è quella di distruggerla” 55<br />

per cui, ponendosi nella prospettiva del rapporto ambivalente<br />

del soggetto con il suo corpo oggetto/corpo vissuto, C. Zuccaro<br />

giustamente osserva che il tentativo di superare attraverso il suicidio<br />

una condizione somatica ritenuta insostenibile è illusorio<br />

perché “il limite rappresentato da questo corpo mortale ... non<br />

può essere veramente tolto ed eliminato dal suicidio. Infatti il<br />

suicida non riesce ad affermare se stesso in quanto spirito libero,<br />

ma precisamente solo il suo essere ormai cadavere” 56 .<br />

Anche accogliendo l’idea del suicidio come genuina espressione<br />

di libertà, risulta parimenti un po’ difficile capire in che<br />

senso decidere o programmare con advance directives la propria<br />

fuga dalla vita possa essere considerato come un atto di libertà<br />

e una squisita espressione della propria umanità, quando, assediati<br />

e stremati da circostanze avverse, viene meno la volontà e<br />

la capacità di assumere e significare la fase estrema della propria<br />

vita. Possiamo ben comprendere che un soggetto sprofondato<br />

in una cupa depressione, tormentato dal dolore maligno di<br />

un cancro che lo corrode, abbandonato e solo davanti a una<br />

morte imminente o semplicemente terrorizzato al pensiero di<br />

essere un giorno ridotto a un’esistenza larvale possa desiderare<br />

di sfuggire a una situazione indegna e che la morte gli appaia<br />

preferibile a quella vita e soprattutto preferibile alla situazione<br />

infernale creata dall’accanimento terapeutico 57 . Qui però non si<br />

54<br />

Cfr. KANT I., Die Metaphysik der Sitten, in Immanuel Kants Werke (E.<br />

Cassirer ed.), b. 7, Berlin 1922, 234: “Das Subjekt der Sittlichkeit in seiner eigenen<br />

Person zernichten, ist eben so viel, als die Sittlichkeit selbst ihrer Existenz<br />

nach, so viel an ihm ist, aus der Welt vertilgen, welche doch Zweck an<br />

sich sebst ist”.<br />

55 REICHLIN M., Il suicidio e la morale cristiana, in “Rassegna di Teologia”<br />

39 (1998) , 877. Cfr. YOLIF J. F., Suicide et liberté, in “Lumière et Vie” 32<br />

(1957), 83-100.<br />

56 ZUCCARO C., La vita umana è indisponibile? Il giudizio etico relativo a<br />

suicidio ed eutanasia, in “Rassegna di Teologia” 38 (1997), 52.<br />

57<br />

Cfr. MORI M., Dal vitalismo medico, 114: “Chiamo condizione infernale<br />

questa situazione che sappiamo comportare persistenti dolori terminali (o persistente<br />

condizione di “indegnità esistenziale”), per cui per il paziente è meglio<br />

non esistere (morire) piuttosto che continuare ad esistere in tale stato”.


398 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

tratta di autodeterminazione, ma piuttosto di una decisione pesantemente<br />

condizionata dalla paura, dalla sofferenza, dalla solitudine:<br />

non sono questi i contesti più favorevoli per poter parlare<br />

di una scelta lucida, razionale, del tutto autonoma o addirittura<br />

per qualificarla come l’apice delle scelte della persona 58 .<br />

Nonostante queste innegabili debolezze teoriche, l’idea della<br />

accettabilità del suicidio, soprattutto quello a scopo eutanasico,<br />

così come è stata sviluppata da alcuni filoni della modernità,<br />

si dimostra rispondente al sentire del nostro tempo e cerca di<br />

farsi strada anche in campo legislativo, delegittimando l’antica<br />

convinzione giuridica della indisponibilità della vita 59 . Anche<br />

senza giungere a parlare apertamente di “right to die”, di diritto<br />

a morire ovvero di diritto all’autodeterminazione nei confronti<br />

della propria morte, sino ad annoverare il suicidio un diritto<br />

umano fondamentale 60 , aumenta tuttavia il numero di coloro<br />

che giudicano il suicidio una azione in qualche situazione permissibile<br />

61 . Esso viene percepito dalla gente come una risposta<br />

drastica, ma efficace al dramma del dolore e come possibilità di<br />

58<br />

Anche coloro che – come S. Maffettone – sono a favore dell’eutanasia<br />

e del suicidio a partire da una teoria del valore basata sull’autonomia delle<br />

persone, mettone in guardia circa “la difficoltà di ottenere un consenso veramente<br />

autonomo e informato in casi di persone che, anche se in grado di<br />

decidere, patiscono atroci sofferenze e vivono nell’orizzonte della morte”:<br />

MAFFETTONE S., Il valore della vita. Un’interpretazione filosofica pluralista, Milano<br />

1998, 284-285. Il cosiddetto suicidio lucido, l’unico che potrebbe esser<br />

detto “razionale”, presuppone un contesto psicologico ben diverso: CHIAVAC-<br />

CI E., Morale della vita fisica, Bologna 19792, 88-91. La lucidità potrebbe<br />

aversi nelle direttive previe, ma in questo caso si ricade nella questione della<br />

disarticolazione temporale fra decisione e attuazione.<br />

59<br />

Vedere le riflessioni del prof. D’Agostino sulla dimensione giuridica<br />

della questione : D’AGOSTINO F., Diritto e eutanasia, in “Bioetica” 7 (1999), 94-<br />

105.<br />

60<br />

Della vasta letteratura, segnaliamo: BATTIN M. P., Ethical Issues in Suicide,<br />

Englewood Cliffs 1995, 180-195; KASS L. R., Is There a Right to Die?, in<br />

“Hastings Center Report” 23 (1993), n. 1, 34-43. Vedere inoltre tutto il num.<br />

3 del 1985 di “Concilium”: POHIER J., MIETH D. curr., Suicidio e diritto alla<br />

morte.<br />

61<br />

“L’uomo - scrive per esempio A. Pieper - non ha alcun diritto al suicidio,<br />

ma gli è permesso uccidersi” : PIEPER A., Argomenti etici in favore del suicidio,<br />

in “Concilium” 21 (1985), 3, 72.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 399<br />

vivere con la dignità e con l’autonomia proprie degli esseri umani<br />

la malattia e la morte. Nello stato vegetativo, in cui manca la<br />

componente drammatica e rabbiosa della sofferenza, la componente<br />

autonomistica della scelta eutanasica viene alla luce con<br />

chiarezza: l’incapacità di immaginare una possibilità di senso<br />

per una vita marginale conduce al suo rifiuto, come estremo e<br />

contraddittorio tentativo di attribuire un senso umano, attraverso<br />

una decisione libera ancorché autodistruttiva, a ciò che viene<br />

percepito umanamente destituito di valore.<br />

4. Il suicidio assistito<br />

Legata alla questione dell’accettabilità morale di una volontà<br />

diretta di darsi la morte, in atto o espressa attraverso direttive<br />

previe o mediante un legittimo tutore, sta quella della<br />

cooperazione del medico ad eseguire tale intenzione suicida<br />

(suicidio assistito) 62 . Ci si chiede se aiutare un paziente a mettere<br />

in atto un suicidio già deciso sia, a certe condizioni, una modalità<br />

ragionevole di venire incontro ai suoi bisogni e urgenze o<br />

non piuttosto un modo discutibile per risolvere il dramma di<br />

un’assistenza penosa. L’obbligo morale del medico di aiutare<br />

l’ammalato nel morire, può comportare talora l’aiutarlo a morire?<br />

La risposta dovrebbe essere molto articolata, coinvolgendo<br />

la nostra concezione del rapporto fra medico e malato, l’idea che<br />

abbiamo della nostra responsailità verso la vita e ultimamente il<br />

senso che attribuiamo alle vite umane declinanti o in qualche<br />

modo deboli.<br />

Se si ritiene che il suicidio ammette una qualche giustificazione<br />

morale, allora non ci sono ostacoli insormontabili per il<br />

medico - in ossequio a una legittima volontà del paziente, anche<br />

emessa previamente e purché sia tuttora valida o validamente<br />

rappresentata - a prestarsi per assistere al suicidio. Nell’orizzonte<br />

dell’etica razionale laica di Engelhardt, per esempio, il male<br />

non sta nell’uccidere qualcuno, ma nell’uccidere qualcuno senza<br />

62 DWORKIN G., FREY R. G., BOK S., Euthanasia and Physician Assisted<br />

Suicide, Cambridge 1998; UHLMANN M. M. ed., Last Rights. Assisted Suicide<br />

and Euthanasia Debated, Washington 1998.


400 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

il suo permesso 63 . La logica del suicidio risponde al principio del<br />

rispetto dell’autonomia del paziente, purché essa venga chiaramente<br />

e certamente espressa. Come il medico deve rispettare la<br />

volontà del paziente di desistere dall’accanimento terapeutico o<br />

dall’impiego di mezzi che il malato ritiene per sé inutili e dannosi,<br />

così deve rispettare la sua eventuale volontà di morte. In<br />

questo caso non si chiede al medico di condividere o meno la ragionevolezza<br />

o la giustezza dell’intenzione suicida, ma soltanto,<br />

una volta esclusa la possibilità di interventi alternativi per il controllo<br />

dell’ansia o del dolore, di aiutare il paziente ad attuare una<br />

scelta deliberata. Affermare che la gente che vuole por fine alla<br />

sua vita dovrebbe provvedere da sola, non tiene conto che spesso<br />

si tratta di soggetti nell’impossibilità di darsi la morte desiderata<br />

(come nel caso di soggetti in stato vegetativo persistente)<br />

senza considerare che, come ha scritto M. Angell, “questo è forse<br />

il più crudele degli argomenti contro il suicidio assistito” 64 .<br />

Fanno davvero pensare le ultime parole vergate da Percy Bridgman,<br />

premio Nobel per la fisica, prima di spararsi per non soccombere<br />

a un cancro metastatico: “Non è onorevole per la Società<br />

lasciare che un uomo faccia questo a se stesso” 65 . In queste<br />

disperate parole risuona l’orrore per il suicidio e l’implorazione<br />

alla società di sostituirsi al suicida nel mettere in atto una tragica<br />

decisione.<br />

Il limite di queste posizioni sbilanciate sul versante dell’autonomia,<br />

non sta certo nel ridimensionare l’onnipotenza del paternalismo<br />

medico del passato, ma di pretendere la esautorazione<br />

della coscienza e della competenza del sanitario in una decisione<br />

di enorme portata. Il medico non può farsi meccanico esecutore<br />

di una qualsiasi volontà del paziente anche perché il paziente<br />

spesso non comprende senso e utilità dei presidi terapeutici<br />

che chiede o che rifiuta, e questo tanto più quando la deci-<br />

63 ENGELHARDT T., The Foundations, 350: “The central secular moral evil<br />

in murder is not taking the life of an individual, but taking that life without<br />

the individual’s permission”.<br />

64 ANGELL M., The Supreme Court and the Physician-Assisted Suicide. The<br />

Ultimate Right, in “The New England Journal of Medicine” 336 (1997), 52.<br />

65 NULAND S. B., How we die, New York 1994, 152: “It is not decent for<br />

Society to make a man do this to himself”.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 401<br />

sione dipende da una dichiarazione di volontà o di autodeterminazione<br />

dettata molto tempo prima o trasmessa e interpretata<br />

da un tutore. In modo particolare l’autodeterminazione del paziente<br />

non può obbligare il medico contro la coscienza, se egli ritiene<br />

il suicidio inammissibile in linea di principio - come abbiamo<br />

cercato di argomentare nel paragrafo precedente - o comunque<br />

ingiustificato in quelle particolari circostanze 66 .<br />

Il rifiuto del suicidio assistito era elemento qualificante dell’ethos<br />

ippocratico che, opponendosi alla diffusa prassi dei medici<br />

antichi i quali aiutavano a morire i malati incurabili o coloro<br />

che preferivano la morte all’esilio o al disonore o alla rovina<br />

politica, affidava al Giuramento un rifiuto esplicito e fermo:<br />

Mai, anche se richiesto, somministrerò farmaci letali né<br />

commetterò mai cose di questo genere 67 .<br />

Secondo la morale cristiana, dal momento che il suicidio per<br />

sfuggire il dolore o il disonore non è ritenuto conforme alla recta<br />

ratio, “condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a<br />

realizzarla mediante il cosiddetto suicidio assistito significa farsi<br />

collaboratori, e qualche volta autori in prima persona, di<br />

un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure<br />

quando fosse richiesta” 68 . Con toni drammatici, così si esprimeva<br />

Agostino:<br />

In nome di nessuna legge o autorità legittima, non è mai lecito<br />

uccidere un altro, anche se lui lo volesse e lo chiedesse e non<br />

fosse più capace di vivere … e, sospeso tra la vita e la morte, sup-<br />

66<br />

Se ha qualche ragione chi nega che aiutare nel suicidio sia propriamente<br />

un atto di ingiustizia, perché non si commette ingiustizia facendo<br />

qualcosa che una persona vuole (secondo l’aforisma che “volenti non fit iniuria”),<br />

tuttavia resta un atto di violenza contro una vita direttamente inteso.<br />

67<br />

Cfr. GRACIA D., Fondamenti di Bioetica, 57-88; LICHTENHAELER C., Le<br />

serment d’Hippocrate. Analyse d’ensemble, in “Revue Médical de la Suisse<br />

Romande” 100 (1980), 1001-1011.<br />

68 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 66, in AAS 87 (1995),<br />

477.


402 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

plica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami<br />

del corpo e desidera distaccarsene 69 .<br />

Ammettere che sia ragionevole e addirittura raccomandabile<br />

aiutare a morire una persona che lo chiede o che lo avesse disposto<br />

preventivamente, non sfugge alla regola del piano inclinato<br />

o, come dicono icasticamente, gli Anglo-Sassoni, del pendio<br />

scivoloso (“slippery slope”), nel quale la velocità di colui che scivola<br />

verso la fine del pendio cresce progressivamente ed inarrestabilmente<br />

70 . Dalla tesi della legittimità e ragionevolezza del<br />

suicidio assistito (eutanasia volontaria) sarà infatti naturale<br />

trarre la conclusione che i medici o i congiunti possono prendere<br />

la stessa decisione a beneficio ovvero nel miglior interesse di<br />

un bambino o di un adulto malato incapace permanentemente<br />

di intendere e di volere (eutanasia involontaria). L’argomento<br />

del piano inclinato suona spesso retorico e allarmistico, ma la<br />

realtà dei fatti sta purtroppo dando conferma delle previsioni.<br />

Esemplare il caso olandese 71 .<br />

Fino a qualche anno fa l’eutanasia era esclusa, in quanto<br />

comportamento delittuoso, dal Codice penale olandese, ma il dibattito<br />

pubblico sul tema si è fatto sempre più scottante soprattutto<br />

a partire da una sentenza del 1973 che aveva inflitto una<br />

settimana (simbolica) di reclusione a un medico che aveva ucciso<br />

la madre, gravemente ammalata, con una dose letale di morfina<br />

72 . Nella stessa sentenza la Corte aveva dichiarato che avrebbe<br />

approvato l’azione eutanasica se fossero state soddisfatte alcune<br />

condizioni, fra le quali quella che il paziente, affetto da ma-<br />

69<br />

S. AGOSTINO, Epistula 204, 5 (PL 33, 940).<br />

70<br />

Cfr. FLEMING J. I., Euthanasia. The Netherlands and Slippery Slope, in<br />

“Bioethics Research and Notes” 2 (1992), 14; JOCHEMSEN H., KEOWN J., <strong>Vol</strong>untary<br />

euthanasia under control? Further empirical evidence from the Netherlands,<br />

in “Journal of Medical Ethics” 25 (1999), 16-22; VAN DER BURG W., The<br />

slippery slope argument, in “Ethics” 102 (1991), 42-65; WALTON D., Slippery<br />

Slope Arguments, Oxford 1992.<br />

71<br />

Sulla questione olandese: GOMEZ C., Regulating Death: Euthanasia and<br />

the Case of the Netherlands, NewYork I991; VIAFORA C. cur., Quando morire?<br />

Bioetica e diritto nel dibattito sull’eutanasia, Padova 1996, 120-231.<br />

72 DE WAHTER M. A. M., Euthanasia in the Netherlands, in “Hastings Center<br />

Report” 22 (1992), n. 2, 23-30.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 403<br />

lattia incurabile e da sintomatologia dolorosa grave, avesse chiesto<br />

lui stesso la morte al proprio medico curante. Questa posizione<br />

tendenzialmente favorevole all’eutanasia su richiesta fu ribadita<br />

da diverse sentenze olandesi fra il 1973 e il 1983 73 . Nel<br />

1984, alle due condizioni essenziali che il malato prendesse l’iniziativa<br />

della richiesta e che la sua situazione fosse obiettivamente<br />

grave, la Reale Associazione Medica Olandese aggiunse,<br />

come terza condizione, che un medico diverso dal curante verificasse<br />

la correttezza della diagnosi, della prognosi e di tutta la<br />

procedura eutanasica 74 .<br />

Questi orientamenti pro-eutanasia sono stati tradotti in un<br />

insieme di direttive emanate nel 1990 dalla Procura Generale.<br />

Da allora la pratica dell’eutanasia - non senza polemiche - si è<br />

diffusa sempre più tra i medici olandesi allargandosi non di rado<br />

dall’eutanasia su richiesta del paziente all’eutanasia su decisione<br />

del medico. Secondo il Rapporto Remmelink, richiesto<br />

congiuntamente dal Ministero della giustizia e dal Ministero della<br />

sanità, in Olanda i medici decidono la morte di 4000 pazienti<br />

sui circa 130 mila che muoiono ogni anno; il suicidio assistito è<br />

stato praticato solo 400 volte, la interruzione intenzionale della<br />

vita è stata praticata circa 2300 volte (nel 2% delle morti), ma in<br />

almeno 1000 casi i medici hanno affrettato o provocato il decesso<br />

in mancanza di esplicita richiesta del paziente e solo nel 17%<br />

di questi 1000 era possibile documentare una richiesta avanzata<br />

in precedenza dal paziente 75 . Secondo il Rapporto questi 1000<br />

casi di interruzione non volontaria della vita dovrebbero essere<br />

considerati “assistenza fornita al morente perché, quando le fun-<br />

73 LEENEN H. J. J., Euthanasia - assistence to suicide and the Law: Developments<br />

in the Netherlands in “Health Policy” 8 (1987), 197-206; VAN DER<br />

MAAS R. J., Euthanasia and Other Medical Decisions Concerning the End of Life<br />

in “Lancet” 338 (1991), 669-674.<br />

74 ROYAL DUTCH MEDICAL ASSOCIATION, Vision on Euthanasia, in “Medische<br />

Contact” 39 (1984), 990-998.<br />

75 COMMISSIE ONDERZOEK MEDISCHE PRAKTJIK INZAKE EUTHANASIE, Medische<br />

Beslissingen Rond Het Leveneinde, The Hague 1991. Cfr FENIGSEN R.,<br />

The Report of the Dutch Governmental Committee on Euthanasia, in “Issues<br />

in Law and Medicine” 7 (1991), 339-344.


404 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

zioni vitali han cominciato a venir meno, l’eutanasia rientra indiscutibilmente<br />

nella normale pratica medica” 76 .<br />

Dopo un estenuante dibattito, inficiato dall’uso di una nozione<br />

vaga e quasi onnicomprensiva di eutanasia, la Seconda<br />

Camera del Parlamento olandese ha approvato, il 9 febbraio<br />

1993, un Documento sull’eutanasia che prevede la depenalizzazione<br />

di alcune pratiche eutanasiche 77 . Un emendamento governativo<br />

al testo introduceva la possibilità che un medico, con la<br />

supervisione di un altro medico, potesse praticare, anche senza<br />

esplicita richiesta del paziente, l’eutanasia o meglio un “intervento<br />

medico attivo per abbreviare la vita” 78 , lasciando all’ufficiale<br />

giudiziario competente la decisione se ci sia stata violazione<br />

o no del codice penale, che ipocritamente continua a considerare<br />

l’eutanasia un reato. L’emendamento è stato approvato<br />

con una maggioranza risicata (37 favorevoli e 34 contrari) il 30<br />

novembre dello stesso anno ed ha avuto una immensa eco nel<br />

mondo. In un intervento, che voleva essere apologetico, il ministro<br />

della giustizia Hirsch Ballin ha spiegato che “persone malate<br />

non dovrebbero trovarsi mai nella situazione di sentirsi come<br />

un peso per gli altri e quindi costretti a chiedere che si ponga fine<br />

alla loro esistenza” 79 .<br />

76<br />

Medische Beslissingen Rond Het Leveneinde, 32. Cfr. WELIE J. V. M,.<br />

Euthanasia: Normal Medical Practice? in “Hastings Center Report” 22 (1992),<br />

n. 2, 212-217.<br />

77<br />

Il testo in “Medicina e Morale” 43 (1993), 446-448. Cfr. FRAVOLINI G.,<br />

La nuova normativa sull’eutanasia nei Paesi Bassi in “Aggiornamenti Sociali”<br />

45 (1994), 839-848; JOCHEMSEN H., Euthanasia in Holland. An Ethical Critique<br />

of the New Law, in “Journal of Medicine and Ethics” 20 (1994), 212-217.<br />

78<br />

La legge distingue fra eutanasia (soppressione di consenziente), suicidio<br />

assistito (aiuto nel porre fine alla propria vita) e LAWER (acronimo indicante<br />

la soppressione di un paziente che non ne ha fatto richiesta). “È significativo<br />

– scrive M. Reichlin – l’imbarazzo linguistico degli autori olandesi<br />

che, avendo improvvisamente deciso di limitare il termine eutanasia a<br />

quella volontaria, sono stati costretti ad inventare un nuovo termine per indicare<br />

quella che in tutti gli altri paesi è definita eutanasia non volontaria: il<br />

termine reso innocente dall’essere una sigla a prima vista incomprensibile è<br />

LAWER, cioè life-terminating acts without explicit request of patient: REICHLIN<br />

M., L’Eutanasia in Olanda: contraddizioni, ambiguità, alternative, in VIAFORA<br />

C. cur., Quando morire? 175-205 (la citazione a p. 186).<br />

79 HIRSCH BALLIN M. H., Cristiano-democratici e eutanasia in “Conci-


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 405<br />

Lo slittamento di prospettiva dall’autodeterminazione del<br />

paziente sofferente alla soppressione del paziente “che è di peso”<br />

è sconcertante e non può certo sfuggire una grave incoerenza<br />

negli argomenti addotti dai propugnatori dell’eutanasia, sia volontaria<br />

sia non volontaria 80 . Dapprima si è sostenuta l’eutanasia<br />

volontaria come diritto di ciascuno a morire nel tempo ritenuto<br />

più giusto e quindi come espressione di autodeterminazione,<br />

quando la vita viene sperimentata dall’agente morale insostenibile<br />

o indegna di essere vissuta. Essendo l’apprezzamento<br />

della sostenibilità della vita e della sua dignità un dato altamente<br />

soggettivo, si è ritenuto che il medico non dovesse filtrare tale<br />

apprezzamento attraverso le sue categorie etiche, ma rispettare<br />

il sentire e la decisione del malato e aiutarlo piuttosto a mettere<br />

in atto ciò che egli aveva deciso. Sembra giusto a molti riconoscere<br />

il diritto di porre fine ai propri giorni a una persona<br />

che si trovi in condizioni disperate e il medico non deve far altro<br />

che rispettare questa volontà del paziente e qualcuno arriva<br />

anzi ad equiparare l’aiuto del medico a compiere un suicidio ad<br />

un ultimo atto benefico compiuto in favore del malato. Secondo<br />

Brandt, per esempio, “l’obbligo morale delle altre persone nei<br />

confronti di chi ha intenzione di suicidarsi è un caso dell’obbligo<br />

più generale di prestare soccorso a chi si trova in gravi difficoltà,<br />

almeno quando ciò non comporta gravi costi per sé” 81 .<br />

La nozione di autodeterminazione nei confronti della morte<br />

è usualmente il perno intorno a cui ruota tutto l’argomento e, at-<br />

lium” 29 (1993), 741. Cfr. LOMBARDI RICCI M., GRILLO A., Riflessioni sull’intervento<br />

del Ministro olandese della Giustizia M. H. Hirsch Ballin in “Medicina<br />

e Morale” 44 (1994), 443-452 (citazione a p. 445).<br />

80<br />

Sottolineiamo l’inopportuna denominazione di volontaria e non volontaria<br />

entrata nell’uso per indicare rispettivamente l’eutanasia di soggetto<br />

competente che la chiede e quella di soggetto non competente che la subisce.<br />

Nel linguaggio dell’etica volontario e non volontario si riferiscono invece alla<br />

relazione di un atto con la liber volontà di chi lo compie. La confusione<br />

aumenta se consideriamo che qualcuno, come P. Singer, definisce involontaria<br />

l’eutanasia compiuta contro la volontà del soggetto.<br />

81 BRANDT R. B., The Morality and Rationality of Suicide, in SCHNEIDEMAN<br />

ed., Suicidology. Contemporary Issues, Orlando 1976 (trad it. in FERRANTI G.,<br />

MAFFETTONE S., Introduzione alla bioetica, Napoli 1992, 163-192, la citazione<br />

a p. 190).


406 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

traverso la categoria di qualità della vita, trova una sua applicazione<br />

allargata nella legittimazione delle direttive previe. In esse<br />

il soggetto può decidere autonomamente di essere lasciato morire<br />

senza alcuna cura o di essere attivamente soppresso, se si<br />

verificassero particolari situazioni di degrado della vita psicofisica:<br />

la decisione non parte da un concreto vissuto di malattia e<br />

di sofferenza, ma da un apprezzamento astratto che, ponendosi<br />

di fronte a possibili evenienze, giudica alcune situazioni non accettabili.<br />

L’ultimo passo consiste nel dare alla categoria “qualità di vita”<br />

una valenza oggettiva, indipendente dai vissuti soggettivi dei<br />

singoli agenti morali e quindi indipendente dall’esperienza<br />

estrema di dolore e di angoscia tanto spesso evocate dai fautori<br />

dell’eutanasia. Sulla base di questo nuovo assoluto morale, magari<br />

scientificamente quantificato in base a parametri misurabili<br />

di piacere/dolore o di desiderabilità o di costi sociali, il medico<br />

potrà giudicare l’accettabilità di una certa esistenza e agire di<br />

conseguenza con buona coscienza professionale e con la tutela<br />

della legge. Il processo di liberalizzazione dell’eutanasia, quindi,<br />

non solo sta accelerando lungo il piano inclinato per incremento<br />

numerico - come dimostrano dati recenti 82 - e per la tendenza<br />

ad allargarsi a sempre nuovi casi e fattispecie, ma sta slittando<br />

anche dal punto di vista argomentativo dall’autonomia del paziente<br />

di fronte alla morte e dal conseguente rispetto dell’autonomia,<br />

verso una beneficenza esercitata dal medico verso il paziente,<br />

dapprima in ossequio della sua volontà (un bene soggettivo)<br />

e poi come applicazione di parametri concernenti gli standard<br />

di vita accettabili (un bene oggettivo).<br />

La cultura della tarda modernità ha diffuso un senso crescente<br />

di angoscia per il dolore e la morte e una ripulsa per le<br />

espressioni fragili e decadenti dell’esistenza, tanto che eminenti<br />

scienziati, frai quali il premio Nobel J. Monod, hanno firmato<br />

nel luglio 1974 un Manifesto sull’eutanasia, pubblicato originariamente<br />

su The Humanist, nel quale si dice che “è immorale accettare<br />

o imporre la sofferenza”, facendo così dell’eutanasia non<br />

82 EIJK W. J., LELKENS J. P. M., Medical-Ethics Decisions and Life-Terminating<br />

Actions in The Netherlands 1990-1995. Evaluation of the Second Survey<br />

of the Practice of Euthanasia in “Medicina e Morale” 47 (1997), 475-501.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 407<br />

solo un diritto civile, ma addirittura un dovere morale 83 . Per<br />

molti il concetto di eutanasia coincide con quello di dignità della<br />

morte o con quello di umanizzazione del dolore e della morte e<br />

deve essere considerato un diritto delle persone sofferenti o in<br />

condizioni estreme e quindi un gesto benefico e dovuto da parte<br />

del medico. Se la morte viene “intesa come evento buono o felice<br />

per colui che muore”, allora sarà compito del buon medico,<br />

in ossequio al principio di beneficenza, dare la morte ai pazienti<br />

per i quali essa risulta un bene 84 .<br />

L’incoerenza sta nel fatto che nell’eutanasia medicalizzata la<br />

qualità della vita, oggettivamente ponderata dal medico, porta a<br />

compiere un atto eutanasico indipendentemente da una richiesta<br />

del soggetto che viene, ancora una volta, defraudato della sua<br />

morte in nome del paternalismo medico che si attribuisce la capacità<br />

di conoscere il bene autentico del paziente. “Quello che la<br />

pratica medica dell’eutanasia in Olanda rivela - commenta il<br />

professor Henk ten Have di Nimega - è che la giustificazione etica<br />

si è spostata dal rispetto per l’autonomia alla liberazione dalla<br />

sofferenza. Ma questi due argomenti si escludono l’un l’altro: ha<br />

senso parlare di rispetto per l’autonomia soltanto se un medico<br />

si astiene dall’esprimere giudizi su ciò che sia bene per il paziente”<br />

85 .<br />

Al di là della questione della violazione dell’autonomia del<br />

paziente insita nella pratica dell’eutanasia non volontaria di un<br />

paziente incompetente, nella prospettiva della morale cattolica,<br />

l’eutanasia non è eticamente praticabile neppure quando essa<br />

sembri costituire un bene per il paziente, perché l’eutanasia - per<br />

qualunque motivo o mezzo sia data - contraddice “l’inviolabilità<br />

del diritto alla vita dell’essere umano innocente, dal concepimento<br />

alla morte, è un segno e un’esigenza dell’inviolabilità stes-<br />

83<br />

Cfr. SGRECCIA E., Manuale di bioetica, I, Milano 1994, 639-641.<br />

84 FOOT PH, Euthanasia in ID., Virtues and Vices, Berkeley 1978 (trad. it.<br />

in FERRANTI G., MAFFETTONE S. curr., Introduzione alla bioetica, 81-111, la citazione<br />

a p. 82). Cfr. CHIODI M., Eutanasia e modelli teorici in bioetica, in<br />

“Teologia” 23 (1998), 150-185 (su Philippa Foot, pp. 163-167).<br />

85 TEN HAVE H., L’eutanasia in Olanda: un’analisi critica della situazione<br />

attuale, in VIAFORA C., Quando morire?, 132.


408 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

sa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita”<br />

86 . La vita corporea non è uno strumento della persona, ma la<br />

sua modalità concreta di esistere nello spazio e nel tempo: la vita<br />

biologica è intrinseca alla persona e la sussistenza fisica coestensiva<br />

con l’esistere della persona. Pertanto sopprimere una vita<br />

fisica è un atto che non si ferma mai alla sola dimensione somatica<br />

della persona, ma tocca la persona nella sua intimità,<br />

violandone lo spazio esistenziale: l’eutanasia, in quanto soppressione<br />

diretta di una persona, non può mai configurare in senso<br />

stretto un bene per essa. L’eventualità che un medico possa annoverare<br />

l’eutanasia fra gli interventi che egli può di sua iniziativa<br />

predisporre nei confronti del paziente, avrebbe inoltre conseguenze<br />

disastrose sulla relazione medico-malato e su tutta l’etica<br />

professionale del medico. Infatti - come afferma E. Pellegrino<br />

- “l’uccisione intenzionale, se accolta nel corpus dell’etica medica,<br />

distorcerebbe l’etica e gli scopi della relazione terapeutica<br />

almeno sotto tre punti di vista: beneficenza, protezione dell’autonomia<br />

e rispetto della fiducia (“fidelity to trust”)” 87 .<br />

Proprio la categoria interpretativa di relazione, versante esistenziale<br />

della categoria etica di responsabilità, ci permette di<br />

trovare un avvio di risposta alla domanda iniziale, se cioè soddisfare<br />

il desiderio di morte pregresso di un paziente o addirittura<br />

dare di propria iniziativa la morte a un paziente in condizioni<br />

estreme sia davvero la risposta più corretta al dramma proposto<br />

dalle esistenze ridotte ai limiti dell’umano. Lo stato vegetativo<br />

persistente è miserevole esempio di tale condizione marginale<br />

dal punto di vista della dignità, anche se non forse della sofferenza.<br />

La priorità del tu rispetto all’io fonda nella relazionalità interumana<br />

e non nella pura autodeterminazione la possibilità<br />

dell’esistere e dell’attuarsi di ciascuno come persona, di modo<br />

che prendersi cura dell’altro e tutelare la sua esistenza, nella mi-<br />

86 CONGR. DOTTR. FEDE, Istr. Donum Vitae, 22-2-1987, Introduzione, n. 4,<br />

in AAS 80 (1998), 76.<br />

87 PELLEGRINO E. D., Intending the Patient’s Death. Conceptual and Practical<br />

Issues for the Ethics of Clinical Decision-making, in ROMANO C., GRASSA-<br />

NI G. curr., Bioetica, Torino 1995, 420.


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 409<br />

sura del ragionevole, rappresenta la sostanza di un agire moralmente<br />

responsabile che mi libera da una autoreferenzialità annichilente<br />

88 . Noi riteniamo che, anche quando si sia spenta l’autocoscienza<br />

del proprio esistere personale, l’essere umano resti<br />

un possibile referente di responsabilità per coloro che se ne<br />

prendono cura e che lo fanno, in qualche modo, a nome della società<br />

di cui quel soggetto era e - finché vive - è parte. Se pertanto<br />

una società ritiene di dover difendere il valore della vita umana,<br />

deve impegnarsi a difenderla e tutelarla anche dove essa raggiunge<br />

i suoi confini, senza introdurre utili, ma alla fine pericolose,<br />

distinzioni assiologiche fra le esistenze e soprattutto senza<br />

estromettere, con la violenza, dalla rete delle relazioni umane<br />

coloro che dal concepimento alla morte ne sono parte integrante.<br />

Solo a queste condizioni è possibile salvaguardare integro il<br />

senso e il valore di ogni vita umana. “Data la sua grande importanza<br />

simbolica - scrive E. Schockenhoff - che sottolinea la chiara<br />

volontà di una società di tutelare la vita umana, il divieto di<br />

uccidere può a lungo andare assolvere la sua funzione pacificatrice<br />

solo quando venga efficacemente osservato anche in zone<br />

marginali e in situazioni conflittuali” 89 .<br />

Di fronte al malato in stato vegetativo persistente, che con<br />

ogni probabilità non potrà mai più riprendere coscienza di sé e<br />

del mondo, che si consuma come una candela dalla fiamma tremolante,<br />

che logora con la sua resistenza alla morte la pazienza<br />

di coloro che lo servono, avvertiamo forte ed esigente più che<br />

mai la sfida della nostra responsabilità verso la vita. Abbandonarlo<br />

al suo tragico destino e addirittura portare violenza contro<br />

la sua esistenza languente significherebbe privare una creatura<br />

umana della dignità del morire e rinunciare a cogliere nell’ultimo<br />

tratto dell’avventura terrena di un uomo lo schiudersi di una<br />

possibilità di senso. Ha umanamente senso prendersi cura della<br />

88<br />

Sul tema della relazionalità in bioetica, vedere: DONATI P., Le dimensioni<br />

relazionali della bioetica in “Transizione” 8 (1989), 59-72; FURNARI M. G.,<br />

Ethos relazionale e bioetica. Riflessioni alla luce dell’«Evangelium vitae», in<br />

RUSSO G. cur., Evangelium vitae. Commento all’enciclica sulla bioetica, Leumann<br />

(To) 1995, 193-217.<br />

89 SCHOCKENHOFF E., Etica della vita, 353.


410 MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

sua vita fragile e declinante, ha un senso per noi e ha virtualmente<br />

un senso per lui, anche se forse egli non lo saprà mai.<br />

Via Merulana 124<br />

00185 Roma<br />

Italy.<br />

MAURIZIO P. FAGGIONI, ofm<br />

—————<br />

Summary / Resumen<br />

Following a previous article in this review (StMor, 26 (1998) 523-<br />

552), the author continues his analysis of the persistent vegetative state<br />

(PVS) : the personal status of people in this situation was discussed, as<br />

well as the criteria to guide decisions regarding the therapy and help to<br />

be given. In this second article, the author examines first the problem<br />

of who should be the suitable person to take decisions for patients who<br />

find themselves personally incapable of so doing. Particular reference is<br />

made to advance directives and the living will. Then follows a study of<br />

the fundamental question of the disposability of life and, thus, whether<br />

projecting its actual suppression or taking such a decision, either by the<br />

doctor or the person assisting the ill patient, can ever be seen as a reasonable<br />

exercise with respect to personal autonomy and of responsibility<br />

with regard to human life.<br />

En base a un artículo ya publicado en esta revista (StMor 26 (1998)<br />

523-552), el autor continúa su análisis sobre el Estado Vegetativo<br />

Persistente (EVP): estudiaba la situación personal de estas personas, al<br />

igual que los criterios para orientar las decisiones respecto a la terapia<br />

y a las ayudas que se deben proporcionar. En este segundo artículo examina,<br />

en primer lugar, el problema de quién debe ser la persona idónea<br />

para decidir sobre pacientes que se encuentran en la imposibilidad de<br />

hacerlo personalmente. Hace referencia especial a las decisiones previas<br />

y a la voluntad del viviente. Estudia luego la cuestión fundamental de<br />

la disponibilidad de la vida y, por tanto, cuando se planea su actual<br />

supresión o se toma semejante decisión, ya por parte del médico o de la<br />

persona que asiste al paciente, pueden considerarse como un ejercicio


STATO VEGETATIVO PERSISTENTE 411<br />

razonable de autonomía personal y de responsabilidad en cuanto a la<br />

vida humana.<br />

—————<br />

The author is associate Professor of Bioethics at the Alphonsian<br />

Academy.<br />

El autor es profesor adjunto de Bioética en la Academia<br />

Alfonsiana.<br />

—————


413<br />

StMor 37 (1999) 413-429<br />

RÉAL TREMBLAY C.Ss.R.<br />

VARIATIONS THÉRÉSIENNES<br />

SUR LE THÈME DE “L’ENFANT PRODIGUE”<br />

“(Dans l’Évangile) je trouve tout ce<br />

qui est nécessaire à ma pauvre<br />

petite âme. J’y découvre toujours de<br />

nouvelles lumières, des sens cachés<br />

et mystérieux…”<br />

THÉRÈSE DE LISIEUX<br />

Le titre de ces pages convient exactement au type d’exégèse<br />

que Thérèse fait de la péricope biblique de “l’enfant prodigue”<br />

(cf. Lc 15, 11-32) que l’on sait lui tenir particulièrement à coeur.<br />

Les variations musicales par exemple ont toujours comme<br />

point de départ un thème à ligne mélodique réduite à l’essentiel<br />

et, par là, parfaitement identifiable. Pensons entre bien d’autres<br />

modèles aux Goldberg-Variationen de J.-S. Bach. En tête de<br />

l’opus qui porte justement ce nom 1 , le compositeur met bien en<br />

évidence le thème qui servira de base aux trente modifications<br />

d’ordre modal, rythmique, mélodique ou autre qui suivront.<br />

Il en est un peu ainsi pour Thérèse en ce qui a trait à notre<br />

parabole. À l’horizon de sa pensée, il y a le texte évangélique en<br />

sa ligne de fond que, pratiquement, elle suppose connu de ses<br />

lecteurs. Tantôt elle le cite en filigrane et y fait allusion comme<br />

à un tout; tantôt elle en retient un aspect accompagné<br />

ordinairement d’une citation explicite. Dans les deux cas, elle y<br />

rattache des commentaires variés et très personnels qui ouvrent<br />

des perspectives souvent neuves dans l’histoire de<br />

l’interprétation de cette parabole.<br />

Dans les pages qui vont suivre, nous voudrions les recueillir<br />

1<br />

Pour plus de détails sur ce point, voir les considérations critiques de<br />

G. CANTAGREL publiées dans la pochette du disque de la compagnie<br />

Astrée/France: Johann Sebastian Bach, Variations Goldberg (interpr. Blandine<br />

Verlet), 1993, 4-7.


414 RÉAL TREMBLAY<br />

pour compléter les réflexions faites ailleurs 2 et ainsi démontrer<br />

avec une évidence encore plus grande la signification qu’un<br />

aspect non marginal de sa contribution doctrinale peut prendre<br />

dans l’hodie de grâce d’une l’Église et d’un monde sur le point de<br />

franchir le nouveau millénaire.<br />

Nous procèderons en trois étapes en nous laissant guider en<br />

grande partie par Thérèse elle-même et en tenant compte, là où<br />

ce sera nécessaire pour la clarté de la pensée, de la chronologie<br />

des textes. Dans les deux premières, nous fixerons notre<br />

attention sur les protagonistes de la parabole, entendons sur les<br />

deux fils d’abord (I) et sur le père ensuite (II), en les considérant<br />

comme points de cristallisation de la réflexion de notre docteur.<br />

Dans la troisième, nous tenterons de tirer quelques lignes<br />

majeures de l’interprétation thérésienne du texte sacré pour<br />

ensuite les mesurer aux résultats essentiels de l’exégèse<br />

scientifique (III).<br />

I. Les deux “fils” de la parabole<br />

À titre de préliminaire, notons l’habitude de Thérèse<br />

d’inscrire, comme des fils en un tissu, les textes scripturaires les<br />

plus estimés d’elle dans la trame concrète du quotidien. Que ce<br />

soit implicitement ou explicitement, la Bible a toujours chez elle<br />

un rapport immédiat à la vie, la sienne et celle des autres qui lui<br />

sont proches. Symptomatique à cet égard est l’usage qu’elle fait<br />

d’un extrait de la “prière sacerdotale” de Jésus (Jn 17, 4-24). Se<br />

voyant arrivée à la fin de sa vie terrestre et désirant que ceux que<br />

Dieu a confiés à sa sollicitude de contemplative soient en<br />

quelque sorte associés à sa destinée éternelle (juillet 1897), elle<br />

coule sa prière en celle du Seigneur au point d’en modifier<br />

grammaticalement le texte et ainsi de se substituer à la personne<br />

même de Jésus: “«Mon Père, je souhaite qu’où je serai, ceux que<br />

vous m’avez donnés y soient avec moi, et que le monde<br />

2<br />

R. TREMBLAY, Brèves réflexions sur la signification du doctorat de Thérèse<br />

de Lisieux pour le message moral de l’Église d’aujourd’hui, dans StMor<br />

36(1998), 577-586.


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 415<br />

connaisse que vous les avez aimés comme vous m’avez aimée<br />

moi-même»” 3 .<br />

L’audace dont Thérèse fait preuve ici nous conduit<br />

directement à la première tranche de notre recherche.<br />

1. Le fils aîné<br />

À la suite du passage à peine cité, Thérèse écrit:<br />

“Oui Seigneur, voilà ce que je voudrais répéter après vous,<br />

avant de m’envoler en vos bras. C’est peut-être de la témérité?<br />

Mais non depuis longtemps vous m’avez permis d’être<br />

audacieuse avec vous, comme le père de l’enfant prodigue<br />

parlant à son fils aîné, vous m’avez dit: «Tout ce qui est à moi est<br />

à toi.» Vos paroles, ô Jésus, sont donc à moi et je puis m’en servir<br />

pour attirer sur les âmes qui me sont unies les faveurs du Père<br />

Céleste” 4 .<br />

Vouloir répéter sous cette forme la prière du Seigneur est-il<br />

“téméraire”? Thérèse se pose la question et y répond par la<br />

négative en évoquant justement la figure du fils aîné de la<br />

parabole. Lui qui n’a pas, comme le fils cadet, quitté la maison<br />

paternelle mais qui y est resté, il s’entend dire par le père: “Toi,<br />

mon enfant, tu es toujours avec moi et tout ce qui est à moi est<br />

à toi” (Lc 15, 31). Il est important ici de bien identifier le noyau<br />

de la pensée. Thérèse n’insiste pas directement sur l’opposition<br />

entre rester à la maison ou la quitter, ni sur la supériorité, en<br />

raison de sa fidélité, de l’aîné sur le cadet. Elle table plutôt sur le<br />

fait d’être pleinement de la maison et, par là, d’être propriétaire<br />

de ce qui appartient (les paroles de Jésus) au père (ici identifié à<br />

Jésus 5 ). Dans cette foulée, elle ajoute qu’elle peut disposer de ces<br />

biens pour faire descendre sur les personnes qui lui sont<br />

confiées la bienveillance du Père du ciel. C’est de cette manière<br />

3<br />

Manuscrit C 34v o , dans THÉRÈSE DE L’ENFANT-JÉSUS ET DE LA SAINTE-FACE,<br />

Oeuvres complètes, Paris, 1996, 282. (C’est moi qui souligne).<br />

4<br />

Ibid. (C’est Thérèse qui souligne).<br />

5<br />

Nous reviendrons sur ce point un peu plus bas.


416 RÉAL TREMBLAY<br />

que Thérèse justifie son audace dont elle est parfaitement<br />

consciente. Comme l’aîné de la parabole, elle est de la famille et,<br />

à ce titre, ce qui est au père est à elle. Elle peut donc oser se<br />

comporter comme propriétaire du bien paternel et en user pour<br />

l’avantage de ses amis.<br />

Dans une situation bien différente, Thérèse justifie son<br />

audace en se mettant, sans le dire explicitement, à la place du<br />

fils aîné de la parabole. Au cours de sa visite de l’Église de la<br />

Sainte-Croix-de-Jérusalem à Rome (novembre 1887), elle<br />

raconte avoir “coulé (son) petit doigt dans un des jours du<br />

reliquaire” et ainsi avoir pu “toucher au clou qui fut baigné du<br />

sang de Jésus …”. Et elle ajoute dans le récit qu’elle fait de cette<br />

épisode en 1895:<br />

“J’étais vraiment par trop audacieuse!… Heureusement le<br />

bon Dieu qui voit le fond des coeurs sait que mon intention était<br />

pure et que pour rien au monde je n’aurais voulu lui déplaire,<br />

j’agissais avec Lui comme un enfant qui se croit tout permis et<br />

regarde les trésors de son Père comme les siens” 6 .<br />

C’est au fond une donnée en substance identique à la<br />

précédente qui s’affirme ici, celle d’être enfant de la maison et de<br />

pouvoir en conséquence considérer les biens du père comme<br />

siens et les utiliser à sa guise, n’excluant même pas une certaine<br />

démesure.<br />

Dans une lettre à Céline datée du 6 juillet 1893, Thérèse<br />

s’identifie encore au fils aîné de la parabole, mais pour des<br />

motifs différents des cas précédents. Comme elle est en train de<br />

passer par une période de sécheresse spirituelle, elle se compare<br />

au premier-né de la famille pour dire qu’elle n’a pas besoin,<br />

comme le fils cadet, du “festin” qui lui est offert pour marquer<br />

son retour à la maison paternelle. Elle est toujours avec<br />

Jésus/père. Voilà sa joie par-delà ses peines!<br />

“Ta Thérèse ne se trouve pas dans les hauteurs à ce moment<br />

mais Jésus lui apprend «A tirer profit de tout, du bien et du mal<br />

6<br />

Manuscrit A 66r o -v o , dans o.c., 181. (C’est Thérèse qui souligne).


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 417<br />

qu’elle trouve en soi». Il lui apprend à jouer à la banque de<br />

l’amour ou plutôt, non Il joue pour elle sans lui dire comment Il<br />

s’y prend car cela est son affaire et non pas celle de Thérèse, ce<br />

qui la regarde c’est de s’abandonner, de se livrer sans rien<br />

réserver, pas même la jouissance de savoir combien la banque lui<br />

rapporte. Mais après tout elle n’est pas l’enfant prodigue, ce n’est<br />

donc pas la peine que Jésus lui fasse un festin «puisqu’elle est<br />

toujours avec Lui»” 7 .<br />

Ailleurs elle s’identifie encore implicitement au fils aîné qui<br />

jouit de tous les biens de son père pour dire qu’elle possède plus<br />

que le fils prodigue pourtant lui aussi objet de l’amour de Jésus<br />

et principal invité d’un “festin splendide” offert pour souligner<br />

son repentir (vs 1):<br />

“Jésus avec amour tu reçois le prodigue<br />

Mais les flots de ton Coeur pour moi n’ont pas de digue<br />

Mon Bien-Aimé, mon Roi<br />

Que tes biens sont à moi<br />

Rappelle-toi” 8 .<br />

Sans aucune allusion explicite à la figure de la parabole,<br />

l’idée d’être en possession de tous les biens de Jésus/père revient<br />

dans une récréation pieuse de juillet 1895. En l’occurrence, c’est<br />

Jésus lui-même qui répond à Marthe qui lui demande ce qu’elle<br />

peut espérer dans l’au-delà après tous les travaux faits pour lui:<br />

“Au Ciel ma gloire sera vôtre/Et tous mes biens seront à vous” 9 .<br />

Comme on l’aura sans doute remarqué, ces cinq renvois plus<br />

ou moins explicites au fils aîné de la parabole de Luc marquent<br />

une certaine évolution dans la pensée thérésienne. Au point de<br />

départ, l’allusion à cette figure sert à traduire la conviction de<br />

Thérèse de faire partie de la famille de Dieu. Fille de la maison,<br />

elle prend ensuite conscience que ce qui appartient au “père” lui<br />

appartient aussi. De là, elle comprend qu’elle peut user, pour<br />

7<br />

Lettre 142 1v o , dans o.c., 464. (C’est Thérèse qui souligne). Remarquons<br />

encore ici l’application du texte scripturaire à sa situation.<br />

8<br />

Poésie 24, str. 18, vs 5-9, dans o.c., 697.<br />

9<br />

Récréation pieuse 4 4v o , dans o.c., 871.


418 RÉAL TREMBLAY<br />

elle-même et pour les autres, des biens paternels comme elle<br />

l’entend 10 , sans exclure même une certaine audace 11 .<br />

2. Le fils cadet<br />

Selon son habitude d’entremêler les textes scripturaires à la<br />

vie, Thérèse a déjà parlé du fils cadet de la parabole pour dire<br />

qu’elle ne s’y identifiait pas. Elle revient à la charge dans un<br />

passage théologiquement très dense du Manuscrit A (1895).<br />

Lisons d’abord le texte avant de le commenter brièvement:<br />

“A moi Il (le Bon Dieu) a donné sa Miséricorde infinie et c’est<br />

à travers elle que je contemple et adore les autres perfections<br />

Divines!… Alors toutes m’apparaissent rayonnantes d’amour, la<br />

Justice même (et peut-être encore plus que toute autre) me<br />

semble revêtue d’amour…<br />

Quelle douce joie de penser que le Bon Dieu est Juste, c’està-dire<br />

qu’Il tient compte de nos faiblesses, qu’Il connaît<br />

parfaitement la fragilité de notre nature. De quoi donc aurais-je<br />

peur? Ah! le Dieu infiniment juste qui daigna pardonner avec<br />

tant de bonté toutes les fautes de l’enfant prodigue, ne dit-il pas<br />

être Juste aussi envers moi qui «suis toujours avec Lui»?…<br />

Cette année le 9 juin fête de la Sainte Trinité, j’ai reçu la<br />

grâce de comprendre plus que jamais combien Jésus désire être<br />

aimé” 12 .<br />

Dieu juste ou Dieu Amour? Thérèse refuse de se voir<br />

entraînée dans ce dilemme. Nous savons que, dans les carmels<br />

10<br />

Cf. Manuscrit C 33v o , dans o.c., 280.<br />

11<br />

Attitude de Thérèse qui se manifeste surtout dans ses rapports avec<br />

Dieu et qui est directement proportionnelle à la conscience qu’elle a d’être<br />

fragile et faible. Cf. en plus des textes cités en ces pages: Manuscrit A 48v o ,<br />

dans o.c., 148; Manuscrit B 3v o , 5r o , dans o.c., 226. 230; etc.<br />

12<br />

Manuscrit A 83v o -84r o , dans o.c., 211-212. (C’est Thérèse qui<br />

souligne).


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 419<br />

français du temps de Thérèse et même au carmel de Lisieux, on<br />

insistait beaucoup sur la justice de Dieu. Nous savons également<br />

qu’il y existait - et Thérèse le note explicitement - des “âmes qui<br />

s’offr(aient) comme victimes à la Justice de Dieu afin de<br />

détourner et d’attirer sur elles les châtiments réservés aux<br />

coupables” 13 .<br />

La jeune carmélite brille ici par son équilibre. Elle ne nie pas<br />

que Dieu soit “infiniment juste”. Mais elle choisit de contempler<br />

cette “perfection divine” à travers la “miséricorde infinie” qui lui<br />

semble encore plus fondamentale. Cela la conduit à comprendre<br />

la justice non pas en termes d’exigence et de punition, mais en<br />

termes de prise en compte de “la fragilité de la nature” humaine.<br />

Dès lors, il n’y a pas de place pour la “peur”.<br />

Thérèse reconnaît le fondement scripturaire de sa réflexion<br />

dans l’attitude de Dieu face à l’enfant prodigue, attitude qu’elle<br />

s’applique ensuite par contraste. Si Dieu pardonne avec tant de<br />

bonté (Dieu est Amour) au fils cadet dont il mesure pourtant<br />

exactement la faiblesse (Dieu est juste), ne doit-il pas a fortiori<br />

exercer le même type de justice à l’égard de celui qui ne l’a<br />

jamais quitté, entendons le fils aîné auquel s’identifie Thérèse?<br />

Comme objet de la justice amoureuse de Dieu, Thérèse se<br />

rattache encore ici au fils aîné de la parabole, mais à partir du<br />

cadet qui lui sert, pour ainsi dire, de contrefort. Si Dieu se<br />

comporte avec tant d’amour à l’égard de celui qui l’a quitté et<br />

donc qui mérite moins, selon quelle intensité d’amour se<br />

comportera-t-il envers celui qui est resté et donc qui mérite<br />

plus?<br />

13<br />

Ibid., 84r o , dans o.c., 212. À l’appui de la constatation de Thérèse,<br />

l’auteur des notes ajoutées à L’Offrande de moi-même comme Victime<br />

d’Holocauste à l’Amour Miséricordieux du Bon Dieu (Pri, 6) fait l’observation<br />

suivante qu’il n’est pas sans importance de transcrire ici: “On peut se<br />

demander si, le 9 juin 1895, Thérèse ne pense pas plus particulièrement à<br />

cette soeur Marie de Jésus, carmélite de Luçon, dont la circulaire vient<br />

justement d’arriver à Lisieux le 8 juin. Cette soeur «s’est bien souvent offerte<br />

comme victime à la Justice divine», révèle sa circulaire. Son agonie le<br />

Vendredi Saint 1895 est terrible. La mourante laisse échapper ce cri<br />

d’angoisse: «Je porte les rigueurs de la Justice divine… la Justice divine!… la<br />

Justice divine!…» Et encore: «Je n’ai pas assez de mérites, il faut en acquérir.»<br />

Le récit est impressionnant, il a pu frapper les auditrices” o.c., 1446.


420 RÉAL TREMBLAY<br />

Deux textes rédigés par une Thérèse désormais aux portes de<br />

la mort nous parlent encore du fils cadet de la parabole. Le<br />

premier (début juillet 1897) renvoie pratiquement aux toutes<br />

dernières lignes du Manuscrit C. Il se lit comme suit:<br />

“Ce n’est pas à la première place, mais à la dernière que je<br />

m’élance, au lieu de m’avancer avec le pharisien, je répète,<br />

remplie de confiance, l’humble prière du publicain, mais surtout<br />

j’imite la conduite de Madeleine, son étonnante ou plutôt son<br />

amoureuse audace qui charme le Coeur de Jésus, séduit le mien.<br />

Oui je le sens, quand même j’aurais sur la conscience tous les<br />

péchés qui se peuvent commettre, j’irais le coeur brisé de<br />

repentir me jeter dans les bras de Jésus, car je sais combien Il<br />

chérit l’enfant prodigue qui revient à Lui. Ce n’est pas parce que<br />

Le bon Dieu, dans sa prévenante miséricorde a préservé mon<br />

âme du péché mortel que je m’élève à Lui par la confiance et<br />

l’amour” 14 .<br />

Thérèse affirme ici la conscience qu’elle a de l’amour que<br />

Jésus porte au fils prodigue qui se convertit, amour qui se<br />

présente comme l’assise inébranlable de sa confiance envers<br />

Dieu 15 . Cela est si vrai que même coupable des pires péchés elle<br />

irait sans hésitation se jeter, comme le cadet de la parabole, dans<br />

les bras du père/Jésus. Thérèse s’identifie donc ici<br />

14<br />

Manuscrit C 36v o -37r o , dans o.c., 285. (C’est Thérèse qui souligne).<br />

15<br />

Intéressant ce témoignage de Marie de la Trinité lors du procès de<br />

l’Ordinaire: “Je lui fis de la peine un jour en ne voulant pas reconnaître les<br />

torts qu’elle me reprochait. La cloche nous appelant, nous nous quittâmes<br />

brusquement pour nous rendre à une réunion de communauté. Je<br />

commençai alors à regretter ma conduite et m’approchant d’elle, je lui dis<br />

tout bas: «J’ai été bien méchante tout à l’heure...». Je ne lui en dis pas<br />

davantage et je vis aussitôt ses yeux se remplir de larmes. Me regardant avec<br />

beaucoup de tendresse, elle me dit: «... Non, jamais je n’ai senti si vivement<br />

avec quel amour Jésus nous reçoit quand nous lui demandons pardon après<br />

l’avoir offensé. Si moi, sa pauvre petite créature, j’ai senti tant d’amour pour<br />

vous au moment où vous êtes revenue à moi, que doit-il se passer dans le<br />

coeur du bon Dieu quand on revient vers lui?…»” Procès de béatification et<br />

canonisation de Sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus et de la Sainte-Face. I. Procès<br />

informatif ordinaire, Rome, 1973, 455.


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 421<br />

hypothétiquement au fils prodigue en tant qu’il est le réceptacle<br />

du pardon illimité de Dieu. Dans ces conditions, c’est selon la<br />

logique la plus stricte qu’elle précise ce qui suit: ce n’est pas<br />

l’oeuvre de Dieu en sa faveur ou le fait d’avoir été protégée du<br />

péché mortel par la “prévenante miséricorde” de Dieu qui la<br />

rend confiante comme le publicain ou audacieuse comme<br />

Madeleine. C’est Dieu lui-même, plus précisément Jésus en sa<br />

bonté sans mesure envers les pécheurs.<br />

Un autre texte pratiquement de la même époque (26 juillet<br />

1897) vient confirmer et compléter ce passage où en définitive<br />

Thérèse centre toute son existence sur l’amour miséricordieux<br />

de Dieu. Elle parle en l’occurrence de la “joie” qu’éprouve le<br />

Seigneur à pardonner et des conditions nécessaires pour “jouir<br />

(des) trésors” de “l’amour miséricordieux de Jésus” comme la<br />

demande de pardon, l’humilité, etc. Remarquons en passant<br />

l’importance conférée à la joie que l’on retrouve aussi bien chez<br />

Dieu qui pardonne que chez l’homme qui reçoit son pardon:<br />

“Pour ceux qui aiment (Jésus) et qui viennent après chaque<br />

indélicatesse Lui demander pardon en se jetant dans ses bras,<br />

Jésus tressaille de joie, Il dit à ses anges ce que le père de l’enfant<br />

prodigue disait à ses serviteurs: «Revêtez-le de sa première robe,<br />

mettez-lui un anneau au doigt, réjouissons-nous.» Ah! mon<br />

frère, que la bonté, l’amour miséricordieux de Jésus sont peu<br />

connus!… Il est vrai que pour jouir de ces trésors, il faut<br />

s’humilier, reconnaître son néant, et voilà ce que beaucoup<br />

d’âmes ne veulent pas faire, mais (…) ce n’est pas ainsi que vous<br />

agissez, aussi la voie de la confiance simple et amoureuse est<br />

bien faite pour vous” 16 .<br />

La figure de l’enfant prodigue est encore ici le point de<br />

référence de la pensée. La joie de Dieu et des anges avec lui 17<br />

vient du fait qu’il retrouve son fils perdu et qu’il lui donne accès<br />

16<br />

Lettre 261 2r o , dans o.c., 619. (C’est Thérèse qui souligne).<br />

17<br />

“Rappelle-toi de la fête des Anges,/ Rappelle-toi de l’harmonie des<br />

Cieux/ Et de la joie des sublimes phalanges/ Lorsqu’un pécheur vers toi lève<br />

les yeux” Poésie 24, str. 16, v. 1-4, dans o.c., 696.


422 RÉAL TREMBLAY<br />

à ses “trésors”. La joie du fils en revanche vient du fait qu’il est,<br />

en dépit de son indignité reconnue, le dépositaire des “trésors”<br />

paternels. Malgré ses faiblesses et à la condition de reconnaître<br />

“son néant” 18 , l’interlocuteur de Thérèse pourra donc s’engager<br />

sur “la voie de la confiance simple et amoureuse”.<br />

Récapitulons. Alors que dans le premier texte Thérèse<br />

s’identifie encore au fils aîné de la parabole considéré comme<br />

objet de la justice amoureuse de Dieu et qu’elle le fait en se<br />

démarquant de la sorte du fils cadet comme le plus du moins,<br />

dans le second texte elle s’identifie plutôt au fils prodigue.<br />

Pourquoi ce changement de perspective? C’est que son point de<br />

référence n’est plus le même en ce sens que ce n’est plus l’oeuvre<br />

de Dieu accomplie en sa faveur qui a priorité, mais Dieu luimême<br />

dans l’exercice de sa miséricorde. Le raisonnement est en<br />

substance le suivant: puisque Dieu est d’autant plus lui-même,<br />

c’est-à-dire Amour, qu’il a devant lui un homme qui se reconnaît<br />

faible et besogneux de tout 19 , elle n’hésite pas à s’identifier au<br />

cadet, même au pire des pécheurs, pour laisser à Dieu la joie<br />

d’être lui-même. Dans le troisième texte, on est mis en présence<br />

de la même conception de la divinité comme de l’invitation<br />

pressante adressée à son correspondant de permettre à Dieu<br />

d’être Dieu en son égard. Présente en sourdine est l’idée, déjà<br />

rencontrée dans le paragraphe précédent, de la possession ou de<br />

la jouissance des “trésors” de Jésus cette fois-ci cependant<br />

attribuée au cadet.<br />

18<br />

Cette expression de Thérèse dans le présent contexte n’est pas le<br />

résultat du hasard ou de la stéréotypie. En témoigne ce qu’elle écrit en<br />

rapport avec son “Offrande à l’Amour miséricordieux”: “Oui, pour que<br />

l’amour soit satisfait, il faut qu’Il s’abaisse jusqu’au néant et qu’il transforme<br />

en feu ce néant…” Manuscrit B 3v o , dans o.c., 227. (C’est Thérèse qui<br />

souligne).<br />

19<br />

Est-ce à dire que Thérèse favoriserait l’image d’un Dieu qui aurait<br />

besoin d’un homme écrasé pour être ce qu’il est? Certes non! Mais d’un Dieu<br />

qui ne peut rien faire pour l’homme qui ne vit pas dans la vérité ou dans la<br />

reconnaissance de ce qu’il est? Certes oui! Dans la pensée thérésienne,<br />

l’amour et la vérité s’embrassent toujours.


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 423<br />

II. Le “père” de la parabole<br />

Il est étonnant de constater que le père de la parabole<br />

lucanienne n’est jamais, pour Thérèse, le Père céleste ou le Père<br />

de Jésus, mais Jésus lui-même 20 . Cela est d’autant plus frappant<br />

que le texte scripturaire oriente spontanément la pensée vers la<br />

figure du “Père qui est aux cieux” qui du reste est loin d’être<br />

absente de la pensée thérésienne 21 . Qu’est-ce qui pourrait<br />

expliquer ce fait? Après réflexion, nous pensons qu’il faille<br />

recourir aux rapports de Thérèse à son père de la terre 22 . Ces<br />

rapports furent en son cas si intimes et si profonds qu’ils lui<br />

serviront, une fois devenue religieuse, de lentilles à travers<br />

lesquelles elle considèrera son amour pour Dieu envisagé aussi<br />

bien comme Père que comme Fils 23 .<br />

Lors de la mort de Monsieur Martin survenue le 29 juillet<br />

1894, Thérèse écrit à sa soeur Céline cette phrase qui en dit long<br />

dans la ligne de ce que nous venons de suggérer: “Il (Jésus) nous<br />

a pris celui que nous aimions avec tant de tendresse […], mais<br />

n’est-ce pas afin que nous puissions dire véritablement: «Notre<br />

Père qui êtes dans les Cieux»” 24 . L’amour filial de Thérèse pour<br />

son père terrestre est, maintenant qu’il a quitté cette terre,<br />

reporté au Père céleste et vécu en une relation renouvelée, voire<br />

même plus authentique avec lui. Soit qu’elle parle du Père à<br />

travers des textes bibliques qui le mentionnent explicitement 25 ,<br />

soit qu’elle le nomme elle-même, comme en cette expression<br />

20<br />

Voir les textes à peine cités. - Même si, à première vue, le passage du<br />

Manuscrit A transcrit plus haut (cf. à la note 6) pouvait laisser planer un<br />

doute sur cette affirmation, rien ne nous autorise à penser que ce texte soit<br />

de teneur différente que les autres de même venue.<br />

21<br />

Cf. Manuscrit A 75v o , dans o.c., 197; Manuscrit C 19v o , 28v o , dans o.c.,<br />

260.273; etc.<br />

22<br />

Cf. Manuscrit A 14v o , 17r o -v o , 21r o -v o , 50r o , 55r o , 57v o , 59r o , 69r o , 73r o ,<br />

dans o.c., 91.96.102.151.161.165.168.185-186.192.<br />

23<br />

Sur ce rapport entre la nature et le surnaturel chez Thérèse, nous<br />

suivons H.U VON BALTHASAR, Therese von Lisieux. Geschichte einer Sendung,<br />

Leipzig, 1958, 109 (ouvrage déjà publié en 1950 à Olten). Par contre voir: A.<br />

COMBES, Sainte Thérèse de Lisieux et sa mission, Paris, 1954, 218-219.<br />

24<br />

Lettre 127 v o , dans o.c., 437.<br />

25<br />

Voir par exemple Manuscrit C 34r o -v o , dans o.c., 281.


424 RÉAL TREMBLAY<br />

proche de l’“Abba” de Rm 8, 15 26 , “Papa le bon Dieu” 27 , tous ces<br />

textes et particulièrement ceux qui évoquent le type de son<br />

rapport avec le Père sont à interpréter dans la foulée de son<br />

expérience humaine de la paternité de son “papa” de la terre.<br />

La même observation pourrait être faite à l’égard de l’amour<br />

qu’elle témoigne au Fils. Le prouve le fait qu’elle comprend la<br />

maladie de son père terrestre à travers la figure du “Serviteur”<br />

souffrant d’Is 53 28 . Si la passion de Monsieur Martin lui rappelle<br />

tout spontanément celle du Christ, il n’y a rien d’étonnant à ce<br />

que la figure du Christ qu’elle aime soit en retour associée à celle<br />

de son père. Ce raccord se justifie d’autant plus qu’il est question<br />

en l’occurrence de la miséricorde infinie de Jésus et qu’entre elle<br />

et la bonté presque légendaire de son père de la terre 29 il y a<br />

profonde similitude 30 . Nous retrouvons ainsi le rapprochement<br />

père/Jésus de la parabole lucanienne accompagné d’une<br />

explication qui fait qu’il ne détonne plus ou détonne un peu<br />

moins.<br />

À ce sujet, ne peut-on pas faire un pas de plus et voir se<br />

profiler en filigrane sous la figure du père/Jésus du texte biblique<br />

la présence du Père? Si Jésus est considéré par Thérèse comme<br />

“père” en raison de l’expérience qu’elle fait de l’amour de son<br />

père de la terre et que la même expérience détermine ses<br />

rapports filiaux avec le Père du ciel, serait-ce mal à propos de<br />

penser que le “père” de la parabole est pour elle le lieu d’une<br />

superposition des deux personnes divines? On pourrait trouver<br />

un appui scripturaire à cette hypothèse dans le fait que Thérèse<br />

n’accorde aucune attention au titre “Père à jamais” 31 attribué à<br />

26<br />

Qu’elle connaît et qu’elle cite explicitement dans un autre contexte: cf.<br />

Manuscrit C 19v o , dans o.c., 260.<br />

27<br />

Cahier Jaune, 5.6.4, dans o.c., 1009.<br />

28<br />

Cf. Manuscrit A 20v o , 73r o , dans o.c., 101.192. Sur l’importance de ce<br />

passage d’Isaïe dans la spiritualité thérésienne et sur son lien avec le culte de<br />

la Sainte-Face, voir la note 321 de l’o.c., 1266.<br />

29<br />

Voir Manuscrit A 13v o , dans o.c., 89.<br />

30<br />

Voir le texte impressionnant de ce point de vue dans la Lettre 258 2r°-<br />

2v o , dans o.c., 615.<br />

31<br />

Comme c’est aussi le cas par exemple pour l’expression “mes petits<br />

enfants” de Jn 13, 33 qu’elle ne cite pas. Par contre, elle cite Jn 21, 5: “les


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 425<br />

l’Enfant de la prophétie messianique d’Is 9, 5 alors qu’elle en<br />

retient les titres “Dieu fort” et “Prince de la paix” 32 . Autant dire<br />

qu’il y aurait chez elle une espèce de souplesse dans l’attribution<br />

de la paternité de la parabole à Jésus, souplesse qui lui<br />

permettrait de voir apparaître comme en arrière-plan ou comme<br />

en une seconde profondeur les traits du Père à travers ceux de<br />

son Fils. “Qui m’a vu a vu le Père”, dit Jésus à Philippe (Jn 14, 9).<br />

Même si Thérèse ne cite jamais explicitement cette parole de<br />

Jésus dans son oeuvre, on pourrait penser en l’occurrence qu’elle<br />

l’a bel et bien transcrite, mais dans la trame de son existence.<br />

III. L’opus thérésien et l’exégèse scientifique<br />

Avant de passer à l’exégèse dans le but indiqué plus haut, il<br />

convient d’attirer l’attention sur les traits majeurs qui émergent<br />

des “variations” de Thérèse sur le texte lucanien. Ces traits<br />

feront bien voir que nous nous trouvons en présence d’un opus<br />

parfaitement identifiable et jouissant, en dépit de sa brièveté,<br />

d’une densité théologique de nature à lui conférer une place de<br />

choix dans l’ensemble du corpus doctrinal thérésien.<br />

Trois motifs mélodiques principaux pourraient être dégagés<br />

de la réflexion de notre docteur.<br />

Un premier consiste dans la prise de conscience de plus en<br />

plus vive que “Dieu est Amour” (1 Jn 4, 8.16) et qu’il prend<br />

plaisir à faire miséricorde à ceux qui le lui demandent. Tous les<br />

attributs de Dieu, y compris sa justice, doivent être considérés<br />

sous cet angle.<br />

Un second motif mélodique se réfère à l’homme objet de<br />

cette miséricorde. Moyennant l’humble reconnaissance de son<br />

état véritable, cet homme est réintroduit dans l’intimité de Dieu<br />

à titre de fils. Cela vaut surtout pour le cadet qui, en raison<br />

justement du Dieu de la miséricorde, est mis en possession,<br />

enfants, avez-vous du poisson?” sans lui attacher une importance<br />

particulière (cf. Lettre 161 v o , dans o.c., 494).<br />

32<br />

“Dieu fort”: cf. Lettre 213 1v o , dans o.c. 569; Lettre 220 1r o dans o.c.,<br />

575. “Prince de la paix”: cf. Poésie 24, str. 23, v. 7, dans o.c., 698; Récréation<br />

pieuse 6 2v o , 8v o , dans o.c., 891.906.


426 RÉAL TREMBLAY<br />

comme l’aîné, de tous les “trésors” paternels et peut en disposer<br />

comme bon lui semble, non pas pour les dissiper, mais pour le<br />

salut des frères.<br />

Un troisième motif enfin concerne Jésus qui, en tant que<br />

miséricordieux, est identifié au père de la parabole. Ce rôle<br />

attribué au Fils ne porte pas ombrage ou n’enlève rien au “Père<br />

des miséricordes” (2 Co 1, 3; cf. Ep 2, 4) puisque, en définitive, il<br />

ne fait qu’user des biens de son Père et en manifester la bonté<br />

sans limite à l’égard des pécheurs repentants.<br />

Comment un exégète de métier réagirait-il devant cet opus<br />

thérésien? Le jugerait-il fidèle ou non aux intentions profondes<br />

du texte sacré? Sa réponse pourrait-elle être à la fois oui et non<br />

en ce sens par exemple que, tout en étant fidèle à des éléments<br />

centraux de la parabole, Thérèse en aurait laissé d’autres<br />

importants dans l’ombre au profit d’accentuations bien à elle<br />

plus suggérées qu’explicitement affirmées par le texte biblique?<br />

Pour en savoir plus long sur ce point, ouvrons un commentaire<br />

autorisé de l’Évangile de Luc.<br />

La lecture attentive du commentaire de Ernst par exemple 33<br />

laisse clairement voir que Thérèse a visé juste en choisissant<br />

cette parabole pour présenter Dieu sous les traits de la<br />

miséricorde. “Le thème prioritaire (de la parabole), écrit-il après<br />

avoir considéré divers types d’interprétation sur ce point, est<br />

avant comme après l’amour sans limite de Dieu. «Ainsi est Dieu,<br />

si bon, si bienveillant, si riche en miséricorde, si débordant<br />

d’amour» (Jeremias)”. Et il ajoute un peu plus loin: “À sa façon,<br />

Luc a donné une forme à «l’évangile dans l’évangile» que Paul a<br />

porté à la formulation «la justification du pécheur par grâce»” 34 .<br />

Thérèse a encore visé juste lorsqu’elle insiste sur la priorité<br />

et le caractère illimité de l’amour de Dieu qui réinsère dans la<br />

famille le fils qui s’en était séparé et pose ce geste avant même<br />

que le fils le lui demande. Commentant les comportements du<br />

père de la parabole (la course au devant du fils, l’étreinte et le<br />

baiser) (v.20), notre exégète écrit: Ces gestes “font voir à celui qui<br />

revient à la maison qu’il est pleinement accueilli comme fils<br />

33<br />

J. ERNST, Das Evangelium nach Lukas (RNT), Regensburg, 1976 4 .<br />

34<br />

O.c., 455-456. (C’est l’auteur qui souligne et c’est moi qui traduis).


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 427<br />

même avant qu’il ait eu l’opportunité d’avouer sa faute. L’amour<br />

de Dieu va toujours au devant de l’homme” 35 .<br />

Enfin Thérèse a encore visé juste lorsqu’elle a interprété<br />

christologiquement la figure du père de la parabole sans<br />

pourtant séparer Jésus de son Père. Toujours selon notre<br />

exégète, le père du texte biblique se rapporte en premier lieu à<br />

Jésus. En raison de son rapport singulier avec Dieu, il exerce luimême<br />

la miséricorde divine; en vertu de la connaissance qu’il a<br />

de la volonté du Père, il manifeste du même coup “l’attitude de<br />

Dieu le Père” à l’égard de ceux qui se convertissent 36 .<br />

Contrairement à la parabole en revanche, Thérèse ne<br />

s’arrête pas à décrire la situation tragique où aboutit le cadet par<br />

suite de l’abandon de la maison paternelle (v. 15-16) 37 comme<br />

elle ne fait aucune mention de l’incompréhension du fils aîné<br />

devant l’amour miséricordieux du père à l’égard de son fils<br />

converti (v. 29).<br />

De cette dernière partie de la parabole (v. 25-32), elle ne<br />

retient pratiquement que le second membre de la réponse du<br />

père au fils aîné: “…Tout ce qui est à moi est à toi” (v. 31) qu’elle<br />

applique aussi au cadet pardonné.<br />

Ici, me semble-t-il, se trouve la contribution spécifique de<br />

Thérèse à l’interprétation chrétienne de la parabole de Luc: la<br />

certitude d’être en possession de tous les avoirs paternels<br />

35<br />

O.c., 459. (C’est moi qui traduis).<br />

36<br />

Cf. o.c., 456. 460. – Dans son article “Substitution”, J. RATZINGER parle<br />

de cette parabole lucanienne comme d’un texte qui s’étend aux dimensions<br />

de l’ensemble de l’histoire du salut. Il écrit: “À travers le fils perdu qui revient<br />

à la maison apparaît manifestement le monde des nations, qui a poursuivi<br />

pendant des millénaires ses courses errantes loin de la maison du Père, le<br />

Dieu unique, pour se livrer aux fallacieuses réjouissances du service des<br />

idoles et finir par la banqueroute. Dans le frère juste, resté à la maison et<br />

maintenant jaloux, apparaît Israël le juste, qui ne peut tolérer le retour des<br />

païens, la bonté inconditionnelle de Dieu à l’égard des pécheurs, et qui se<br />

sent frustré de la récompense due à une persévérance séculaire dans la foi”<br />

(Encyclopédie de la foi, IV, Paris, 1966, 272). Suggestive en soi, cette idée<br />

n’affleure pourtant à nulle part dans le commentaire de Ernst.<br />

37<br />

Après avoir noté l’indifférence des hommes envers le prodigue, Ernst<br />

continue: “Tiefer konnte er nicht fallen: von den Menschen verlassen und<br />

verachtet, dazu noch ohne den Segen des Gesetzes, für den Juden ist er eine<br />

«Unperson»” o.c., 458.


428 RÉAL TREMBLAY<br />

destinés au service des frères parce que vivement consciente<br />

d’être la fille de “Papa, le bon Dieu”, d’appartenir à sa famille 38 . La<br />

prodigieuse renommée dont est l’objet l’humble carmélite de<br />

Lisieux depuis son retour à la “maison” du Père a montré qu’une<br />

telle contribution n’était pas pure fantaisie…<br />

Via Merulana, 31<br />

C.P. 2458<br />

00185 Roma<br />

Italy.<br />

RÉAL TREMBLAY, C.Ss.R.<br />

—————<br />

Summary / Resumen<br />

In a previous article in this review (StMor 36 (1998), 577-586) we<br />

attempted to reflect on the meaning which the elevation of ThérËse of<br />

Lisieux to the rank of Doctor of the Church (19th October 1997) could<br />

have for moral theology. In its essential elements, the parable of the prodigal<br />

son (Lk 15, 11-32) served us as a guide to discover in the teresian<br />

message the elements of a response to the question posed. In the present<br />

article, we wish to enrich these reflections by considering what the<br />

same sacred text can become once it is shaped by the believing intelligence<br />

of the new Doctor. As in the second panel of a diptych, similar elements<br />

return, for example the “tutiorism” of the loving mercy of God,<br />

but others are added such as the vivid consciousness of being a member<br />

of the Family of the Trinity and of being thus capable of freely availing<br />

of its “treasures”.<br />

En un artículo anterior publicado en esta revista (StMor 36 (1998)<br />

577-586) intentamos reflexionar acerca del significado que podría tener<br />

para la teología moral la elevación de Teresa de Lisieux al rango de doctora<br />

de la Iglesia (19 de octubre de 1997). La parábola del hijo pródigo<br />

(Lc 15, 11-32) nos orientó en sus elementos esenciales para descubrir<br />

38<br />

Mutatis mutandis, on sent résonner ici l’écho de ce que Jean-Baptiste<br />

dit du Seigneur: “Le Père aime le Fils; il a tout remis en sa main” (Jn 3, 35;<br />

cf. 13, 3), avoir paternel ou pouvoir que le Fils est bien conscient de posséder<br />

(cf. Jn 10, 28; 17, 2).


VARIATIONS THÉRÉSIENNES SUR LE THÈME DE “ L ’ ENFANT PRODIGUE ” 429<br />

en el mensaje teresiano las pautas de una respuesta a nuestro interrogante.<br />

Quisiéramos en este artículo enriquecer estas reflexiones, considerando<br />

qué puede quedar del mismo texto sagrado una vez modelado<br />

por la comprensión en la fe de la nueva doctora. Como en el segundo<br />

panel de un díptico, vuelven parecidos elementos, por ejemplo el “tuciorismo”<br />

del amor misericordioso de Dios, pero se añaden otros como el<br />

de la conciencia viva de ser miembro de la familia trinitaria y ser así<br />

capaz de disponer libremente de sus “tesoros”.<br />

—————<br />

The author is Professor of Fundamental Moral Theology at the<br />

Alphonsian Academy.<br />

El autor es profesor titular de moral fundamental en la<br />

Academia Alfonsiana.<br />

—————


431<br />

StMor 37 (1999) 431-451<br />

BRIAN V. JOHNSTONE C.Ss.R.<br />

CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH?<br />

A REPLY TO KARL-WILHELM MERKS<br />

There is an important debate in moral theology or<br />

theological ethics between those who are seeking to revive the<br />

notion of tradition as a basic theme and those who oppose such<br />

a move. An important contribution by Karl-Wilhelm Merks<br />

presents a strong argument for the second view. 1 The purpose of<br />

this article is to offer a case for the first.<br />

Merks’s basic claim is that while tradition has indeed<br />

preserved many positive values, it has also justified things that<br />

we now recognize as evil. Since it is ambiguous, tradition itself<br />

cannot be a source of truth. That is, tradition cannot itself<br />

provide the criterion of the truly good. Where then is this to be<br />

found? Merks argues that the criterion is the human subject,<br />

seeking to give meaning to life, and in so doing experiencing the<br />

self as free and responsible. 2 Thus, the determination of the<br />

criterion of truth in ethics is the task of the responsible freedom<br />

of that subject. 3 The human subject becomes the measure of<br />

ethics in general and of the morality of traditions. Tradition has<br />

a place, but only an instrumental one in that the ethics of the<br />

person can only exist and be communicated within historical<br />

traditions. Tradition, therefore, is a means of moral education,<br />

of the communication of ethical values; it cannot be a<br />

foundation for ethics. 4<br />

In presenting his case, Merks assumes that there is a<br />

meaningful general concept of “tradition” that denotes a special<br />

1 KARL-WILHELM MERKS, “De sirenenzang van de tradities: Pleidooi voor<br />

een universele ethiek,” Bijdragen 58 (1997), 122-143.<br />

2<br />

Ibid., 131, 137.<br />

3<br />

Ibid., 137.<br />

4<br />

Ibid., 132.


432 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

kind of anthropological-cultural reality. He also presumes that<br />

we can know the way in which such realities function or the<br />

laws that govern their behavior. The Catholic tradition he<br />

considers as a special case of tradition, which, while it has<br />

specific characteristics, follows these same laws. All these<br />

presuppositions I would accept. Our positions differ in that<br />

while Merks argues that the laws or characteristic ways of<br />

behavior of tradition are such that it cannot furnish a criterion<br />

of moral truth, I propose to argue that it can.<br />

The debate is not about dogmatic questions, but about a<br />

specific issue in the area of moral theology. In particular it is<br />

concerned with a problem of moral epistemology, namely,<br />

whether or not tradition, and the Catholic tradition as an<br />

instance of tradition, can be a source of moral truth. Merks<br />

argues that it cannot. I will seek to show that this is possible.<br />

The author’ s first criticism of traditions is that they have<br />

brought ruin and destruction to many people. We can begin then<br />

with an analysis of one proven instance where a tradition did<br />

indeed destroy many, namely, when the Catholic tradition<br />

supported the execution of heretics. It may help to remind<br />

ourselves how strong was the support for this practice in the<br />

tradition.<br />

Roman law included burning as a form of summa supplicia,<br />

or maximum punishment. 5 Following Roman Law the penalty<br />

was applied in parts of Europe in the eleventh century. Pope<br />

Gregory IX (1227-1241), in his constitution Excommunicamus<br />

(1231), alligned canon law with the imperial constitution<br />

expressly allowing the burning of heretics. Leo X (1513 - 1521)<br />

in his Bull Exsurge Domine (1520), condemned the opinion of<br />

Luther that burning heretics is against the will of the Spirit. 6<br />

Heretics were executed under the authority of Popes such as<br />

Julius III, Paul IV, Pius V, Gregory XIII, Sixtus V, and Clement<br />

VIII (who ordered Giordano Bruno to be burned). 7 Eminent<br />

5 DENISE GRODZYNSKI, “Tortures mortelles et catégories sociales,” in Du<br />

châtiment dans la cité (Rome: École Française de Rome, 1984), 364.<br />

6<br />

Corp. Iur. Can. V.7.13; DS 1483.<br />

7 JAMES J. MEGIVERN, The Death Penalty (New York/Mahwah, N.J.:<br />

Paulist Press, 1997), 110, 146, 148, 150, 152, 154, 158, documents the<br />

practice of these Popes.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 433<br />

theologians such as St. Thomas Aquinas, 8 Francisco de Vittoria, 9<br />

and Francisco Suarez 10 approved ofthe execution of heretics. St.<br />

Thomas More, also approved. 11 So Merks’s charge stands:<br />

Tradition can be destructive. How do we make moral sense of<br />

this? 12 Must we say that, considering this and similar examples,<br />

such as the approval of slavery, the moral witness of the Catholic<br />

tradition is so ambiguous that it cannot be a source of moral<br />

truth?<br />

A theory of tradition as a way of moral knowledge<br />

Merks would grant that tradition can communicate moral<br />

knowledge, so this point is not a matter of dispute. 13 What is in<br />

dispute is whether it can also establish that knowledge as true.<br />

In order to show that it can, we need an account of what<br />

tradition means. Alasdair MacIntyre has defined tradition as<br />

follows: “A living tradition then is an historically extended,<br />

socially embodied argument, and an argument precisely in part<br />

about the goods which constitute that tradition.’’ 14 This is a more<br />

sophisticated version of the common description of tradition as<br />

a process of transmission, across generations, within a<br />

community, of content, in the form of beliefs and practices. The<br />

8<br />

Summa Theologiae, II-II, q. 11, a. 3.<br />

9 FRANCISCO DE VITORIA, O.P., Comentarios a la Secunda Secundae de<br />

Santo Tomás, vol. I (Salamanca: Biblioteca de Teólogos Españoles, 1932),<br />

220.<br />

10 FRANCISCO SUAREZ, Opera Omnia, (Paris: Vivés, 1858), <strong>Vol</strong>. 12, De Fide<br />

Theologica, Disputatio 23, pp. 577-586.<br />

11 PETER ACKROYD, The Life of Thomas More (London: Chatto and<br />

Windus, 1998), 296.<br />

12<br />

It might be said that the Church in its formal teaching never positively<br />

approved the burning of heretics: in fact, the only formal papal statement on<br />

the issue seems to be that of Leo X, rejecting the view of Luther. The Pope<br />

did not expressly say, in a formal document, that burning heretics was<br />

morally good and right, nor did any other Pope.<br />

13 MERKS, “Die sirenenzang,” 132.<br />

14 ALASDAIR MACINTYRE, After Virtue, 2 nd . ed. (Notre Dame, Ind.:<br />

University of Notre Dame University, 1984), 222.


434 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

merit of MacIntyre’s definition is that it highlights the nature of<br />

the transmission as a dynamic, conflicted process, and focuses<br />

especially on the goods which make the tradition what it is.<br />

These features I will seek to develop in proposing that tradition<br />

is an argument that takes the form of a process of testing beliefs<br />

and practices in respect to the constitutive goods of the<br />

tradition, so as to make possible the testimony by which the<br />

tradition is communicated. The test would show whether the<br />

belief or practice is coherent with the constitutive goods, both in<br />

theory and in practice. In this way I will suggest a theory of<br />

moral truth in tradition according to which it is possible to<br />

affirm as true that certain beliefs and practices do not<br />

correspond to the constitutive goods. 15 This is, of course,<br />

essential to the argument I intend to make that tradition can be<br />

a source of truth.<br />

I am not claiming to produce a timeless idea of tradition<br />

that could stand apart from and above all traditions. The notion<br />

of tradition has to be derived from historical experiences and<br />

their interpretations. If, in the course of reflection and testing, a<br />

particular notion of tradition proved to be inadequate, it would<br />

have to be transformed. 16 Étienne Gilson described his approach<br />

as “methodical realism,’’ 17 I would consider the approach I am<br />

advocating as “methodical tradition.” By methodical I mean that<br />

tradition serves as an interpretative key to the testimony of those<br />

persons who form the community that sustains and is sustained<br />

by the tradition.<br />

The formal analysis needs to be complimented by some<br />

account of the historical traditions with which this paper is<br />

concerned. A tradition can be recognized where the following<br />

15<br />

On a correspondence theory of truth, see ALASDAIR MACINTYRE, Whose<br />

Justice? Which Rationality (Notre Dame, Ind.: University of Notre Dame<br />

Press, 1988), 357.<br />

16<br />

Indeed, such a transformation is already evident in the writings of<br />

MacIntyre and of others who have recently dealt with the topic. Tradition no<br />

longer means what it meant in Josef Pieper’s Über den Begriff der Tradition<br />

(Cologne and Opladen: Westdeutscher Verlag, 1958).<br />

17 ÉTIENNE GILSON, Methodical Realism (Front Royal, Christendom<br />

Press, 1990), 17.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 435<br />

elements are present: the transmission across time in a<br />

community of content, in the form of beliefs and practices, and<br />

a doctrine by which the members of the community justify the<br />

truth of the content transmitted. Traditions may be very broad<br />

in scope; thus Hannah Arendt can write of “our tradition” as<br />

including the whole political-philosophical tradition of the<br />

“west.’’ 18 There are traditions within traditions, where the<br />

broader provides the justifying framework for the narrower.<br />

The “Catholic tradition” refers to a distinctive set of beliefs<br />

and practices that have been transmitted across time, through<br />

generations, and whose validity is justified by a particular<br />

doctrine of linkage to the original testimony of authentic<br />

witnesses (the Apostles) through their valid successors (the Pope<br />

and Bishops). Not all the elements of this tradition have actually<br />

been shown to be linked in this way to the authentic witnesses,<br />

but the justification of this tradition requires that they could be.<br />

Historical experience has shown that there can be elements in<br />

the tradition that cannot be so linked, (such as the burning of<br />

heretics), but whose incoherence with the original testimony<br />

became apparent only after a very long time. In the light of this<br />

experience, it would be rash to presume that there are no similar<br />

elements, incoherent, but as yet unrecognized as such, in the<br />

tradition today. The term “the Catholic tradition,” as used here,<br />

therefore, does not refer only to formally approved beliefs and<br />

practices; it includes those which are widely accepted or at least<br />

tolerated, among which there may be some that will later have<br />

to be rejected.<br />

The Catholic tradition seems to have assumed, very early, a<br />

certain interpretation of tradition and made this its own.<br />

According to Arendt, the pre-Christian, Roman model was<br />

characterized by reference to a sacred foundation in the past,<br />

namely, the founding of the city of Rome. Within this model<br />

what we could call a historical logic developed: the sacred<br />

foundation was witnessed to by the ancestors, who gave it<br />

institutional form in the city, tradition handed down from<br />

generation to generation the testimony of the ancestors, by<br />

18 HANNAH ARENDT, Between Past and Future (Penguin, 1968), 17.


436 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

which process their founding authority was affirmed and<br />

augmented through the ages. Religion provided the bonds by<br />

which men and women were bound by tradition to the<br />

authoritative foundation. 19<br />

Arendt argues plausibly that the Christian Church took and<br />

transformed this model, making the death and resurrection of<br />

Christ the foundation of a new institution, but preserving what<br />

I would call the same historical logic. Thus where, in the original<br />

Roman model, tradition meant continuity with the foundation,<br />

it now came to mean, in the Christian understanding, continuity<br />

with the foundation of the Church. Again, according to Arendt,<br />

the basis or foundation of the community as a public institution<br />

became no longer faith in the resurrection itself, “… but rather<br />

the testimony of the life, of the birth, death, and resurrection, of<br />

Jesus of Nazareth as an historically recorded event,” analogous<br />

to the founding event of Rome. The Apostles as witnesses of this<br />

event, are now the “founding fathers” of the community as<br />

public institution, which retains its authority insofar as it hands<br />

down their testimony from generation to generation. 20<br />

These suggestions are, at present, little more than an<br />

hypothesis, and more historical evidence would be needed to<br />

confirm them. However, the notion of the Roman foundational<br />

model may help to explain some of the issues which have arisen<br />

within the tradition and, in particular, to identify the historical<br />

logic of this model. The essential structures of the Roman<br />

foundational model of tradition are the triad of traditionauthority-religion<br />

and the historical logic of the tradition must<br />

be such as to preserve the relationships of that triad. Authority<br />

is justified in that it maintains continuity with the foundation,<br />

both through an historical series of successors of the original<br />

witnesses, the Apostles, and through the tradition itself that<br />

sustains authority and is sustained by it.<br />

Within this model it is unthinkable that reason could<br />

function apart from the tradition and so apart from authority.<br />

There is no place here for “autonomous reason” as this would be<br />

19 ARENDT, Between Past and Future, 124.<br />

20 ARENDT, Between Past and Future, 125.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 437<br />

understood in the Kantian tradition. Within the Roman<br />

foundational model, reason, operating apart from tradition,<br />

would become inevitably lost, wandering in the void, and<br />

leading itself to destruction. This model of tradition and its<br />

political embodiment have passed the test of endurance in an<br />

extraordinary way. But, precisely because of its political<br />

embodiment, I refer in particular to the medieval symbiosis<br />

between Church and political power, it was liable in part to be<br />

distorted into a tradition of identity. Reason, which cannot but<br />

function in an historical tradition, may become a rationale that<br />

stabilizes the identity of a certain form of political institution.<br />

This, I suggest, is what happened in the case of the justification<br />

of the burning of heretics. It becomes a crucial question,<br />

therefore, whether we can distinguish between a tradition of<br />

identity and a tradition of truth.<br />

Tradition of truth<br />

Tradition, in our post-traditional age, cannot any longer be<br />

thought of as a given, waiting to reveal the truth to us. A<br />

tradition now requires a conscious commitment to search for<br />

the truth. Tradition cannot be reduced to the consciousness of<br />

the individual subject: it is irretrievably other, yet it necessarily<br />

calls for active participation and not mere passive acceptance. 21<br />

The members of the community testify that they have<br />

discovered the true good and live their lives accordingly, so that<br />

the tradition becomes not only a way of thinking, but a body of<br />

practices, a way of living, with characteristic patterns of<br />

educated feeling. Others, both those already in the community<br />

and those still outside who seek the true good, may recognize it<br />

through the testimony of the community. They then either<br />

reconfirm or initiate a commitment to the community of<br />

tradition, and participate in its continuing search for the true<br />

21<br />

This active participation is, however, not the same as learning, i. e. the<br />

response of a pupil to a teacher, but a response to testimony. Such a response<br />

is a type of faith, but not a blind faith. Cf., for an apparently different view,<br />

PIEPER, Über den Begriff der Tradition, 19.


438 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

good. A tradition is not merely a coming and holding together<br />

under the pressure of intense emotion. Such a gathering would<br />

be unable to carry out a reasoned test of the testimonies<br />

provided by its members, and so would not be able to assess<br />

their truthfulness. If tradition is to be a source of truth, then it<br />

must include something like the reasoned tradition as proposed<br />

by MacIntyre.<br />

What I am proposing here is precisely a denial of the thesis,<br />

attributed to the Enlightenment, that tradition and reason must<br />

be mutually opposed. 22 Tradition requires critical reason if the<br />

tradition is to continue to be a tradition which can claim to be<br />

seeking truth. On the other hand, critical reason cannot exist in<br />

a timeless world of its own, but only within an historical<br />

tradition. There is, after all, no guarantee that critical reason<br />

will produce truth rather than mere destruction: critique implies<br />

criteria, and the criteria are developed only through the testing<br />

processes provided by a tradition.<br />

The suggestion that moral knowing is possible only in<br />

tradition may produce objections. Are there not ways of moral<br />

knowing which are independent of tradition? Are there not<br />

moral truths which we know naturally and are there not moral<br />

intuitions, neither of which seem to be tradition dependent? To<br />

say that we naturally know certain moral truths does not have to<br />

mean that these ideas somehow automatically appear on our<br />

mental screen when we turn our minds on. When we say that we<br />

naturally know that certain things are morally wrong, we could<br />

mean that our minds have been so shaped historically, and seem<br />

to be so structured in their fundamental character, that our<br />

natural way of knowing is through participating in a tradition.<br />

According to St. Thomas, a proposition is said to be per se nota<br />

when we know that the predicate is contained in the meaning of<br />

the subject. 23 But, I would suggest, we come to know the<br />

meaning of the subject and predicate only by exploring the<br />

usage of the terms in a tradition. “Natural” knowing is,<br />

22 CHARLES LAMORE, The Morals of Modernity (Cambridge: Cambridge<br />

University Press, 1966), 59.<br />

23<br />

Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 439<br />

therefore, no less tradition dependent than any other form of<br />

knowing.<br />

If there are moral intuitions, they are not some kind of<br />

peculiar, immediate insights into moral truth that can claim a<br />

special status simply because they seem to be immediate and<br />

thus underived. 24 Such intuitions can be best explained as the<br />

merging into a coherent pattern of several, hitherto<br />

unconnected strands of a tradition within the mind of a person<br />

seeking moral truth. That these linkages are made rapidly does<br />

not give them any special truth status.<br />

Moral knowledge is generated and communicated in<br />

tradition by testimony. 25 When a person testifies that he or she<br />

has found this to be a good way of life, they offer something of<br />

themselves to another. Testimony engages me with the other to<br />

whom I testify at the deepest level: if what I say is of no worth,<br />

then my life is of no worth. Again, the very offer of testimony to<br />

another, on this most profound of matters, is a recognition of<br />

that other as a genuine searcher for the moral truth; an<br />

acknowledgment of the other’s being a subject of intelligence,<br />

will and the capacity to love the good, in short, to recognize that<br />

other as a person of dignity and of moral worth.<br />

This theory of tradition requires therefore an account of the<br />

virtues. People commit themselves to a tradition because they<br />

desire the goods that the tradition promises. But people desire<br />

many different things (as Kant insisted); it would seem then<br />

that, with such a plurality of desired goods, there could never be<br />

a coherent tradition and the whole case for tradition as a source<br />

of moral direction would seem to collapse. Yet people do<br />

commit themselves to tradition, and they do so because<br />

tradition offers them the possibility of dealing with the plurality<br />

of different goods, and focusing their desires more specifically.<br />

The good that is offered in a tradition as true is not the sum of<br />

24<br />

Cf. TADEUSZ STYCZEN, “Das Problem der allgemeingültigtigkeit<br />

ethischer Normen in epistemologischer Sicht,” in SERVAIS PINKAERS and<br />

CARLOS JOSAPHAT PINTO DE OLIVEIRA, eds., Universalité et permanence des lois<br />

morales (Fribourg: Editions Universitaires, 1986), 241.<br />

25<br />

Cf. JEAN NABERT, Le désir de dieu (Paris: Aubier-Montaigne, 1966), 273.


440 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

the objects of any and all empirical desires, but the object of<br />

desires that have been educated within the tradition. The<br />

tradition presents these goods as those that have been lived and<br />

found to be the substance of a good life. A tradition calls, in<br />

particular, for the skills needed both to give and receive<br />

testimony. These skills or virtues would include truthfulness,<br />

fidelity in pursuing the truth intensely and (usually) over a long<br />

time, justice as the capacity to recognize another, the recipient<br />

of the testimony, as one with equal dignity, and love as the will<br />

to communicate to that other the goods that have been found to<br />

be true. The virtues required in a tradition carry a guarantee of<br />

truth not simply because they are of the past 26 but precisely<br />

because they are ways that have been tested and proved by<br />

persons seeking the true good.<br />

When we ask whether and how the testimony of tradition<br />

can be true, the first step must be to determine the appropriate<br />

stance of the questioner with regard to the tradition. Let us<br />

suppose that we can pose the question of the true good from the<br />

point of view of a neutral observer standing in a position outside<br />

and above the historical tradition. From such a viewpoint, the<br />

observer could regard all the different testimonies within the<br />

tradition, even those that contradict each other, as having equal<br />

claims to be considered testimonies. This would produce an<br />

ambiguous testimony that could not claim to be a manifestation<br />

of truth. In such a case, Merks’ critique would stand. But one<br />

who attends to the testimony of a tradition cannot be merely a<br />

neutral observer interested in the facts about the tradition, he or<br />

she is committed to searching for the true good, and in<br />

accordance with that commitment, attends to the testimony of<br />

those who participate in the tradition and who witness to what<br />

they have discovered to be the true good. That testimony<br />

includes both an affirmation that the community of the tradition<br />

has found the true good, and a promise that by following the<br />

community’s paths, others can find it also.<br />

Coherence with such a commitment to seek the true good,<br />

leads a person to accept that testimony with faith in the<br />

26<br />

As MERKS seems to believe, “Sirenenzang,” 126.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 441<br />

witnesses’ promise. Subsequently, the same commitment to the<br />

true good requires one to participate in the testing processes<br />

carried out in the tradition, reforming them in the mind, and<br />

also refining them according to the exigencies of the pursuit of<br />

the true good. My own “experiments” may then confirm the<br />

truthfulness of the tradition’s promises and my testimony<br />

becomes part of the general testimony. It is in this sense that I<br />

am responsible for the norms of tradition, that is, the norms of<br />

communal life. To claim that I have a responsibility for these<br />

norms, as the author does 27 cannot mean that I stand apart from<br />

and over tradition, in a kind of god-like detachment, freely<br />

determining the norms for myself and everyone else in the<br />

tradition.<br />

If, by participating in the traditions’ processes of searching,<br />

I discover in the beliefs and norms of this tradition, both an<br />

objective coherence, and a source of coherence within myself, a<br />

coherence that enables me to move beyond interior conflicts and<br />

doubts and so pursue in a more integrated way the good that I<br />

originally sought by committing myself to the tradition, then I<br />

will judge these ways to be morally true. The theory thus<br />

includes a necessary reference to the moral identity of the<br />

subject, 28 but considers the subject, not in isolation, but as a<br />

member of the community of tradition. In participating in the<br />

tradition, the subject may creatively transform the tradition<br />

itself and so be able to communicate to the tradition new<br />

resources. This is what the great innovators within traditions<br />

were able to do and each member of the community of the<br />

tradition exercises such creativity even if in a less dramatic way.<br />

What the theory I am proposing cannot accept is that it is<br />

the morality of the subject (separated from tradition) which<br />

must guarantee the standards presented in the tradition. It is not<br />

a matter of imposing the standards of the tradition on a passive<br />

subject, but neither is it a matter of imposing the standard of the<br />

subject on a passive tradition. There cannot be an ethics of the<br />

subject outside and above all tradition, by which the tradition<br />

27 MERKS, “Sirenenzang,” 131, citing W. KORFF.<br />

28<br />

Cf. MERKS, “Sirenenzang,” 131.


442 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

must be judged. 29 The process of proving or testing always<br />

includes both tradition and subject as active participants.<br />

This brings us to an important point in the argument: what<br />

provides a guarantee that a belief to which the tradition testifies<br />

is true, is that the belief has been tested adequately within the<br />

tradition. The mere presence of a belief in tradition, even over a<br />

long time, does not provide a guarantee of its truthfulness. This<br />

is clear, for example, in the specific case of the Catholic<br />

tradition’ s acceptance over centuries of the moral lawfulness of<br />

executing heretics. “Long shelf life” in a tradition is not an<br />

adequate criterion of the truth of a belief.<br />

A more developed account of the process of testing is called<br />

for. I am not proposing a test of a consequentialist type. It is not<br />

being suggested that the burning of heretics was tried as a way<br />

of preserving the unity and identity of the faith of the Church,<br />

which failed and therefore ought to have been abandoned. The<br />

test concerns rather the internal coherence of the tradition,<br />

where the coherence applies to the tradition itself and to the<br />

subject who is participating in it. The test, involving both<br />

tradition and subject in the way described above, can show that<br />

this practice is incoherent with the tradition’s search for the<br />

goods it promises, and so incoherent also with the subject’s<br />

commitment to the tradition as a way of seeking the true good.<br />

The testimony here does not have the form, “If you want X,<br />

then you must do Y;” this hypothetical statement would be<br />

appropriate to a neutral, external observer, and indeed is not<br />

testimony at all. Testimony is something like this: “Granted that<br />

you are participating in our commitment to seek the goods<br />

promised by our tradition, and you must be or you would not be<br />

here attending to us, then these are the goods you ought to will.”<br />

By which is meant: “These are the goods that will lead you to the<br />

good to which you are already committed.” Where the test has<br />

indicated otherwise, the testimony takes the form: “This is not a<br />

good that you ought to will.”<br />

Nor am I proposing a purely procedural notion of truth in<br />

tradition. This would mean attempting to discover the laws or<br />

29<br />

Contrary to MERKS, “Sirenenzang,” 138.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 443<br />

procedures by which tradition functions, and then assuming<br />

that, where our thinking follows these laws or procedures, what<br />

emerges can be considered the truth. If this were the case, there<br />

would be no basis on which to criticize and change the<br />

procedures. Thinking in tradition would mean an endless<br />

following of procedures; we would simply have a petrification of<br />

procedures in place of a petrification of substantive doctrines. If<br />

a tradition is to have the resources within it to prevent<br />

petrification and keep it open to change, these must be found in<br />

the substantive content of the tradition, not merely in its<br />

procedures.<br />

Tradition as a process of testing requires a framework<br />

within which we can assess the test itself and its procedures. The<br />

Christian tradition, for example, promises certain goods, peace,<br />

liberty, the knowledge and love of God, but the goods it promises<br />

can only be understood in reference to the testimony of the<br />

Christian community to the life, death and resurrection of an<br />

historical person, Jesus of Nazareth. For the Christian tradition<br />

the framework is provided by the testimony presented in the<br />

New Testament. I do not intend to say that Gospel provides us<br />

directly with a list of rules for testing tradition, but it does give<br />

us a focus in which all judgments about the truly good may be<br />

tested for coherence. It is beyond the limits of this paper to go<br />

into detail here so an example must suffice.<br />

The Gospel provides us with a narrative of the death and<br />

resurrection of Jesus. Faith in the resurrection in its concrete<br />

historical form, means accepting the testimony of the witnesses<br />

of the resurrection, and participating in the tradition which<br />

carries on that testimony. The death of Jesus is a violent act on<br />

the part of men, but totally non-violent on the part of Jesus; the<br />

resurrection is a response to human violence, but is itself utterly<br />

non-violent. A commitment in faith to the resurrection, through<br />

the reasoned reflection to which it gives rise, generates a moral<br />

ontology or framework within which violence is incoherent.<br />

This implies a basic assumption in the whole argument that<br />

needs to be recalled here: reason operates within historical<br />

traditions, which is not to say that it is limited to such traditions.<br />

Thus, reason within the Catholic historical tradition must<br />

operate according to the ontology that emerges from reflection<br />

on the death and resurrection of Jesus; an ontology which does


444 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

not allow that violence can be the ultimate reality. Reflection<br />

within the terms of this ontology, leads to the recognition of the<br />

moral truth that violence is not a way by which we can pursue<br />

the goods promised by the tradition. Thus, in particular, the<br />

violent execution of heretics must be morally rejected.<br />

What this theory is proposing is that traditions may have<br />

internal resources that make such a process of self-correction<br />

possible, without the destruction of the tradition itself. This may<br />

not apply to all traditions, indeed it seems to be clear from the<br />

observation of history that some traditions cannot self-correct<br />

so that, when a serious challenge emerges, they simply collapse.<br />

I am arguing that the Catholic tradition does have such internal<br />

resources. These are not embodied in the laws of tradition in<br />

general, in which we have presumed that the Catholic tradition<br />

participates, but in the particular form that tradition takes by<br />

reason of its specific content. A tradition, if it is to continue to<br />

be a tradition, must be able to promise a transcendent good that<br />

goes beyond the mere preservation of its identity. The Catholic<br />

tradition, of course, promises such a transcendent good, namely<br />

union with God, revealed in the death and resurrection of Jesus.<br />

Testimony that the beliefs and practices of the tradition are<br />

morally true, means confirming that these beliefs and practices<br />

have been found to lead to the goods promised by the tradition,<br />

that is to a form of the good life. To testify that this form of life<br />

is truly good, means to affirm that it has been lived and tested in<br />

the community and found to be so. But in the Christian tradition<br />

there is a further test, namely, is this form of life coherent with<br />

that ontology that emerges from faith in the resurrection of<br />

Jesus?<br />

This does not mean that the criterion is totally dependent on<br />

faith, such that it must be exclusive to one particular community<br />

and its tradition. The theory does not entail a lapse into some<br />

kind of ethical “fideism,” and I am not claiming that we can<br />

derive moral norms by deduction from the scriptural narratives<br />

or from dogmatic teachings about the death and resurrection.<br />

Rather, the argument is, as explained earlier, that faith in the<br />

resurrection of Jesus generates an ontology, an historical mode<br />

of reason, that excludes violence as the ultimate reality. It is<br />

within this reasoned ontology, not by immediate deduction from<br />

faith, that the specific moral norms are constructed.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 445<br />

Such an ethical position is not incommunicable to those<br />

who are not members of the tradition. The question as to<br />

whether the fundamental constitution of reality entails violence<br />

or not, has been an element in our “western” tradition since its<br />

very beginning, as it has been in other traditions. Thus, those<br />

who inhabit these other traditions can understand what a<br />

fundamental non-violence means, even though they do not share<br />

a faith in the resurrection of Christ. What the members of the<br />

Christian tradition offer to these others is their testimony that a<br />

life lived on this basis has been found to be a good life. They in<br />

no way impose their tradition on others.<br />

The issue of universality emerges here. Universality cannot<br />

be grounded in what the individual subject, in his search to give<br />

meaning to his life, thinks is universal; the idea of universality is<br />

not the reality of the universal. Universal reason is not<br />

something we have in hand: it can be found through the<br />

dialogue of traditions, where particular forms of tradition-based<br />

reason are tested with other forms of tradition-based reason, so<br />

that all may move closer to universal reason. Universality is<br />

possible only where the basic ontology of a tradition is such that<br />

it interprets difference not as violent separation, but as<br />

difference in unity. Such an ontology is that which derives from<br />

reflection on the death and resurrection of Jesus, and on the<br />

Trinity which those events manifest. 30<br />

Some might object that we have no need of some kind of<br />

special internal criterion of truth within the Catholic tradition,<br />

since the truth of a belief is declared by the Magisterium. But if<br />

this were the case, how could the Magisterium appeal to<br />

tradition in support of its teaching? If indeed God commands<br />

certain things because they are good, and forbids others because<br />

they are bad, this must be the case also with Church authority.<br />

Documents of the Magisterium have described the role of the<br />

theologian as seeking reasons to support official teaching. This<br />

presumes, of course, that there are such reasons; and that it is<br />

these, and not solely the act of authority, which gives those<br />

teachings a claim to truth.<br />

30<br />

Cf JOHN MILBANK, Theology and Social Theory (Oxford: Blackwell,<br />

1990), 428.


446 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

Another similar objection might be that we believe the<br />

Catholic tradition is guided by the Holy Spirit and therefore<br />

does not need to appeal to this criterion of coherence to<br />

establish that its teachings are true. Accordingly while to<br />

demonstrate coherence after the fact of the teaching may be<br />

helpful for apologetic purposes, it is not needed to establish the<br />

truth of the teaching. Here, however, we have to deal with issues<br />

such as the burning of heretics, where the guidance of the Spirit<br />

seems to have been resisted, since the authorities of the Church<br />

did not forbid the practice for centuries. All we can say is that<br />

the Spirit seems to guide the Church through some such process<br />

of historical testing as has been described above, in which the<br />

discovery of the incoherence of some positions is made only<br />

after long effort.<br />

However, while we may say that the tradition and the<br />

persons who live in that tradition, may, indeed must, carry out<br />

the process of testing, and themselves have authority to do so,<br />

there must be some structure of authority within tradition.<br />

Because there are many who test the tradition, there must be<br />

some instance to coordinate their efforts and to collate, sift and<br />

ultimately validate their findings. An historical tradition cannot<br />

survive without such a structure of authority. Thus, the notion of<br />

tradition includes the notion of authority, and therefore, the<br />

activity of authority is not external but internal to the tradition.<br />

It can of course, become purely external if it resorts to arbitrary<br />

decrees which have no basis in the truth of the tradition, but it<br />

is not necessarily so. Thus, in insisting on the internal character<br />

of the criterion of truth in tradition, the theory I am proposing<br />

by no means excludes the role of the Magisterium in the<br />

Catholic tradition.<br />

Having outlined a theory of tradition, I now move to the<br />

second step of the argument If tradition is to be a source of<br />

truth, it must have the resources within it to distinguish<br />

“legitimate” from “illegitimate” elements. 31 Thus for example,<br />

there must be resources within the tradition which can enable<br />

us to say why the burning of heretics was an illegitimate element<br />

31 MERKS, “Sirenenzang,” 128.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 447<br />

in the tradition. Such resources are present, as I have already<br />

indicated, in the testimony to the death and resurrection of<br />

Jesus. But we must also be able to show how the incoherence<br />

between this fundamental testimony and the practice could have<br />

remained unnoticed for so long; it is by showing the incoherence<br />

in a particular case, that we can demonstrate the presence of<br />

coherence in the tradition as a whole.<br />

The argument is that a tradition or elements of a tradition,<br />

can be so affected that the tradition of truth is displaced by a<br />

“tradition of identity.” It was because certain beliefs were caught<br />

up in a tradition of identity that they were removed from the<br />

process of testing, and so could remain for a long time in the<br />

tradition, even though, as would be discovered subsequently,<br />

they were quite incoherent with it.<br />

Tradition of Identity<br />

A tradition can become a tradition of identity. What counts<br />

above all in such a tradition is the group identity, which in turn<br />

supports individual identity. Truth, then, comes to be<br />

understood in terms of what sustains identity. The doctrine of<br />

justification in a tradition of identity will tend to be a version of<br />

the positivist appeal to authority, or an appeal to feeling, or quite<br />

likely to both of these together. There are many examples of<br />

traditions of identity, some of which, like traditions of ethnic<br />

identity, can be very dangerous, as we have seen all too often in<br />

recent times. I would distinguish a “tradition of identity” from a<br />

“tradition of truth” which I have endeavored to describe earlier.<br />

In the latter, identity is not ignored, any historical tradition<br />

needs an identity; identity is a good, but as a condition for<br />

seeking a good which transcends group identity. If an inquirer is<br />

seeking solely to sustain his own identity, then a tradition of<br />

identity will suit his needs; but if the inquirer asks the moral<br />

question as to where is the true good to be found, a tradition of<br />

identity is helpless. Such a tradition can only reply that the good<br />

simply is identity and that subordinate, instrumental goods are<br />

those that sustain identity.<br />

A practice, for example, the burning of heretics, is accepted<br />

for certain contingent historical reasons, and justified by certain


448 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

arguments. The justifications become a set of formulas which<br />

are repeated over and over again, so that, over time, they come<br />

to be considered important because they themselves become<br />

symbolic of the identity of the tradition. 32 There is a move from<br />

the assertion: “The Catholic tradition justifies the burning of<br />

heretics,” to the further assertion: “The Catholic tradition is a<br />

tradition which justifies the burning of heretics.” Thus, it comes<br />

to be assumed that the practice and the accompanying<br />

justification cannot be rejected without at the same time<br />

denying the identity of the tradition, and with that the identity<br />

of the community, that is the Church, which it sustains. 33<br />

My suggestion is that Merks’ critique bears on a particular<br />

historical form of the tradition, namely the Roman foundational<br />

model, when it had, on certain issues, lapsed into a tradition of<br />

identity. Indeed, my notion of the tradition of identity seems to<br />

be very close to what Merks refers to and critiques as the<br />

stabilizing, as contrasted to the critical, use of tradition. 34 When<br />

it functions in this way, the tradition cannot be a source of truth.<br />

However, and this is the key point of my argument, the<br />

tradition has also carried within it the resourçes necessary to<br />

correct distortions, and eventually did so in this case.<br />

Sometimes, of course, those resources can be petrified in a<br />

tradition of identity and can only be set free by a sharp impetus<br />

from outside, as happened for example in the question of capital<br />

punishment. 35 Petrification set in when a tradition of identity<br />

dominated the tradition of truth, and moral theological reason<br />

became essentially apologetics. Concern with identity also led to<br />

an unwillingness to allow the Catholic tradition to be challenged<br />

by other traditions, challenges which it demonstrably needed.<br />

According to the author, the notion of the person 36 and the<br />

ideals of freedom and responsibility, emerge from a paradigm<br />

32<br />

For an historical example, see Megivern, The Death Penalty, 214.<br />

33<br />

There may very well have been other, theological reasons why the<br />

tradition clung on to the acceptance of such punishment. cf. TIMOTHY<br />

GORRINGE, God’s Just Vengeance (Cambridge: Cambridge University Press,<br />

1996).<br />

34<br />

MERKS,”Sirenenzang,” 133.<br />

35 MEGIVERN, The Death Penalty, 214.<br />

36 MERKS, “Sirenenzang,” 135.


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 449<br />

shift from a cosmocentric to an anthropocentric world view. 37<br />

But why does this cultural shift have truth founding properties<br />

if tradition does not? Who are the “we,” the human persons who<br />

are explaining what is good for us? 38 What is it about this<br />

testimony that justifies us in accepting it as true, if we may not<br />

accept the testimony of the tradition? How do we know that<br />

“we” are right? If I have understood the article correctly, we<br />

know this by consulting the conscious experience of the<br />

individual subject, and in particular of the subject as giving<br />

meaning to life.<br />

The philosophical option underlying Merks’s article seems<br />

to find its focal point in autonomous subjectivity, presupposing<br />

that modern self-consciousness can draw from itself the norms<br />

for guiding thought and action, above all freedom and<br />

responsibility. In qualification of this, it must be admitted that<br />

Merks acknowledges that the subject cannot do without his<br />

history and his being-situated, 39 and thus is not a totally<br />

disengaged subject. Nevertheless, the philosophical option that I<br />

propose is of a different kind. It looks not to the self-conscious<br />

autonomous subject, but to the engaged person, who is not<br />

above and separate from the world, the community and the<br />

tradition, but inherently related to them. This person chooses<br />

freely to be so related, and it is in this that responsibility<br />

consists. Which of these options is correct can be decided only<br />

by the testing process of the tradition.<br />

Conclusion<br />

This article has argued that tradition and specifically the<br />

Catholic tradition, can be, when understood in a particular<br />

sense, and under certain conditions, a source of moral truth.<br />

Merks critique of tradition is valid, but it touches particular<br />

forms of tradition, rather than tradition in its whole range; it<br />

does not justify a rejection in toto of the capacity of tradition to<br />

37 MERKS, “Sirenenzang,’’ 133.<br />

38 MERKS, “Sirenenzang,” 135.<br />

39 MERKS, “Sirenenzang,” 135.


450 BRIAN V. JOHNSTONE<br />

be a source of truth. I would argue that the notion of the person<br />

itself emerges from a long and complex process of historical<br />

testing within the tradition. Only when considered as such, from<br />

within a tradition, can the person be a norm of traditions, both<br />

of the tradition of which it is a part, and of other traditions with<br />

which it enters into critical dialogue. Indeed the capacity of the<br />

tradition to arrive at the awareness of the normative significance<br />

of the person is itself the best proof that the Catholic tradition<br />

can indeed be a source of moral truth.<br />

Accademia Alfonsiana<br />

Via Merulana 31<br />

C.P. 2458<br />

00100 Roma, Italy.<br />

BRIAN V. JOHNSTONE, C.Ss.R.<br />

—————<br />

Summary / Resumen<br />

Can tradition be a source of moral truth? This article develops an<br />

argument to show that it can be, in reply to the recent claim by another<br />

author to the contrary. The opening argument is that traditions have<br />

damaged many people. It is accepted that this has happened: the example<br />

of the tradition of burning heretics is examined. Proceeding from<br />

this, the body of the article is dedicated to developing a theory of tradition,<br />

in order to show that there is an inherent criterion of truth which<br />

makes it possible to distinguish true tradition from false. An adequate<br />

defense of truth in tradition must also be able to demonstrate how such<br />

false traditions as the burning of heretics could have been sustained for<br />

so long. Here we need to make a distinction between a tradition of truth<br />

and a tradition of identity: a tradition of identity may, in certain historical<br />

circumstances, obscure the tradition of truth.<br />

¿Puede la tradición ser una fuente de verdad moral? En respuesta a<br />

la reciente pretensión de un autor que afirma lo contrario, el presente<br />

artículo expone un argumento para demostrar que sí es posible. La primera<br />

razón es que las tradiciones han producido daño a muchas personas.<br />

Ciertamente la tradición de quemar herejes ha existido y es un<br />

ejemplo a examinar. Con esta premisa, el cuerpo del artículo se orienta<br />

a desarrollar una teoría de la tradición para mostrar que existe un cri-


CAN TRADITION BE A SOURCE OF MORAL TRUTH? A REPLY TO K.-W. MERKS 451<br />

terio inherente de verdad que hace posible distinguir la verdadera de la<br />

falsa tradición. Una defensa adecuada de verdad en la tradición tiene<br />

que demostrar también cómo las falsas tradiciones como las de quemar<br />

herejes, pudieron mantenerse durante tanto tiempo. Hay que hacer<br />

aquí la distinción entre tradición de verdad y tradición de identidad:<br />

una tradición de identidad puede, en determinadas circunstancias<br />

históricas, eclipsar la tradición de verdad.<br />

—————<br />

The author is ordinary Professor of Systematic Moral Theology<br />

at the Alphonsian Academy.<br />

El autor es profesor ordinario de Teología Moral Sistemática en<br />

la Academia Alfonsiana.<br />

—————


Chronicle / Crónica<br />

ACCADEMIA ALFONSIANA<br />

Cronaca relativa all’anno accademico 1998-1999<br />

1. Eventi principali<br />

1.1.Inaugurazione dell’anno accademico<br />

Il 10 ottobre 1998 l’Accademia Alfonsiana ha inaugurato,<br />

sotto la presidenza di S.E.R. Mons. Marcello Zago, Segretario<br />

della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, il nuovo<br />

anno accademico con una messa solenne, concelebrata da<br />

S.E.R. Mons. Antonio Napoletano, Vescovo di Sessa Aurunca<br />

(Caserta), da Mons. Renzo Gerardi, Decano della Facoltà di Teologia<br />

della Pontificia Università Lateranense, dal Prof. Bruno<br />

Hidber, Preside dell’Accademia, e da altri professori e studenti.<br />

Durante l’omelia Mons. Zago ha enfatizzato l’essenzialità di<br />

una educazione energica e viva nella teologia morale per un’evangelizzazione<br />

che sia autentica nel mondo di oggi. Egli ha insistito<br />

sull’importanza della missione dell’Accademia, dei corsi<br />

da essa offerti e della preparazione che al termine degli studi gli<br />

studenti porteranno con sé nei loro paesi di origine.<br />

Al termine della celebrazione, nell’aula magna dell’Accademia<br />

ha avuto luogo un atto accademico che si è sostanzialmente<br />

articolato in tre momenti:<br />

- il primo, conclusosi con la relazione sull’anno accademico<br />

1997-1998 svolta dal Preside, Prof. Bruno Hidber, che ha riepilogato<br />

gli avvenimenti più salienti della vita dello scorso anno<br />

accademico;<br />

- il secondo, marcato dalla prolusione tenuta dal Prof. Martin<br />

McKeever, C.Ss.R., professore invitato dell’Accademia Alfon-


454 DANIELLE GROS<br />

siana, sul tema “Il dilemma etico-politico del discorso sui diritti<br />

umani nella cultura odierna”;<br />

- il terzo, sostanziatosi nella descrizione e nella spiegazione<br />

dei propri murales, sviluppata dal pittore G. Alessandro Simone,<br />

realizzati per decorare l’aula magna e che rappresentano, in stile<br />

astratto e simbolico, la storia della creazione e della redenzione.<br />

L’intero atto accademico, conclusosi con un rinfresco che ha<br />

rappresentato una utile occasione per un ricco scambio d’idee<br />

tra professori, ufficiali e studenti, è stato accompagnato per tutta<br />

la sua durata da un intrattenimento musicale, curato dal<br />

quartetto da camera “I solisti di Roma” che hanno eseguito brani<br />

di W. A. Mozart.<br />

Il 23 ottobre 1998, il Preside ha concelebrato, insieme al<br />

Prof. Andrzej Wodka e ad alcuni studenti dell’Accademia, la<br />

messa d’inaugurazione dell’anno accademico di tutti gli atenei<br />

ecclesiastici romani, presieduta da Sua Eminenza Rev.ma il Sig.<br />

Card. Pio Laghi, Prefetto della Congregazione per l’Educazione<br />

Cattolica.<br />

L’omelia di questa cerimonia, che si è svolta presso la Basilica<br />

di San Pietro, è stata tenuta da Sua Santità Giovanni Paolo II.<br />

1.2. Nomine<br />

Quest’anno accademico ha fatto registrare numerose nuove<br />

nomine, confermandone altre già in essere:<br />

- il Santo Padre, lo scorso mese di aprile del corrente anno,<br />

ha nominato Presidente della Pontificia Accademia di Teologia il<br />

Prof. Marcello Bordoni, docente dell’Accademia Alfonsiana da<br />

oltre 20 anni;<br />

- il Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense,<br />

S.E.R. Mons. Angelo Scola, il 17 dicembre 1998 ha nominato<br />

Prorettore della stessa Università il Prof. Ignazio Sanna, anch’egli<br />

professore invitato dell’Accademia Alfonsiana;<br />

- il Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, Rev.mo<br />

P. Joseph W. Tobin, C.Ss.R., il 28 ottobre 1998 ha nominato il<br />

Prof. Sabatino Majorano Vicepreside, il 28 marzo 1999 ha rinnovato<br />

l’incarico del R.P. John C. Vargas quale Executive Director for<br />

Development, e l’8 aprile dello stesso anno ha riconfermato il<br />

mandato di Segretario Generale alla Sig.ra Danielle Gros.


CHRONICLE / CRÓNICA 455<br />

1.3. Commemorando e ringraziando<br />

Il 17 novembre 1998, nella Chiesa di Sant’Alfonso e sotto la<br />

presidenza del Moderatore Generale è stata celebrata una messa<br />

commemorativa per i professori Peter Lippert, Bernhard Häring<br />

e Julio De La Torre, deceduti nel corso del 1998.<br />

Nell’omelia, tenuta dal Prof. Sante Raponi, è stato enfatizzato<br />

il rapporto tra orientamento scientifico e pastorale di questi<br />

tre professori, quale espressione tipica dell’essere redentorista.<br />

1.4. Presentazioni di libri<br />

Il 28 novembre 1998, nell’aula Pio XI dell’Università Cattolica<br />

del Sacro Cuore di Milano, l’Associazione Biblica Italiana ha<br />

presentato, in onore di Sua Eminenza Rev.ma il Sig. Card. Carlo<br />

Maria Martini, il libro “La parola di Dio cresceva”. Alla cerimonia<br />

ha partecipato, in rappresentanza del Preside dell’Accademia,<br />

il Prof. Andrzej Wodka.<br />

Il 20 marzo 1999, nei locali dell’Accademia Alfonsiana, la<br />

Prof.ssa Nella Filippi ha presentato il libro del Prof. Sante Raponi<br />

intitolato “Alla scuola dei padri. Alcuni saggi tra cristologia,<br />

antropologia e comportamento morale”. Alla cerimonia, aperta<br />

dal Preside, erano presenti il Moderatore Generale, alcuni superiori<br />

redentoristi, altri professori e numerori familiari del Prof.<br />

Raponi. La presentazione del libro è stata organizzata dal Prof.<br />

Dennis Billy, in qualità di responsabile di Edacalf.<br />

Il 24 marzo 1999, nell’Aula Magna dell’Accademia Alfonsiana,<br />

è stato presentato il libro del Prof. Lubomir Zak, insegnante<br />

presso la Pontificia Università Lateranense ed ex-studente dell’Accademia<br />

Alfonsiana, intitolato “Pavel A. Florenskij: Un progetto<br />

di ontologia ed etica trinitaria”. All’atto sono intervenuti i<br />

Professori Piero Coda della Pontificia Università Lateranense,<br />

Marko Rupnik del Pontificio Istituto di Studi Orientali, Natalino<br />

Valentini dell’Università di Urbino e Basilio Petrà della Facoltà<br />

Teologica di Firenze, nonché professore invitato dell’Accademia<br />

Alfonsiana.


456 DANIELLE GROS<br />

1.5. Incontri<br />

Il 2 dicembre 1998, il Preside ha organizzato un incontro tra<br />

S.E.R. Mons. Marcello Zago ed i professori dell’Accademia.<br />

Il 13 gennaio 1999, gli studenti hanno organizzato un incontro<br />

tra professori e studenti, in occasione dell’inizio del nuovo<br />

anno civile.<br />

Il 22 marzo 1999, il Preside ed i Rappresentanti degli Studenti<br />

hanno organizzato un incontro con la Prof.ssa Maria Campatelli,<br />

del Pontificio Istituto di Studi Orientali, che si è tenuto<br />

nell’Aula Magna dell’Accademia. In tale ambito, la Professoressa<br />

ha svolto una meditazione quaresimale dal titolo “Lo spirito penitenziale<br />

della Quaresima”.<br />

2. Consiglio di amministrazione<br />

Dal 15 al 17 febbraio 1999, convocato dal Moderatore Generale,<br />

si è riunito il Consiglio di Amministrazione dell’Accademia<br />

Alfonsiana.<br />

In occasione di tali incontri, sono intervenuti:<br />

- il Preside, che ha svolto un rapporto sulla situazione accademica;<br />

- la Segretaria Generale, che ha relazionato sulla situazione<br />

amministrativa e su vari aspetti inerenti gli studenti;<br />

- il Prof. Lorenzo Alvarez, quale delegato del Consiglio dei<br />

Professori, per descrivere la situazione del corpo docente;<br />

- l’Economo, per esporre la situazione finanziaria;<br />

- l’Executive Director for Development, per informare sulla situazione<br />

delle relazioni pubbliche.<br />

Il C.d.A., presieduto dal Moderatore Generale, ha esaminato<br />

i vari rapporti con grande attenzione ed è con soddisfazione che<br />

ha potuto constatare che con l’inserimento di cinque nuovi professori<br />

a tempo pieno, la situazione del corpo docente è sostanzialmente<br />

migliorata, e che l’Accademia è cresciuta nella sua capacità<br />

di autogestione finanziaria, ma che sono necessari ulteriori<br />

sforzi per raggiungere lo scopo di autonomia finanziaria<br />

che è stato prefissato.<br />

Il C.d.A., inoltre, ha preso atto della necessità di trovare un


CHRONICLE / CRÓNICA 457<br />

nuovo Prefetto della Biblioteca e un nuovo Economo con una<br />

certa urgenza, data la ravvicinata scadenza di quelli attualmente<br />

in carica.<br />

3. Corpo insegnante<br />

3.1. Stato attuale<br />

In quest’anno accademico l’Accademia Alfonsiana si è avvalsa<br />

della collaborazione di 33 professori, dei quali sei ordinari,<br />

due straordinari, uno associato, venti invitati e quattro emeriti.<br />

Tra questi, 28 hanno svolto 29 corsi, diretto 25 seminari e numerose<br />

tesi di licenza e di dottorato. Altri ancora, in veste di professori<br />

invitati, hanno anche insegnato presso diversi centri ecclesiastici.<br />

3.2. Nuovi docenti<br />

L’Accademia Alfonsiana si è avvalsa della collaborazione di<br />

due nuovi professori invitati (di cui uno Redentorista alla sua<br />

prima esperienza didattica), che hanno insegnato durante l’anno<br />

accademico 1998-1999. Si tratta del Prof. Edmund Kowalski,<br />

C.Ss.R., per la sezione di antropologia filosofica, e del Prof. Don<br />

Silvio Sassi, S.S.P., per la sezione di antropologia empirica.<br />

3.3. Pubblicazioni dei Professori<br />

Da evidenziare che molti docenti, oltre alla loro principale<br />

attività didattica e di assistenza agli studenti, hanno anche pubblicato<br />

diverse opere, offrendo in tal senso un utile contributo<br />

alla ricerca scientifica.<br />

3.4. In memoriam<br />

L’anno accademico 1998-1999 è stato funestato dal decesso<br />

di due professori: il Prof. Andreas Sampers, C.Ss.R., che insegnò


458 DANIELLE GROS<br />

all’Accademia Alfonsiana dal 1957 al 1986, ed il Prof. Vernon<br />

Sattler, C.Ss.R., che vi insegnò nell’anno accademico 1969-1970.<br />

3.5. Docenti che lasciano l’Accademia Alfonsiana<br />

Il Prof. Marcello Bordoni, per raggiunti limiti di età, si è ritirato<br />

dopo 27 anni di insegnamento presso l’Accademia Alfonsiana,<br />

nella sezione di morale sistematica fondamentale.<br />

Il 24 maggio 1999, dopo la sua ultima lezione, il Preside ed<br />

i Professori dell’Accademia, in segno di stima e di ringraziamento<br />

per il suo prezioso contributo offerto durante tutti questi<br />

anni, si sono riuniti per salutarlo.<br />

3.6. Consulenti accademici<br />

Nella riunione del 28 ottobre 1998 il Consiglio dei Professori<br />

ha designato, quali consulenti accademici per il prossimo<br />

triennio, i seguenti professori: Sabatino Majorano per la lingua<br />

italiana, Dennis Billy per la lingua inglese, Lorenzo Alvarez per<br />

la lingua spagnola, Réal Tremblay per la lingua francese, e Andrzej<br />

Wodka per le lingue slave.<br />

4. <strong>Studia</strong> <strong>Moralia</strong><br />

L’impegno della Commissione per <strong>Studia</strong> <strong>Moralia</strong> e la collaborazione<br />

dei Professori interni ed esterni, hanno permesso la<br />

regolare pubblicazione dei due fascicoli della rivista <strong>Studia</strong> <strong>Moralia</strong>,<br />

per l’anno 1998.<br />

5. Studenti<br />

In quest’anno accademico gli studenti sono stati 301 (285<br />

uomini e 16 donne), di cui 281 ordinari che si sono preparati a<br />

conseguire i gradi accademici, e 20 ospiti. Tra gli ordinari, 138<br />

sono del secondo ciclo, 142 del terzo, mentre 1 è iscritto al programma<br />

biennale per il diploma.


CHRONICLE / CRÓNICA 459<br />

La provenienza degli studenti è riferita a tutti i continenti:<br />

127 dall’Europa, 71 dall’Asia, 31 dall’America del Nord, 31 dall’America<br />

del Sud, 39 dall’Africa e 2 dall’Australia/Oceania.<br />

Divisi per appartenenza religiosa, 165 sono del clero secolare,<br />

126 tra religiosi e religiose appartengono a 55 diversi ordini,<br />

mentre 10 sono laici.<br />

Durante l’anno accademico 1998-1999 sono state difese con<br />

successo 19 tesi di dottorato e 23 studenti, dopo la pubblicazione<br />

delle loro rispettive tesi, sono stati proclamati dottori in teologia<br />

della Pontificia Università Lateranense, con specializzazione<br />

in teologia morale. Inoltre, 69 studenti hanno conseguito la<br />

licenza in teologia morale, mentre uno studente ha ottenuto il<br />

diploma in teologia morale.<br />

Il 24 novembre 1998, l’assemblea degli Studenti ha eletto i<br />

propri rappresentanti, membri del Consiglio Accademico e portavoce<br />

presso le autorità accademiche ed amministrative dell’Accademia<br />

Alfonsiana. Si tratta di due studenti ordinari iscritti<br />

al secondo anno di licenza.<br />

Per la prima volta, quest’anno, durante il mese di marzo, il<br />

Preside ha incontrato individualmente tutti gli studenti del primo<br />

anno di licenza per verificare insieme la programmazione<br />

accademica, ed il loro orientamento. Inoltre, numerosi sono<br />

stati gli incontri tra il Preside ed i Rappresentanti degli Studenti,<br />

allo scopo di discutere varie questioni riguardanti gli studenti<br />

stessi.<br />

6. Informazioni sugli ex studenti<br />

6.1. Nomine<br />

Durante l’anno accademico 1998-1999, il Santo Padre ha nominato<br />

Arcivescovo di Torino S.E.R. Mons. Severino Poletto, finora<br />

Vescovo di Asti (Italia). Monsignor Poletto è stato studente<br />

dell’Accademia dal 1975 al 1977.<br />

6.2. In memoriam<br />

E’ giunta la notizia del decesso dell’ex studente Hendrik<br />

Berybe, C.Ss.R.. Nato il 1 maggio 1951 a Manggarai Flores (In-


460 DANIELLE GROS<br />

donesia), ha frequentato l’Accademia Alfonsiana dal 1987 al<br />

1994, ottenendo la licenza in teologia morale il 20 giugno 1990,<br />

ed il dottorato il 17 febbraio 1994.<br />

7. In vista dei cinquant’anni dell’Accademia Alfonsiana<br />

Il 9 febbraio 1949, il Rev.mo P. Buijs, allora Superiore Generale<br />

dei Padri Redentoristi, fondava l’Accademia Alfonsiana quale<br />

Istituto interno alla Congregazione del Santissimo Redentore.<br />

Tale evento verrà commemorato durante il prossimo anno accademico,<br />

insieme al 40° anniversario dell’incorporazione dell’Accademia<br />

Alfonsiana nella Facoltà Teologica della Pontificia Università<br />

Lateranense, avvenuta il 2 agosto 1960.<br />

L’inaugurazione dell’anno accademico 1999-2000, che si<br />

terrà l’8 ottobre 1999 sotto la presidenza di S.E.R. Mons. Angelo<br />

Scola, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense,<br />

verrà caratterizzata proprio da queste due ricorrenze.<br />

8. Gradi accademici conferiti<br />

8.1. Dottori designati<br />

Nel corso dell’anno accademico 1998-1999, 19 studenti hanno<br />

difeso pubblicamente la loro dissertazione dottorale:<br />

AUDU, Matthew (Nigeria – diocesi di Makurdi): A Smaller Family<br />

Size, the Alleged Solution to the Predicaments of Poverty and<br />

Hunger in Developing Countries (A Moral Evaluation of the<br />

Arguments For and Against) – 31 maggio 1999; Moderatore:<br />

Prof. Brian Johnstone<br />

The thesis examines the offer of the smaller family size as the<br />

only solution to the predicaments of poverty and hunger in developing<br />

countries in light of the Christian moral understanding<br />

of the human person, his dignity, his work, his sights, and his responsibility<br />

towards God and his neighbours.<br />

The result of the research is that there are many factors responsible<br />

for the poverty and hunger in developing nations, therefo-


CHRONICLE / CRÓNICA 461<br />

re smaller family size as their solution is erroneous and deceptive.<br />

Multiple solutions are required.<br />

CHAPEL, Joseph R. (U.S.A. – arcidiocesi di Newark): Why Confess<br />

Our Sins Out Loud? An Analysis Based on the Dialogical Philosphy<br />

of Ferdinand Ebner in Light of the Philosophy of Language<br />

and the Symbolic Sacramentology of Louis-Marie Chauvet<br />

– 11 marzo 1999; Moderatore: Prof. Bruno Hidber<br />

This dissertation responds to the commonplace question, “why<br />

should I tell my sins to another person? I confess directly to God;<br />

God knows I’m sorry for my sins and I know He forgives me.” The<br />

decline in recourse to sacramental reconciliation – specifically at<br />

the level of confession of sins out loud is examined using language<br />

philosophy as a means of dialogue between the dialogical personalism<br />

of Ferdinand Ebner and the sacramental theology of<br />

Louis-Marie Chauvet to explore the constitutive nature of “word”<br />

as it relates specifically to the confession of sins: as human<br />

beings, because we “have the word”, we must “say the word”.<br />

ETTIEN, Narcisse (Costa d’Avorio – diocesi di Yopougon): Des<br />

exigences éthiques préalables à un développement authentique.<br />

Réflexions à partir du cas du Sahel – 13 maggio 1999;<br />

Moderatore: Prof. Sebastiano Viotti<br />

Face aux défis du Sahel, de nombreuses solutions à caractère technique<br />

et matériel ont été proposées, mais sans véritable résultat.<br />

Au coeur des relations entre nations, inscrit dans la perspective<br />

du bien véritable de l’homme, on ne saurait atteindre aucun<br />

développement authentique, tant au niveau conceptuel que pragmatique,<br />

sans mettre l’accent sur des exigences éthiques indispensables.<br />

Entre autres, il nous semble opportun de porter l’insistance<br />

sur la solidarité, la justice et le respect de la personne<br />

humaine. C’est en les insérant au coeur des solutions préconisées<br />

que l’homme peut parvenir à une véritable libération des<br />

contraintes qui l’oppriment et donner, à long terme, totale expression<br />

à sa dignité d’image de Dieu.<br />

HOSTETTER, Laurence D. (U.S.A. – diocesi di Owensboro): The<br />

Ecclesial Dimension of Personal and Social Reform in the


462 DANIELLE GROS<br />

Writings of Isaac Thomas Hecker - 18 maggio 1999; Moderatore:<br />

Prof. Raphael Gallagher<br />

This dissertation seeks to address the question of the church’s role<br />

in reform from the perspective of Isaac Thomas Hecker (1819-<br />

1888). For Hecker, personal and social reform ultimately meant<br />

the realization of human and societal potential. The church, as<br />

Christ’s presence in history, enables this realization through the<br />

sanctification of individuals and through its work in society by<br />

means of those same individuals. Through narrative analysis<br />

this study traces the development of Hecker’s thought and isolates<br />

four core concepts upon which Hecker’s theology of reform<br />

is based: the human potential for communion with God; the role<br />

of the Holy Spirit in the life of the individual; the authority of<br />

the Catholic church; and the organic and development nature of<br />

the church<br />

KAMBANDA, Antoine (Rwanda – diocesi di Kigali): Structural Sin<br />

in Sollicitudo Rei Socialis in Relation to some Aspects of<br />

North-South Trade Structures - 27 gennaio 1999; Moderatore:<br />

Prof. Raphael Gallagher<br />

It is a study of structural sin in Sollicitudo Rei Socialis. The thesis<br />

discusses the situation of poverty and misery in the world of<br />

wealth and advanced technology in terms of structural sin. It gives<br />

the origin and evolution of the concept of structural sin. It<br />

shows the structural sin basically to be the sin of idolatry which<br />

is structured in the society. The moral nature of the problem of<br />

underdevelopment of the South, particularly in the North-South<br />

trade structures, is confirmed in the study of the Brandt Commission<br />

Report. This underdevelopment is evaluated in the light<br />

of the principle of solidarity and here structural sin is described<br />

as the sin of unsolidarity. It calls for conversion which is realised<br />

by the constructing structures of solidarity.<br />

KARUTA, Wenceslas (Rwanda – diocesi di Ruhengeri): La sacramentalité<br />

de la famille. Données théologiques fondamentales<br />

pour une redécouverte de l’identité de la famille. Conséquences<br />

pour la réflexion de l’Eglise - 26 febbraio 1999; Moderatore:<br />

Prof. Silvio Botero


CHRONICLE / CRÓNICA 463<br />

La famille est une réalité théologique; sa source et son prototype<br />

est Dieu Trine et Un. Sa sacramentalité consiste dans la “participation”<br />

et la “signification” de la relation Dieu-humanité, Christ-<br />

Eglise. Il s’agit de la sacramentalité latente (créaturelle ou embryonnaire);<br />

fondamentale (ou chrétienne); plénière (ou recherche<br />

de la réalisation plénière de la signication du mariage). La<br />

famille est donc: sacrement de la création et de l’alliance; sacrement<br />

de la Trinité comme “Prototype” sacrement de l’Eglise; sacrement<br />

de cohumanité. La famille doit développer sa potentialité<br />

sacramentelle.<br />

MAZUELOS PEREZ, José (Spagna – diocesi di Sevilla): Posibilidad<br />

y significado de una bioética mediterránea. Comparación de<br />

los modelos bioéticos de H.T. Engelhardt y D. Gracia – 13 novembre<br />

1998; Moderatore : Prof. Maurizio Faggioni<br />

El trabajo está enfocado a determinar si es posible, frente a la<br />

bioética de corte anglosaj plénière de la signication du mariage).<br />

La famille est donc: sacrement de la création et de l’alliance; sacrement<br />

de la Trinité comme “Prototype” sacrement de l’Eglacia,<br />

intentando alcanzar los siguientes fines: 1) descubrir si en ellos<br />

es posible determinar una conexión con los presupuestos filosóficos<br />

clásicos y con la ética hipocrática, algo que determina la<br />

existencia o no de una raíz mediterránea; 2) ver si dicha conexión<br />

influye a la hora de configurar el modelo bioético, lo que<br />

posibilita calificarlo como mediterráneo; 3) delimitadas las raíces,<br />

deducir a partir de ellas las posibles características de una<br />

bioética mediterránea.<br />

MBUMBA NGUVULU, Bonaventure (Repubblica Democratica del<br />

Congo – diocesi di Boma): La théologie politique selon Jean-<br />

Marie Aubert. Jalons pour un engagement socio-politique du<br />

chrétien africain. - 21 gennaio 1999; Moderatore: Prof. Brian<br />

Johnstone<br />

Depuis sa décolonisation, l’Afrique Sub-Saharienne est en proie<br />

à des problèmes multiformes: guerres tribales, famine, dictature,<br />

etc. Le manque d’une élite bien préparée et donc non mûre<br />

politiquement en est une des causes. Devant d’immenses potentialités<br />

dont dispose l’Afrique, nous pensons que les valeurs pro-


464 DANIELLE GROS<br />

mues par la pensée théologique-politique d’Aubert peuvent éclairer<br />

l’action socio-politique des africains en vue d’un avenir meilleur.<br />

La recherche des voies et des moyens qui peuvent aider l’Afrique<br />

à sortir de son marasme constitue l’objectif poursuivi<br />

dans notre dissertation doctorale.<br />

MIKODA, Dariusz (Polonia – diocesi di Legnica): La “Vita in Cristo”<br />

nella proposta di don Giuseppe Dossetti: un solo battesimo,<br />

un solo fine, due vie – 7 giugno 1999, Moderatore: Prof.<br />

Sabatino Majorano<br />

La tesi prende in esame la “Vita in Cristo”, fondata sul mistero<br />

dell’Incarnazione, secondo don Giuseppe Dossetti, docente di Diritto<br />

Ecclesiastico, deputato alla Costituente e alla camera, stretto<br />

collaboratore del Card. G. Lercaro al Vaticano II, monaco. Una<br />

proposta e un modello validi per tutti i cristiani che in quanto tali<br />

hanno ricevuto la “consacrazione” fondamentale nel Battesimo.<br />

La sua Famiglia religiosa, che ha voluto essere giuridicamente<br />

riconosciuta come Associazione di laici, accomuna quanti<br />

sono chiamati alla castità per il regno e coloro che sono chiamati<br />

a vivere il sacramento del matrimonio. Due vie verso un unico<br />

scopo: lo sviluppo coerente della vita battesimale sino alla sequela<br />

pura e totale del Cristo, la lode della gloria della Trinità Santissima,<br />

l’attesa vigilante e amorosa del ritorno del Signore, l’intercessione<br />

incessante per la Chiesa e per tutta l’umanità.<br />

MRIGHWA, Novatus Silvery (Tanzania – diocesi di Same): The Pastoral<br />

Diocesan Synod as an Instrument of New Evangelization<br />

and Moral Renewal –27 maggio 1999; Moderatore: Prof.<br />

Seán Cannon<br />

Through a judicious blend of historical, canonical, pastoral and<br />

above all moral considerations, this study focuses on the pastoral<br />

diocesan synod in its present structure which is based on the<br />

Vatican II ecclesiology of communion and service. The study<br />

proposes that with the active involvement of the laity as well as<br />

clergy and religious, the diocesan synod must now widen its scope<br />

beyond its predominantly juridical concern, and be adapted<br />

as a fitting instrument for renewal activities in evangelization<br />

and moral life. This work reinterprets further the scope and


CHRONICLE / CRÓNICA 465<br />

method of the diocesan synod, so as to forge a closer relationship<br />

between ecclesiology and a community oriented moral<br />

theology.<br />

OSORIO SIERRA, Rosa Adela (Colombia – F.M.M.): KuRosa Adela<br />

(Colombia – F.M.M.): ts further the scope and method of – 28<br />

maggio 1999; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi<br />

Según la obra de Waman Puma, una tentativa de rescatar históricamente<br />

la mujer en el contexto y visión antropolófica-cultural<br />

de Abia Yala. Su aporte moral en el nacimiento de América.<br />

PALAZZI, Marcello (Italia – diocesi di Cesena-Sarsina): La condizione<br />

anziana, una sfida per la società e per la Chiesa: studio<br />

socio-psicologico, etico e pastorale - 20 novembre 1998; Moderatore:<br />

Prof. Maurizio Faggioni<br />

Questa tesi intende: Fare il punto sulla nuova visione complessa<br />

e problematica, determinatasi con la variazione demografica di<br />

questi ultimi anni che ha fatto assistere ad un aumento della popolazione<br />

anziana, tentando di rispondere agli interrogativi del<br />

tutto inediti, che il singolo e la comunità civile ed ecclesiale si ritrova<br />

ad affrontare; Favorire la riscoperta e la valorizzazione della<br />

condizione anziana, delineando per questa fase della vita una<br />

teologia per l’agire morale, mirante a formare e sostenere la consapevolezza<br />

sulle sue potenzialità.<br />

PANACHICKAVAYALIL, Thomas Sebastian (India – O.F.M.Cap.):<br />

Ethical Perspectives of the Waste Land of T. S. Eliot in the<br />

Multi-Religious Context of Today - 13 gennaio 1999; Moderatore:<br />

Prof.ssa Nella Filippi<br />

A critical analysis of The Waste Land is done here. Eliot’s high<br />

sense of morality and intuitive insights prompted him to point<br />

out the absence of moral values in the society and individual.<br />

The poet has presented here the whole spiritual story of humanity,<br />

fallen humanity, and pointed a way out to salvation by the<br />

process of purification and practice of moral virtues. The wisdom<br />

of the East and West are combined here in a harmonious<br />

way. The poet offers certain ethical provocations and conse-


466 DANIELLE GROS<br />

quences for the men and women of today. The message of The<br />

Waste Land is to be taken seriously while it is vital for our own<br />

meaningful existence as well as for the cultural, ethical and spiritual<br />

transformation of today’s world.<br />

SIMONE, Giannicola Maria (Italia – B.T.A.): Lo Spirito Santo radice<br />

del rinnovamento della vita cristiana. Il contributo di Papa<br />

Paolo VI alla svolta pneumatologica del Concilio Vaticano<br />

II – 14 giugno 1999; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano<br />

In questo lavoro si è cercato di comprendere come lo Spirito<br />

Santo aiuta il cristiano a vivere la sua vita quotidiana. Poi, si è<br />

studiato come Paolo VI, in tutta la sua vita, ha spiegato ai cristiani<br />

il modo in cui lo Spirito Santo aiuta a essere più fedeli a<br />

Cristo.<br />

SMYKSY, Jsef (Polonia - C.Ss.R.): La diagnosi e il superamento<br />

della coscienza fallibile in Sant’Alfonso e nei manuali di teologia<br />

morale dei redentoristi fino al Concilio Vaticano II – 20<br />

aprile 1999; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano<br />

La coscienza, santuario della persona, può, quasi cieca in seguito<br />

all’abitudine e al peccato (cf. GS 16) errare: per questa ragione<br />

non può essere considerata un giudice infallibile. La vasta<br />

problematica riguardante la coscienza fallibile, la sua diagnosi e<br />

il suo superamento, strutturata principalmente intorno alle nozioni<br />

di coscienza erronea, lassa, perplessa, scrupolosa, dubbia e<br />

probabile, nei trattati sulla coscienza in alcuni manuali del rigorismo,<br />

probabiliorismo, probabilismo e lassismo, come anche<br />

nel pensiero teologico morale di Sant’Alfonso e di alcuni redentoristi,<br />

è stato oggetto di ricerca della presente dissertazione.<br />

SON, Josephus Sung-Ho (Corea – diocesi di Daegu): L’atto coniugale<br />

come espressione d’amore. Un confronto tra la tradizione<br />

e il post-concilio - 18 dicembre 1998; Moderatore: Prof.<br />

Silvio Botero<br />

Nella tradizione l’atto coniugale veniva scusato solo per il motivo<br />

della procreazione della prole. Con una prospettiva più aperta,<br />

dopo il Concilio l’atto coniugale viene inteso come una


CHRONICLE / CRÓNICA 467<br />

espressione intima d’amore reciproco, sia da parte dei teologi sia<br />

da parte del Magistero. Questa sottolineatura non è una nuova<br />

invenzione, ma è un ricorso alla Bibbia e una riscoperta della<br />

tradizione dimenticata.<br />

SOPI, Mikel (Kosovo – diocesi di Prizren): I fondamenti ontologici<br />

della dignità dell’uomo. La soggettività della persona umana<br />

in Pavan – 11 dicembre 1998; Moderatore: Prof. Brian<br />

Johnstone<br />

L’argomento ricopre un ambito semantico ampio. Il motto “conosci<br />

te stesso” (a partire dalla fondazione ontologica) si impone<br />

all’uomo di oggi – “perso” e senza punti di riferimento – come<br />

la chiave di lettura della propria realtà, affinché possa assumere<br />

la responsabilità e “comprendere” la vita “in pienezza”. L’obiettivo<br />

è stato quello di ricostruire i concetti basilari di Pavan,<br />

fino a mettere in luce le basi del suo discorso teologico-morale e<br />

filosofico-giuridico. La persona porta in sé l’impronta divina:<br />

l’uomo anela alla libertà, alla verità, alla bontà, alla giustizia; Dio<br />

è la Libertà, la Verità, La Bontà, La Giustizia. L’uomo è, e resta<br />

il fondatore di ogni storia, il costruttore di ogni assetto sociale,<br />

l’essere continuamente in tensione trascendentale.<br />

TARABAY, Antoine (Libano - O.L.M.): Bioéthique catholique et<br />

bioéthique musulmane: étude d’éthique comparée en vue d’une<br />

bioéthique interreligieuse - 16 giugno 1999; Moderatore:<br />

Prof. Maurizio Faggioni<br />

Cette recherche vise un rapprochement entre l’Eglise Catholique<br />

et l’Islam sur la bioéthique. Elle constitue un essai pour une<br />

bioéthique interreligieuse. La confrontation éthique entre les<br />

deux religions met en évidence les points communs qui expriment<br />

une possible collaboration et révèlent la volonté d’un dialogue<br />

bioéthique. En revanche, elle dévoile aussi que les divergences<br />

ne sont pas sur les questions apparentes mais qu’elles<br />

touchent des principes fondamentaux. Cette étude d’éthique<br />

comparée pointe les efforts de l’Eglise pour l’ouverture, l’entente<br />

et le dialogue avec l’Islam.


468 DANIELLE GROS<br />

ZAPALA, Janusz (Polonia – S.D.B.): La configurazione a Cristo<br />

Buon Pastore fondamento e fulcro della vita sacerdotale alla<br />

luce dell’esortazione post-sinodale Pastores Dabo Vobis – 10<br />

maggio 1999; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano<br />

L’aspetto teologico-morale della vita sacerdotale, che scaturisce<br />

dalla “configurazione” a Cristo Buon Pastore, e che costituisce il<br />

punto focale della ricerca, viene esaminato alla luce dell’esortazione<br />

post-sinodale Pastores Dabo Vobis di Giovanni Paolo II. Lo<br />

studio si articola in quattro capitoli: le prospettive conciliari e il<br />

loro sviluppo da parte del magistero successivo (cap. 1); l’approfondimento<br />

e l’attualizzazione nell’VIII° Assemblea generale<br />

Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (cap. II); l’esortazione post-sinodale<br />

Pastores Dabo Vobis (cap. III); l’aspetto teologico-morale<br />

del tema della configurazione del presbitero a Cristo Buon Pastore<br />

nella Pastores Dabo Vobis (cap. IV). Dopo aver considerato<br />

come Gesù Cristo costituisca il principio fondante ed esemplare<br />

del presbitero e come l’unica santità del battezzato si esprima<br />

nella vita del presbitero stesso, sono state approfondite e tracciate<br />

delle linee pratiche, rispondenti ad una profonda attualità<br />

e urgenza storica. Trattando dell’esistenza sacerdotale nel suo essere,<br />

vivere ed operare, ne sono stati puntualizzati i vari aspetti,<br />

con riferimento all’impenetrabile amore di Cristo Buon Pastore,<br />

ponendo in rilievo alcuni, tra i più significativi, tratti teologico<br />

morali della vita del presbitero.<br />

8.2. Dottori proclamati<br />

Durante l’anno accademico 1998-1999 i 23 studenti di seguito<br />

indicati, ai quali è stato conferito il titolo di dottore in teologia<br />

con specializzazione in teologia morale, hanno pubblicato,<br />

alcuni in versione integrale, la loro tesi dottorale:<br />

AERTS, Bruno, Solidarity Born out of Communion. An Inquiry into<br />

the Social Dimension of Premonstratensian Spirituality.<br />

Excerpta. Roma 1998, 214 pp.<br />

ANZALONE, Giuseppe, Teologia della tenerezza e stile di vita cristiana<br />

di fronte al fenomeno mafioso. Caltanissetta 1998, 232 pp.


CHRONICLE / CRÓNICA 469<br />

BILOKAPIC, Simun, Problemi morali riguardanti la violenza carnale<br />

con riferimento particolare allo stupro di massa nella<br />

guerra della ex-Jugoslavia. Excerpta. Roma 1999, 198 pp.<br />

CHAPEL, Joseph R., Why Confess Our Sins Out Loud? An Analysis<br />

Based on the Dialogical Philosophy of Ferdinand Ebner in<br />

Light of the Philosophy of Language and the Symbolic Sacramentology<br />

of Louis-Marie Chauvet. Roma 1999, 331 pp.<br />

CHIRAPPANATH, Stephen, An Ethics of Cooperation in Health Ministry.<br />

The Catholic Physician and Sterilization Procedures.<br />

Excerpta. Roma 1998, 133 pp.<br />

FERNANDEZ ANTA, Zacarias, La utopia de la nueva cristiandad en<br />

Jacques Maritain. Roma 1999, 360 pp.<br />

HOSTETTER, Laurence D., The Ecclesial Dimension of Personal<br />

and Social Reform in the Writings of Isaac Thomas Hecker.<br />

Roma 1999, 442 pp.<br />

JERUMANIS, Andris-Marie, L’homme, splendeur de la gloire de<br />

Dieu. Les fondements esthétiques de la morale chrétienne selon<br />

Saint Paul, Saint Augustin et Hans Urs Von Balthasar. Excerpta.<br />

Roma 1998, 191 pp.<br />

KAMBANDA, Antoine, Structural Sin in SOLLICITUDO REI SO-<br />

CIALIS in Relation to some Aspects of North-South Trade<br />

Structures. Excerpta. Roma 1999, 158 pp.<br />

KRAJ, Jerzy, “Mysterium Iniquitatis” e “Mysterium Pietatis” nell’insegnamento<br />

di Giovanni Paolo II sulla redenzione (1978-<br />

1992).Excerpta. Gerusalemme 1998, 151 pp.<br />

KUZMINSKI, Dariusz, Educazione della coscienza nel giorno del Signore.<br />

Itinerario di vita cristiana proposto dal lezionario festivo<br />

del rito romano. Excerpta. Roma 1999, 102 pp.<br />

MARTELLA, Luigi, La centralità di Cristo nella vita cristiana. Analisi<br />

del magistero C.E.I. negli anni ‘80. Roma 1999, 280 pp.


470 DANIELLE GROS<br />

MATULIC, Tonci, Lo statuto dell’embrione umano. Lo statuto ontologico<br />

dell’embrione umano nella prospettiva storica e nel<br />

dibattito bioetico attuale alla luce dei dati scientifici moderni.<br />

Excerpta. Roma 1999, 224 pp.<br />

MAZUELOS PEREZ, José, Posibilidad y significado de una bioética<br />

mediterránea. Comparacine umano nella prospettiva storica e<br />

nel dibattito bioetico Excerpta. Roma 1999, 117 pp.<br />

MAZZEO, Antonio, Il dinamismo dell’ethos. Una rilettura del metodo<br />

filosofico-teologico di Karol Wojtyla. Excerpta. Roma<br />

1998, 70 pp.<br />

PALAZZI, Marcello, La condizione anziana, una sfida per la società<br />

e per la Chiesa. Excerpta. Roma 1999, 169 pp.<br />

PANACHICKAVAYALIL, Thomas S., Ethical Perspectives of the Waste<br />

Land of T.S.Eliot in the Multi-religious Context of Today. Roma<br />

1999, 260 pp.<br />

PISANA, Domenico, La famiglia santuario della vita. La riprogettazione<br />

dell’ethos familiare siciliano alla luce di “Evangelium<br />

Vitae”. Roma 1999, 492 pp.<br />

SMYKSY, Jozef, La diagnosi e il superamento della coscienza fallibile<br />

in Sant’Alfonso e nei manuali di teologia morale dei Redentoristi<br />

fino al Concilio Vaticano II. Excerpta. Roma 1999,<br />

75 pp.<br />

SON, Josephus Sung Ho, L’atto coniugale come espressione d’amore.<br />

Un confronto tra la tradizione e il post-concilio. Excerpta.<br />

Roma 1999, 85 pp.<br />

TATI, Raul, Crise africana e processo de democratizaçao em Africa.<br />

Pertinência e implicaçoes ético-antropola moraleRoma<br />

1998, 294 pp.<br />

WROBEL, Józef, I fondamentali doveri e i diritti della persona<br />

nelle opere di Jacques Maritain. Excerpta. Roma 1999, 118<br />

pp.


CHRONICLE / CRÓNICA 471<br />

ZAK, Lubomir, “Verità ed ethos”. Il pensiero etico nella “teodicea”<br />

di P.A. Florenskij. Excerpta. Roma 1998, 108 pp.<br />

8.3. Licenza in teologia morale<br />

Nel corso dell’anno accademico 1998-1999, 69 studenti hanno<br />

ottenuto la licenza in teologia morale:<br />

AFOLA, Kossi M. (Togo - M.C.C.J.): Une éthique sociale pour le Togo:<br />

une esquisse basée sur des documents de l’Eglise catholique.<br />

AL-ALAM, Elie (Libano - B.M.V.): La famiglia Chiesa Domestica<br />

secondo il pensiero di Giovanni Crisostomo.<br />

ALBAO, Alan (Filippine - M.F.): L’impossibilità di assumere gli obblighi<br />

essenziali del matrimonio per motivi psicologici. (Studio<br />

comparativo tra il Codice di Diritto Canonico ’83, can.<br />

1095, § 3 e l’articolo 36 del Codice sulla famiglia delle Filippine<br />

‘87).<br />

AMAN, Petrus Kanisius (Indonesia - O.F.M.): Preferential Option<br />

for the Poor as a Moral Category according to “Sollicitudo Rei<br />

Socialis”.<br />

ANTHONY, Augustine (India - O.P.): Mixed and Interfaith Marriages<br />

in Central India. Ecumenical and Moral Perspectives.<br />

ANUFORO, Vincent Chinwem (Nigeria - R.C.J.): La bioetica dell’infanzia.<br />

Con particolare riferimento al contesto socio-culturale<br />

nigeriano.<br />

AROCKIA SAMY SOOSAI, John Peter (India - diocesi di Tanjore):<br />

Parents: The Co-creators in the Creative Plan of God. A Special<br />

Reference to the Teachings of Pope John Paul II on Marriage.<br />

ATJAS, Yonas (Indonesia - diocesi di Amboina): I contributi della<br />

teologia morale alla cultura tanimbarese nell’evangelizzazione<br />

nuova.


472 DANIELLE GROS<br />

AUNGWIN, Cyprian (Myanmar - diocesi di Mandalay): The Concept<br />

of Justice in the Teaching of St. Thomas Aquinas.<br />

BEAUDRY, Anne (Canada): Our Adoptive Filiation as it is revealed<br />

in the Paschal Mystery according to F.-X. Durrwell’s “Le Père,<br />

Dieu en son Mystère”.<br />

BUNGAMA, Aspego T. (Repubbica Democratica del Congo -<br />

M.C.C.J.): L’action non-violente dans le contexte actuel du<br />

Congo.<br />

CACCAVALE, Charles (U.S.A. - diocesi di Brooklyn): Resurrection<br />

and the Moral Life: An Analysis of Three Texts on the Resurrection<br />

of Jesus Christ<br />

CANNIZZARO, Corrado (Italia - diocesi di Venezia): La clonazione.<br />

Prospettive per una valutazione etica.<br />

CARVALHO DE SIQUEIRA, José (Brasile - diocesi di Parnaiba): Os<br />

excluídos na consciência da Igreja do Brasil (1991-1998)<br />

CENDEJAS ALEJANDRE, Manuel (Messico - diocesi di Zamora):<br />

Guerra justa: estudio sobre la carta “Firmissimam constantiam”<br />

de Pio XI al Epescopado Mexicano, respecto a la situación<br />

religiosa en Mexico.<br />

CHITTUPARAMBIL, Francis (India - O.C.D.): Moral and Pastoral<br />

Dimensions of Integral Healing.<br />

CICCARELLI, Lida (Italia - diocesi di Firenze): L’ethos dell’unità alla<br />

luce della proposta di Chiara Lubich.<br />

CIURARU, Ion (Romania - O.F.M.Conv.): La pastorale dei divorziati<br />

risposati. Il principio dell’indissolubilità e la sua applicazione<br />

nella realtà odierna.<br />

COLOPELNIC, Vasile (Romania - diocesi di Raramures): La dimensione<br />

morale della politica nell’insegnamento di Giovanni<br />

Paolo II.


CHRONICLE / CRÓNICA 473<br />

CORREIA CRUZ, Valtewan (Brasile - diocesi di Aracaju): A fome e<br />

a pobreza na América Latina. Suas causas e reflexao éticoteológica.<br />

COUTINHO, Matthew (India - S.D.B.): Moral Education and the<br />

Role of the Moral Theologian.<br />

CREANZA, Giuseppe (Italia - diocesi di Altamura): Il fenomeno<br />

“vita”. Prospettive scientifiche, filosofiche e teologico-morali.<br />

DA SILVA, Mário Antonio (Brasile - diocesi di Jacarezinho): A<br />

família e os desafios da educaçao para o discernimento ético.<br />

Uma reflexao sobre o ideal ético da família crista brasileira.<br />

DEL BROCCO, Salvatore E. (Italia - C.P.): Il grido della storia nell’opera<br />

“La Storia” di Elsa Morante. Prospettive etiche.<br />

DEL MISSIER, Giovanni (Italia - diocesi di Udine): Considerazioni<br />

etiche sugli interventi normativi riguardanti l’AIDS in Italia.<br />

DEL TORO RUEDA, Noé H. (Messico - O.F.M.): La comunicación<br />

en la pareja, elemento indispensable en la formación del “nosotros<br />

conyugal”.<br />

DROTAR, Kent Fabian (U.S.A. - diocesi di Denver): The Fundamental<br />

Option in Contemporary Moral Theology.<br />

ESCOBAR HUAMANI, Freddy J. (Perù - C.Ss.R.): Perú: De la crisis<br />

de valores hacia una cultura de la vida y de la paz. (Reflexiones<br />

sobre la realidad peruana en la etapa de 1979-1992).<br />

GALDEANO, Cristobal José (Argentina - diocesi di Mendoza): La<br />

dignidad Humana en Tres Documentos de la Conferencia Episcopal<br />

Argentina.<br />

GALLARDO, Jorge Alberto (Argentina - F.M.S.): La educación moral<br />

en la escuela media.<br />

GIOBBI, Ileana (Italia - diocesi di Roma): Lo spirito come legge<br />

nuova nella catechesi morale oggi.


474 DANIELLE GROS<br />

GRECO, Vincenzo (Italia - S.J.): Guerra e pace negli scritti politici<br />

di Martin Lutero.<br />

IGWE, Veronica (Nigeria - D.M.M.M.): Human Sexuality as an Indispensable<br />

Factor in Inter-personal Relationships: Ethical<br />

Implications.<br />

KILADA, Indrawes Bisada (Egitto - diocesi di Luxor): La famiglia<br />

cristiana tra la Chiesa e la società in Egitto.<br />

KULCHANDRA D’CRUZ, Alphonse (India - diocesi di Delhi): The<br />

Influence of Original Sin on The Just War Theory of St. Augustine.<br />

LEFORT, David R. (U.S.A. - diocesi di Albany): Futility and Proportionality:<br />

Decision-Making for Patients Whose Treatments<br />

Offer No Hope of Recovery.<br />

LOMBARDI, Filippo (Italia - diocesi di Matera): Educare alla speranza.<br />

Itinerario etico pedagogico allla luce dei Catechismi della<br />

Chiesa italiana.<br />

LOPES RICCI, Luiz Antonio (Brasile - diocesi di Bauru): Escolha<br />

a vida (Dt 30, 19). Alguns princípios para uma cultura da vida<br />

na encíclica “Evangelium vitae”.<br />

MADATHIKUNNEL, Augustine (India - diocesi di Khandwa): Abortion:<br />

Destruction of a Person.<br />

MEDINA SANCHEZ, Juan José (Colombia - C.Ss.R.): El eclipse de<br />

la imagen del Padre.<br />

MONTEVERDE, Giuseppe (Italia - S.J.): Il “Satyagraha” una possibile<br />

via per un’attuazione sociale e politica di un “sogno”. “Se<br />

amiamo coloro che ci amano, questa non è non violenza. Non<br />

violenza è amare coloro che ci odiano” (M.K. Gandhi).<br />

MULAKKAL, Franco (India - diocesi di Jullundur): Concept of<br />

‘Good Life’ according to Guru Nanak.


CHRONICLE / CRÓNICA 475<br />

N’DZENDZE, Paul (Congo - diocesi di Owando): Le guerre civili<br />

del Congo-Brazzaville e le grandi sfide etiche lanciate dal Sinodo<br />

per l’Africa: La posizione e la situazione della Chiesa locale.<br />

NASR, Youssef (Libano - B.S.): “Etre fils dans le fils”. Essai de fondation<br />

de la morale chrétienne sur le mystère du Christ chez<br />

Réal Tremblay, C.Ss.R.<br />

NYUNT WAI, Maurice (Myanmar - diocesi di Pathein): The Value<br />

of Life. Theravada Buddhist Perspective and Catholic Christian<br />

Perspective. (A Comparatve Study towards Interreligious<br />

Dialogue).<br />

ONOFRI, Alberto (Italia - F.F.B.): L’amore coniugale nella catechesi<br />

della Chiesa italiana. Un confronto tra i catechismi dei giovani<br />

e il catechismo degli adulti.<br />

PAIZANO, Heriberto (Nicaragua - diocesi di Granada): Aspecto<br />

antropológico de la justicia sociale, en la enciclica “Centesimus<br />

annus”.<br />

PALOMINO OUTON, Angel N. (Spagna - O.C.D.): La corporeidad<br />

presupuesto de la relación conyugal. Una reflexión antropológica-teológica<br />

del cuerpo.<br />

PASCUCCI, Luciano (Italia - diocesi di Roma): La fraternità sacerdotale<br />

alla luce della “Pastores dabo vobis” e del “Direttorio per<br />

il ministero e la vita dei presbiteri”.<br />

PEREZ SILVAN, José Manuel (Messico - diocesi di Tabasco): Las<br />

relaciones sexuales prematrimoniales. Una reflexión ético-pastoral.<br />

PINTO, Denver John (India - C.Ss.R.): The Significance of “Person”<br />

in the Bio-ethical Writings of Bernhard Häring and Stanley<br />

Hauerwas.<br />

POTTER, David (Gran Bretagna - diocesi di Liverpool): Human<br />

Cloning: A Theological Evaluation.


476 DANIELLE GROS<br />

QUARANTA, Giuseppe (Italia - O.F.M.Conv.): La metodologia della<br />

dottrina sociale della Chiesa: un confronto tra “Rerum novarum”<br />

e “Sollicitudo rei socialis”.<br />

RASCHI, Gabriele (Repubblica di San Marino - O.F.M.): Etica dell’infanzia.<br />

Il bambino sano e malato come soggetto etico.<br />

RAYAPPAN PADMAVATHI, Vincent (India - diocesi di Neyyattinkara):<br />

The Ethical Implications of Genetic Engineering with Special<br />

Reference to Human Cloning.<br />

REYES ROMERO, Filiberto (Messico - M.S.F.): Hacia una ética de<br />

la misericordia.<br />

RIBEIRO, Antonio de Assis (Brasile - S.D.B.): As ambiguidades éticas<br />

da pós-modernidade: desafios e propostas para a educaçao<br />

moral juvenil à luz da ética crista.<br />

RIVERA HERNANDEZ, Luis Alberto (Colombia - diocesi di Socorro):<br />

Amor y verdad presupuestos para una ética sexual conyugal<br />

en la propuesta moral de Juan Pablo II.<br />

SOLA, Ivica (Croazia - diocesi di Djakovo): I significati del concetto<br />

della decisione nella filosofia di Martin Buber.<br />

SOOS, György (Ungheria - O.Praem.): Il fondamento antropologico<br />

della giustizia sociale: Un confronto tra John Rawls e Carlos-Josaphat<br />

Pinto De Oliveira.<br />

STACHERSKI, Remigiusz (Polonia - diocesi di Plock): Solidarietà<br />

come principio etico-morale nel dialogo cristiano-ebraico.<br />

Un’analisi alla luce di alcuni documenti della Chiesa.<br />

TOLO, Paulus (Indonesia - S.V.D.): Theology of the Body in the<br />

Teachings of John Paul II.<br />

TONDE, Bernard (Burkina Faso - diocesi di Bondoukou): Perspectives<br />

fondamentals sur l’éthique sexuelle dans la catéchèse<br />

morale en Côte D’Ivoire.


CHRONICLE / CRÓNICA 477<br />

TORRES ZEGARRA, Paúl Martín (Perù - O.F.M.Cap.): La relación<br />

ético-epiritual en Tullo Goffi.<br />

TOZZO, Massimo (Italia - S.J.): Affettività e moralità: una riflessione<br />

a partire dalla ricerca del p. L. M. Rulla.<br />

VALERO SANCHEZ, Erasmo (Messico - diocesi di San Luis Potosi):<br />

Nueva evangelización y moral en contexto mexicano a la<br />

luz de la visión alfonsiana.<br />

VALKOVIC, Jerko (Croazia - diocesi di Krk): Mass media e responsabilità<br />

morale nell’insegnamento di Paolo VI e Giovanni<br />

Paolo II.<br />

WIDYANTARDI, Fransiscus (Indonesia - diocesi di Purwokerto):<br />

Preparation for the Sacrament of Marriage.<br />

ZUMBA, Ailson Pinheiro (Brasile - diocesi di Cruzeiro Do Sul): A<br />

Família no Acre, objeto de evangelizaçao e instrumento evangelizador<br />

à luz da CNBB.<br />

DANIELLE GROS<br />

Segretaria Generale


Reviews / Recensiones<br />

Borriello, L., Caruana E., Del Genio M. R., Suffi N. (a cura di),<br />

Dizionario di mistica. Roma: Liberia Editrice Vaticana, 1998,<br />

1301 p.<br />

This work is a timely and much needed tool for researchers on<br />

Christian mysticism and related fields. It contains over 600 entries<br />

from 228 scholars and will almost certainly become the standard<br />

reference for anyone wishing to delve more deeply into the<br />

theoretical and practical nuances of contemporary mystical<br />

experience. The aim of the work is to bring clarity to the problem of<br />

mysticism as it is understood and disseminated in the current world<br />

arena. Although it focuses specifically on Christian mysticism, it<br />

makes appropriate references to mystical experience in other<br />

religions and takes great pains to integrate its insights with the<br />

psychological, social, and religious sciences. Serious efforts are also<br />

made both to present the historical and cultural contours that helped<br />

to shape the Christian mystical tradition and to highlight the great<br />

individuals, religious movements, and schools that went into making<br />

it so exceedingly rich and bountiful. Readers will also appreciate the<br />

way in which mysticism is related to other important fields of<br />

Christian experience, most notably: conversion, the virtues and vices,<br />

Christian asceticism, the liturgy, and spiritual theology.<br />

The entries themselves are compact, well-researched, written in<br />

a clear, generally uniform style, and conclude with a selected<br />

bibliography at the end that promises to guide interested readers to<br />

further primary and secondary sources. Of special interest are the<br />

* Las obras están ordenadas según el orden alfabético. / The works are<br />

arranged in alphabetical order.


480<br />

“Suggerimenti per una Lettura Sistematica del DIM” (pp. 11-15),<br />

which order the entries in such a way so that the reader can use the<br />

work not merely as a reference book (to be used as random questions<br />

arise), but also as a kind of “textbook” on the mystical life (to be read<br />

in a more methodical and reflective manner). This valuable<br />

hermeneutical key guides the reader first through those entries<br />

dealing with the basic distinctions between spirituality and<br />

mysticism, then through those that focus on the diverse mystical<br />

experiences present throughout the course of history (with particular<br />

reference to their geographic provenance), and then through those<br />

that treat the various types of mysticism. It continues with articles<br />

dealing with mysticism as it is incarnated in daily life, moves on to<br />

those that delve into the specifically experiential dimensions of<br />

mysticism, and then to those concerned with how those experiences<br />

are lived by “l’uomo spirituale.” It concludes by suggesting that the<br />

reader go through those articles dealing with the actual expressions<br />

of mystical experience, then through those which discuss some of the<br />

typical movements of mysticism that have arisen through the course<br />

of time, and finally through those dealing with the various problems<br />

arising from specific cultural contexts. Anyone who takes the time<br />

and the effort to go through the work in this way will be exposed to<br />

a comprehensive account of how mystical experience is understood<br />

in the Catholic Church today. Those who do not, can still use these<br />

suggestions as a way of placing a particular entry in the context of a<br />

larger theological and structural whole. For this reason, the<br />

“Suggerimenti” can be considered an integral part of the work and<br />

should be read through and studied carefully if the reader wishes to<br />

make full use of the material at his or her disposal.<br />

It would be next to impossible to provide an adequate critique of<br />

the scholarship presented in this massive work. To do so would<br />

require a small volume in its own right, one that would take the time<br />

to examine with a critical eye not only the individual entries<br />

themselves, but also the cumulative effect they have on the volume<br />

as a whole. Care would also have to be given to what the editors have<br />

judiciously decided to omit. On the positive side, this reviewer<br />

concurs with the observations made by Raffaele Farina in the<br />

Introduction which applaud the Dictionary’s attempt to offer: (1) a<br />

doctrinal corpus of material rooted in the tradition of the Church<br />

and (2) the experience of mystics who are open to the action of the<br />

Spirit in every age, in every place, in every stage of life, and in every


481<br />

state of life (p. 6). On the more critical side, this reviewer finds it<br />

strange that the editors would include individual entries on the<br />

Father, Son (under “Cristo – Cristocentrismo”) and Spirit, but choose<br />

to omit a corresponding synthetic entry on the Trinity. He does not<br />

understand, moreover, why they would include an entry on the gifts<br />

of the Spirit, but fail to include a corresponding one on the fruits. He<br />

also finds it curious that they would permit an entry on friendship<br />

which has virtually nothing to say about Aelred of Rievaulx’s twelfthcentury<br />

treatise on Spiritual Friendship, one of the classic texts –<br />

Christian or otherwise – on the subject. He wonders, moreover, how<br />

their claim in the Preface to examine mystical experience in all times<br />

and in all geographical areas (“...in tutti i tempi e in tutte le aree<br />

geografiche,” p. 7) would account for the book’s near total disregard<br />

for the mystical experience on the American continent. The entries<br />

on “Americanismo” and “Thomas Merton,” while interesting and<br />

valid in their own right, do not even begin to tap the wealth of<br />

spiritual and genuinely mystical experiences which touched the<br />

human spirit long before the white man ever touched the shores of<br />

the Americas. An entry on Native American mysticism would have<br />

been a welcome complement to the very fine entries dedicated to<br />

other geographical areas. A similar critique could be made regarding<br />

the lack of inclusion of the native African religions. These curious<br />

omissions point to the selective nature of reference works of this<br />

kind and of the difficult task the editors had in integrating the vast<br />

amount of material relating to the study of mystical experience in the<br />

present day.<br />

Despite these few and relatively minor lapses, the work is<br />

masterfully conceived and executed. Whatever lacunae the reader<br />

might find can easily be supplemented by parallel and<br />

supplementary reading. As a collaborative, interdisciplinary effort of<br />

experts in theology, the social sciences, and the humanities, it is a<br />

remarkable work that deserves a wide dissemination and readership.<br />

Although it is geared toward a wide (even popular) audience, the<br />

work would be especially useful to theologians, students of the<br />

religious sciences, and anyone with general or specialized interests<br />

in what mysticism has to say about the ultimate meaning of human<br />

existence.<br />

DENNIS J. BILLY, C.Ss.R.


482<br />

Chimirri, Giovanni (a cura di), L’Etica dell’idealismo. La filosofia<br />

morale italiana tra neohegelianismo, attualismo e spiritualismo.<br />

Milano: Associazione Culturale Mimesis, 1999, 192 p.<br />

El autor presenta, en este libro, una selección de textos<br />

“suficientemente amplia y representativa de lo que fue el idealismo<br />

italiano contemporáneo en sus principales corrientes:<br />

neohegelianismo, actualismo y espiritualismo cristiano de<br />

inspiración gentiliana” (p. 9). Su interés, sin embargo, se limita a la<br />

parte ética del pensamiento idealista y al rescate de algunos textos de<br />

importantes pensadores de esta corriente que no suelen aparecer en<br />

los libros de historia de la filosofía. Todo esto se refleja cabalmente<br />

en el título y subtítulo de la obra.<br />

La antología va precedida de una amplia introducción que<br />

ocupa un poco más de la mitad del libro. En ella el autor desarrolla<br />

un pequeño tratado sobre el idealismo, y particularmente sobre el<br />

idealismo moral, en una serie de breves capítulos que siguen un<br />

orden temático lógico. Chimirri comienza describiendo la herencia<br />

idealista y su actualidad (cap. 1), sus principales figuras (cap. 2) y su<br />

relación con otras filosofías (cap. 3). Focaliza después la esencia del<br />

idealismo (cap. 4) y expone sus reflexiones críticas (cap. 5) que<br />

formula “sobre todo en función de la legitimidad y posibilidad de<br />

una ética filosófica” (p. 47). A partir de allí el autor se concentra en<br />

la parte ética del idealismo desarrollando las relaciones entre el<br />

idealismo y la ética (cap. 6) y los temas más significativos de la ética<br />

idealista (cap. 7). Concluye su exposición con una serie de breves<br />

fichas bio-bibliográficas sobre los autores presentes en la antología y<br />

sobre otros filósofos importantes en el panorama italiano (cap. 8).<br />

Interesante es también la bibliografía que cierra la introducción.<br />

Creemos de utilidad señalar algunos presupuestos que sostienen<br />

y alimentan esta reflexión histórico-teorética. El autor parte de una<br />

doble constatación historiográfica: está convencido, por un lado, que<br />

ciertas nociones y reflexiones típicas del idealismo italiano<br />

sobreviven en otras corrientes filosóficas y, por otro, que no<br />

contamos todavía con una seria investigación sobre el idealismo<br />

desde el punto de vista moral. Otros dos presupuestos significativos,<br />

plenamente condivisibles, son de naturaleza crítico-teorética: la<br />

convicción de “la perenne validez de algunas tesis fundamentales del<br />

idealismo” y la certeza crítica que muchas de las páginas estupendas<br />

que el idealismo ha escrito sobre la ética pueden tener un sentido y


483<br />

un valor en el marco de una “metafísica creacionista” y de una “ética<br />

personalista cristiana” (p. 7).<br />

NARCISO CAPPELLETTO C.Ss.R.<br />

Ciorra, Anthony J. and Keating, James, Moral Formation in the<br />

Parish. New York: Alba House, 1998, 179 p.<br />

The dominating questions of this book are succinctly put on p.<br />

xv, and correspond to the six subsequent chapters: an over-view of<br />

parish life in the USA, the Eucharist as heart of the parish, the need<br />

for a process of discernment, a discussion of current pastoral<br />

problems and a headline-guide how to go about moral formation in<br />

the parish. Behind the outline the authors have a clear purpose. In<br />

their view the major issues in the Church are poor doctrinal<br />

formation, the prevalence of the autonomous conscience and a<br />

culture of individualism (xii, 28). Rejecting a return to<br />

authoritarianism as a solution to these issues (xiv), the authors try to<br />

write in a non-ideological way, a trait heartily to be recommended to<br />

all moral theologians (3, 4, 5, 6, 17, 55-59, 105). Though the topics of<br />

the book are not particularly novel, two characteristics should be<br />

noted. This is a book directed at the generation born after 1960, and<br />

it makes a sincere effort to avoid the theological wars that divided<br />

the pre-1960 generation who were writing in the 1970’s and 1980’s.<br />

Labels are eschewed as not being clear in meaning (5) and there is a<br />

serious effort to understand the arguments of authors as diverse as<br />

B. Häring, G. Grisez, C. Curran, E. Vacek Collins. Not that Ciorra-<br />

Keating agree with the various views of these authors (how could<br />

they?) but it is refreshing to read a theological work that rates<br />

arguments as more important than personalities, and proceeds<br />

accordingly. The other refreshing feature of the book is that the fairly<br />

traditional topics are put in a context wider than that found in most<br />

moral theological books. Discernment (xiv, 10, 15, 71, 76, 77),<br />

spirituality (8, 12,30) and friendship (59ff, 86ff) give a vibrancy to the<br />

discussion, especially when the practical issues of marriage, money,<br />

health care ethics and poverty are treated. I suspect these emphases<br />

arise from the authors’ commendable desire to avoid a ghetto-type<br />

Church (145) and, perhaps, a familiarity with some ideas of Saint<br />

Bonaventure, an authority not notably cited in theological ethics.


484<br />

The audience that could best profit from this book are pastoral<br />

leaders with a moderate theological training. The book lacks enough<br />

critical apparatus to be a standard text-book, but it is more than a<br />

run-of-the-mill adult education book. The difficulty of the questions<br />

treated is acknowledged (111), especially in the American cultural<br />

context (6-8). Though the book has merits given its particular scope,<br />

I would advert to two lacunae. The emphasis on discernment,<br />

already noted, is laudatory but the authors themselves acknowledge<br />

an intellectual gridlock on this topic (3). Could it be that the basis<br />

within which discernment is placed, largely of an ignatian<br />

provenance, would benefit from a wider treatment precisely as one of<br />

the cardinal virtues? It is not that the authors ignore the virtues, but<br />

I noted an insufficient integration of discernment (or, more<br />

classically, prudence) with the other virtues. More problematic is the<br />

call to tradition as a key to many of our current impasses (xvii, 31,<br />

etc.). I have sympathy with this position, particularly in view of the<br />

authors’ concern with combating an inadequate individualism (28).<br />

But: what tradition? One has only to recall recent works which show<br />

the great difficulty in deciphering the varieties of tradition within<br />

Thomism, as illustrated in T. O’Meara, Thomas Aquinas Theologian<br />

(1997) or G. Prouvost, Thomas d’Aquin et les thomismes (1996), and<br />

people familiar with the early 19 th century debates on tradition<br />

(moderate and otherwise) will know how de Maistre, de Bonald,<br />

Bautain, de Lamennais, Bonnetty and many others would have used<br />

the word tradition in widely differing senses. The appeal to tradition<br />

is not at all as easy as it seems. It would be a very interesting<br />

challenge for Ciorra-Keating to follow up this present useful book<br />

with an analysis of how precisely their idea of tradition functions as<br />

a criterion of justification in the discernment of difficult moral<br />

problems. Meanwhile, this useful work can provoke others to think<br />

in this direction which, I suspect, may be the next great debate for<br />

fundamental moral theology, under either the guise of ‘tradition’ or<br />

‘development’.<br />

RAPHAEL GALLAGHER C.Ss.R.


485<br />

Gaziaux, É., L’autonomie en morale. au croisement de la philosophie<br />

et de la théologie. Leuven: University Press, 1998, xvi + 760 p.<br />

(Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium<br />

C<strong>XXXVII</strong>I).<br />

This work is a post-doctoral dissertation presented at<br />

L’Université Catholique de Louvain. The aim, as declared by the<br />

author, is to study the issue of autonomy as a hinge concept between<br />

philosophy and theology. In particular, his intention is to develop an<br />

ethics in a theological context, an ethics that has its own identity and<br />

is, at the same time, open to critical dialogue with secular ethics.<br />

There are two basic questions: how can ethics in a theological<br />

context be rational, and how can it be communicable to others who<br />

do not share that particular context? Autonomy is proposed as the<br />

answer.<br />

The work has four parts: the first provides an analysis of<br />

autonomy in Kant; the second reviews the work of Th. Steinbüchel,<br />

Die philosophische Grundlegung der katholischen Sittenlehre (1939),<br />

as an example of the reception of Kantian thought into moral<br />

theology; the third that of A. Auer, whose work Autonome Moral und<br />

christlicher Glaube (2 nd . ed. 1989) initiated the debate on the subject<br />

in Catholic moral theology. The fourth deals with autonomy in terms<br />

of the relationship between philosophy and theology, where<br />

autonomy provides the link. A lengthy conclusion draws together the<br />

principle insights that have been gained.<br />

The aim of Steinbüchel and of Auer in particular, was to provide<br />

Christian ethics with a philosophical foundation, autonomous with<br />

regard to the particular world view of Christianity, and to its<br />

confessional presuppositions, and so make possible communication<br />

between Christians and those professing a secular ethic. The<br />

autonomy thesis, if we can call it that, would seem to be the<br />

following: It is impossible to found the truth claims of practical<br />

reason on grounds outside practical reason, that is, for example, on<br />

the doctrines of a particular faith or the decrees of religious<br />

authority. This raises, of course, questions concerning the<br />

relationship of such autonomous reason to faith and Church<br />

authority and these questions are dealt with in the work.<br />

In the fourth part Gaziaux studies the relationship between<br />

philosophy and theology. He begins with a study of autonomy from<br />

a philosophical perspective, again referring to the three principle


486<br />

authors, but now including a study of the history of the concept in<br />

antiquity, the middle ages and the modern period, again with<br />

particular reference to Kant and the relation between Kant and<br />

Hegel. Autonomy appears now in relation to radical evil and liberty,<br />

in that evil seems to remove the very possibility of liberty and with<br />

that of autonomy. The hope for a possibility of a recovered liberty<br />

and autonomy, opens up a path to God, thus providing a connection<br />

with religion and theology. The author then explores the notion of<br />

autonomous praxis in Marx, Scheler, Hartman, Apel, and Habermas.<br />

Here autonomy is manifested in its modern expression, namely,<br />

responsibility.<br />

The next section considers autonomy from the perspective of<br />

theology, considering autonomy specifically as a reality created by<br />

God, and examining the relation between faith and morality,<br />

redemption and autonomy. The author resists any reduction of faith<br />

to morality. Created reality is not merely reality, but a manifestation<br />

of the divine will. But this reality cannot be seen solely under the<br />

aspect of its beginning, creation, but must be viewed in terms of its<br />

future, that is salvation made present in Jesus Christ. Here again, he<br />

studies the three principal authors, and then relates autonomy to the<br />

notion of radical evil and to sin, particularly as this is presented in<br />

the Old and New Testament. There follows an analysis of liberty in<br />

relation to autonomy. Autonomy is the necessary foundation of<br />

ethics, autonomous ethics is founded on reality, which believers see<br />

as created by God, and ordered to salvation in Jesus Christ. Reality,<br />

(Wirklichkeit, effectivité) with which human life is lived, presents<br />

itself as a collection of active potentialities that are to be realized.<br />

Obligation is accounted for as founded on the non-fully realized<br />

potentiality of reality (724). The basic obligation of the autonomous<br />

ethic is to realize these potentialities.<br />

This ethic is autonomous with regard to bio-physiological<br />

nature, to metaphysics, and to faith. Nevertheless, faith does not<br />

suppress autonomy, but presents its ultimate ground of possibility, in<br />

offering the horizon of its ultimate fulfilment. Faith contributes a<br />

specific meaning, via a trinitarian hermeneutic of reality. The<br />

conclusion seeks to draw together the main lines of the argument,<br />

particularly with reference to autonomy as the principle and<br />

condition of morality and the basis of communicability. Autonomy<br />

means autonomy in the quest for meaning and truth in the search for<br />

the good. It is not absolute but relative, in the sense that it makes


487<br />

possible a communication between faith and ethics, such that faith<br />

can generate action in the world<br />

In seeking to follow through the long and complex argument the<br />

following questions emerged. The author has covered a wide range<br />

of material and probed the origins and meaning of autonomy at<br />

depth. But is it possible, with such an encyclopedic range of<br />

material, to research adequately each specific topic, and at the same<br />

time to integrate them into a coherent argument? Is the presumption<br />

that we can trace the emergence of the one idea of “autonomy”<br />

through the history of its emergence across such a vast range really<br />

justified? While it is true that both the Old Testament and the New<br />

integrated significant elements from the ethos of other peoples, may<br />

we equate the insights of these others as instances of a human ethic<br />

in general? Might they not have been highly particularized<br />

community ethics legitimated by appeals to other gods and other<br />

religious authorities? How do we know that what is left when we<br />

subtract these gods and authorities is the “human ethic”? Might not<br />

the process be better understood as a dialectic of traditions fraught<br />

with contingency, rather than the gradual, progressive emergence of<br />

an idea?<br />

There is a review of criticisms and the replies given by Auer at<br />

the end of the third part (328), and G. is not uncritical of the authors<br />

studied. For example, he finds the concept of reason developed by<br />

Auer to be inadequate, in that he has tried unsuccessfully to integrate<br />

several points of view without complete success (552). But a more<br />

systematically and developed critique by the author himself would<br />

have been welcome. It must be said, that, even at the end of the<br />

dissertation, this reviewer was still unable to find a clear notion of<br />

“reason.” However, one must remember that the author is seeking to<br />

discover the inner logic of the emergence of an idea rather than to<br />

establish the timeless essence of things.<br />

The autonomy thesis seems to claim three points: (1) It is<br />

possible to discover or construct a notion of reason or rationality<br />

that transcends the limits of particular communities and cultures, (2)<br />

This reason is best construed in terms deriving from the Kantian<br />

tradition, (3) Such a notion of reason will be found meaningful by<br />

those who inhabit the secular world, and so provides a basis for a<br />

common ethic. Each of these presuppositions would be controversial<br />

at least for some significant currents in contemporary philosophy. Of<br />

course G. is not saying that if we are to communicate with the world


488<br />

we must convert all non-Catholics into Kantians; what he offers is a<br />

second-level, meta-ethical thesis on how such communication may<br />

be justified. But the problems still remain: given this particular<br />

justification of autonomy-based communication, how is the<br />

universal human ethic itself to be recognized? The author replies: by<br />

discerning the possibilities which are given to us in reality (712). This<br />

appears to be a version of the natural law. Indeed Auer himself gives<br />

an important role to the natural law according to St Thomas (549).<br />

And yet the autonomous ethic is also autonomous with regard to<br />

nature. Is the autonomous ethic then a purely formal ethic?<br />

There is a troubling feature of the autonomy thesis, that G.<br />

seems to let pass. Reality is understood (by Auer) as an ontological<br />

order of creation that is a “manifestation of the will of God.” Is there<br />

an echo here of that philosophical and theological tradition which<br />

held that law, and in particular the natural law, was, if it were to have<br />

binding force, essentially a declaration of the will of God? The whole<br />

autonomy movement, if it may be called such, sought to break with<br />

the idea that morality is something decreed by external authority;<br />

but has it completely escaped from this notion? We cannot but note<br />

that the guiding concept is still law, “nomos,” as in heteronomous,<br />

autonomous, and finally theonomous. Similarly, the two key<br />

concepts Weltethos, that is the autonomous rational ethic, and the<br />

Heilsethik, concerned with the relation to Christ, are described as<br />

distinct sets of obligations. But there are other ways of explaining<br />

ethics than by law and obligation, for example, in terms of the<br />

attractiveness of the good. Kant did not favor this approach, but was<br />

he necessarily right?<br />

The notion of autonomy is said to rest on the distinction<br />

between “is” and “ought” (562). Here the author does not seem to be<br />

aware of the philosophical critique of this distinction that has been<br />

developed over a number of years in English language philosophy.<br />

This distinction is not a necessary feature of thought as such; it<br />

emerged in a quite particular setting, and remains one particular<br />

(contested) doctrine. With a profound cultural change, reflected in<br />

philosophy and theology, reality or the world lost its inner principle<br />

of reason that could provide direction for practical reason, and<br />

became morally inert. For a theory which accepted this conception<br />

of reality, it is self evident that “ought” cannot be derived from “is”,<br />

because the whole point is that “is” has already, in principle, been<br />

deprived of any relevance to “ought”. Indeed, Auer’ s whole argument


489<br />

is evidently directed to linking ethics once more with reality which<br />

does have an inner principle of reason. It would seem more<br />

appropriate to say, not that the autonomy theory, at least for Auer,<br />

rests on the distinction, but rather that it sets out to refute it.<br />

G.’s work provides difficult but stimulating reading on a topic<br />

which is vitally important both for moral theology and pastoral<br />

practice. For anyone wishing to understand the contemporary issue<br />

of autonomy in ethics, this book is well nigh indispensable. The work<br />

is admirably produced and there is an extensive bibliography and a<br />

helpful index of names.<br />

BRIAN V. JOHNSTONE, C.Ss.R.<br />

Giardini, Fabio, Pray without Ceasing: Toward a Systematic<br />

Psychotheology of Christian Prayerlife. Rome/Leominster,<br />

Herefordshire: Millennium/Gracewing: 1998, 426 p. (Millennium<br />

5).<br />

This book is a masterful analysis of the Pauline injunction “to<br />

pray without ceasing” (1Thes 5:17). The author, a professor of<br />

spiritual theology at the Pontifical University of St. Thomas in Urbe<br />

(PUST), affirms the close interconnection between the experience of<br />

prayer and theological reflection upon that experience. In carrying<br />

out his analysis, he tries to make his reflections “as objective and<br />

universal as possible, while at the same time allowing its experiential<br />

character to emerge” (p. 11). In doing so, he takes into account all<br />

three dimensions of the emerging academic discipline of spirituality:<br />

the experiential, the doctrinal, and the analytical. The result is a<br />

comprehensive and probing investigation of two fundamental<br />

questions of the spiritual life: “What are people doing when they<br />

pray?” and “Why is doing that ‘praying?’” (p. 11).<br />

The book recognizes a broad spectrum of definitions of prayer<br />

and explicitly refers to the great variety and complexity of all forms<br />

of prayer (p. 12). Its twelve chapters provide an orderly and<br />

systematic presentation of the principal components of prayer, the<br />

kinds and acts of prayer, integration and growth in prayer, and the<br />

transcendent attitude of prayer (p. 13). The topics covered include:<br />

“body, soul and spirit in prayer” (chapter one), “the mind’s attention<br />

in prayer” (chapter two), “the heart of prayer” (chapter three),


490<br />

“knowing and loving in prayer” (chapter four), “prayer as ascent”<br />

(chapter five), “prayer as address” (chapter six), “prayer as worship”<br />

(chapter seven), “prayer as communion” (chapter eight), “the<br />

dynamic integration of all forms of prayer” (chapter nine), “the<br />

growth process of the Christian prayerlife” (chapter ten), “unceasing<br />

prayer” (chapter eleven), and “the attitude of prayerfulness” (chapter<br />

twelve). When taken together, these topics point to (and validate) the<br />

author’s fundamental intention of providing what he calls in his<br />

subtitle “a systematic psychotheology of Christian prayerlife.”<br />

The book has many strengths, not the least of which is the way<br />

the author integrates the findings of both psychology and spiritual<br />

theology in his study. This reviewer was particularly impressed with<br />

the biblical basis of the author’s theological anthroplogy and the way<br />

he incorporates the insights of Jungian psychology (particularly that<br />

of the unconscious) into his analysis of the various dimensions of<br />

prayer. He was also impressed with the author’s thorough knowledge<br />

of the various traditions of prayer within the Catholic tradition (e.g.,<br />

Benedictine, Dominican, Carmelite, Jesuit) and the way he focuses<br />

on the key contributions each makes to understanding the meaning<br />

of Paul’s call for unceasing prayer.<br />

Each chapter is well-written and substantially documented<br />

through footnotes and an extensive bibliography. Each builds on<br />

what has gone before and contains a wealth of scholarly yet practical<br />

insights into the nature and scope of Christian prayer. Time and<br />

space do not permit anything more than a mere cursory listing of the<br />

author’s more important findings. Among these are: (1) his<br />

distinction between the body, soul, and, spirit of prayer, (2) his<br />

analysis of the various kinds of attention (e.g., active, receptive, and<br />

ecstatic), (3) his emphasis on the distinction between “attentiveness”<br />

and “awareness”, (4) his analysis of the various kinds of intention<br />

(e.g., receptive, active, and ecstatic love-intention), (5) his discussion<br />

of the essential roles of loving and knowing in the life of prayer, (6)<br />

his operative distinction between “prayer as ascent” and “prayer as<br />

address,” (7) his corresponding relational distinction between<br />

“prayer as worship” and “prayer as communion,” (8) his insightful<br />

integration of the operational (i.e., “ascent and address”) and<br />

relational (i.e., “worship and communion”) dimensions of Christian<br />

prayer, (9) his correlation of these different movements of prayer<br />

with the supernatural virtue of religion and the theological virtues of<br />

faith, hope, and charity, (10) his distinction between a habitus, which


491<br />

is caused by the repetition of a person’s acts, and an attitude, which<br />

is caused by the repetition of a person’s options (11) his emphasis on<br />

the close connection between the psychological notion of<br />

“personality” and the biblical category of “heart,” and (12) his<br />

presentation of “the attitude of prayerfulness” as a continuous<br />

awareness, remembrance, and expectation of God.<br />

These are just some of the probing insights that enable the<br />

author to map out with psychological sensitivity and sharp<br />

theological acumen the multifaceted and complex nature of prayer in<br />

the Catholic spiritual and thelogical tradition. While they in no way<br />

exhaust the depth of knowledge displayed throughout the book, they<br />

give a good indication of the author’s high quality of scholarly<br />

discourse and the direction he wishes to take his reader. That<br />

direction comes out most clearly in the book’s postscript (pp. 397-99),<br />

where the author first outlines many of the common biases and<br />

misunderstandings people have about prayer and then goes on to<br />

draw out the practical value of the various distinctions made<br />

throughout the work.<br />

Toward the end of his postscript, the author provides an apt<br />

summary of all that has gone on in the preceding chapters: “The<br />

desire of attaining an intimate union with God is the sine qua non of<br />

prayerful living. Yet the desire without acts and exercises of prayer<br />

becomes mere wishful thinking and reverie. Acts and exercises of<br />

prayer are absolutely necessary to acquire, feed, and renew the union<br />

of the prayer with God, so that the prayer eventually succeeds in<br />

discovering union with God in the very depths of his or her spirit”<br />

(pp. 398-99). For the author, a person develops the capacity “to pray<br />

without ceasing” by fostering an attitude of prayerfulness in a<br />

constant and persistent manner. Such an attitude is a gift from God,<br />

but comes about only by the continual repetition of one’s option to<br />

live in the awareness of God’s presence in one’s midst. This book<br />

provides the theological and experiential basis for understanding<br />

what such an attitude consists of and points the way to how it can be<br />

practically achieved in one’s life. For this reason alone, it is a<br />

welcome contribution to the current literature in the field. In this<br />

reviewer’s opinion, it is and will be an important scholarly point of<br />

reference for all future discussions of the topic.<br />

DENNIS J. BILLY, C. Ss.R.


492<br />

Kelly, Kevin T., From a Parish Base: Essays in Moral and Pastoral<br />

Theology. London: Darton, Longman and Todd, 1999, 226 p.<br />

In a recent editorial of Theological Studies 60 (1999), 207,<br />

Michael A. Fahey SJ provoked by saying: “Are theologians making<br />

themselves irrelevant because of ponderous and undistinguished<br />

writing? Yes… a disturbing number of theologians write as though<br />

dullness and mystification create an impression of importance… Too<br />

much theology appears as turgid prose lacking lilt and directness”.<br />

Kevin T. Kelly escapes this stricture. He writes with a direct clarity, a<br />

trait I fear may be a reason why many of his views are contested. You<br />

know where Kelly stands on an issue: not for him the qualifications<br />

of a myriad of contorted footnotes.<br />

Kelly’s latest book is a collage of essays written between 1985<br />

and 1996. There is however a thread uniting the 14 chapters of the<br />

four sections: moral theology as pastoral ministry. The basis of this<br />

ministry is the parish and is the substance of part one: the tension<br />

such a ministry gives rise to takes up part two. In part three the<br />

academic agenda of the cross-over between pastoral care and parish<br />

ministry is covered, while the last section takes up three topics of<br />

current interest: embryo research, the (undue) prolongation of life<br />

and the positive challenge of living in a time of AIDS. The disparity<br />

of topics should not distract the reader from a substantial continuity<br />

in Kelly’s methodology which is that of trying to make faith-sense of<br />

experience and experience-sense of faith (1) especially through the<br />

events of ordinary life (99). Kelly is a theological optimist arising, I<br />

suspect, from his deep sense that the Kingdom of God is breaking<br />

out in the most unexpected places, from the local parish of the<br />

deprived area of Eldon (Liverpool) to the universal parish of those<br />

affected, directly and indirectly, by AIDS.<br />

This gift of seeing what is good, under a Kingdom-perspective,<br />

takes on many particular guises in Kelly’s writing: a broad view of the<br />

deep-down sacramentality of life (31), a commitment to a<br />

collaborative Church where we do it better together (45, 55, 56), a<br />

sense of prayer rather than prayers (33), an inclusive Church where<br />

the learning and teaching distinction is not unduly strained (77). Not<br />

that Kelly is a simplistic radical, though he does rather like the idea<br />

of the foundations being shaken (113) if only to see the solid things<br />

that will survive the storm. He presumes the continued necessity for<br />

a parish structure (35) and he returns to a very traditional moral


493<br />

topic, sin, on with he has written with notable insight over the years<br />

(here, at Chapter 11). Kelly’s traditional concerns are, admittedly,<br />

tempered by a forward-gazing perspective, that of new forms of<br />

growth (172) in a Church which, while giving a due role to principles<br />

and norms, does not limit itself to these (154).<br />

In such a wide-ranging book, written with an eye to lucidity, it<br />

should not surprise that there are views propounded that, for me,<br />

could be more accurately phrased: women and priesthood (28),<br />

epikeia as a gap-virtue (70), general absolution (73), the absoluteness<br />

of norms (104), homosexuality (105), the dialectic between gospel<br />

and norms (108). I would have appreciated more refined distinctions<br />

on these type of questions. Kelly clearly has the ability to do so: his<br />

presentation of distinctions on prolonging life unduly or letting die<br />

(190 ff) is a model. I would appreciate if Kelly could bring this<br />

considerable skill, honed on a classic familiarity with the moral<br />

manuals of older days, to bear on the new questions.<br />

This need for precision is not an appeal for a return to pedantic<br />

casuistry. The importance of Kelly’s book is precisely in the fact that<br />

he is in the vanguard of those who are developing moral theology in<br />

a new (pastoral) setting (35). He is aware that he is breaking new<br />

ground, and gave up a prestigious lectureship in Heythrop College to<br />

do so: he gives the nine factors which he considers have changed<br />

moral theology in our time (116 ff) and he courageously outlines his<br />

credo for moral truth at 178. Kelly is neither agnostic nor relativist<br />

regarding such truth: he calls himself a realist (188). My concern is<br />

not with the context of Kelly’s moral theology. We have witnessed<br />

other historical contextual changes in our discipline (from monastic<br />

to scholastic through the seminary to the university setting), each of<br />

which had to make methodological adjustments precisely to preserve<br />

the theological integrity of the salvific truth of moral inquiry. The<br />

issue raised by Kelly’s book, arising from the context out of which he<br />

writes, is whether an aristotelian or a platonic conception of truth<br />

will prove adequate to the new pastoral setting. I suspect that Kelly<br />

would go for the former, as I too would: but that means a close<br />

examination of the nature of moral knowledge, a precision in the use<br />

of moral distinctions and a sharp sensitivity to the relationship<br />

between circumstances and principles (a topic Kelly does indeed<br />

touch on at 106). I accept that a book should be judged according to<br />

its literary genre, and Kelly’s book is not an attempt to give a full<br />

epistemology of his chosen discipline. But I believe that the issues he


494<br />

raises, and particularly the relative novelty of the context in which he<br />

believes moral theology should be practiced, are now ripe for the<br />

type of discussion I am hinting at. Without that further development<br />

Kelly’s book could be too easily dismissed as ephemeral good-will.<br />

What Kelly has done is broken silence on some topics. This is<br />

important if only for the reason that we cannot reach a consensus<br />

fidelium if we do not know what the fideles are saying, or if their<br />

saying of certain things is gone so underground as to be inaudible.<br />

This book is provocative, and one could react by saying that this or<br />

that view is poorly presented. While I have expressed my own<br />

reservations I would rather say: these are some of the important<br />

questions, let us hear them debated by the theological public so that<br />

we can develop a scientifically based, distinction-conscious<br />

theological ethics adequate to the emerging pastoral context Kelly is<br />

committed to. The alternative is too alarming to contemplate: highly<br />

skilled moral theologians conversing among themselves on the one<br />

hand, a hungry people without the courage or the opportunity to<br />

voice their views on the other.<br />

RAPHAEL GALLAGHER C.Ss.R.<br />

Mascia, Matteo e Pegoraro, Renzo (a cura di), Da Basileia a Graz.<br />

Il movimento ecumenico e la salvaguardia del creato. Padova:<br />

Fondazione Lanza e Euganea Editoriale Communicazioni, 1999,<br />

261 p.<br />

This volume is the second to be published in the Lanza<br />

Foundation’s project on the environment. It is part of a wider plan to<br />

make clear the principles and the hierarchy of values that people can<br />

recognise as underlying a coherent public and private morality today.<br />

The theme of the book is environment as a moral issue and so as<br />

something to which the community is to be educated so that it may<br />

have “peace with the Creator and peace with the whole creation” as<br />

the Pope proclaimed in his message for the 1990 World Day for<br />

Peace. The volume has an ecumenical intent which is seen as<br />

integrating concern for the environment into the Churches’<br />

programmes for justice and peace in the world.<br />

Antonio Autiero’s, “Esiste un’etica ambientale?” is the keynote<br />

essay since it registers the novelty of ecological issues for ethics and


495<br />

provides an introduction to the whole question, its history, the<br />

underlying philosophy and the conflict between use and<br />

conservation of nature and how to come to ethical decisions in this<br />

matter. Aldo Giordano, general secretary of the Council of European<br />

Bishops’ Conferences addresses the theme of the relationship of<br />

reconciliation and creation from Basel to Graz, that is as an<br />

ecumenical effort after the fall of the Berlin wall in 1989. M. Mascia,<br />

a Padua University expert on the defense of human rights, discusses<br />

what would be a sustainable level of development for this new<br />

Europe in view of globalisation. He sees the rights outlines in various<br />

international agreements as providing a basic strategy for securing<br />

economic advancement without damaging the environment. Luigi<br />

Mariani who is the assistant mayor of Padua lists a number of<br />

measures a local, city administration can take when it becomes<br />

sensitive to preserving the environment. G. Giuliucci illustrates how<br />

programmes in the schools are necessary not only to educate youth<br />

but the public in general to this sensitivity.<br />

The second part of the volume is dedicated to an ecumenical<br />

dialogue on the care of creation. This follows very closely the 1990<br />

Seoul World Council of Churches’ statement on the same subject.<br />

The Catholic, Protestant and Orthodox approaches are each<br />

represented by experts from these Churches. There are also papers<br />

on St. Francis and ecology and the description of a common<br />

ecumenical experience in this field. The third part is a detailed<br />

analysis by Karl Golser on the European Council of Churches’<br />

documents on the care of the environment, Graz 1997. He notes how<br />

they provide an inspiring theology and spirituality of creation that<br />

still needs to become practical. This will depend on how the local<br />

Churches receive these documents and put them into action. The<br />

fourth section is a useful collection of recent ecumenical statements<br />

on the environment with the addition of some relevant international<br />

statements on the same.<br />

This volume is the fruit,in part, of interdisciplinary study and so<br />

moves at many levels. In that sense it seems to offer something to<br />

everybody. Autiero helps to open our eyes not just to the ecological<br />

crisis the planet is undergoing but to how ethicists can come to grips<br />

with that challenge. This is a worthy theme in itself and could have<br />

been further expanded. Another theme the book helps us appreciate<br />

is ecumenism and how the Churches need to cooperate together on<br />

that issue. This in fact becomes the main thrust of the volume


496<br />

particularly with Golser’s analysis of the most recent policy<br />

statements by the Churches. These two themes are then linked to the<br />

civic concerns of city administrations and educational planning. We<br />

can conclude that the aim of the volume is to make the Churches and<br />

Christians in public life more aware of environmental ethics so as to<br />

apply it more effectively for the common good. The danger in such<br />

as effort as undertaken in this book is that its effort may easily<br />

become so dispersed that no issue is really studied in depth. As an<br />

attempt to bring various social and religious groups with an interest<br />

in ecology together it must be rated as a great success.<br />

Moral theologians will find particularly interesting and fruitful<br />

reflections for their discipline in the essays by Autiero and Golser.<br />

TERENCE KENNEDY, C.Ss.R.<br />

Moraglia, Francesco (a cura di), Dio Padre misericordioso. Genova:<br />

Casa Editrice Marietti, 1998, 388 p.<br />

Les membres de la faculté théologique de l’Italie septentrionale<br />

(section de Gênes) ont été bien inspirés en projetant, dans l’orbite de<br />

l’année préparatoire au grand Jubilé 2000 consacrée au Père, un livre<br />

sur la miséricorde divine. La réalisation du projet est digne<br />

d’attention. Envisageant le thème sous différents angles selon la<br />

compétence de chacun des intervenants, on est placé devant une<br />

véritable petite somme in materia. On y trouve en effet des réflexions<br />

relevant de l’exégèse (les deux Testaments) [S. Carbone; C. Doglio; R.<br />

Fornara], de la patrologie [G. Cavalli], de l’histoire de l’Église [P.<br />

Fontana], de la théologie fondamentale [L. Pedemonte], de la<br />

dogmatique [F. Moraglia], de l’ecclésiologie [G. Calabrese], de la<br />

théologie morale [A. Bellon; M. Doldi], du droit canonique [G.<br />

Marini] et, pour finir, de la philosophie de la religion [G. Noberasco].<br />

Comme c’est souvent le cas dans des ouvrages de ce genre, les<br />

interventions ne sont pas toutes d’égale valeur. En revanche toutes<br />

jouissent du minimum requis pour faire partie de l’entreprise. Bien<br />

des données pourraient être évoquées pour fonder ce jugement<br />

d’ensemble. Puisqu’un tel travail risquerait d’allonger une recension<br />

qui doit être brève, je me contenterai d’attirer l’attention sur trois<br />

contributions et dire rapidement ce que j’en pense.<br />

La première est une étude exégétique sur la parabole lucanienne


497<br />

de “l’enfant prodigue” (cf. Lc 15, 11-32) (p. 83-98). Ayant profité<br />

intelligemment des travaux de M. Gourgues sur cette péricope<br />

biblique, R. Fornara nous offre un texte à mon sens remarquable.<br />

Sans accabler son lecteur de notes techniques souvent impénétrables<br />

à qui n’est pas plongé dans la recherche exégétique au sens strict,<br />

l’auteur a su, tout en ne sacrifiant rien aux exigences de l’analyse<br />

littéraire du texte sacré, en faire émerger la richesse toujours<br />

étonnante et ainsi conférer à la Parole de Dieu sa beauté bonifiante<br />

qui attire et fait vivre. La contribution de C. Doglio sur le “Notre<br />

Père” présenté comme “la prière «pascale» du Fils” mérite d’être<br />

mentionnée pour son caractère suggestif et stimulant (p. 39-81).<br />

Dommage que la démonstration n’ait pas toujours été à la hauteur.<br />

C’est comme si l’auteur arrivait à des affaissements de terrain qu’il<br />

enjambe plutôt que de les combler (cf. par exemple, p. 67. 72. 75. 79).<br />

Cela a pour conséquence d’affaiblir une thèse pourtant fascinante et,<br />

à mon avis, plus que justifiable, comme l’auteur l’a du reste démontré<br />

en partie. Enfin, je voudrais fixer le regard sur la dernière<br />

contribution de ce volume collectif, celle de G. Noberasco (p. 357-<br />

388). Il y aurait beaucoup à redire sur ce texte. Je me contenterai de<br />

trois observations qui suffiront, je crois, à justifier mes réticences. 1)<br />

D’abord le titre de cette contribution relève de l’artifice. Je ne vois<br />

pas en effet comment l’auteur peut placer le contenu de ses réflexions<br />

sous l’expression “vérité comme paternité” (formule du reste déjà<br />

bizarre en elle-même!). Pour s’insérer après coup dans la thématique<br />

de l’ouvrage?… Heureusement que l’auteur se rachète un peu par un<br />

sous-titre plus conforme au contenu de l’exposé. 2) Je me demande<br />

aussi pourquoi l’auteur a eu recours à la théologie d’E. Jüngel pour<br />

surmonter les réserves de Vattimo et de Ruggenini touchant<br />

l’accessibilité de l’homme à la vérité. Le motif de ma question? Sans<br />

parler du fait qu’il y a des théologiens catholiques de grande stature<br />

qui auraient pu offrir des pistes de solution autrement plus<br />

pondérées au problème en distinguant par exemple, plus résolument<br />

que Jüngel toujours enclin à un certain hégélianisme, entre la Trinité<br />

immanente et la Trinité “économique”; sans parler du fait que la<br />

pensée de Jüngel est présentée en un premier temps comme si, en<br />

dépit de ses nombreuses apories, tout y était en parfait ordre, l’on<br />

voit notre auteur passer, pour ainsi dire, du blanc au noir. Point de<br />

référence d’abord, la pensée de Jüngel devient finalement pour lui<br />

inapte à résoudre le problème envisagé (cf. p. 385ss). Le moins que<br />

l’on puisse dire est que cette manière de faire est fort surprenante. 3)


498<br />

Au terme de son travail, l’auteur semble retrouver un plus grand<br />

équilibre en écrivant ce qui suit. Je traduis: “En réalité Jésus décide<br />

de s’en remettre inconditionnellement à son Père, reconnaissant en<br />

lui cette vérité qui n’élimine pas sa liberté, mais qui l’a fait être telle.<br />

Il choisit la volonté du Père comme principe de son agir. L’agir libre<br />

de Jésus se manifeste ainsi comme la révélation de la vérité de Dieu.<br />

D’autre part en Jésus la vérité de Dieu se montre définitivement<br />

impliquée dans l’historicité de la liberté” (p. 388). (C’est l’auteur qui<br />

souligne). Mais là encore une question se pose: quelle différence<br />

existe-t-il entre le comportement de Jésus et celui de tout bon<br />

chrétien? Pour être théologiquement plus exact et aussi plus probant,<br />

ne faudrait-il pas ajouter que Jésus est le Fils de Dieu en personne et<br />

que sa liberté humaine est, pour parler avec Maxime le Confesseur,<br />

animée et affermie dans le bien par sa liberté divine? Or, ici comme<br />

ailleurs, de cette identité proprement divine de Jésus de laquelle<br />

dépend en définitive l’instance de vérité attribuée à l’exercice de sa<br />

liberté dans l’histoire, il n’en est pas ou, en tout cas, pas clairement<br />

question … C’est incontestable. Si Noberasco se montre capable de<br />

penser avec vigueur, il ne brille pas par la rigueur.<br />

RÉAL TREMBLAY C.Ss.R.<br />

Müller, Denis, L’éthique protestante dans la crise de la modernité.<br />

Généalogie, critique, reconstruction. «Passages», Les Éditions du<br />

Cerf, Paris; Labor et Fides, Genève, 1999, 369 p.<br />

The link between Protestantism and modern capitalist culture,<br />

while certainly not as simple as has sometimes been suggested, is<br />

nonetheless of considerable importance, not least in the matter of<br />

ethics. Since postmodernity is in such large measure the wayward<br />

offspring of modernity, interesting questions arise about the link<br />

between Protestantism and what many are now calling postmodern<br />

culture (Müller prefers the adjective “metamodern”). In this<br />

substantial work, Denis Müller investigates these questions at some<br />

depth, both by spelling out the implications of postmodernity for<br />

theological ethics as a discipline and by defending the “plausabilité<br />

culturelle” (p. 21) of the protestant ethical tradition in the<br />

contemporary public forum. If protestant ethical thought can learn<br />

from the various levels of critique offered by postmodernism, and if


499<br />

postmodern culture can learn to appreciate the voice of christian<br />

ethicists, Müller is convinced that Protestantism and postmodernity<br />

can live at least as comfortably together as did (and do?)<br />

Protestantism and modernity. Whether or not one shares such<br />

optimism, the theme is certainly topical and provocative.<br />

This brief review will offer an evaluation of Müller’s work from<br />

an historical, a thematic and a methodological point of view.<br />

In historical terms, this is a most useful and interesting study.<br />

The work makes no pretence at being a formal historical inquiry of<br />

the kind that employs the methods of academic historiography.<br />

Nonetheless it is packed with solid historical information and<br />

generous bibliographical references in the meticulous notes. Most of<br />

Müller’s sources are secondary and contemporary, giving the work at<br />

times an almost encyclopaedic quality, but this is a necessary<br />

limitation given the range of material he attempts to cover. In a word,<br />

the book is an excellent panoramic presentation of the protestant<br />

ethical tradition and will be read with profit by anyone who feels the<br />

need to know, understand and appreciate this tradition in a more<br />

adequate way.<br />

In thematic terms, the work has also much to recommend it.<br />

One could perhaps usefully distinguish between themes inherent to<br />

the protestant ethical tradition (liberty, autonomy, Sacred Scripture,<br />

responsibility etc.), and themes which derive from Müller’s reading<br />

of contemporary culture in sociological, philosophical and<br />

theological terms. As regards the former, these are treated in a<br />

balanced and readable manner, using the method selected by the<br />

author (see below). This generally involves a clear and critical<br />

account of a given author’s position and an evaluation of the<br />

contribution of this author to the broader tradition. Thus Müller<br />

could be described as presenting a useful synthesis of the thought of<br />

many key authors on certain important themes and weaving these<br />

accounts into a narrative upon which he offers critical reflection.<br />

This critical reflection is based on the other set of themes, those<br />

which Müller derives from contemporary thought. Of particular<br />

interest on this score is the author’s noticeable sensibility toward the<br />

social context in which theology is done. While openly<br />

acknowledging the degree to which he borrows from David Tracey on<br />

this score, Müller is nonetheless most interesting on the need to<br />

attend to the “publics” to which theological discourse is addressed.<br />

He illustrates his case effectively in an insightful review of recent


500<br />

touchstone bioethical debates. As regards the major themes of<br />

postmodernity itself, Müller is always interesting and is certainly not<br />

uncritical, but he does seem to take a great deal for granted which<br />

some of us would consider very much in need of demonstration. One<br />

example is the rather cavalier fashion in which the very idea of<br />

foundations and universals is dismissed, as if nobody today could be<br />

so primitive as still to entertain such quaint notions.<br />

In methodological terms, the work is impressive and plausible,<br />

but by no means invulnerable to criticism. The key to understanding<br />

Müller’s method is the subtitle: Généalogie, critique, reconstruction.<br />

We are dealing here with a method which has been developed in<br />

critical reflection on postmodemist thinkers, most obviously<br />

Foucault. The “theoretical model” out of which Müller operates<br />

involves tracing the origins and evolution of the great themes of<br />

protestant ethics in the texts of authors such as Barth, Bonhoeffer,<br />

Tillich and Troeltsch. These are reconstructed in the light of<br />

contemporary culture through critical dialogue with such authors as<br />

Ricoeur, Derrida, Hauerwas, Tracey, Milbank and Bauman. Apart<br />

from the sheer erudition in evidence, one has to admire the<br />

intellectual honesty with which Müller revisits the “fathers” of his<br />

tradition and rereads them in the light of contemporary insights. If<br />

he is to be faulted it could be in terms of a tendency to reject highly<br />

sophisticated ethical and theological theories (I am thinking mainly<br />

of the thought of Alasdair MacIntrye and John Milbank) on the basis<br />

of a rather trite presentation of same, which is then rebuffed with a<br />

line of critique which does not do justice to the sophistication of the<br />

original theory. A similar line of criticism could perhaps be levelled<br />

at Müller’ s approach to Catholicism in general and Veritatis Splendor<br />

in particular, which at times comes close to being dismissive.<br />

One final pernickety comment on the composition of this work.<br />

A genealogical investigation would reveal that it has its origins in a<br />

list of articles on various themes, listed on p. 23. While Müller has no<br />

doubt considerably reworked this material and has managed to<br />

produce a new, coherent and wellargued study, one cannot but notice<br />

at times a certain staccato effect resulting from the fusing of<br />

heterogenous materials. In a metamodern world where pastiche has<br />

almost become the norm, this is a very minor flaw in a fine book.<br />

MARTIN MCKEEVER C.Ss.R.


501<br />

Pacia, Olindo, Giulio Nicolò Torno. Un teologo e giurista del<br />

Settecento Napoletano. Napoli: Liguori Editore 1999, 265 p.<br />

Lo studio della figura e dell’opera di Giulio Nicolò Torni (1672-<br />

1756) costituisce un importante tassello per la comprensione della<br />

storia culturale, religiosa e teologica del Settecento napoletano.<br />

«Ebbe la fortuna, nota Raffaele Ajello nella prefazione, di vivere nei<br />

decenni più produttivi della cultura napoletana, e d’impersonare una<br />

funzione critica di primario risalto in quella società politicoletteraria.<br />

Infatti a Napoli poté entrare in rapporto diretto con<br />

quattro tra gli uomini di pensiero che meglio hanno illustrato, da<br />

posizioni diversissime, il pensiero dell’intero Settecento italiano: due<br />

laici, Vico e Giannone, due ecclesiastici, Alfonso Maria de Liguori e<br />

Genovesi. Il primo e il terzo furono rispetto agli altri due su fronti<br />

per molti aspetti antitetici. Di Vico e Giannone Torno fu<br />

contemporaneo e delle loro opere censore rigoroso. Gli altri due, nati<br />

una generazione più tardi, subirono più o meno direttamente<br />

l’influenza del Teologo, tanto che il futuro Santo lo considerò suo<br />

maestro» (p. IX).<br />

La ricostruzione storica che il Pacia traccia è attenta e<br />

dettagliata. Viene delineato innanzitutto un quadro biografico, che fa<br />

emergere il ruolo di primo piano giocato dal Torno nelle complesse<br />

vicende ecclesiali e socio-religiose della prima metà del Settecento<br />

(cap. 1). Vengono poi esaminati più dettagliatamente i rapporti con<br />

S. Alfonso, Vico e Genovesi (cap. 2). I restanti capitoli analizzano i<br />

principali scritti del Torno, preoccupandosi di stabilirne innanzitutto<br />

la paternità: i Commentari di Estio (cap. 3); lo scritto<br />

antigiannoniano con le complesse vicende in cui si inserisce (cap. 4);<br />

le Allegazioni in difesa della Certosa di San Martino (cap. 5). Notevole<br />

è l’appendice documentaria (p. 209-247), seguita dalla bibliografia e<br />

l’indice dei nomi.<br />

La documentazione archivistica, raccolta con paziente e lunga<br />

ricerca, permette all’autore di filtrare correttamente i riferimenti al<br />

Torno presenti negli studi dedicati alle personalità con le quali ha<br />

incrociato il suo cammino. La discussione delle diverse<br />

interpretazioni è fatta in maniera serena e costruttiva.<br />

La figura del Torno emerge così con chiarezza: come studioso e<br />

docente di teologia, radicato sinceramente nel tomismo, e come<br />

protagonista delle vicende pastorali e politico-religiose del suo<br />

tempo. Nella prospettiva della teologia morale, mi sembra meriti di


502<br />

essere sottolineato il carattere pratico e benigno delle soluzioni da lui<br />

proposte: «È legittimo ritenere che Torno, guidato dal suo<br />

temperamento equilibrato e dall’esperienza del ministero<br />

sacerdotale, formulava con sufficiente elasticità le sue soluzioni per<br />

centrarle nel giusto mezzo, scegliendo l’aurea mediocritas tra i due<br />

estremi del rigorismo e del lassismo. Non fa meraviglia perciò che<br />

Alfonso abbia potuto offrirci la sua preziosa testimonianza secondo<br />

la quale il suo illustre e dotto “maestro” è annoverato tra i “molti<br />

uomini di grande saggezza e probità che condividevano la dottrina<br />

benigna”» (p. 93).<br />

S. MAJORANO C.Ss.R.<br />

Palumbieri, Sabino, Amo dunque sono. Presupposti antropologici<br />

della civiltà dell’amore. Milano: Paoline Editoriale Libri 1999,<br />

261 p. (Cammini dello Spirito – Spiritualità 19).<br />

Con questo nuovo saggio, don Sabino Palumbieri aggiunge un<br />

ulteriore tassello alla sua proposta antropologica che, proiettando la<br />

luce del vangelo sul travaglio culturale contemporaneo, tende a<br />

mettere in evidenza concrete possibilità di speranza. Questa nota di<br />

positività, realisticamente radicata, è la nota caratteristica del libro.<br />

Viene dallo stesso autore precisata nell’introduzione: «La presente<br />

trattazione non intende essere pelagiana o romantica, ottimista ad<br />

oltranza cioè sulla natura umana capace d’amare... Si vuol soltanto<br />

affermare qui che la difficoltà dell’amore come cammino non<br />

connota l’impossibilità. L’essere umano ha già la struttura d’essere di<br />

tipo agapico. Solo che, per farla funzionare in pienezza e<br />

perseveranza, occorre la forza d’amore dall’alto» (p. 25).<br />

La struttura agapica dell’essere umano costituisce il punto focale<br />

del libro. Con ricchezza di dati filosofici e teologici, utilizzando la<br />

metodologia fenomenologica, viene delineato un cammino che porta<br />

a coglierne il significato e le conseguenti responsabilità: «l’amore,<br />

prima che virtù, è struttura dell’essere. Anzi, è virtù in quanto<br />

comporta fedeltà alla struttura dell’essere. L’essere umano è attitudine,<br />

oltre che intellettiva e volitiva, anche agapica. La definizione classica<br />

di animal rationale non è sufficiente. L’uomo è anzitutto animal<br />

amans. E l’amore assume intelletto e volontà» (p. 26).<br />

Su queste premesse, il capitolo primo si preoccupa innanzitutto


503<br />

di approfondire il sentimento «come struttura metafisica della<br />

persona», secondo «l’impostazione rosminiana e ricoeuriana» (p.<br />

30). Ne vengono evidenziati i caratteri fondamentali con cui «nel suo<br />

indefinito dispiegarsi, si presenta nella coscienza: profondità,<br />

vibratilità, unicità, comunicabilità, polarità, dinamicità, tensionalità.<br />

Tutto ciò con la costante della stabilità» (p. 42).<br />

L’aver meglio compreso il sentimento come dimensione<br />

fondamentale dell’io, permette una più attenta precisazione<br />

dell’interiorità umana, cogliendone il «centro» nel cuore (cap. II): «si<br />

può affermare che c’è un sistema del sentire che ha un suo centro<br />

vitale chiamato il cuore. Tale sistema ha come base la percezione del<br />

proprio essere o sentirsi essere in dinamismo verso la pienezza: con<br />

le variabili di calibro esistenziale della gioia, noia, nausea, gusto,<br />

angoscia, speranza, attrazione, repulsione, fiducia, timore. Questi<br />

sentimenti di fondo, prodotti dal centro vitale, costituiscono la<br />

struttura portante della gamma infinita dei sentimenti del<br />

quotidiano. Sono, altresì, il punto di sintesi del pluridimensionale<br />

interiore» (p. 58-59).<br />

Il terzo capitolo può così mettere in risalto la fondamentalità e<br />

la universalità dell’amore, capace, in quanto originale struttura<br />

dell’essere, di dare significato e soggettività autentica: «Amare<br />

significa accettare l’altro come soggetto e operare costantemente alla<br />

sua crescita soggettuale. Non è un moto centripeto, inteso come<br />

attirare l’altro a sé facendolo rimanere nella propria area, ma<br />

piuttosto un moto ek-statico, come entrare cioè nell’area dell’altro e<br />

collaborare con lui alla sua autonoma costruzione. Tutta<br />

l’operazione così articolata non può verificarsi nella sfera dell’avere,<br />

ma è solo possibile in quella dell’essere: far essere di più e così<br />

diventare di più: la mia capacità di promuovere l’altro come soggetto<br />

ricade sul potenziamento di me come soggetto» (p. 86).<br />

Solo alla luce del suo fondamentale valore ontologico è possibile<br />

leggere correttamente i «caratteri di base» dell’amore (cap. IV), che<br />

vengono dall’autore individuati nella sensibilità, specificità<br />

affettività, arazionalità, cognitività, volontarietà, interpersonalità,<br />

ambiguità, conflittualità.<br />

Si passa poi a delineare lo «spazio di investimento» dell’amore<br />

(cap. V), fermandosi sugli orizzonti e sulle prospettive più decisive<br />

(globalità, totalitarietà, singolarità, diversità, esteticità, estaticità,<br />

attrattività, lucidità). Sempre però alla luce del «nucleo ontologico»,<br />

che si esprime come sacrificalità, allocentricità, oblatività,


504<br />

recettività, fecondità, comunionalità (cap. VI), e delle conseguenti<br />

«modalità essenziali» di povertà, gratuità, realisticità, dialogicità,<br />

educatività, rispettosità, adattabilità (cap. VII).<br />

È così possibile che l’amore determini una feconda «dialetticità<br />

esistenziale», in cui s’intrecciano specularità, reciprocità e<br />

unipluralità (cap. VIII), dagli «orizzonti sempre aperti» nelle<br />

prospettive di universalità, prassicità, politicità, fedeltà, definitività,<br />

religiosità, incommensurabilità (cap. IX).<br />

Il cap. X («condizioni e puntualizzazioni») può perciò<br />

evidenziare il clima e le condizioni psicoetiche dell’amore, prima di<br />

enuclearne sinteticamente i caratteri, alla luce anche del Cantico dei<br />

Cantici, e riaffermarne la possibilità, in quanto radicato sull’essere e<br />

fonte di autentico umanesimo.<br />

I passi precedentemente compiuti sfociano nell’affermazione<br />

convinta della circolarità e reciprocità tra amore e spiritualità.<br />

L’ultimo capitolo («Dall’amore come struttura alla spiritualità come<br />

amore») insiste infatti sulla necessità di leggere la ricchezza<br />

antropologica dell’amore in prospettiva spirituale e, allo stesso<br />

tempo, di comprendere la spiritualità alla luce dell’amore. Di qui la<br />

conclusione di taglio pedagogico: «L’amore è tutto. Pertanto, tutto va<br />

fatto nell’amore. E il cuore ne è il centro. Ora, se la spiritualità è la<br />

più alta delle forme dell’educazione permanente, si approda qui al<br />

codice metodologico della civiltà dell’amore: il cuore dell’educazione<br />

è l’educazione del cuore» (p. 249).<br />

Questi rapidi cenni danno solo un’idea sommaria della ricchezza<br />

del volume, corredato anche da una bibliografia selezionata e da un<br />

indice onomastico. L’ampia documentazione filosofica e teologica e<br />

il carattere rigoroso delle riflessioni si sintetizzano felicemente con<br />

la partecipazione profonda con cui l’autore scrive, anche se a volte il<br />

linguaggio rischia di farsi troppo evocativo se non addirittura un po’<br />

ermetico. Il lettore resta così personalmente coinvolto dalla<br />

proposta: non solo sulla possibilità della civiltà dell’amore, ma anche<br />

sulle responsabilità che la sua realizzazione invita ad assumere con<br />

coraggio e fiducia.<br />

S. MAJORANO C.Ss.R.


505<br />

Piva, Pompeo, L’evento della salvezza fondamento dell’etica<br />

ecumenica, Padova: Edizioni Messaggero, 1997, 295 p. (Coll. a<br />

cura dell’Istituto di Studi Ecumenici “S. Bernardino”, Facoltà<br />

Teologica dell’Antonianum, Venezia).<br />

Pompeo Piva, profesor de Moral en el Seminario diocesano de<br />

Mantova y en el Istituto di Studi Ecumenici “S. Bernardino” di<br />

Venezia, nos ofrece una síntesis de lo que, según él, constituye la<br />

base común a cualquier reflexión ética cristiana. En una época,<br />

como la nuestra, dominada por un creciente relativismo, se impone<br />

la necesidad de repensar las bases sobre las que se pueda apoyar<br />

sólidamente la estructura de una ética cristiana. El autor encuadra<br />

su estudio en una perspectiva ecuménica, lo que le mueve a recurrir<br />

a las fuentes del N.T. como clave de interpretación del sujeto moral<br />

y de las normas por las que éste debe regir su conducta. Fuentes<br />

complementarias de su estudio son la reflexión de los teólogos y los<br />

documentos de carácter ecuménico elaborados por las iglesias<br />

cristianas en los últimos decenios.<br />

Esta triplicidad de fuentes le ofrece la pauta para estructurar su<br />

análisis en tres partes: a) dato bíblico (cc. I-II); b) aportación de los<br />

teólogos (c. III); c) aportación de los documentos ecuménicos (c. IV).<br />

Al final el autor trata de elaborar una síntesis con los resultados<br />

obtenidos, perfilando lo que él llama un “posible estatuto<br />

metodológico de la ética ecuménica” (c. V).<br />

No podemos menos de contemplar con satisfacción el esfuerzo<br />

teológico realizado por el Prof. Piva. Es evidente que, como biblistas,<br />

hubiéramos deseado un estudio más riguroso de los datos de la Sda<br />

Escritura, particularmente de la doctrina paulina; a pesar de todo,<br />

consideramos un hecho importante el que los moralistas<br />

sistemáticos hayan percibido la necesidad de recurrir al dato bíblico<br />

cuando se trata de establecer las bases del quehacer ético cristiano.<br />

La tesis defendida por el autor es que la base de toda ética<br />

cristiana ha de colocarse en lo que él llama “il fatto previo”,<br />

entendido como “l’autocomunicazione di Dio per mezzo di Cristo<br />

nella persona dello Spirito Santo, per cui ogni uomo è creatura<br />

nuova in Cristo”. Lógicamente, la vía ética del cristiano no será otra<br />

que Jesucristo “che nella potenza dello Spirito Santo illumina e<br />

vivifica il singolo e la comunità credenti, li inizia alla vita nascosta in<br />

Dio, li guida alla pienezza della verità negli atteggiamenti di ogni<br />

giorno” (87).


506<br />

El “hecho previo” viene dado en los evangelios en términos de<br />

“anuncio” de lo que Cristo ha dicho y ha hecho para la salvación del<br />

hombre. El “anuncio” es complementado por la fe, dando como<br />

resultado la “nueva criatura” y la nueva vida. El autor toma como<br />

lema dos frases joánnicas que le sirven para encabezar sendos<br />

capítulos: “quien posee al Hijo posee la vida eterna (1 Jn 5,12) y<br />

“quien cree que Jesús es el Cristo, ése ha nacido de Dios” (1 Jn 5,1).<br />

En términos paulinos, el “hecho previo” sería la muerte-resurreción<br />

de Cristo y nuestra integración en ese misterio a través de la fe y del<br />

bautismo. Este “anuncio” estaría en la base de todos los imperativos<br />

y exhortaciones. Según el autor, no existiría primariamente una ética<br />

sino un “hecho”. No hay que partir, pues, de “un deber” a priori de<br />

cuño kantiano, ni de la promulgación de una ley sino de un “hecho”<br />

que genera un deber y avala la necesidad de unas leyes.<br />

Desde este presupuesto de base el Prof. Piva pasa revista a las<br />

opiniones de algunos teólogos más importantes de los campos<br />

católico y protestante, tomando en consideración particularmente la<br />

relación ley-gracia-justificación. Hace especial hincapié en el<br />

concepto de “ley nueva” formulado por Sto Tomás (149ss) y en las<br />

diversas funciones y “usos de la ley, propuestos por los reformadores<br />

(Lutero, Melancton etc., 162ss).<br />

Entre los autores protestantes contemporáneos presta una<br />

atención particular a la ética teológica de K. Barth con su conocida<br />

teoría de la “ley como forma del evangelio” (175ss) y al discurso<br />

epistemológico de W. Pannenberg que coloca “prolépticamente” la<br />

ética teológica en el horizonte de la resurrección (188ss). No falta<br />

una referencia especial al gran teólogo católico K. Rahner que desde<br />

la dogmática ofrece elementos metodológicos interesantes para el<br />

discurso ético (184ss).<br />

Al pasar revista al material propiamente ecuménico tal como<br />

aparece en los numerosos documentos elaborados conjuntamente<br />

por las diversas iglesias cristianas (193ss), el autor se siente forzado<br />

a hacer una selección, centrando su atención en los documentos que<br />

abordan explícitamente el problema ético, como Choix éthiques et<br />

communion ecclésiale (1992) y Life in Christ (1993). Desde el punto<br />

de vista de la fundamentación teológica el a. concede especial<br />

atención al Documento de Lima: Bautismo, eucaristía y ministerio<br />

(1982), al Documento de Basilea: Paz y justicia y al Documento<br />

Iglesia y Justificación. La comprensión de la Iglesia a la luz de la<br />

doctrina sobre la justificación.


507<br />

En el análisis de estos documentos, el autor suele tomar en<br />

consideración el método, los contenidos fundamentales y la<br />

valoración personal de los mismos partiendo de su tesis sobre la<br />

fundamentación de la ética en el “hecho previo”.<br />

Al final de sus análisis el autor cree llegado el momento de<br />

formular un “posible estatuto metodológico de la ética ecuménica”<br />

(239ss), que permita responder a la pregunta ¿cómo es posible<br />

identificar un fundamento crítico para una legitimación teológica<br />

del juicio moral en perspectiva ecuménica? La respuesta estará en la<br />

“decifrazione” de la autoconciencia del creyente, entendida como<br />

“matriz genética normativa del obrar moral” (239). Sin pretender<br />

negar lo Absoluto (que entraría siempre como parte integrante del<br />

horizonte hermenéutico), el a. pone en el centro la dimensión<br />

histórica del sujeto ético y, en definitiva, su condición de persona: “la<br />

persona umana e quindi la persona cristiana, dev’essere considerata<br />

fondazione adeguata della norma e sua condizione ermeneutica”<br />

(240). De la persona brotan los actos y hacia ella convergen como<br />

horizonte hermenéutico unificador (241). En este contexto, la<br />

“norma” representa la “objetivación en términos racionales de actos<br />

intencionales referidos al sentido de la vida” (242). Esta referencia<br />

esencial a la vida y, en definitiva, a la persona, impide que la norma<br />

pueda fundarse exclusivamente sea en el ámbito de la pura situación<br />

sea en la sola referencia a normas universales, quedando así<br />

salvaguardadas tanto la objetividad como la subjetividad del<br />

quehacer moral y del proceso hermenéutico. En el contexto de la<br />

persona se puede identificar, en efecto, la presencia objetiva del<br />

“hecho previo”, entendido como participación en la vida de Cristo y<br />

como dinamismo subjetivo que se proyecta imperativamente hacia la<br />

acción: “dal cuore nuovo, creato dallo Spirito Santo, nascono le<br />

esigenze spirituali, oggettive, obbliganti...” (247). La persona, como<br />

centro unificante de las vivencias y, por tanto, de la vivencia<br />

constitutiva del ser cristiano es, por esta razón, fundamento y<br />

criterio hermenéutico de toda norma.<br />

Al tratar de valorar la obra del Prof. P. Piva tenemos que<br />

comenzar reconociendo el no pequeño mérito de haber reunido y<br />

dado forma orgánica a un abundante material que normalmente es<br />

posible encontrar sólo en forma dispersa. El recurso a este variado<br />

material venía exigido por la pluralidad temática del argumento<br />

tratado. Tenemos que reconocer, en líneas generales, que el autor ha<br />

logrado su cometido. Las observaciones que se pueden hacer nacen


508<br />

fundamentalmente de la imposibilidad de tratar con profundidad<br />

científica todos y cada uno de los temas tocados. Nos referiremos<br />

solamente a algunos de ellos.<br />

Al hablar del método (10ss) el a. da la impresión de poner en un<br />

plano de igualdad o de identidad método y discurso hermenéutico.<br />

Los métodos científicos con que se puede abordar el estudio de la<br />

Biblia no prejuzgan la posición hermenéutica que se pueda adoptar,<br />

aunque tengamos que admitir, con P. Ricoeur, que la elección del<br />

método no es ajena a la misma. Método y hermenéutica (al menos en<br />

el sentido moderno del término) son cosas distintas. Si el autor<br />

quiere entender la “hermenéutica” en el sentido clásico debiera<br />

indicarlo explícitamente. En todo caso, los problemas metodológicos<br />

que el autor “considera necesario tocar” (10) como cuestión previa al<br />

estudio del dato bíblico no son suficientemente tratados.<br />

En la presentación del dato bíblico procede “sistemáticamente”,<br />

como lo indican los dos epígrafes bajo los que coloca los primeros<br />

capítulos (“El que posée al Hijo posée la vida” y “el que cree que<br />

Jesús es el Cristo ha nacido de Dios”). Con ello resulta muy difícil un<br />

estudio de carácter analítico rigurosamente científico, que tenga en<br />

cuenta la evolución y características propias que cada tema ha tenido<br />

en las diversas épocas y en los diversos autores del N.T. Todo esto<br />

resulta aun más llamativo cuando el proceso “homologador” se<br />

extiende a los textos del A.T. que el a. va entremezclando demasiado<br />

fácilmente con los del N.T. En particular, consideramos bastante<br />

deficiente el estudio de la doctrina paulina, que tantos elementos<br />

ofrece precisamente para iluminar lo que el autor presenta como<br />

punto central de su argumentación: la fundamentación del<br />

imperativo en el indicativo (“fatto previo”). Una mayor<br />

profundización en el pensamiento paulino hubiera ayudado también<br />

a una mejor comprensión de ciertos temas, como la naturaleza del<br />

“pecado” o la función de la ley. Cuando Pablo, por ejemplo, se<br />

expresa en términos de “hê hamartía” se refiere a algo mucho más<br />

profundo de las meras acciones personales (132) y más activo que el<br />

“pecado-situación” (133).<br />

Son muchos los puntos en los que se podrían introducir<br />

precisaciones importantes, pero creemos que el insistir sobre este<br />

aspecto no haría justicia a la obra, que se presenta como un intento<br />

de abrir pistas para una reflexión convergente entre las diversas<br />

iglesias cristianas en materia ética. Esta convergencia sólo será<br />

posible apuntando a la base del proyecto ético cristiano. Localizar


509<br />

esta “base” imponía un esfuerzo de aproximación al mensaje<br />

cristiano originario y, más en concreto, a los textos del N.T. El autor<br />

ha emprendido esta no fácil tarea, consciente de la dificultad que ello<br />

supone para un moralista sistemático. Ello representa sin duda un<br />

mérito y un ejemplo no sólo a nivel ecuménico sino a nivel<br />

simplemente teológico-moral. La moral cristiana tiene todavía<br />

abierto el problema de la identificación del propio estatuto<br />

científico, que comporta necesariamente un retorno decidido a las<br />

fuentes. Desde este punto de vista la obra del Prof. Piva constituye<br />

sin duda una valiosa aportación.<br />

LORENZO ALVAREZ C.Ss.R.<br />

Privitera, Salvatore, La questione bioetica. Nodi problematici e<br />

spunti risolutivi, Acireale: Istituto Siciliano di Bioetica 1999,<br />

160 p. (Conchiglie n.1)<br />

David, Vincenzo, La tutela giuridica dell’embrione umano. Legislazione<br />

italiana ed europea, Acireale: Istituto Siciliano di Bioetica<br />

1999, 144 p. (Conchiglie n.2)<br />

L’Istituto Siciliano di Bioetica ha incominciato la publicazione<br />

della nuova collana di libri consecrata alla riflessione bioetica<br />

intitolata Conchiglie. Questa serie apre il volume La questione<br />

bioetica. Nodi problematici e spunti risolutivi di S.Privitera, preside e<br />

professore di quest’Istituto. L’Autore ha cercato - in primo luogo - di<br />

evidenziare alcuni nodi del dibattito bioetico del punto di vista<br />

scientifico (di natura logica, etico-linguistica, metaetica, normativa)<br />

e culturale (rapporto tra bioetica laica e religiosa, bioetica<br />

nordamericana e europea, la bioetica mediterranea). Poi Privitera ha<br />

tentato di presentare La vita come mistero nelle culture<br />

mediterranee, quella vita che sta alla base di tutti gli altri valori e<br />

rappresenta “quella perla che costituisce l’oggetto principale<br />

dell’interesse della bioetica che, come conchiglia, la custodisce,<br />

protegge e difende, promuovendone per tutti ed in ogni sua fase una<br />

sempre migliore dimensione qualitativa” (p.55). Dopo questa poetica<br />

definizione del ruolo della bioetica possiamo capire meglio il senso<br />

del titolo di questa collana.<br />

Per S.Privitera la bioetica “si è autopresentata come scienza<br />

della sopravvivenza della specie umana, della vita in genere”, dove in


510<br />

gioco c’è anzitutto la vita dell’uomo, perché “l’etica non fa<br />

antropologia, ma si fonda sull’antropologia”. L’Uomo nella<br />

prospettiva filosofico-etica e biblico-teologica si presenta come la<br />

base, il centro ed il fine della riflessione bioetica secondo Privitera.<br />

Ma è un peccato che l’autore in detta ottica abbia trattato soltanto<br />

due problemi strettamente bioetici, quelli della genetica e della pena<br />

di morte.<br />

La tutela giuridica dell’embrione umano. Legislazione italiana ed<br />

europea è il secondo volume della stessa collana. L’Autore, Vincenzo<br />

David, avvocato specializzato in Diritto delle regioni e degli enti<br />

locali presso l’Università degli Studi di Palermo e in Bioetica presso<br />

l’Università Cattolica del S.Cuore di Roma, tratta il tema dello<br />

statuto giuridico dell’embrione umano, “nei confronti di quel<br />

soggetto debole che non ha una capacità comunicativa verbale e di<br />

autonomia” (Introduzione). V.David, cosciente che lo statuto<br />

giuridico dell’embrione umano è fondamentale nel dibattito in<br />

bioetica, ha cominciato la sua riflessione giuridica dalla<br />

presentazione del rapporto tra la legge morale secondo la dottrina<br />

ufficiale della Chiesa e la legge civile attraverso le dichiarazioni<br />

internazionali, i documenti del Consiglio d’Europa e del Parlamento<br />

europeo e l’esperienza legislativa in Italia. Secondo la legge morale<br />

l’embrione umano è l’essere umano e il soggetto titolare di diritti<br />

umani. Ma nella società multietica, dove il relativismo etico è una<br />

condizione della democrazia, avanza troppo rapido il processo di<br />

separazione fra la legge morale e la legge civile, che ha portato il<br />

riconoscimento del diritto di aborto e della fecondazione artificiale<br />

assistita, che ledono il complesso dei diritti dell’embrione umano.<br />

Questa situazione è molto pericolosa non soltanto per la vera salute<br />

della società, ma soprattutto per la coscienza dell’uomo. “Se una<br />

legge civile non tutela un bene essenziale alla convivenza, come il<br />

diritto fondamentale alla vita, elemento costitutivo del bene comune,<br />

la legge non è legge, deve essere modificata e può essere oggetto di<br />

obiezione di conscienza” (p.16). Nonostante la presenza di varie<br />

forme di attentato alla vita umana nascente e l’assenza di un serio<br />

intervento legislativo – secondo V.David – appaiono all’orizzonte<br />

segni di speranza: movimenti spontanei di forze sociali e politiche in<br />

varie parti del mondo chiedono la rivisione delle leggi permissive che<br />

ledono i diritti dell’embrione, il legislatore italiano assuma un ruolo<br />

attivo e di promozione della vita del concepito (per il 64% degli<br />

italiani l’embrione è un essere umano).


511<br />

Due volume scritti nel linguaggio contemporaneo, vivace e ben<br />

ordinato del punto di vista epistemologico-metodologico, che<br />

esprimono i valori da mantenere e perfezionare nella nostra<br />

moderna, un po’ ammalata società; che deve intendere che il rispetto<br />

della vita e dei diritti della singola persona, anche pre-natale sta<br />

nell’assumersi la responsabilità della sua tutela, in quanto bene<br />

comune e patrimonio di tutta l’umanità.<br />

EDMUND KOWALSKI, C.Ss.R.<br />

Privitera S., Vecchio G., (a cura di), La notizia a confronto con<br />

l’etica, Acireale: Facoltà Teologica di Sicilia, Istituto Siciliano di<br />

Bioetica 1999, 128 p. (Etica e Società n.1)<br />

Nessuna disciplina umana è fuori dal campo della morale,<br />

perché tocca, riguarda e concerne direttamente o indirettamente la<br />

persona umana. Una notizia quotidiana che noi leggiamo ogni<br />

giorno sul nostro giornale preferito è scritta da una persona per<br />

un’altra persona. Noi, lettori, esigiamo che essa sia soprattutto vera<br />

ed obbiettiva. Ma non tutti i giornalisti rispettano o stimano i<br />

suddetti criteri del giornalismo. Alcuni giornalisti utilizzano i diversi<br />

metodi (vedi per esempio i famosi “paparazzi”) per scoprire o per<br />

colorare un fatto e di conseguenza riempire una colonna con lo<br />

scoop, con ambizioni esclusivamente scandalistiche o<br />

senzazionalistiche, al solo scopo di autopubblicizzarsi e di<br />

aumentare il numero dei lettori del loro giornale. Ma ci sono “i<br />

giornalisti cattolici e no”, che vogliono vivere coerenetemente ed<br />

eticamente la loro professione (Indroduzione di G.Vecchio). Per i<br />

giornalisti per cui non bastano le varie Carte dei doveri ed i Codici<br />

deontologici l’UCSI Sicilia ha organizzato - in collaborazione con<br />

l’Istituto Siciliano di Bioetica - il primo seminario di etica<br />

professionale per giornalisti nel quadro dei “Seminari di etica<br />

professionale”. Il volume presentato e commentato è il frutto di<br />

questo primo seminario, visto come “l’inizio di una serie di incontri<br />

finalizzati alla sensibilizzazione di una coscienza etica nel contesto<br />

della vita professionale contemporanea” (Introduzione).<br />

“La notizia a confronto con l’etica” è l’insieme degli interventi di<br />

due gruppi dei professionisti: giornalisti (M.Petrina, Presidente<br />

dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, N.Barraco, A.Fisichella,


512<br />

A.Ruggieri, G.Zizola) e moralisti (S.Leone, S.Privitera). I giornalisti<br />

coscienti di dover essere non soltanto informatori, ma soprattutto<br />

formatori dell’opinione e della coscienza in Italia (Barraco, Ruggieri,<br />

Zizola) – è un peccato che ciò sia limitato soltanto al paese di Virgilio<br />

e di Dante – chiedono ai moralisti di presentare il punto di vista<br />

dell’etica cristiana su tanti problemi con cui quotidianamente loro<br />

hanno da confrontarsi (adesso problemi di biomedicina e di<br />

bioetica). Le risposte dei moralisti presenti sono state adeguate agli<br />

interrogativi. S.Leone (“Medicina e Bioetica nei mass media”)<br />

parlando del giornalismo medico ha ricordato “le linee-guida di una<br />

corretta informazione medica” del Comité Consultatif National<br />

d’Ethique della Francia (!). Secondo S.Privitera (“Per una ‘notizia’<br />

dell’etica e della bioetica: il ruolo ‘maieutico’ del giornalista”) il<br />

giornalista come informatore “non dovrà limitarsi a riferire la<br />

notizia del fatto ma dovrà anche presentare le diverse interpretazioni<br />

del fatto... obiettivamente corrispondenti alla realtà delle cose”<br />

(p.116).<br />

Dopo la lettura di questo libro possiamo soltanto unirci ai<br />

ringraziamenti al Presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti<br />

Mario Petrina all’UCSI Sicilia e all’Istituto Siciliano di Bioetica<br />

(chiamato da lui Laboratorio di Cultura Bioetica per l’uomo del terzo<br />

millennio) per la loro iniziativa dell’incontro interdisciplinare ed<br />

aspettare i prossimi contributi dei Seminari di etica professionale.<br />

EDMUND KOWALSKI, CSsR<br />

Russo G., (a cura di). Leumann (Torino): Editrice Elle Di Ci, 336 p.<br />

(Evangelium vitae 59).<br />

La collana Evangelium vitae curata da don Giovanni Russo si<br />

arricchisce di un nuovo volume a più voci che, collegandosi<br />

idealmente ai precedenti, contribuisce a delineare un quadro<br />

organico e sfaccettato degli interessi e problemi della bioetica. La<br />

bioetica infatti, non può essere ristretta all’ambito della medicina e<br />

tanto meno della sola medicina di frontiera, anche se in questi settori<br />

emergono per la bioetica le sollecitazioni più pressanti e più vivo è<br />

l’interesse del dibattito pubblico, ma deve allargare i suoi interessi a<br />

tutto il fenomeno vita e, per quanto riguarda la vita umana, alle<br />

questioni connesse con la qualità della vita della gente, le politiche


513<br />

sociali e sanitarie, i comportamenti di massa che toccano da vicino<br />

l’integrità psicofisica della vita. Perciò, dopo il volume di commento<br />

dell’enciclica Evangelium vitae, che contiene i fondamenti filosofici e<br />

teologici della disciplina, e dopo i testi riguardanti la bioetica clinica,<br />

quella ambientale e quella animale, ora ci viene offerto uno studio<br />

approfondito sulla bioetica sociale “vale a dire tutto quel campo della<br />

vita che è in stretto rapporto con l’organizzazione sociale e politica”<br />

(p. 5). Anche alcuni dei temi classicamente presenti in tutti i manuali<br />

di teologia morale in relazione al comandamento “Non uccidere”, in<br />

particolare suicidio, legittima difesa, omicidio e pena di morte, vengono<br />

presentati non in quanto violazioni o eccezioni al comandamento,<br />

bensì nella prospettiva di problemi sociali emergenti che<br />

interpellano la responsabilità individuale e collettiva verso il valore<br />

della vita umana.<br />

Il volume si apre con uno studio sul suicidio dovuto allo stesso<br />

Curatore, la cui attività nel campo della bioetica è a tutti nota. Dopo<br />

un rapido schizzo sulla storia della riflessione morale sul tema,<br />

ampio spazio viene dedicato alla sociologia e psicologia delle<br />

condotte suicidiarie con particolare riferimento ad alcune tipologie<br />

oggi più rilevanti (adolescenti, anziani, militari), fornendo infine<br />

preziose indicazioni psicopedagogiche per gli educatori ed i<br />

responsabili della salute pubblica.<br />

Più classiche le pagine che il prof. Lino Ciccone dedica alla<br />

legittima difesa e all’omicidio. In questi due capitoli, fra loro in stretta<br />

continuità, ci pare soprattutto da sottolineare il tentativo di uscire da<br />

una lettura formalistica della legittima difesa attraverso<br />

l’applicazione quasi meccanica della figura del duplice effetto, per<br />

aprirsi ad una comprensione dinamica della articolata relazione<br />

conflittuale che si realizza fra aggressore e aggredito. La centralità<br />

assiologica del valore della vita umana risalta con chiarezza nella<br />

trattazione dell’omicidio in cui si rivendica, fra l’altro, la<br />

ragionevolezza e la radicazione antropologica del precetto divino, in<br />

garbata polemica con quegli studiosi di etica che “data la diffusa<br />

ignoranza del cristianesimo” spingono a “far pensare che il motivo<br />

primo per cui l’omicidio è moralmente riprovevole è perché è<br />

proibito da una legge, sia pure divina” (p. 77).<br />

L’articolo del prof. Mario Di Ianni, dell’Urbaniana, offre una<br />

puntuale informazione biblica, patristica e teologico morale sulla<br />

pena di morte, per poi soffermarsi sul dibattito attuale intorno alla<br />

sua legittimità: l’Autore sostiene che “gli argomenti di ambo gli


514<br />

schieramenti vanno rispettati e che il riconoscimento, da parte della<br />

Chiesa, del diritto che lo Stato ha di comminare questa pena, per<br />

gravissimi motivi, ha avuto nel passato delle spiegazioni storico<br />

culturali, ma che oggi, alla luce delle spinte degli uomini di buona<br />

volontà, i credenti in Cristo non possono più sostenere, senza una<br />

forte riserva morale, che la pena di morte sia un punizione adeguata<br />

alla dignità della persona umana, e non-in-sintonia perfetta con i<br />

valori del Vangelo” (pp. 86-87). La posizione dell’Autore è esemplata,<br />

in sostanza, su Evangelium Vitae e la typica del Catechismus, ma è<br />

interessante che egli respinga a ragione l’uso della figura della<br />

legittima difesa usato da questi recenti testi magisterali (cfr. p. 111).<br />

Questa prima ideale sezione è chiusa da una stringata<br />

trattazione dell’insolito tema della cremazione del cadavere dovuta al<br />

dott. Anfelo Cafaro, medico e cultore di bioetica, spiegando i motivi<br />

della legislazione canonica antica e di quella attuale, ma non<br />

dissimulando la propria diffidenza dal punto di vista sanitario e<br />

psicologico per la prassi dell’incenerimento.<br />

I tre capitoli seguenti studiano una delle più drammatiche<br />

emergenze socio-sanitarie dei nostri giorno, quello delle dipendenze<br />

da sostanze chimiche. Il dott. Salvino Leone, docente di bioetica<br />

presso la facoltà di medicina di Palermo, traccia le coordinate<br />

mediche, culturali, psicologiche ed etiche delle tossicodipendenze,<br />

interessandosi alle questioni morali e giuridiche poste dalla<br />

prevenzione, dalla liberalizzazione, dalla riabilatazione. Il dott.<br />

Gialuigi Conte e la dottoressa Angela Maccallini, psichiatri<br />

dell’Università Cattolica di Roma, completano la trattazione generale<br />

con un capitolo sullo spinoso problema di Tossicomanie e<br />

adolescenza. Lo stesso dott. Conte, in collaborazione con la<br />

dottoressa Patrizia Giura, ha steso anche il suggestivo capitolo su<br />

Alcolismo e tabagismo.<br />

Il contributo di Massimo Petrini, dell’Università Cattolica del<br />

Sacro Cuore di Roma, affronta uno dei nodi della sociologia e della<br />

medicina di oggi e ancor più di domani, quello dell’invecchiamento.<br />

Il capitolo su Geriatria e gerontologia ovvero sulla Bioetica<br />

dell’anzianità, esamina con ordine e grande competenza i dati<br />

demografici, psicologici e teologico-spirituali dell’età anziana e offre<br />

interessanti spunti per quello che riguarda l’accompagnamento e<br />

l’assistenza dell’anziano sino alle soglie della morte attraverso la<br />

cosiddetta death education. Un altro argomento di grande rilevanza<br />

sociale, ma poco frequentato dai moralisti, è quello dello sport. Il


515<br />

dott. Salvino Leone dà un quadro molto limpido del soggetto,<br />

dapprima con alcune riflessioni sui valori etici ed antropologici<br />

come movimento, gioco ed agonismo, quindi affrontando il<br />

controverso tema del doping ed infine analizzando con grande<br />

equilibrio la questione del rischio sportivo e degli sport pericolosi.<br />

Gli ultimi due interventi riguardano problematiche del mondo<br />

della medicina. Il famoso pediatra Giuseppe Roberto Burgio compie<br />

una acuta e appassionata disanima in materia di vaccinazioni, un<br />

campo piuttosto turbolento dal punto di vista sia medico sia etico, nel<br />

quale le critiche di alcuni medici si sono trovate in sinergia con le<br />

paure irrazionali di molti genitori ed un malinteso diritto dei genitori<br />

di decidere autonomamente per i figli. Il prof. Burgio conclude la sua<br />

trattazione affermando che “gli immancabili nuovi successi daranno<br />

le migliori risposte alla irresponsabile e colpevole dialettica della<br />

confutazione” (p. 293). Il volume è chiuso da uno studio sintetico, ma<br />

soddisfacente come primo approccio, su uno dei problemi più tipici<br />

della bioetica contemporanea quello della Distribuzione delle risorse<br />

sanitarie o, se si vuole, della giustizia sanitaria. La trattazione è<br />

dovuta ad uno dei più fini bioetici italiani, il prof. Massimo Reichlin,<br />

ricercatore al San Raffaele di Milano, e ripercorre con semplicità e<br />

rigore le questioni più rilevanti che animano il dibattito odierno: dal<br />

diritto alla salute o meglio dal diritto ad accedere alle cure sanitarie e<br />

dal sistema sanitario ottimale per tutelarlo, all’obiettivo modesto, ma<br />

forse l’unico possibile nell’attuale contesto socio-sanitario, del<br />

minimo decente, alla questione del razionamento delle cure e dei<br />

criteri per operarlo secondo equità. Da segnalare l’ampia discussione<br />

sul criterio dei QALYS (quality-adjusted life years) che, sotto<br />

l’apparenza di oggettività, contiene una pesante ipoteca ai danni di<br />

coloro che per età o condizioni di handicap sono già svantaggiati in<br />

partenza perché “tende a far prevalere l’esigenza economica di<br />

ricavare la maggior quantità di benefici possibili dall’impiego delle<br />

risorse sanitarie, rispetto all’esigenza etica di mantenere un criterio di<br />

equità nel trattamento delle persone” (p. 316).<br />

Pur nella legittima e nel complesso piacevole varietà delle<br />

impostazioni dei diversi contributi, si può senz’altro rintracciare nel<br />

volume un saldo filo conduttore: il nostro atteggiamento verso la vita<br />

non può essere strutturato nel paradigma di una autonomia<br />

individualista, ma, nel momento che la vita umana presenta sempre<br />

anche aspetti interpersonali e sociali, il nostro atteggiamento verso<br />

la vita deve essere strutturato sul paradigma di una libertà


516<br />

relazionale. Una bioetica dell’autonomia deve quindi sapersi<br />

armonizzare con una bioetica della responsabilità e in questa<br />

accentuazione del “prendersi cura” rispetto al “dovere” o al<br />

“rispettare” è possibile, fra l’altro, ravvisare l’importanza di quella<br />

che potremmo definire dimensione femminile della disciplina, come<br />

il Curatore non manca di sottolineare (p. 6). Deriva da questa<br />

opzione di fondo, così fortemente radicata nell’ethos cristiano, la<br />

persuasione che il nostro futuro “dipenda dall’impegno per la<br />

promozione di una qualità della vita che è dialogica, interpersonale,<br />

appunto sociale. Occorre camminare – avverte perciò Russo – verso<br />

una positiva convergenza sociale sulla vita e sul suo valore … e porre<br />

al centro la vita altra come paradigma. Leggere la vita senza questa<br />

alterità è il fallimento di ogni paradigma. Leggere la vita senza<br />

questa alterità è il fallimento di ogni paradigma” (p. 7).<br />

Auguriamo al volume la diffusione che si merita e lo<br />

raccomandiamo a tutti coloro che, fra gli appassionati di bioetica e<br />

gli operatori pastorali, vogliono avere una informazione seria,<br />

aggiornata, ben argomentata su temi di così scottante attualità.<br />

MAURIZIO P. FAGGIONI<br />

Scola, Angelo, Il mistero nuziale. 1. Uomo-donna. Roma: PUL-<br />

Mursia, 1998, 208 p.<br />

Esta obra entra a formar parte de la rica y abundante literatura<br />

que se está difundiendo para iluminar un campo de la teología de la<br />

pareja humana hasta el presente un poco en la penumbra: ‘la<br />

dimensión nupcial’. El autor es Mons. Angelo Scola, Rector<br />

Magnífico de la Universidad de Letrán, y Presidente del Pontificio<br />

Instituto Matrimonio y Familia ‘Juan Pablo II’ con sede en Roma.<br />

La nueva contribución de Angelo Scola a la teología del<br />

matrimonio está programada en dos volúmenes enfocados a la<br />

antropología teológica: el primero dedicado a la pareja varón-mujer,<br />

el segundo al matrimonio-familia.<br />

El primer volumen titulado Il mistero nuziale está concebido<br />

como pre-requisito para la lectura del segundo y aparece<br />

estructurado en dos partes con un total de seis capítulos y cuatro<br />

apéndices (pp. 145-195). El texto va acompañado de 521 notas, lo<br />

que sugiere la seriedad y calidad de la reflexión.


517<br />

Ya desde el prefacio, el autor relaciona los términos ‘amor’ y<br />

‘misterio’, porque para entender la naturaleza del amor humano se<br />

hace necesario entrar en el misterio. Para comprender que el amor<br />

es misterio, Scola plantea dos condiciones: que se considere el<br />

misterio como una modalidad personal y que se acepte mirar como<br />

una unidad la pluralidad de formas con que se revela el amor. Fuente<br />

de inspiración ha sido la enseñanza de Juan Pablo II, antes y durante<br />

su pontificado, en particular las catequesis sobre el libro del Génesis<br />

y la Mulieris dignitatem de la que toma los fundamentos<br />

antropológicos y teológicos.<br />

La primera parte del primer volumen se centra en tres ideas:<br />

varón y mujer son personas humanas porque fueron creados a<br />

imagen de Dios; en cuanto ‘unidad de dos’ son ‘imago Dei’; y como<br />

tal, están orientados a la procreación. Esta parte demuestra que<br />

varón-mujer son ‘imago Dei’ no sólo en su vocación de ‘uni-dualidad’,<br />

sino también en su vocación de paternidad-maternidad.<br />

La segunda parte se centra en los tres últimos capítulos en los<br />

que el autor examina la perspectiva del ‘misterio nupcial’. También<br />

aquí aparecen tres ideas principales: los dinamismos de la<br />

nupcialidad (afecto, amor y sexualidad), la descripción del misterio<br />

nupcial y la relación entre nupcialidad y fecundidad. Leyendo con<br />

atención se podrá descubrir que el capítulo IV sobre ‘los dinamismos<br />

de la nupcialidad’ hace el nexo entre las dos partes; este nexo lo<br />

constituye el amor del varón y de la mujer (amor sexual o erótico), al<br />

que el autor llama “forma paradigmática del amor”.<br />

Il mistero nuziale es el tema analizado a lo largo de las 208<br />

páginas, es la clave de lectura y de la originalidad del libro. El<br />

misterio nupcial es como el hilo de oro que une toda la historia de<br />

salvación: la creación del hombre, la alianza vetero y<br />

neotestamentaria, la estructura de los sacramentos; revela el ser y el<br />

hacer de la Trinidad Divina que es precisamente la fuente de la unidualidad<br />

que se manifiesta en toda la creación.<br />

Por esta razón, la condición nupcial es un misterio: no porque<br />

sea desconocida, sino a causa de su riqueza, de su profundidad, de la<br />

forma como abraza lo increado y lo creado. En el Dios Trino y Uno<br />

se halla la explicación y fundamentación de la uni-dualidad. En Dios<br />

Uno en Tres Personas radica el principio de toda nupcialidad.<br />

Incluso la virginidad no es ajena a esta dinámica. De ahí que los dos<br />

estados (matrimonio y virginidad) realizan mutuamente la plena<br />

nupcialidad.


518<br />

Esta obra, sin decirlo expresamente, es una respuesta a quienes<br />

afirman hoy ‘el imperativo tecnológico’ que pretende disociar<br />

sexualidad, amor y procreación. Se trata de una reflexión en la que<br />

se conjugan la filosofía, la antropología y la teología en orden a<br />

iluminar la “communio personarum”, que no es otra cosa que la<br />

proyección de la ‘Imago Dei’, que es fundamentalmente ‘Imago<br />

Trinitatis’.<br />

Al terminar la lectura de esta obra aparece con claridad el<br />

objetivo que el autor se había propuesto: rechazar las diversas<br />

formas de reproducción humana que la biogenética está inventando,<br />

porque no responden al plan creador de Dios que hizo del hombre su<br />

propia imagen, ‘Imago Dei’.<br />

J. SILVIO BOTERO GIRALDO, CSsR.<br />

Scola, Angelo (a cura di), Quale vita? La bioetica in questione,<br />

Milano: Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. 1998, 416 p. (I<br />

edizione Leonardo Saggistica)<br />

La riflessione morale nel campo biomedico si va sviluppando in<br />

un momento di grande rinnovamento socio-culturale, caratterizzato<br />

dal passaggio epocale del paradigma della modernità a quello del<br />

postmoderno, che si accompagna al passaggio da una scienza<br />

eticamente libera a una scienza eticamente responsabile. Questa<br />

nuova realtà ha rinverdito una vecchia polemica sui rapporti tra<br />

etica e ricerca scientifica per cui oggi si parla di “ritorno all’etica”.<br />

La bioetica è un tema che oggi va molto di moda; l’antropologia<br />

filosofica o teologica molto meno. Eppure non ci può essere un ethos<br />

autentico della vita umana senza un’adeguata visione dell’uomo.<br />

Quale vita? La bioetica in questione è l’insieme di 13 articoli di 12<br />

autori che “intendono offrire al lettore qualche approfondimento sul<br />

fenomeno della vita umana” (Prefazione). Questo fenomeno della<br />

vita umana è stato elaborato da diversi, ma complementari, punti di<br />

vista.<br />

D.Biju-Duval (Francia) sulla lettura del Fenomeno umano di<br />

Teilhard de Chardin ha tentato ricordare non soltanto la riflessione<br />

teilhardiana sulla storia del cosmo nel quadro della storia della<br />

salvezza attraverso il suo tema di Omega, ma soprattutto sottolineare<br />

l’attualità del suo dialogo tra la teologia e le altre scienze umane, la


519<br />

sua grande unità nella visione del mondo basata “sulla tipologia del<br />

primo e dell’ultimo Adamo” e infine, ritrovare per mezzo di finalità<br />

l’importanza dell’uomo (senso ultimo della vita umana) e l’esistenza<br />

di Dio (Il fenomeno umano: vita ed etica).<br />

Dopo questa visione globale della vita umana gli altri autori<br />

hanno preso in considerazione l’uomo e la vita umana come tali alla<br />

luce di diversi aspetti dal punto di vista antropologico: filosoficoetico<br />

(S.Grygiel, Cracovia, Per guardare il cielo. Vita, vita umana e<br />

persona), psicologico-psichiatrico (G.Zuanazzi, Verona, Etica e vita<br />

psichica; Vita, etica ed esercizio della psichiatria), sociologico<br />

(W.Waldstein, Salisburgo, Vita e vita sociale: pluralismo e regole<br />

sociali), ecologico (H.Hude, Parigi, La temperanza, virtù ecologica),<br />

teologico, prendendo specialmente in considerazione il Mistero<br />

pasquale (J.Laffitte, Tolosa, Vita umana: dono, vita e perdono;<br />

D.Schindler, Washington, Sacralità della vita e cultura di morte),<br />

escatologico (M.Hendrickx, Bruxelles, La vita e la vita eterna).<br />

A monte spuntano pertanto gli interrogativi fondamentali<br />

dell’antropologia filosofica: Chi è l’uomo? Quale la sua dignità?<br />

Quale il suo valore? L’uomo è soltanto un essere biologico?<br />

Sappiamo bene che ci sono tante bioetiche quante sono le etiche<br />

professate, così come queste derivano dalle diverse antropologie<br />

seguite (L.Melina, Roma, Riconoscere la vita. Problematiche<br />

epistemologiche della bioetica). La morale presuppone l’antropologia<br />

e non viceversa. Le moderne scoperte e gli sviluppi della<br />

tecnoscienza intorno all’uomo esigono una più stretta collaborazione<br />

tra antropologia e bioetica nella nostra epoca della postmodernità,<br />

dove regna il nichilismo tecnologico, “il nichilismo massivo diffuso<br />

dai mezzi di communicazione sociale” e dove c’è “consenso e<br />

legittimità rispetto alle regole del gioco” (P.Morandé, Santiago del<br />

Cile, Vita e persona nella postmodernità).<br />

La cultura umana che in passato si limitava ad educare l’uomo,<br />

con la moderna tecnologia può ormai intervenire direttamente<br />

sull’origine dell’uomo, scegliere il suo sesso, predeterminare le sue<br />

qualità somatiche e psichiche. Da questa nuova situazione sorgono<br />

gli inquietanti interrogativi che si pone la bioetica: Quali sono i<br />

diritti della vita umana? L’uomo per le biotecnologie o le<br />

biotecnologie per l’uomo? Procreazione senza sessualità? Fecondità<br />

senza amore? La dignità umana e l’aspetto umano della sessualità e<br />

della procreazione delle persone esigono una collaborazione stretta<br />

tra la biologia con le sue nuove biotecnologie e la bioetica fondata


520<br />

sulla verità dell’uomo come l’unità corporeo-spirituale indissolubile<br />

(A.Scola, Roma, Differenza sessuale e procreazione, R.Colombo,<br />

Milano, Vita: dalla biologia all’etica).<br />

Quale vita? La vita pienamente umana con il rispetto adatto alla<br />

dignità della persona umana nella totalità della sua natura e del suo<br />

essere in quanto unità sprirituale e corporea, in cui la dimensione<br />

biologica non può essere separata da quelle spirituale, familiare e<br />

sociale – ecco la risposta degli autori di questo volume agli<br />

interrogativi fondamentali della bioetica in questione.<br />

EDMUND KOWALSKI, C.Ss.R.<br />

Università Cattolica del Sacro Cuore, Chiesa, usura e debito estero.<br />

Giornata di studio su: «Chiesa e prestito a interesse, ieri e oggi» in<br />

occasione del Cinquantennio della Facoltà di Economia (Milano,<br />

19 dicembre 1997). Milano: Vita e pensiero, 1998, 177 p.<br />

(Supplemento al quaderno n. 6, ottobre 1998).<br />

È la raccolta dei contributi presentati nel corso della giornata di<br />

studio promossa dalla Facoltà di Economia per celebrare il<br />

cinquantesimo della sua fondazione, dove, in premessa, si sottolinea<br />

che il prestito a interesse è stato interpretato per molto tempo in<br />

termini di usura, in forza di quella visione che considera la<br />

solidarietà il valore fondamentale, vincolante il rapporto di prestito<br />

relativo a qualsiasi bene. Un affermazione di principio che sarebbe<br />

però stata travolta dal mondo moderno, che assunse a valore<br />

l’efficienza e lo sviluppo economico finanziato da soggetti diversi e<br />

che, di fatto, ha instaurato «quella dialettica tra efficienza e<br />

solidarietà che non ha ancora conosciuto il suo momento di sintesi»<br />

(p. 2). Nel ricordare che: «la realtà contemporanea, anche di paesi<br />

caratterizzati dall’abbondanza, sperimenta, non marginalmente, ma<br />

drammaticamente e paradossalmente il fenomeno dell’usura» (p. 6),<br />

si spiega che, fra i vari motivi che hanno portato ad affrontare il tema<br />

in prospettiva storica, vi è: «la necessità, culturalmente fondata, di<br />

riprendere criticamente una valutazione secondo la quale la Chiesa,<br />

assumendo un atteggiamento di chiusura in ordine alla liceità del<br />

prestito ad interesse, avrebbe di fatto ostacolato lo sviluppo<br />

dell’economia moderna» (p. 7), andando a confliggere con la realtà<br />

contemporanea della finanza internazionale, delle economie


521<br />

integrate a scala planetaria, dell’incessante progresso tecnologico.<br />

Nella prima parte della giornata di studio i vari contributi si<br />

articolano attraverso la rivisitazione delle idee e delle enunciazioni in<br />

argomento, nel periodo che intercorre tra le due grandi rivoluzioni:<br />

quella commerciale e quella industriale; per concentrarsi, nella<br />

seconda parte dei lavori, sull’attualità, consistente nell’analisi dei<br />

nessi tra finanza e sviluppo economico, nel riflettere sul ruolo delle<br />

istituzioni finanziarie internazionali e, infine, nell’affrontare la<br />

questione del debito estero.<br />

Relativamente alla prima sessione, Giancarlo Andenna,<br />

introducendo al panorama delle Riflessioni canonistiche in materia<br />

economica dal XII al XV secolo, mette in risalto che la<br />

preoccupazione fondamentale che domina il periodo, mutuata dal<br />

pensiero dei Padri della Chiesa, consiste nel percepire il prestito ad<br />

interesse come capace di scardinare la visione di una società intenta<br />

a mantenere compatto il gruppo e ad incrementare i rapporti sociali,<br />

nonché fondata sulla caritas, cioè sul mutuo aiuto economico e<br />

sociale. Dopodiché scandisce le tappe di un periodo ricco di<br />

contributi, attraverso gli apporti di Raimondo di Peñafort, del card.<br />

Sinibaldo Fieschi poi Papa Innocenzo IV, del card. Enrico da Susa<br />

Vescovo di Ostia, del francescano Pietro Olivi il cui pensiero sarà<br />

inconsapevolmente ripreso da San Bernardino da Siena e da<br />

Sant’Antonino da Firenze, mostrando l’itinerario che porta<br />

all’accettazione dell’idea che un’istituzione finalizzata al credito<br />

quale quella del Monte di Pietà, possa chiedere in modo legittimo un<br />

interesse per le proprie prestazioni, sfociando anche nella ratifica da<br />

parte del Lateranense V, che farà propria la bolla inter multiplices di<br />

Leone X.<br />

Paolo Vismara, con la relazione su Valori morali e autonomia<br />

della coscienza. Il dibattito sul prestito ad interesse nella Chiesa<br />

moderna, nel sottolineare che la tematica del prestito ad interesse<br />

vede intersecarsi, in un panorama complesso, elementi diversi: «dai<br />

dati economico-sociali alle riflessioni teologiche, dalle tematiche<br />

giuridico politiche alle questioni pastorali» (p. 44), si domanda<br />

perché essa riveli posizioni contrastanti nel mondo cattolico<br />

mettendo in luce, in più di un caso, «una certa rigidità nella<br />

concezione del denaro (e, in ultima analisi in campo economico)» (p.<br />

45). Dopo un exursus che delinea le sottili distinzioni, le diverse<br />

interpretazioni e le accese diatribe che la realtà vissuta sollecitava<br />

alla riflessione dottrinale, egli rileva che «nelle posizioni della Chiesa


522<br />

moderna a proposito di prestito a interesse (…), rimane salda e<br />

invariata la tematica di fondo, che consiste essenzialmente nella<br />

volontà di garantire la riflessione etica nell’evoluzione delle dottrine<br />

economiche e nella pratica economica» (p. 80), facendo leva su<br />

ragioni di carattere etico-religioso piuttosto che economico. Il tutto<br />

nella consapevolezza della necessità di rispettare quella gerarchia dei<br />

valori che non consente di «fare del profitto la regola esclusiva e il<br />

fine ultimo dell’attività economica» (p. 81). Ed è proprio la scelta<br />

radicale, drammatica e complessa tra Dio e mammona posta di<br />

fronte all’uomo, che gli impone di «ristabilire in sé e intorno a sé<br />

l’ordo amoris» (p. 82), in una sintesi tra coscienza e valore, che spiega<br />

la compresenza di tematiche con aspetti, a volte, contraddittori, nel<br />

tentativo, in alcune correnti ecclesiastiche, «di coniugare<br />

attaccamento alla tradizione e assunzione dialettica della modernità,<br />

entro un quadro di forte appello ai valori cristiani» (p. 83).<br />

Paolo Pecorari nel tratteggiare gli Orientamenti della cultura<br />

cattolica sul prestito ad interesse nel secolo XIX, ci introduce a quella<br />

temperie economico-sociale, prodotta dalla rivoluzione industriale,<br />

che induce ad attribuire al denaro una produttività virtuale che<br />

prima non aveva e che vede l’affermarsi del pensiero liberale che<br />

ritiene il capitale intrinsecamente produttivo, indipendentemente<br />

dall’apporto del lavoro. Visione liberale, portatrice di una concezione<br />

consuntiva del credito, che si contrappone a quella produttiva di<br />

stampo più marcatamente cattolico, che è fermamente criticata dalla<br />

Rerum Novarum e che, con caratteri di grande attualità, è<br />

decisamente posta in discussione dal Toniolo, fondatore dell’Unione<br />

cattolica per gli studi sociali in Italia, il quale denuncia, fra le altre<br />

cose, il venire meno del primato della morale nella vita economica a<br />

seguito della riforma protestante prima e del razionalismo<br />

illuministico poi (p. 94). Il tutto proprio nel momento in cui il<br />

quadro economico internazionale è in una fase di forte evoluzione.<br />

La seconda sessione dei lavori, dal carattere marcatamente più<br />

tecnico, delinea con ricchezza di dati la fisionomia dell’attuale<br />

situazione economica, portatrice della grave crisi finanziaria e<br />

debitoria. Degna di nota, in particolare, è la comunicazione di Oscar<br />

Garavello che presenta il problema del Condono del debito estero dei<br />

paesi meno avanzati alla fine degli anni ’90, in maniera efficace e<br />

completa, accessibile anche ai non addetti ai lavori. Altre<br />

affermazioni richiederebbero, tuttavia, una qualche precisazione,<br />

come quando, per esempio, L. Boggio riferendosi al prestito ad


523<br />

interesse, sostiene che un’economia in fase di sviluppo costituisce un<br />

contesto che: «può spiegare perché anche la posizione della Chiesa in<br />

proposito è cambiata» (p. 111); oppure come quando G.<br />

Zampaglione, riferendosi alle istituzioni monetarie internazionali,<br />

parla di un «continuare ad avere un ruolo importante di “Lender di<br />

Last Resort” (“Prestatore di ultima istanza” ndr.)» (p. 124) che pur<br />

presente nella mens constitutiva di tali istituzioni si è svolto con tutta<br />

una serie di problematiche di non poco conto, che tuttora ne<br />

inficiano l’efficacia. E comunque le tre relazioni presentano un<br />

profilo in cui la dimensione morale non risulta essere un elemento<br />

dell’analisi, andando indirettamente a confermare la fondatezza<br />

della preoccupazione costantemente presente all’interno del pensiero<br />

cattolico, di dare rilevanza alla dimensione mutualistica in ambito di<br />

analisi economica. Ci pare, inoltre, che l’economia dei lavori avrebbe<br />

richiesto una comunicazione di sintesi dal taglio etico e morale che<br />

non fosse soltanto storico.<br />

Da segnalare un probabile errore di trascrizione quando a p. 113<br />

si parla di «285 milioni di dollari» che, coerentemente con le cifre<br />

riportate anche nelle altre relazioni dovrebbero essere 285 miliardi di<br />

dollari.<br />

Il libro risulta essere un prezioso strumento per iniziare ad<br />

addentrarsi nel complesso problema dei criteri per un’attività<br />

finanziaria secondo lo spirito evangelico e del debito estero, che<br />

rende ragione dello sforzo di approfondimento piuttosto che<br />

dell’atteggiamento di chiusura della Chiesa nel suo complesso in<br />

materia di prestito ad interesse, e che sollecita la teologia odierna a<br />

recuperare un livello qualitativo di ricerca consono alla ricca ed<br />

attiva tradizione precedente.<br />

DON LEONARDO SALUTATI<br />

Vidal, Marciano, Bernhard Häring un rinnovatore della morale<br />

cattolica. Trad. dallo spagnolo di Fabio Ruggiero. Bologna:<br />

Edizioni Dehoniane 1999, 147 p. (Trattati di etica teologica, 10).<br />

Scritto a pochi mesi di distanza dalla morte di B. Häring (3<br />

luglio 1998), il volume è molto più di una semplice<br />

commemorazione. Ricostruendone gli aspetti fondamentali della<br />

proposta, M. Vidal si preoccupa di porre in luce il ruolo decisivo


524<br />

svolto da B. Häring per il rinnovamento della teologia morale in<br />

questo secolo. Diventa perciò un invito non solo a non dimenticare,<br />

ma a continuare nell’impegno per una proposta evangelicamente<br />

fedele e rispondente ai bisogni e alle attese del nostro tempo.<br />

Giustamente l’autore si ferma sulle opere maggiori di B. Häring:<br />

la tesi dottorale del 1947 sui rapporti tra etica e religione (p. 15-34);<br />

il manuale rinnovatore dei primi anni Cinquanta, La legge di Cristo<br />

(p. 35-85); la sintesi postconciliare Liberi e fedeli in Cristo (p. 103-<br />

117). Esse però non vengono isolate, ma considerate nel tessuto<br />

biografico e ecclesiale in cui si radicano, ricorrendo anche agli altri<br />

scritti, particolarmente quelli di taglio più biografico. In questa<br />

maniera Vidal riesce a far emergere l’unità e la dinamica continuità<br />

della proposta di Häring: «Di pari passo con l’attività di scrittore va<br />

quella dedicata alla formazione spirituale (ritiri, esercizi spirituali,<br />

campi), tanto che è lecito affermare che esse finiscono col dare vita<br />

a un tutt’uno teologico-pastorale-spirituale. E questo per così dire<br />

“corpus theologicum-pastorale-spirituale” costituisce la “summa”<br />

viva e scritta che Häring ci offre» (p. 132).<br />

Nella presentazione de Il sacro e il bene, Vidal sottolinea l’ambito<br />

esperenziale (formativo e pastorale) che determinano le scelte del<br />

volume. L’analisi de La legge di Cristo è sviluppata ponendo in luce<br />

soprattutto il radicamento nella tradizione della scuola di Tubinga.<br />

Per Liberi e fedeli in Cristo viene privilegiata la partecipazione al<br />

Vaticano II e al difficile cammino del rinnovamento postconciliare.<br />

Nella conclusione riceve particolare risalto il radicamento nella<br />

tradizione alfonsiano-redentorista (p. 132-134).<br />

Una nota particolare va all’attenzione con la quale Vidal utilizza<br />

gli studi finora fatti su Häring. La parte ottava del volume è dedicata<br />

appunto a “Riconoscimento dell’opera di Häring” e offre un quadro<br />

non solo delle opere di maggior respiro, ma anche di ciò che di più<br />

significativo è stato scritto subito dopo la sua morte (p. 119-128).<br />

Pur nella sinteticità e immediatezza con cui è stato redatto, il<br />

libro mi sembra costituisca uno strumento molto utile non solo per<br />

l’approfondimento della figura e dell’opera di Häring, ma anche per<br />

chiunque voglia capire meglio il tormentato cammino della teologia<br />

morale in questo nostro secolo.<br />

S. MAJORANO C.Ss.R.


Short Notices / Noticias<br />

CHIOVARO, FRANCESCO, Alfonso di Liguori avvocato. Palermo: Segno<br />

Mensile Supplemento a n. 202, 1999, 63 p. (Piccola Biblioteca di<br />

Segno 3).<br />

This pamphlet is the printed version of a talk delivered on the occasion<br />

of the unveiling of a bust of St. Alphonsus in the Palazzo di<br />

Giustizia di Palermo on the 29th of October, 1998. The author begins<br />

with a reference to Sicily. When the Redemptorists first arrived there<br />

opposition to their presence was concentrated against Alphonsus’<br />

moral theology as jesuitical. He defended himself with the finest skill<br />

of a practiced advocate. Hence the question of how far his moral<br />

theology is dependent on his legal training? Chiovaro believes it led<br />

him to treat cases not as stereotypes as with the classical moralists<br />

but as issues tauching life at its deepest level. He was educated as a<br />

defense lawyer and so as one specialised in securing the rights of his<br />

clients. This view is confirmed by the twelve point “codice morale<br />

dell’avvocato” that he wrote at the start of his professional activity.<br />

Chiovaro calculates that law, canonical and civil, accounts for about<br />

a quarter of the sources of his Theologia Moralis. Alphonsus’ moral<br />

system is formed in a way typical of a lawyer’s style of reasoning. On<br />

one hand his training confirmed him as a man of tradition. On the<br />

other he learnt from the enlightened minds in the University of<br />

Naples that only reason is capable of judging the good and evil in human<br />

actions. His priestly training probably dampened the effect of<br />

his legal experience. It was as a missionary that he brought his legal<br />

genius to bear on his pastoral experience. This excellent pamphlet<br />

also provides an invaluable bibliography of legal sources and literature<br />

in the Theologia Moralis.<br />

Terence Kennedy, C.Ss.R.


526<br />

DE LIGUORI, ALFONSO, Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e<br />

rei. Palermo: Sellerio Editore, 1998, 100 p. (Il Divano 134).<br />

Father Nino Fasullo must be congratulated for achieving what<br />

experts on St. Alphonsus have not dared to attempt, that is, to make<br />

his authentic thought known to his fellow judges and advocates, the<br />

professions he himself exercised. Happily Fasullo understands how<br />

Alphonsus’ teaching remains not just a valid but a necessary foundation<br />

of their professional ethics. Because Alphonsus shares their<br />

culture he can play a unique role in solving the current problems of<br />

corruption and criminality which they face. The wise selections from<br />

Alphonsus’ writings Fasullo has here published illustrate his contention<br />

that St. Alphonsus has been venerated but not studied. Hence<br />

his alienation from contemporary intellectual culture, the “modernità<br />

di un antimoderno.” The concluding essay by Francesco Viola<br />

proves what a positive, inspirational effect Alphonsus can have when<br />

judges and advocates discover in his moral theology the appealing<br />

face of a God who is in our favour. This small and elegantly presented<br />

volume extends the mission of the review Segno and of the Institute<br />

founded by Father Fasullo to prepare judges for their tasks in the<br />

civil forum. This timely publication shows how a Saint could formulate<br />

the moral principles underlying his profession in a mode that remains<br />

efficacious even today.<br />

Terence Kennedy C.Ss.R.<br />

KEATING, JAMES, Pure Heart, Clear Conscience: Living a Catholic Moral<br />

Life. Huntington, Indiana: Our Sunday Visitor, 1999, 120 p.<br />

This is a booklet to encourage thinking Catholics to take their religious<br />

based morality more seriously in practice. In eight clearly<br />

written chapters, at times bordering on the colloquial, Keating touches<br />

on some central Christian moral themes from the assumption<br />

that “we do not create what is good or evil. Goodness and evil creates<br />

us.” (7). The vision is to call people back to their religious identity (9):<br />

this occurs in an historical community (37) where the journey into<br />

truth (5) occurs in a developmental way (112). For Keating this historical<br />

community is clearly the parish: the importance of communal<br />

worship (Chaper 2), sacramental forgiveness (Chapter 4) and dis-


527<br />

cernment (Chapter 6) clearly presuppose a parish structure, particularly<br />

of a certain type found in the USA (92, 103). The book makes<br />

no pretence to address the academic community. The style is exhortatory,<br />

with useful allusions to prayer and practical dilemmas such as<br />

gossip, pornography and selfishness (12). The tone is irenic and nonconfrontational:<br />

the reference to dissent (113) is charitably phrased.<br />

Though not for the academic market, the reader should be aware of<br />

the particular methodological choices which Keating makes: in his<br />

general concern to offset the problems of over-institutionalization<br />

and individualism, which he notes as the twin dangers of American<br />

Catholicism (31), Keating tends to collapse human morality, religious<br />

motivation and Christian worship into the one broad matrix. It<br />

is not a proposition which I share, and I think that parish audiences<br />

who could profit from this book should be allowed raise different<br />

methodological approaches, if they so wish. The book is peppered<br />

with an abundance of anecdotes and stories: some are pertinent, but<br />

too many were (for this European) a little syrupy and not quite ad<br />

rem. This is surely a matter of taste: de gustibus non est disputandum.<br />

But there is a long tradition of the use of exempla (as in Saint Alphonsus)<br />

that has a sound literary structure and might be worth revisiting<br />

by contemporary authors who wish to be practical. I welcome Keating’s<br />

book as a further sign of the growing number of able lay moral<br />

theologians capable of addressing issues free of clerical jargon and<br />

writing in a direct and communicable manner.<br />

Raphael Gallagher C.Ss.R.<br />

FUCHS, ÉRIC, Tout est donné, tout est à faire. Geneva: Fides-Labor et Fides,<br />

1999, 95 p.<br />

This slim volume presents the four valedictory public addresses<br />

of É. Fuchs at the theological faculty of Geneva. Elegantly written by<br />

one of the more important Protestant theologians of our generation,<br />

the book can be profitably read at two levels, either as a summary of<br />

Fuchs’ mature ethical thought or as a statement of the emerging questions<br />

common to all Christian ethicists. The major themes of Fuchs’<br />

theological concerns are here. The Scriptural basis is presented in<br />

chapter one with the exquisite exegesis one associates with Fuchs:<br />

the critical dialogue with the Calvinist tradition is the substance of


528<br />

the second chapter. The other two chapters are an exemplary presentation<br />

of the author’s longstanding awareness of the complex nature<br />

of contemporary society, with many allusions to his control of<br />

the human sciences, and a synthetic presentation of how Fuchs sees<br />

the Biblical tradition as having the internal resources to dialogue<br />

with a secularized society. Notable is his argument that the sapiential<br />

tradition may prove particularly helpful in present circumstances,<br />

while not neglecting a continuing role for the prophetic and sacerdotal<br />

traditions. More tantalizing is the prospect of seeing in this<br />

book the outline of a new approach to the justification of Christian<br />

ethics in general. Fuchs is ecumenically sensitive: he is, for instance,<br />

a valued editorial collaborator of Le Supplément. It is my impression<br />

that, at least in the western part of Europe, ecumenical dialogue on<br />

ethical questions is less vibrant than thirty years ago. Part of the reason,<br />

I suspect, is that the disputes of the Reformation are, to an extent,<br />

passé. There is a range of new questions around the survival of<br />

the humanum in a socially coherent community that raise similar ultimate<br />

questions for all the major Christian traditions. Posing these<br />

questions, for instance the meaning of equality or progress or liberalism,<br />

makes some of our quarrels of the past seem trite. The fundamental<br />

question is no longer how the divisions between the Christian<br />

Churches work themselves out in ethical positions, though they retain<br />

their own importance, but whether the very concept of any<br />

Christian ethic is viable, given the crassness of so much of our<br />

unjustly structured post-liberal societies. Fuchs is provocative on<br />

this point and makes a credible case for the contribution of the<br />

Calvinist tradition towards overcoming the deficit of hope (93) which<br />

one notes in the tired language of too many Christian institutions.<br />

Raphael Gallagher C.Ss.R<br />

ORLANDI, GIUSEPPE, Alfonso de Liguori Scrittore. Palermo: Segno Mensile<br />

Supplemento a n. 199, 1998, 47 p. (Piccola Biblioteca di Segno<br />

2).<br />

This booklet is a finely printed presentation of Prof. Orlandi’s<br />

talk on St. Alphonsus as a literary author at the convention on “Il libro<br />

alfonsiano nel Settecento,” at Palermo in 1997. He shows how<br />

Alphonsus’ writing career was a natural extension of his vocation to


529<br />

the popular missions and his apostolate to the most abandoned. It<br />

really formed the substance of his pastoral activities in the second<br />

half of his life. Orlandi explains how Alphonsus got started, how writing<br />

became his main apostolate, his extraordinary relation with his<br />

publisher Remondini in Venice, and his difficulties with State and<br />

ecclesiastical censors. Orlandi concludes by illustrating how Alphonsus<br />

really invented a pocket edition spirituality, low cost and available<br />

to everyone who could read. He notes how he adjusted his language<br />

to this aim. There is also a valuable bibliography with an historical<br />

table of the main events of Alphonsus’ life in view of his<br />

publishing efforts.<br />

Terence Kennedy C.Ss.R.


Books Received / Libros recibidos<br />

BENIGNI, Mario, Papa Giovanni XXIII chierico e sacerdote a Bergamo<br />

1892-1921. Milano: Edizioni Glossa, 1998, 391 p. (‘Studi e<br />

Memorie’ del Seminario di Bergamo 5).<br />

BRUCH, Richard, Person und Menschenwürde. Ethik im<br />

lehrgeschichtlichen Rückblick. Münster: LII Verlag, 1998, 120 s.<br />

(Studien der Moraltheologie Abteilung Beihefte 3).<br />

CASTELLO, Gaetano (a cura di), <strong>Vol</strong>ti del Messia. Gesù di Nazaret e il<br />

dialogo ebraico-cristiano. Napoli: Edizioni Eurocomp 2000,<br />

1999, 217 p. (Biblioteca Teologica Napoletana 20).<br />

CHIMIRRI, Giovanni, L’etica dell’idealismo. La filosofia morale italiana<br />

tra neohegelismo, attualismo e spiritualismo. Milano: Mimesis,<br />

1999, 192 p.<br />

CHIOVARO, Francesco, Alfonso de Liguori avvocato. Palermo:<br />

Supplemento a Segno n. 202, 1999, 63 p. (Piccola Biblioteca di<br />

Segno 5).<br />

CIORRA, Anthony and KEATING, James, Moral Formation in the Parish.<br />

New York: Alba House, 1998, 179 p.<br />

CURRAN, Charles E., The Catholic Moral Tradition Today. A Synthesis.<br />

Washington D.C.: Georgetown University Press, 1999, 255 p.<br />

DAVID, Vincenzo, La tutela giuridica dell’embrione umano.<br />

Legislazione Italiana ed Europea. Arcireale: Ed. ISB, 1999, 143 p.<br />

FABRI DOS ANJOS, Márcio (org.), Sob o fogo do Espírito. Sao Paolo:<br />

Soter - Paulinas, 1998, 345 p.<br />

FABRI DOS ANJOS, Márcio (org.), Experiência religiosa risco ou<br />

aventura? Sao Paolo: Soter - Paulinas, 1998, 167 p.<br />

FABRI DOS ANJOS, Márcio, (org.), Teologia abierta ao futuro. Sao Paolo:<br />

Soter - Paulinas, 1997, 261 p.<br />

FASULLO, Nino (a cura di), Alfonso de Liguori: degli obblighi de’ giudici,<br />

avvocati, accusatori e rei. Palermo: Sellerio Editore, 1998, 100 p.<br />

FUCHS, Eric, Tout est donné, tout est à faire. Genève: Labor et Fides,<br />

1999, 95 p.<br />

GERARDI, Renzo, Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello<br />

Spirito, virtù. Bologna: Edizioni Dehoniane, 1999, 160 p.


532<br />

GUTH, Rupert, Der Ausdruck von Wahrheit und Freiheit. Berlin - New<br />

York: Walter de Gruyter and Company, 1999, 194 p.<br />

(Theologische Bibliotek Töpelmann 98).<br />

HUBERT, Marianne, Moraltheologie im Kontext Ihrer Zeit. Beiträge zu<br />

Themen der Moral in den Stimmen aus Maria Laach der Jahre<br />

1871-1914. Trier: Paulinus Verlag, 1999? 262 s. (Trierer<br />

Theologische Studien 63).<br />

KEATING, James, Pure Heart Clear Conscience. Living a Catholic Moral<br />

Life. Huntington, Ind.: Our Sunday Visitor, 1999, 120 p.<br />

KELLY, Kevin, From a Parish Base. Essays in Moral and Pastoral<br />

Theology. London: Darton, Longman and Todd, 1999, 226 p.<br />

KOCHEROLS, Jean, L’Esprit à la Croix. La dernière onction de Jésus.<br />

Bruxelles: Editions Lessius, 1999, 174 p.<br />

LARRABE, José Luis, Escritos teológicos postconciliares, <strong>Vol</strong>. 1. Madrid:<br />

Institutos Pontificios de Teología y Filosofia O.P., 1998, 390 p.<br />

LETIZIA, Nicola, Padre Antonio Grimaldi CM tra poesia, filosofia e<br />

teologia. Napoli: Luciano Editore, 1999, 128 p.<br />

LÓPEZ, Teodoro, Mancio y Bartolomé de Medina: Tratado sobre la<br />

usura y los cambios. Pamplona: EUNSA, 188 p. (Faculdad de<br />

Teología Universidad de Navarra, Colección Teológica 91).<br />

MANZONE, Gianni, Libertà cristiana e istituzioni. Mursia: PUL, 1998,<br />

221 p.<br />

MASCIA, Matteo e PEGORARO, Renzo, Da Basileia a Graz. Il movimento<br />

ecumenico e la salvaguardia del creato. Padova: Fondazione<br />

Lanza, 1999, 261 p.<br />

MASTROCINQUE, Simona, Il dono segreto di Sant’Antonio. Padova:<br />

Messagero di S. Antonio, 1999, 93 p.<br />

MAZZANTI, Giorgio, I Sacramenti: simbolo e teologia 2. Eucaristia,<br />

battesimo e confermazione. Bologna: Edizioni Dehoniane, 1998,<br />

295 p.<br />

MERKS, Karl-Wilhelm, Gott und die Moral. Theologische Ethik Heute.<br />

Münster, LIT Verlag, 1998, 414 s.<br />

MILLER, Mark, Living Ethically in Christ. Is Christian Ethics Unique?<br />

New York-Bern, 1999, 311 p. (American University Studies,<br />

Series VII, Theology and Religion 173).<br />

MORAGLIA, Francesco (a cura di), Dio Padre misericordoso. Genova:<br />

Marietti, 1998, 388 p.<br />

MORENO REJÓN Francisco, Historia de la teología moral en América<br />

Latina. Ensayos y materiales. Lima: Istituto Bartolomé de Las<br />

Casas, 1994, 258 p. (CEP 136).


533<br />

MÜLLER, Denis, L’éthique protestante dans la crise de la modernité.<br />

Paris: Editions du Cerf, Genève: Labor et Fides, 1999, 343 p.<br />

MUÑOZ DE JUANA, Rodrigo, Moral y economía en la obra de Martín de<br />

Azpilcueta. Pamplona: EUNSA, 1998, 374 p. (Faculdad de<br />

Teología Universidad de Navarra. Colección Teológica 95).<br />

NAPPO, Carmine, La decisione: culmine della moralità personale.<br />

Napoli: Tipografia Russo, 1996, 97 p.<br />

ORLANDI, Giuseppe, Alfonso de Liguori scrittore. Palermo:<br />

Supplemento a Segno n. 199, 1998, 47 p.<br />

ORLANDO, Pasquale (ed.), Gesù come uomo-Cristo come Dio: unaidentica-persona.<br />

Napoli: Luciano Editore, 1998, 132 p.<br />

(Filosofia e Religione 4).<br />

PERINI, Giovanni, Le domande di Gesù nel Vangelo di Marco. Milano:<br />

Edizioni Glossa, 1998, 149 p (Dissertatio Series Romana 22).<br />

PRIVITERA, Salvatore e VECCHIO, Giuseppe (a cura di), La notizia a<br />

confronto con l’etica. Palermo: ISB, 1999, 127 p. (Etica e Società<br />

1).<br />

PRIVITERA, Salvatore, La questione bioetica. Palermo: ISB, 1999, 158<br />

p. (Conghiglie, 1).<br />

PUCCI, Renato e RUGGIERI, Giuseppe (a cura di), Inizio e futuro del<br />

cosmo: linguaggi a confronto. Cinisello Balsamo (Milano):<br />

Edizioni San Paolo, 1999, 280 p.<br />

ROSMINI, Antonio, Amore e preghiera. Milano: Edizioni Ares, 1999,<br />

122 p.<br />

RUSSO, Giovanni (a cura di), Bioetica sociale. Leumann (Torino):<br />

ElleDiCi, 1999, 335 p.<br />

SACCONE, Carlo, Allora Ismaele s’allontanò nel deserto. Padova:<br />

Edizioni Messaggero, 1999, 352 p.<br />

SCHMIDT, Eduardo, Ética y Negocios para América Latina. Lima:<br />

Universidad del Pacífico, 1997, 587 p.<br />

SCHMIDT, Eduardo, Moralización a fondo. Lima: Universidad del<br />

Pacífico, 1997, 333 p.<br />

SCOLA, Angelo (a cura di), Quale Vita? La bioetica in questione.<br />

Milano: Mondadori, 1998, 410 p.<br />

SCOLA, Angelo (a cura di), Il mistero nuziale: 1. Uomo-Donna Roma:<br />

PUL, 1998, 208 p.<br />

TREMBLAY, Réal, Radicati e fondati nel Figlio. Contributi per una<br />

morale di tipo filiale. Roma: Edizioni Dehoniane, 1997, 167 p.<br />

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, Chiesa, usura e debito estero.<br />

Supplemento al quaderno n. 6, Milano, 1998, 177 p.


534<br />

VIDAL, Marciano, Un renovador de la moral católica: Bernhard Häring<br />

C.Ss.R. (1912-1998). Madrid: PS Editorial, 1999, 134 p.<br />

VIDAL, Marciano, Bernhard Häring. Un rinnovatore della morale<br />

cattolica. Bologna: Edizioni Dehoniane, 1999, 147 p. (Collana<br />

Trattati di etica teologica C 1).


INDEX OF VOLUME XXXVI 1999<br />

ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVI 1999<br />

ARTICLES / ARTÍCULOS<br />

BILLY, D.J., Christ’s Redemptive Journey and the Moral<br />

Dimensions of Prayer ...................................................<br />

BOTERO G., J. S., Conciencia de pareja. Hacia la<br />

recuperación de un proyecto inicial.............................<br />

CÓRDOBA CHAVES, A., La Academia Alfonsiana: cincuenta<br />

años al servicio de la Teología Moral ...........................<br />

FAGGIONI, M. P., Stato vegetativo persistente (seconda parte)<br />

JOHNSTONE, B. V., Can Tradition Be a Source of Moral<br />

Truth? A Reply to Karl-Wilhelm Merks ........................<br />

KELLY, A., “God is Love”: A Theological Moral Reading of 1<br />

John ..............................................................................<br />

KENNEDY, T., St. Alphonsus’ Selva. Should It Be<br />

Understood as Rhetoric ? .............................................<br />

KOWALSKI, E., Bioetica e tutela della persona ......................<br />

MCKEEVER, M., Postmodern with a Difference: Simone<br />

Weil’s Ethico-Theological Critique of Totalitarianism<br />

in L’Enracinement.......................................................<br />

MIMEAULT, J., Paternité de Dieu et pénitence des fils.<br />

(Première partie)...........................................................<br />

PADOVESE, L., La dimensione sociale del pensiero<br />

patristico: considerazioni generali ...............................<br />

RÖMELT, J., Theologische Ethik und In-Vitro-Fertilisation..<br />

TREMBLAY, R., La paternité de Dieu, fondement de la morale<br />

chrétienne et de l’éthique humaine ..............................<br />

TREMBLAY, R., Variations thérésiennes sur le thème de<br />

“l’enfant prodigue” ........................................................<br />

VIOTTI, S., Il problema morale della legge civile ..................<br />

WODKA, A., L’oblatività neotestamentaria e il discorso<br />

etico-morale. II: Il dono del dare (2 Cor 8-9) ..............<br />

127<br />

95<br />

229<br />

371<br />

431<br />

35<br />

295<br />

215<br />

185<br />

153<br />

273<br />

357<br />

73<br />

413<br />

321<br />

5


536<br />

EVENTS / EVENTOS<br />

Gros, D., Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno<br />

accademico 1998-1999.................................................<br />

453<br />

REVIEWS / RECENSIONES<br />

BORRIELLO, L., CARUANA, E., DEL GENIO, M. R., SUFFI, N. (a<br />

cura di), Dizionario di mistica (D. J. Billy) ................<br />

CHIMIRRI, G., L’etica dell’idealismo (N. Cappelletto) ..........<br />

CIORRA, A. J. and KEATING, J., Moral Formation in the<br />

Parish (R. Gallagher) ...................................................<br />

GAZIAUX, É., L’autonomie en morale: au croisement de la<br />

philosophie et de la théologie (B. V. Johnstone)..........<br />

GIARDINI, F., Pray without Ceasing. Towards a Systematic<br />

Psychotheology of the Christian Prayerlife (D. J. Billy)<br />

DAVID, V., La tutela giuridica dell’embrione umano (E.<br />

Kowalski) .....................................................................<br />

KELLY, K., From a Parish Base (R. Gallagher) ...................<br />

MASCIA, M. e PEGORARO, R. (a cura di), Da Basileia a Graz.<br />

Il movimento Ecumenico e la salvaguardia del creato<br />

(T. Kennedy).................................................................<br />

MORAGLIA, F. (a cura di), Dio Padre misericordioso (R.<br />

Tremblay) .....................................................................<br />

MÜLLER, D., L’éthique protestante dans la crise de la<br />

modernité (M. McKeever)............................................<br />

PACIA, O., Giulio Nicolò Torno. Un teologo e giurista del<br />

Settecento Napoletano (S. Majorano)..........................<br />

PALUMBIERI, S., Amo dunque sono. Presupposti<br />

antropologici della civiltà dell’amore (S. Majorano) ...<br />

PIVA, P., L’evento della salvezza fondamento dell’etica<br />

ecumenica (L. Alvarez) ................................................<br />

PRIVITERA, S., La questione bioetica (E. Kowalski).............<br />

PRIVITERA, S. e VECCHIO, G. (a cura di), La notizia a<br />

confronto con l’etica (E. Kowalski).............................<br />

RUSSO, G. (a cura di), Bioetica sociale (M. P. Faggioni)....<br />

SCOLA, A., Quale Vita? La bioetica in questione (E.<br />

Kowalski) .....................................................................<br />

SCOLA, A., Il mistero nuziale. 1: Uomo-Donna (J. S. Botero<br />

G.) .................................................................................<br />

479<br />

482<br />

483<br />

485<br />

489<br />

509<br />

492<br />

494<br />

496<br />

498<br />

501<br />

502<br />

505<br />

509<br />

511<br />

512<br />

518<br />

516


537<br />

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, Chiesa, usura e<br />

debito estero (L. Salutati).............................................<br />

VIDAL, M., Bernhard Häring un rinnovatore della morale<br />

cattolica (S. Majorano) ................................................<br />

520<br />

523<br />

SHORT NOTICES / NOTICIAS<br />

CHIOVARO, F., Alfonso de Liguori avvocato (T. Kennedy)....<br />

FASSULLO, N. (a cura di), Alfonso de Liguori. Degli obblighi<br />

de’ giudici, avvocati, accusatori e rei (T. Kennedy) ....<br />

FUCHS, E., Tout est donné, tout est à faire (R. Gallagher)..<br />

KEATING, J., Pure Heart Clear Conscience (R. Gallagher)...<br />

ORLANDI, G., Alfonso de Liguori scrittore (T. Kennedy)......<br />

525<br />

526<br />

526<br />

527<br />

528<br />

BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS<br />

531<br />

INDEX OF VOLUME <strong>XXXVII</strong> /<br />

ÍNDICE DEL VOLUMEN <strong>XXXVII</strong><br />

535

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